Sabato santo, mattina
Il sonno va a cicli. L’importante è non svegliarsi a metà ciclo, che allora ci si sente intorpiditi. Se lo dice per farsi forza, mentre con due mani si stringe la giacca impermeabile sul collo. Gliel’ha fatta comprare Luna, nel negozio di articoli sportivi dove ogni tanto lavora. Cammina strisciando i talloni, mani in tasca, testa infossata a proteggersi dal vento. La mattina impasta la vista di lacrime, in una foschia sobria, grigia d’umidità. Le nuvole strisciano basse nella vallata come a setacciare il terreno. Il vento le rende irrequiete. La strada piega a destra verso il vecchio caseggiato. Passa la strettoia che immette nella piazzetta. Si porta un fazzoletto agli occhi. Al solito la serranda del fornaio è ancora chiusa. Gira nella corte, scosta le tendine, si toglie il cappello ed entra dalla porta nel retro.
“Niente montagna, allora,” dice Giulia uscendo dal retrobottega, “l’avevo immaginato, con quello che è successo.” Si strofina le mani sul grembiule, se le appoggia sui fianchi. “Però se va ancora in televisione si deve svegliare, ha una faccia stanca.” Il tono è di rimprovero bonario. “Ma io sono d’accordo con lei, i diavoli non c’entrano niente. Qui è sempre così, sempre la stessa storia. Se succede qualcosa di male è colpa del diavolo, bisogna pregare Dio. Se si scampa qualcosa di male è un miracolo, bisogna pregare Dio. Se non succede niente, è una fortuna, bisogna pregare Dio per ringraziarlo. Le do il solito?”
“Solo un paio di panini.”
“E la Ilde, poveretta, una vita sfortunata. Io la conoscevo bene, quando sua mamma era più giovane venivano a trovarmi tutte le settimane. Lo sa che la sua mamma è di qui?”
“La signora Ardenghi?”
“È di Montello, certo, me la ricordo quando io ero bambina, era una bella giovane, poi quando si è sposata col sacrista è andata su al paese di Colle Ventoso, alle case della chiesa. L’ha conosciuta?”
“Non ancora, ma so che si è fatta male a un piede, non può muoversi di casa.”
“Me l’hanno detto, poveretta. È proprio vero, quando succedono succedono tutte insieme,” dice Giulia. “Però muoversi ha sempre fatto fatica. Al primo figlio è andato tutto bene, poi quando è nata la Ilde, sei sette anni dopo, hanno dovuto fare la totale. È lì che ha cominciato a ingrassare.”
Giulia dà per scontato che lo sappia e Colasette non se la sente di chiedere cosa sia “la totale”.
“È molto grassa?”
“La vedrà. Ma il vero male di quella donna non è stata la figlia, la Ilde, poverina, che il cervello era un po’ indietro, va bene, è stato il suo uomo, il sacrista. È stata quella la vera sfortuna della famiglia, che prima una volta che ti prendevi un marito te lo tenevi per tutta la vita. E i preti vengono a dirci che il divorzio è sbagliato.”
“Però mi ha fatto pena quell’uomo,” dice Colasette.
“Pena? Ascolti me, professore, anche la pena può essere un peccato. La pena per chi non se la merita. E il sacrista Ardenghi, ghel disi mi, non la merita proprio, non si lasci convincere da due lacrime di coccodrillo. Lo sa anche lei come si dice, A vess trop bon, se pasa per cujom.”
“Ma è proprio questo. Non ha pianto. Un uomo che non piange alla morte della figlia, scusi, ma a me fa pena.”
“Il pianto del padre sarebbe stato troppo tardi lo stesso, scultum me, non avrebbe ridato alla Ilde gli anni che le aveva tolto a calci nel sedere.” Dà le spalle al commissario, prende una cesta dal bancone vicino alla porta del retrobottega. “Abbiamo appena fatto i tortelloni al pecorino, ne vuole un po’?”
“Come li devo preparare?”
“Li mette nell’acqua che bolle, quando sono pronti vengono su, li scola, un po’ di burro e salvia, proprio semplici. O se no anche un po’ di burro e grana, a me piacciono anche così. Se non ha la salvia gliela do io. Vedrà, la sua donna apprezzerà.”
La “sua donna” non si è ancora fatta sentire, neppure un messaggio. Non è il caso di parlarne con Giulia. Però che Luna apprezzerebbe i tortelloni è vero, di questo ne è certo. Risponde con un sorriso.
“E i suoi fiori, han passato la tempesta?” chiede Giulia, allungata a prendere i tortelloni e metterli nel piccolo vassoio di cartone.
“Non ho ancora controllato,” dice Colasette, vergognandosi un po’. “Avete anche delle colombe?”
“Eh, be’, se non le facciamo a Pasqua. Non ho avuto ancora il tempo di esporle stamattina.”
“Me ne metta una in borsa.”
“Il sacrista,” riprende Giulia impacchettando il dolce, “è lui che è malato. Odiava la Ilde perché la sua donna era diventata grassa, e dava la colpa a lei. Ma a Colle sono sempre stati matti più che negli altri posti. È quel vento lì che li manda tutti un po’ fuori di testa. Qui a Montello i nostri vecchi dicevano che a segütà a bufà la breva la gh’e entrà dent ul coo. Ha capito? Lei non è di qui, ma lo capisce il dialetto. Vuol dire che soffia e soffia alla fine il vento gli è entrato nella testa a quelli di Colle, ecco perché succedono queste cose.”
“Ci passo tanto tempo anch’io,” dice Colasette.
“Il vento anche se entra dentro le grotte non gli fa niente alla montagna. Lei è uno che ha giudizio nella testa, e poi si tenga sempre su una bella berretta.”
“Non lo conoscevo il proverbio del vento e della montagna.”
“Le piace? Be’, non è proprio un proverbio, mi è venuto fuori così a me, adesso, senza pensarci.”
***
La sveglia suona a cinque alle otto, cogliendo Irene in quella specie di sensazione di avere la nebbia nella testa. I trilli continuano a riecheggiare nello stato di semisonno, mezzo sogno mezzo realtà, che sommati danno l’incubo mattutino che è la vita che riprende male. Riesce a tirarsi fuori dalle coperte. A mettersi in piedi. Bussa alla camera di Piero. Bussa finché il fratello conferma che è sveglio. Prepara la colazione.
Piero entra in cucina dopo la doccia. Accende la tv, ma non la guarda, la fissa soltanto. Ha in faccia i segni della notte prima. Ma anche il contegno rodato. Niente frasi che vadano oltre l’innocua necessità. Piove? Passami lo zucchero. Lo sguardo ben diritto sulla televisione, muove la testa il meno possibile. È uno dei suoi trucchi. Anche Irene tiene la testa verso il televisore. Un presentatore e una presentatrice hanno due ospiti seduti sul divano.
“Tu li conosci i Romano?”
Piero deglutisce i biscotti inzuppati nel caffellatte. “Gli elettricisti?”
“I gemelli del condominio.”
“Ma che domanda è? Tutti li conoscono, ma che te ne frega dei Romano?”
“Volevo dire se li conosci bene. Che tipi sono?”
“Sono tipi che si fanno i cazzi loro. E tu devi imparare da loro. Non ti ricordi quando abitavamo al condominio?”
“Mi ricordo, ma eravamo bambini.”
“E tu volevi sempre che io e Tore li picchiavamo.”
“Io?”
“Sempre che li picchiavamo,” ripete.
Irene non risponde. È sorpresa da quel ricordo così lontano del fratello. Riporta il discorso sui gemelli. “Saranno cambiati da quando eravamo bambini, no?”
“Lavorano bene, li conoscono tutti. Vengono al bar per il caffè, parlano dell’Inter, giocano a scopa, sempre in coppia. Sempre insieme, anche a donne.”
“Conosci le loro fidanzate?”
“Fidanzate? Naa, donne come quelle che abbiamo visto ieri sera, in strada. Di sicuro Rino lo vedo stasera alla riunione della leva. Non manca mai.”
La riunione della leva: questa è un’informazione che Irene trova utile. Lei non ci è mai andata a queste riunioni della leva. Non le va di incontrare tutta la gente che è nata nel suo stesso anno. Non è mai andata alle serate che organizzano. Gli altri la ricorderebbero come lei era da bambina. Non le piace che la vedano come la vedevano allora. Che la pensino ancora in quella famiglia di cui adesso si vergogna. Si vergogna di come era suo padre, di come era sua madre. A Piero, invece, sembra che della sua infanzia non importi nulla.
“Qualcuno vuole noleggiare un autobus per andare sul Garda,” continua Piero, “ma c’è troppa gente sposata coi figli. Alla fine decideranno come sempre di andare al ristorante.”
“E Rino ci sarà?”
“Che cazzo è stamattina con i Romano, Irene? Ha detto che viene e viene. Perché non deve venire?”
Entra nella stanza della madre. Apre la finestra. Le passa la spugna umida sugli occhi, toglie le cispe. Pulisce dalla bocca e dal collo la saliva seccata. Le passa il collutorio sulle gengive, sul palato. Le controlla se la flebo con gli antibiotici è calata. “Il bagno più tardi, mamma.” Le svuota la sacca delle urine. Le cambia il pannolone. “Oggi non viene il fisioterapista.” Arriva il sabato mattina, di solito. Per un’ora le fa dei massaggi per aiutare la circolazione del sangue. Ha riscontrato minimi spostamenti volontari delle dita, un miglioramento da potenziare con ulteriori esercizi. Ha anche instaurato una forma di comunicazione con la signora Iannone. Lei col battito della palpebra può rispondere sì oppure no. Ma Irene non lo usa. Piero in camera non ci entra mai.
“Hai sentito che sono uscita ieri notte? Ti spiegherò. Oggi vado a incontrare la fidanzata di Tore.” Oltre al fisioterapista, un dottore passa a intervalli regolari per assicurarsi che la paziente non necessiti di ventilazione polmonare. Due volte la settimana viene anche un infermiere specializzato, per sistemare le flebo, gli aghi che entrano nella carne, nello stomaco, e periodicamente devono essere sostituiti. Questo Irene non può farlo da sola. Accende su Rete 4, per le telenovele della mattina. La madre le guardava prima dell’ictus. La madre sposta la testa a destra, a sinistra, gli unici movimenti che le riesce di fare, procurando l’unico rumore possibile, il fruscio della federa. Irene non ne incrocia lo sguardo. “Cosa vuoi metterti oggi?” le chiede aprendo l’armadio. “Il tuo cappotto preferito?”
Non le esce dalla testa quello che le ha detto il fratello. Lei da bambina voleva sempre che picchiassero i gemelli Romano. Quello che le dà fastidio, adesso, è ammettere con se stessa che è vero anche se non ci aveva mai più pensato. Era una specie di istinto di sopravvivenza per lei, inevitabile, la sua parte di aggressività da sfogare. I Romano erano deboli e i bambini lo sentono sempre chi è più debole, ma adesso non lo sono più. Però, ora, ripensandoci, sente che anche lei è cambiata. Anzi lei è cambiata prima, prima delle altre sue coetanee. Se n’è resa conto sempre. Alle medie, quando aveva di quelle reazioni che la chiudevano fuori dal mondo, quando non sapeva accettare che le persone le volessero bene. E poi ancora più forte alle magistrali, quando vedeva le altre comportarsi da ragazzine in un modo che a lei era precluso anche se cercava di imitarle. È come se a lei non fosse stato concesso quel passaggio, quell’età di mezzo, lei è saltata direttamente dal sentirsi bambina al sentirsi come adesso, cioè, data l’età, dovrebbe dire adulta, ma non si sente tale, non si sente adulta. Un salto ingiusto, un salto che le ha negato parte della vita, un salto così strano che adesso non si rende conto se sia stata da sempre adulta o se sia rimasta da sempre bambina nei suoi modi di sentire e di percepire la realtà. Una bambina che sta invecchiando.
“Mamma sei davvero brutta stamattina.”
Le mette il cappotto addosso. Le avvolge i piedi e le gambe con la coperta. Alza il volume della tv.
***
I suoi tre allievi, dietro il vetro dell’ufficio, parlano tra loro. Sono soddisfatti, Colasette ne è convinto. La stanchezza che ti fa sentire parte del lavoro che fai. Necessaria a una soddisfazione. Soprattutto quando si è giovani. Soprattutto ai primi casi. Eccoli lì. Garofalo in completo grigio scuro, giacca e cravatta, come sempre. Ben rasato e capelli perfetti. Viene da pensare che ogni mattina passi dal parrucchiere. È un ragazzo semplice. La polizia è un riscatto per lui, la massima aspirazione possibile.
Rodighiero in jeans, polo, una delle sue solite giacche blu. Un’uniforme per lui. Quello che cambia è il colore della maglietta. Barba di qualche giorno, capelli più corti sui lati, fitti sulla testa e tirati indietro in una leggera ondulazione. Il punto è che non crede in quello che fa, ma lo fa con convinzione politica di una destra fascista, un fascismo interiore, espresso al minimo per la cultura mediatica, ormai passata di moda, soprattutto nel partito che anche lui ha votato, del politicamente corretto. Colasette ne ha conosciuti a decine di poliziotti così. Giustificano tutto con il senso dell’ordine. Salvaguardare la nazione, la religione. Senza crederci veramente, loro stessi, eppure, se il potere lo richiedesse, aguzzini perfetti nell’esprimere le proprie idee nei fatti.
E poi Bercalli. Il viso stanco, anche il suo, ma lo sguardo vivo, diretto. Dimostra meno dei suoi anni e questo potrebbe crearle problemi a farsi ascoltare dai colleghi. Ma ha la capacità di comprendere istintivamente i tratti caratteriali delle persone e di giocare sui punti giusti per decostruire i preconcetti nei suoi confronti e, se necessario, gli eventuali attacchi. Colasette ne ha apprezzato da subito, in queste settimane di corso, l’intelligenza, ironica, e ha cercato di mostrarsi indifferente per evitare di dare a vedere una simpatia particolare nei suoi confronti. Il risultato, però, vista la distanza a volte non necessaria, è opposto.
Bercalli si massaggia con una mano la spalla. Il fisioterapista le ha detto di aspettare, prima di riprendere gli allenamenti di taekwondo. Di combattimenti, al momento, non se ne parla neppure.
Colasette spinge la porta del suo ufficio, appoggia la colomba sulla scrivania. “Io bevo un caffè, e voi?”
Lo bevono tutti.
Torna con le tazze e un coltello. Taglia la colomba. Se ne prende una fetta.
Garofalo si allunga verso il dolce. Dà il via alla conversazione. “Molte persone hanno chiamato per l’angelo,” dice Garofalo.
“Hanno detto chi è?” chiede Colasette.
“No, hanno pianto,” dice Rodighiero
Colasette lo guarda, si aspetta una spiegazione. Ma Rodighiero si risiede con la sua fetta di colomba in mano. Farà carriera, Colasette ne è certo. Ha i difetti necessari.
“Alcune persone, soprattutto donne, hanno telefonato per mostrare la loro commozione,” spiega Garofalo. “Nessuno però aveva informazioni utili.”
“E che dicevano?” chiede Colasette.
“Niente. Solo che hanno visto la foto sul giornale. L’hanno passata anche al tg regionale. Boh, erano commosse.”
“Va bene, ci sono ancora persone sensibili,” dice Colasette, in realtà deluso. “Ma anche questo non ci riguarda. Rodighiero ci può fare il punto su quello che sappiamo dell’angelo.”
“Le stesse cose di ieri. Un giovane di corporatura magra. Non alto ma proporzionato. Carnagione molto chiara. Depilato. Capelli tinti di biondo. Un leggero taglio sul labbro superiore, segni di ematomi sul braccio sinistro.”
“Quindi?”
“Possiamo pensare che lo abbiano tenuto bloccato per un braccio e abbiano fatto pressione sulla bocca. Ma il dottor Mariani dice che è troppo poco per sostenere l’ipotesi di soffocamento violento. Le ali sulla schiena sono a pennarello, a punta grossa, del tipo per scrivere sulle lavagne. Insomma, c’è da attendere l’autopsia.”
“Siamo convinti che abitasse lì?”
“Sembra la cosa più probabile. Ma aspettiamo ancora che il riscontro delle impronte digitali lo confermi.”
“E neanche abbiamo trovato chiavi di casa,” dice Garofalo.
“Altro?” chiede Colasette.
“Di rilevante c’è che la finestra della camera era aperta. Una persona potrebbe essere entrata dalla porta e uscita dalla finestra, anche se, chiunque sia, è stata ben prudente a non lasciare segni della sua presenza. È la spiegazione più logica per giustificare l’assenza di chiavi.”
“La famiglia Torti. Cosa sappiamo di più?” chiede Colasette.
“Della madre, è come se non ci fosse niente da dire,” dice Garofalo. “Esce poco, più che altro per la spesa e la messa. Con il figlio, Davide, spesso sono stati visti insieme. Il padre, Renato Torti, ex carabiniere, lavora come guardia notturna, niente bar, niente amici. Non c’è nessuno con cui abbiamo parlato che abbia detto una cosa positiva di lui.”
“Questo lo avete detto anche ieri,” dice Colasette per passare ad altro. “Neanche a me ha fatto molta simpatia.”
“Non è questione di simpatia. Ha avuto problemi anche dentro l’Arma. L’hanno buttato fuori perché aveva problemi di testa. Questo è quello che ci hanno raccontato in condominio. Con il figlio, invece, aveva chiuso i rapporti da tempo.”
“D’accordo l’incomunicabilità tra generazioni,” dice Colasette. “Ma se il ragazzino abitava con Davide, dei genitori dobbiamo saperne di più. Pensateci voi. Fate anche una ricerca su quello che è successo ai tempi in cui Torti era carabiniere.”
Si rivolge a Bercalli. “E di Salvatore Cantoni?”
“È ancora in coma. Oggi dovremmo riuscire a identificare la Lory con cui ha avuto gli ultimi scambi telefonici.”
“A questo ci pensi lei,” dice Colasette. “Aveva due dita della mano sinistra steccate, sappiamo come se l’era procurate?”
“Stavamo parlando anche di questo,” dice Rodighiero. “Una vicina ha detto che lo ha visto con la mano bendata da martedì scorso. No, non sappiamo cosa gli è successo, ma stamattina ci pensiamo noi.”
“E voi due fate anche una ricerca approfondita sui Romano. Salvatore aveva debiti con i gemelli.”
“Aveva debiti con mezzo paese,” dice Rodighiero.
“Se vuole indagare mezzo paese, faccia pure. Ma cominci con i Romano. E i debiti non ce li aveva solo in paese, vedi i due che si sono presentati a casa, chiamiamoli i calabresi per capirci. Mi sono fatto l’idea che aveva chiesto soldi non solo agli amici d’infanzia.”
“Ex amici, lo evitavano tutti,” dice Rodighiero.
“Non solo agli amici d’infanzia e agli amici del bar,” continua Colasette, “ma anche a qualcuno di più pericoloso. Cercate di sapere di più anche di loro. Della signora Ilde Ardenghi, che c’è da dire?”
“Si è trattato di infarto, preceduto da ipossiemia che, secondo il medico, potrebbe essere stata provocata da un attacco di panico o da uno shock violento. La signora Ilde ha sempre sofferto di asma. Aveva le mani imbrattate di escrementi. E anche i quadri e soprattutto il crocifisso sulle scale erano sporchi. Quadri e crocifisso hanno regolare certificato di autenticità.”
“E quindi?” domanda Colasette rivolto a Garofalo.
“E quindi,” dice Garofalo, “nessun legame con traffici illegali di opere d’arte. Niente scasso. L’unica cosa che possiamo ipotizzare è che Ilde Ardenghi abbia colpito Salvatore con la croce. Però nel condominio tutti hanno detto che era una persona un po’ strana, la Ilde, ma non pericolosa.”
“Che ne pensate?” chiede Colasette.
Pensano tutti e tre la stessa cosa. Nessuno ne è convinto, ma è l’unica ipotesi al momento. Salvatore Cantoni aveva debiti con tutti, le opere della signora Ilde erano di un certo valore, Cantoni tenta il furto e lei l’ha beccato e colpito con il crocifisso. A meno che qualcuno non sia entrato nel condominio, perché è fondamentale ricordare che Salvatore ha ricevuto una telefonata da questa Lory all’1.20. Cioè proprio intorno all’ora in cui tutto è successo.
“E se fosse proprio l’angelo il complice di Salvatore?” si illumina Garofalo. Nessuno commenta. Neanche il tempo di finire la frase e Garofalo si rende conto che un complice trovato nudo non è molto credibile.
“C’è anche da dire,” va avanti Bercalli, “che un crocifisso di quelle dimensioni è veramente incredibile come arma.”
“Era molto religiosa,” dice Rodighiero, “forse dietro la croce si sentiva protetta. Magari ha preso la prima cosa che le ha dato sicurezza per difendersi. Tu hai qualche altra proposta?”
“Sono d’accordo con te, te l’ho detto anche prima,” dice tranquilla Bercalli. “È possibile che qualcun altro sia entrato nel condominio.”
“I due calabresi?” dice Garofalo.
“Ma non ne sappiamo niente,” dice Colasette. “Avete finito il caffè? Dobbiamo partire da quello che abbiamo.”
Scendono nel deposito. Nell’alto scantinato le pareti bianche riverniciate da poco e le luci al neon rendono ancora più pallide le espressioni di tutti. I quadri sul cavalletto, il crocifisso su un tavolo. Ogni cosa è come l’hanno lasciata la sera prima. Colasette si mette un paio di guanti, recupera un grosso sacco di plastica, si china sulle gambe del Cristo e, a partire dai piedi, ce lo infila dentro. Tira le cordicelle del sacco che si stringono all’altezza del ventre e le fissa con un nodo. Si toglie i guanti, li butta in un cestino, si rigira verso i suoi tre allievi.
“Può indossare il grembiule e i guanti?” dice a Bercalli. “La sua corporatura è la più simile a quella della signora Ilde.”
Bercalli si infila il grembiule. “Mi trova così grassa?”
“No, certo, ma non la trovo neanche così carina.”
“Una tecnica per fomentare l’aggressività?” chiede Bercalli che ha capito che da lei si vuole una simulazione.
“Ecco, provi con odio,” dice Colasette, “ed estrema violenza, se ci riesce, cioè nell’unico modo possibile per sfondare un cranio.” Le si piazza dinanzi, ma a una distanza di sicurezza. Bercalli alza il crocifisso. Lo alza alla stessa maniera di un crocifero in una processione, cioè col corpo rivolto in avanti, tenendolo all’altezza delle ginocchia. Ma la presa non è semplice, non favorisce il movimento. Trova faticoso dare forza alle braccia e sviluppare una discreta velocità per poter colpire qualcuno. Tutta la sua attenzione, alzando il crocifisso, è concentrata a mantenerlo in equilibrio. Non c’è modo che, secondo lei, possa centrare col volto del Cristo il volto di una persona davanti a sé. E se anche fosse possibile, non certo con la violenza necessaria a provocare i danni alla scatola cranica che hanno mandato in coma Salvatore Cantoni.
“Dovrei impugnarlo di taglio, con le mani così,” dice Bercalli spostando le mani distanti tra loro, una sui piedi l’altra alle cosce del corpo scolpito, a mo’ di grande falce. “Ma anche così non riuscirei a fare forza, farei fatica a colpirla in pieno viso. Mi sfugge la presa e non dipende da questa plastica. È proprio per il crocifisso. Niente, dottore, la sua testa è salva, non ce la farei a rompergliela.”
“I segni dell’impatto erano visibili sul viso del Cristo,” dice Colasette.
“Se Salvatore stava salendo le scale,” dice Rodighiero, “qualche gradino più sotto, un’aggressione è più semplice.”
“E poi nessuno si aspettava un’aggressione della Ilde,” dice Garofalo, “neanche Salvatore. È stato preso alla sprovvista, in piena notte, e forse era fatto di coca, questo ce lo dirà l’autopsia.”
“È possibile,” dice Rodighiero.
“Lo ripeto, oltre a sprigionare tanta violenza,” dice Bercalli alzando di nuovo il crocifisso, “trovo difficile riuscire a colpire con tanta precisione.”
“In breve,” riprende Colasette, “abbiamo un uomo con la testa rotta, un crocifisso, e la donna che con tutta probabilità il crocifisso ce l’ha portato.”
“Portato, appunto,” dice Bercalli. “Non vuol dire che l’abbia per forza usato.”
“Ma tutto questo non ci dà alcuna indicazione sull’angelo,” interviene Rodighiero.
“Accontentiamoci della signora Ilde, al momento,” dice Colasette.
“E di Cantoni,” aggiunge Garofalo.
“Peccato che fossero tutti e due lì sul pianerottolo,” insiste Rodighiero.
“Ha in mente qualcosa?” chiede Colasette.
“Già il fatto che sia morto nella stessa notte,” dice Rodighiero, “lo rende partecipe dell’interazione.”
“Infatti e noi non ce lo scordiamo, dobbiamo solo aspettare di trovare qualcosa che riveli in che modo,” dice Colasette.
***
Lo chiamano lo Scienziato, è Moroni, uno della Scientifica, responsabile delle analisi di laboratorio. Non ha ancora trentacinque anni, ma ne dimostra venti di più. La battuta che gira su di lui è che si è inventato un elisir per fermare l’età ma ha sbagliato a programmare l’età. È sempre pronto al confronto, poco incline alla simpatia ma sulla sua solerzia lavorativa nessuno ha da ridire. È stato lui a chiedere un incontro con Colasette. Ha elementi da comunicargli sulla signora Ardenghi.
Entra insieme a Garofalo, che appoggia il vassoio sul tavolo.
“E l’agnello l’avete già mangiato?” chiede lo Scienziato.
“Si prenda il mio caffè,” dice Colasette. Ogni volta che incontra Moroni, d’impulso correrebbe davanti allo specchio per controllare che anche lui non sia invecchiato di colpo.
“Quanto vi devo per una fetta di colomba?” dice, prendendosene una.
“È gratis se te la mangi con la bocca chiusa,” dice Rodighiero, intendendolo proprio in senso letterale. Che allo Scienziato cada sulla scrivania un pezzo di cibo mentre mastica è un classico.
Lo Scienziato deglutisce. Prende dalla scrivania la bottiglia d’acqua e se ne riempie un bicchiere.
“E allora?” chiede Garofalo.
Lo Scienziato continua a tacere. Si prende le sigarette dal taschino della camicia.
“Non si fuma qui dentro,” dice Bercalli.
“Non vedo nessun cartello.”
“Dicci della Ardenghi,” lo esorta con voce tranquilla Rodighiero, “poi te ne uscirai a fumare.”
“Tutti contro il tabacco qui dentro. E qual è la vostra posizione con le droghe leggere?”
“Non fartene trovare addosso, a te ti arrestiamo di sicuro,” dice Rodighiero. “E dopo come la controlli Katrina?”
Katrina lavora per una ditta di pulizie ed è il mistero della centrale. Ha poco più di vent’anni, russa, bellissima da poter provare la carriera di modella. E da un paio di mesi, questo è il mistero, esce con lo Scienziato.
Lo Scienziato non raccoglie. “Mi dispiace, io sarò un’eccezione qui dentro, ma non faccio uso di droghe. Però potrei mettere su un business, faccio essiccare la merda della vostra signora...” Si ferma a cercare l’effetto, ma nessuno dice niente. “La faccio essiccare e poi la potrei rivendere. Se qui dentro è troppo pericoloso, nei centri sociali o nella sede del partito comunista.”
“Ci risparmi l’analisi politica,” dice Colasette, “e vada al punto.”
“Allora, dato che, a motivo di residui sanguinei ed epidermici rintracciati, l’arma del delitto ipotizzata è il crocifisso, dato che il crocifisso era, come da voi saputo, imbrattato di materiale di rifiuto intestinale, dato che anche la sospettata aveva le mani sporche del medesimo materiale, ho ritenuto opportuno effettuare un’analisi coprologica per ampliare le informazioni a disposizione sia della sospettata sia...”
“Hai trovato tracce di droga nelle feci?” lo interrompe Rodighiero.
Lo Scienziato sembrava non aver accusato la battuta di Rodighiero su Katrina ma, chiaramente, non è così e potrebbe continuare in quel modo per ore.
“No, non ho trovato tracce,” dice lo Scienziato, fermandosi subito, come se cercasse di interessare alla sua esca la preda.
“E che cosa, allora?” abbocca infatti Garofalo.
“Non sono tracce, quella merda è zeppa di marijuana.”
“Avremmo dovuto trovare tabacco o cartine o sigarette nel suo appartamento, no?” dice Garofalo.
“Con quella concentrazione più probabile che l’abbia ingerita,” dice Moroni.
“Ma non abbiamo trovato neppure marijuana,” dice Garofalo.
“Se non ti fidi,” dice Moroni, infastidito dall’insistenza di Garofalo, “ti fornisco i campioni e le rifai tu le analisi.”
“Sono analisi definitive?” chiede Colasette.
“Definitive, dottore. Se fumata non sarebbe così rintracciabile, ma la vostra signora l’ha mangiata la marijuana, e deve averne mangiata anche parecchia.”
***
Irene parcheggia davanti alla sede del Comune. Le tre bandiere, d’Europa, d’Italia e della regione Lombardia, si sono arrotolate alle loro aste, non sventolano più. Sale i cinque gradini dell’entrata. Apre. Il pavimento è bagnato e la signora Agnese dall’altra parte, neanche fosse stata lì ad aspettarla.
“Buongiorno,” dice Irene con miele nella voce, “lei, signora Agnese, si meriterebbe un giorno di ferie. È Pasqua.”
“Appunto, mai sentito delle pulizie di Pasqua?”
“Io le volevo fare questo pomeriggio, spero che il tempo...”
“Se aspettiamo il tempo non puliamo più.”
Meglio cambiare discorso.
“C’è qualcuno negli uffici?”
“C’è solo la Luciana. Oggi che la gente non lavora e ha più bisogno dei servizi del Comune tutto chiuso. E poi si dice male della terronia.”
“E il sindaco?” dice lì sulla porta, con il tono di chi, nell’attesa, vuole fare due parole.
“Se ti ho appena detto che c’è solo la Luciana.”
No, l’Agnese non concede spiragli per possibili conversazioni. “Il vento ha arrotolato le bandiere,” si irrigidisce Irene. “Ci pensi lei, se ha tempo.” Poi si gira e ridiscende i gradini. Si sposta di un paio di portoni, sale ai piani di sopra, al consultorio familiare. Bussa.
“Avanti,” dice Rosalba, psicologa del consultorio e amica storica di Irene, dai tempi delle magistrali. Si sono conosciute quando hanno messo insieme le loro due classi per la ginnastica. E loro facevano le attività insieme. Formavano una strana coppia. Irene, da ragazza, in certi esercizi batteva anche i maschi. Rosalba non arrivava neppure al canestro quando si esercitavano ai tiri liberi, e anche nella corsa era impacciatissima. Da allora hanno continuato a frequentarsi.
“Guarda chi si ricorda di me stamattina,” la saluta Rosalba.
“Devi ringraziare la signora Agnese, ha appena lavato il pavimento,” dice Irene.
“Vedi che qualcosa di buono lo fa anche lei. Dicono che da piccola l’ha morsa un cane con la rabbia.”
“Ed è morto il cane. Lo so, Silvestro lo ripete sempre. Intanto nessuno che le dice niente. È lei il capo di Colle Ventoso. Lavori anche oggi?”
Rosalba è una donna che conferma il detto che la bellezza sta negli occhi di chi guarda. Può piacere il suo viso tondino, senza mento. La pelle chiara e liscia. Il suo corpo fa dire che è una donna grassottella. Cosa non vera. Ha una certa attenzione un po’ vecchia nel vestire. Una grande vitalità, quasi irruenza. Non è sposata e le piace il lavoro che fa. Si è comprata da poco un paio di occhiali a lenti rettangolari con la montatura molto larga. Non le stanno bene, secondo Irene. C’era anche lei nel negozio quando li ha scelti e non è stata in grado di dirglielo. Per questo si sente un po’ in colpa.
“Vedo solo due bambini, è un fuori programma,” dice Rosalba. “Avevo cancellato gli appuntamenti quando non sono stata bene e ai genitori andava bene fissarli per oggi. Ma tu hai dormito stanotte?”
“Si vede tanto?”
“Oh oh, abbiamo segreti. Prenditi una sedia, dai, e raccontami.”
Irene sorride. Avvicina la sedia alla scrivania. Le piace che Rosalba faccia delle allusioni. La fa sentire normale. Come è normale che una donna della sua età possa uscire con un uomo.
“Niente segreti, no, è che stanotte ho fatto fatica a dormire. Forse vedere quei morti. Mi ha messo addosso l’agitazione. Tore, la Ilde, poi quel ragazzo, poveretto, era così giovane.”
“Non è certo poco, poverina,” dice Rosalba. “Anzi, secondo me con la tua reazione hai dato prova di forza. Sei stata brava.”
“Ma a me sembra impossibile che Ilde abbia cercato di uccidere Tore,” dice subito Irene. Le fa piacere ricevere i complimenti di Rosalba, ma in questo momento le sembrano fuori luogo. “Tu la conoscevi la signora Ilde?”
“La conoscevo come tutti la conoscevano. La famiglia del sacrista, lo sai, mia mamma è sempre in chiesa.”
“E tu credi che Ilde sia stata capace...”
“Nessuno sa cosa può succedere nella testa delle persone. Forse voleva solo difendersi, però anche quei muri imbrattati di escrementi, ci ho riflettuto...”
“Non erano i muri sporchi,” prova a intervenire Irene, ma ormai Rosalba è partita col suo ragionamento.
“È abbastanza comune tra chi ha subito un abuso da parte dei genitori,” riprende ma rallenta subito. Si rende conto dell’argomento delicato da toccare con Irene. Si corregge. “Quando l’abuso è perpetrato in modo sistematico da parte del genitore, ecco la casistica dice che è frequente.”
“Frequente cosa?” chiede Irene che non ha capito.
“Cioè, per essere chiari, in quasi tutti i casi di persone che sporcano la propria casa con le feci è stato riscontrato un abuso subìto in età infantile, proprio dentro le mura domestiche. E quel sacrista, l’Ardenghi, io mi ricordo, da bambina mia mamma mi portava alla messa delle sette, tutte le mattine, prima di andare a scuola, e mi ricordo cosa dicevano poi le donne fuori della chiesa, che in casa faceva da padrone, però la moglie non ha mai detto niente, il matrimonio è matrimonio e i panni sporchi, si sa. Lo sai come pensavano un tempo.”
“Però io ci sono entrata ieri mattina nell’appartamento della signora Ilde, e non erano le pareti a essere state sporcate. Erano i quadri e il crocifisso. Un quadro lo ha anche distrutto.”
“Che quadro era?”
“Quello fatto a pezzi non lo so, ma quelli sporcati uno era una Madonna, l’altro un qualche un santo.”
“E secondo te quei quadri a soggetto religioso sono stati un bersaglio per la Ilde...” riflette Rosalba ad alta voce, “e la madre la portava in chiesa tutti i giorni... il padre è pur sempre il sacrista, cioè lavora in chiesa...” Si solleva con la schiena diritta sulla sedia, la testa rivolta a destra, verso la finestra. Dalla sua scrivania si può vedere il tetto della scuola elementare al di là della piazza del municipio. Irene non dice niente. Guarda sulle mensole dove ci sono, oltre pochi libri, i giochi che Rosalba usa nelle visite ai bambini. Ce ne sono alcuni anche sulla scrivania. Si stende, prende dei tasselli di cartone plastificato. Li sfoglia. Sono puzzle di animali di un paio di pezzi ciascuno. Irene conosce la situazione, conosce l’amica, sa che è vicina a formulare una sua interpretazione.
“Molto interessante,” si illumina, infatti, Rosalba, tornando a guardare Irene. “Pensaci, sembra che la Ilde abbia manifestato la rabbia contro un abuso subito dai santi, dal crocifisso.”
“E Tore, allora?” cerca di obiettare Irene, dando involontariamente corda al lavoro interpretativo dell’amica psicologa.
“Tore, è vero. Lui non sappiamo bene perché... perché Ilde doveva avercela con lui... può essere una difesa, oppure... Scusa, ma Tore non è il nome intero, è solo un diminutivo, no? Qual è il vero nome?”
Non può non sorprendersi, Irene, intuendo quello che Rosalba sta pensando. Sorride. Rimane sempre affascinata dai ragionamenti della sua amica. Lascia sulla scrivania i cartoncini degli animali che ancora ha in mano. “Salvatore,” ammette.
“Vedi. Salvatore, come Gesù in croce è il Salvatore. Nella testa di Ilde le cose devono essersi confuse. E quindi anche il ragazzo morto. Tu mi hai detto che tutti lo chiamano angelo. Forse voleva distruggere anche lui.”
“Dell’angelo non si sa niente,” anticipa Irene. Le deduzioni dell’amica stanno andando troppo lontano.
***
Colasette esce dalla chiesa attraverso la porta laterale che immette nella piazzetta sotto il campanile. Ci era entrato per chiedere a don Mario di andare con loro all’aeroporto, a prendere Davide. È una scusa per farlo parlare ancora, in un contesto diverso. Don Mario gli è simpatico, non se lo nega. Un prete, figlio del popolo, fiero dei suoi studi, che fa uno sforzo immenso per credere alle dottrine ufficiali della Chiesa, facendole quadrare con le nuove interpretazioni e la vita reale, le situazioni che gli capita di dover affrontare. Però gli è rimasta l’impressione che di Davide possa sapere di più. Colasette ha ipotizzato segreti confessionali, ma uno che non parla è per lui comunque complice. In chiesa ha anche notato il sacrista, il che significa che non sarà a casa. Questo è un sollievo. Eugenio Ardenghi ha chiesto a Colasette se potevano incontrarsi a casa dei genitori, visto che era lì a far visita alla madre.
L’accesso è quasi sotto il campanile. È bello quel caseggiato, con tutta la dignità di vecchia corte di campagna, sotto la quale si era sviluppato il paese. È molto simile a Montello, la frazione dove abita Colasette. Stessa architettura contadina, lombarda, con muri di grosse pietre riboccati a cemento, bombati alla base, a fare quasi da barriera, per poi aprirsi nel cortile interno a bellissimi doppi portici, con il fienile di lato.
Bussa. Eugenio Ardenghi, l’ha visto dalla finestra, gli apre immediatamente. È un uomo alto, viso tondo e barba rossiccia. La pelle chiara segnata da efelidi sulle guance e sulla fronte. C’è qualcosa che lo rende amico, all’istante, e con quel gilet grigio sembra il compagno ideale per una partita a dama. Abbassa la testa, guarda Colasette da sopra gli occhiali.
“Mi dispiace per sua sorella,” dice Colasette.
“La ringrazio. Davvero una tragedia che non ci aspettavamo.”
“Sono tragedie proprio perché inaspettate,” dice Colasette entrando. È il commento che negli anni si è perfezionato per situazioni come questa. Non ha un gran senso, ma lascia sempre un effetto di profondità in chi l’ascolta.
All’interno si nota subito la qualità di una vecchia cassapanca. Il resto è arredamento moderno. Il corrimano della scala è d’acciaio. Non manca il gusto, in quella casa. Notevole una stufa di metallo con il tubo che entra nel muro, rigonfiandolo, e sale al piano di sopra. Il colore giallo delle pareti dà l’impressione di uno stile giovane e caldo.
“Lo stabile è stato rimesso a nuovo da poco,” dice Eugenio Ardenghi, intuendo i pensieri di Colasette.
“Sono delle case bellissime,” dice Colasette. “Molto simile al caseggiato di Montello. Io abito lì.”
“Mia madre è nata a Montello,” dice Ardenghi. “Un insieme di case anche più belle che qui, perché intatte, stessa architettura contadina. Hanno costruito delle villette, ma non hanno toccato il borgo.”
“Anni fa sono stato molto vicino a comprare dentro Montello, ma non c’era il giardino e allora ho preferito proprio una di quelle villette a schiera.”
“Restaurare le sarebbe anche costato di più.”
“Non vedo quadri in questa casa,” cambia discorso Colasette. Eugenio si limita a guardarlo. Aspetta che continui. “Nessun Moretto, nessun d’Oggiono. Come saprà, li abbiamo dovuti sequestrare.”
“Sono tutte opere regolarmente certificate.”
“Non lo prenda come un fatto personale. Lei non c’era, abbiamo solo seguito la procedura. Mi è stato detto che era a Parigi. Vacanze di Pasqua?”
“Collaboro con alcune gallerie. Consulenze e anche vendite attraverso di loro. Questa volta c’ero andato con mia moglie. Quindi sì, un po’ anche per vacanza. Comunque si tratta di un seguace del Moretto. E l’altro, più che seguace, è imitatore del d’Oggiono.”
“Il d’Oggiono non l’avevo mai sentito,” ammette Colasette.
“Marco da Oggiono è il più grande pittore che la zona di Pontalto abbia mai avuto. Un po’ discontinuo, per il vero. Ma ha avuto la sorte di essere a Milano quando c’era Leonardo. Gli incarnati, il chiaroscuro, non so se ha notato anche il paesaggio, rivelano una mano poco fine. Non è certo il d’Oggiono, purtroppo, neppure in uno dei suoi quadri meno riusciti.”
“Di un quadro, però, il suo collega professor Alberti non ha potuto dirci molto. Sua sorella lo ha fatto a pezzi.”
“Come avete la certezza che sia stata lei?”
“I due quadri, lo sa, necessitano di una profonda pulizia. Sua sorella vi ha spalmato le proprie feci, con le mani. Di conseguenza su tutto ciò che ha toccato quella notte... Anche sul trinciapollo che ha usato per distruggere il quadro. E sul crocifisso.”
Ardenghi si prende un labbro tra i denti, lo succhia. Ne esce un sibilo involontario. Il tempo di assimilare l’informazione. Può essere sofferenza per la sorella, o per i quadri. Ma non mostra risentimento.
Colasette si piega a osservare la cassapanca. Si toglie la giacca. “Fa molto caldo qui dentro.”
“Tutto merito di questa stufa. La faccio andare per scaldare la stanza sopra. Mia madre è a letto.”
La stufa è in maiolica verde, allo stesso tempo grezza e nobile. “Un bell’oggetto, davvero,” dice Colasette e lo dice perché lo crede. Torna a guardare la cassapanca. “Quanto viene sul mercato una cassapanca così?”
“Con due, tremila euro una in buono stato la compra. Se vuole quando me ne capita una glielo faccio sapere. Sono abbastanza comuni.”
“Grazie, mi interesserebbe molto,” dice Colasette. Appoggia la giacca allo schienale. Si siede. “Immagino che non sia ancora facile per lei parlare di sua sorella, ma ci è necessario il suo aiuto.”
Ardenghi annuisce. Sposta una sedia dalla parte opposta del tavolo, si siede di fronte a Colasette.
“Le faccio il riepilogo di quello che vedo a proposito di Ilde,” inizia Colasette. “I vicini di casa dicono che era una donna tanto gentile ma, per usare le loro parole, forse un po’ indietro di cervello. Don Mario mi ha confermato che, nonostante fosse ormai cinquantenne, dipendeva dalla madre. Una madre che, a detta di suo padre, la viziava troppo. Suo padre al contrario, la odiava, tanto da volerla mettere in manicomio, parole sue, ma poi le compra un appartamento pur di non averla tra i piedi. E lei, il fratello, sembra essere più dalla parte della madre. E le ha anche arredato la casa con quei quadri. Però solo cose sacre, perché, mi corregga, ma non mi è parso di vedere alcun mobile di particolare valore.”
“A Ilde i mobili non interessavano.”
“Invece si interessava d’arte.”
“Un po’ ne capiva. L’ho tenuta con me per anni, almeno ci ho provato, credevo di poterla far lavorare. Mio padre è una persona difficile, ma non è così cattivo come si dice. Un po’ lo si può capire, tante aspettative, e poi sua figlia...” prende tempo, “... a dieci anni comincia a bestemmiare.”
“Bestemmiare?”
“Bestemmiare, proprio così, la figlia del sacrista. Se la immagina la situazione, in un paese come questo, la figlia del sacrista che ogni due per tre tira giù madonne, così, magari durante la messa.”
“Alla scena della messa, scusi, ma mi sarebbe piaciuto assistere. Tutto questo è legato a un ritardo mentale?”
“Non lo so. Da bambina a scuola andava male, ma non credo fosse ritardo mentale. Non le interessava. Per i miei genitori, abituati a me che ero il primo della classe, era incomprensibile. Ma poi è venuta questa cosa di bestemmiare, in mezzo alla gente o in chiesa. Per strada contro i preti, le suore. E allora hanno cominciato a tenerla in casa e mio padre... forse ha esagerato.”
“Forse?”
“C’è andato giù pesante, ma erano altri tempi. Invecchiando è cambiato.”
“E sua madre?”
“Mia madre alla fine si è convinta a farla vedere. Era ancora seguita da uno psichiatra. Con gli psicofarmaci era sempre un po’ addormentata, però non succedeva più e anche i tic sono diminuiti. Erano riusciti a trovare una specie di accordo, mia sorella usciva con mia madre, andava a fare la spesa, andava in chiesa, ma doveva stare tranquilla. Poi in casa si poteva sfogare. Ma mio padre non l’ha più retta. Non era una situazione facile.”
“Sua sorella ha lavorato molto con lei?”
“Io ho sette anni più di Ilde. Mi sono sempre sentito responsabile. Ho cercato di farla lavorare, l’ho portata alle fiere, ma non era affidabile. Anche fisicamente, poverina, ha sempre sofferto di asma, c’era da fare attenzione. Però, è anche buffo da raccontarsi. Una volta, a Mantova, è passato il vescovo e lei ha gridato: ‘Ehi, vecchio porco, vuoi scoparmi?’ Non so da dove le venissero fuori. Come lavoro faceva poco, però almeno per un po’ pareva funzionasse.”
“Invece?”
“Invece ha cominciato a interessarsi solo di arte sacra. Non veniva più al lavoro ma pretendeva dei quadri da tenersi in casa.”
“E lei glieli procurava.”
“Così stava tranquilla con mia madre, quando uscivano insieme, in chiesa. Le ripeto, avevamo trovato un equilibrio, sembrava quasi una persona normale.”
Colasette si pente di non avere accettato il caffè. Una tazzina in mano lo aiuterebbe a prendere tempo. A trovare uno spunto per dire qualcosa. Gli torna in mente il falso Tiziano.
“Però il san Sebastiano era una copia. Di nessun valore, ma anche lui raffigurato quasi nudo. E anche il san Rocco era nudo. Quasi che a sua sorella interessasse la loro, diciamo, corporeità visibile.”
“In questi giorni aveva in casa una Madonna con Bambino, e la tela distrutta era una natività. A lei interessava che fossero a tema religioso, possibilmente di valore. Riguardo alla copia del Tiziano, be’, non lo so, forse lo credeva vero.”
“E lei lasciava che sua sorella li distruggesse.”
“Sta scherzando? Volevo bene a mia sorella ma non fino a questo punto. Quello che è successo l’altra notte non era mai successo prima. Non aveva mai toccato un quadro e neanche li aveva mai...”
“E come se lo spiega?”
“Non me lo spiego. Erano anni ormai che andava così, quasi una routine, per me era come un deposito momentaneo. E Ilde si era molto tranquillizzata. Le cose andavano bene. È vero, devo dirlo, Ilde non era solo tranquilla. Purtroppo, era come se si fosse spenta.”
“Forse per l’uso della marijuana,” dice Colasette diretto, con gli occhi fissi sul viso di Eugenio.
La reazione di Eugenio è di vero stupore. Di uno che o si sorprende che la cosa si sappia o si sorprende della cosa stessa. Di certo c’è la sorpresa. Gli mancano le parole per possibili domande.
“Ne usava anche parecchia,” rincara Colasette.
“Commissario, mia sorella viveva in un mondo tutto suo, io faccio fatica a pensare persino che sapesse cos’è la marijuana. Non l’ho mai vista neanche con una sigaretta in mano.”
“Non la fumava, infatti, la ingeriva.”
“Ilde? Non le ho mai sentito pronunciare la parola marijuana. Mai, glielo garantisco,” dice calcando la voce, come per attirare l’attenzione di Colasette che, in un attimo, pronunciata la parola ingeriva, si è allontanato coi pensieri. Un sorriso un po’ ebete gli ha disteso le labbra, stretto un po’ gli occhi. Il sorriso ebete dell’illuminazione, forse l’unico momento del suo lavoro che dà un senso al lavoro stesso.
“Commissario, mi ha sentito? Trovo questa cosa impossibile.”
“Impossibile,” ripete, tornando con la testa in quella stanza. “Era sua madre che cucinava ancora per Ilde, non è così?”
Fuori ha ripreso a venire giù una pioggia sottile che si attacca al viso come sudore freddo. Colasette esce dal cancello, si piazza contro il muro della base del campanile. Da lì può vedere se qualcuno esce da casa degli Ardenghi e insieme ripararsi dalla pioggia. Chiama Bercalli.
“Dottore, la stavo chiamando io, ho l’indirizzo di quella Lory, la fidanzata di...”
“Non adesso,” dice Colasette. “Cerchi se c’è qualcuno della narcotici e mi raggiunga con un cane. Sono qui alla chiesa di Colle Ventoso. Niente sirene, per favore.”
“E se non c’è nessuno della narcotici?”
“Si faccia dare un cane, e venga da sola.”
“Ma i cani non mi conoscono.”
“Si presenti, mostri il suo tesserino, faccia come vuole, ma porti un cane. Se ci sono problemi mi chiami. E un’altra cosa, ha presente la torta in casa della signora Ilde?”
“No,” dice secca Bercalli. Colasette l’ha irritata.
“Non sa se l’hanno consegnata allo Scienziato?”
“No.”
“Va bene, venga col cane. Vi aspetto sotto il campanile.”
Fa un’altra telefonata.
“Garofalo siete al condominio?”
“Stiamo aspettando quelli della Scientifica per il rilevamento impronte nell’appartamento di Davide Torti. Non sono ancora arrivati.”
“Bene, allora vada nell’appartamento della signora Ilde. Sul tavolo, in cucina, c’è...”
“Una torta, lo so, secondo lei me la sono dimenticata?”
“Bravo, Garofalo. La porti nel laboratorio del coglione,” dice nella spinta, senza pensarci. Chiamare lo Scienziato coglione con Garofalo è un tentativo di alleanza goliardica con un suo inferiore. Forse.
“Coglione? Di chi parla?”
“Volevo dire lo Scienziato,” dice, in imbarazzo. “Sa se è ancora là?”
“Sta sempre là, quando la Katrina fa le pulizie dove vuole che stia?”
“Allora gli porti subito quel dolce.”
“Ho capito, dottore. Ma la stavamo chiamando anche noi, vuole sapere le novità?”
“Le novità dopo, Garofalo. E un’altra cosa, cerchi di non finire le frasi sempre con un punto interrogativo.”
Colasette guarda su, verso la cima del campanile. Si forzerebbe a salire, da solo, giusto per mettersi alla prova e vedere il panorama. C’è salito, una volta, su un campanile ed era da bambino, al paese di sua madre, con alcuni amici. Era un pomeriggio di vento, perché le campane più piccole ondeggiavano. Il ricordo della sua paura è molto nitido. Gli altri bambini stavano in piedi, si sporgevano anche, a guardare le persone sotto. Lui se n’era rimasto appiccicato al pavimento, con le gambe dentro il buco, sui pioli della scala di metallo, con una paura fottuta. Il vento sembrava volerselo portare via. La volontà di non darla a vedere, la paura, diceva solo che non gli andava di guardare sotto. Forse quella era l’esperienza più remota del suo soffrire di vertigini. Rinchiuso in cima a un campanile.
Gli suona il telefono. È Bercalli.
“Siamo lì fra cinque minuti.”
“Col cane?”
“No, con un paio di elefanti, cercano meglio anche sotto i mobili,” e riattacca, prima che Colasette possa replicare.
Se l’è meritata, in effetti. Sorride guardando la pioggia.
La macchina della polizia arriva dopo pochi minuti. Ne scendono Bercalli e un agente che tiene il pastore tedesco. Seguono Colasette alla porta degli Ardenghi. Colasette fa cenno di aspettare fuori, questione di un attimo, entra senza bussare. Eugenio Ardenghi, in piedi, vicino alla stufa, un grosso sigaro in mano. Se lo porta alle labbra a scatti, succhia con avidità, sputa fuori la nuvola di fumo, non certo in modo meditativo, come gli amanti del sigaro dicono si debba fare. Può essere cattivo odore o eccellente aroma di ottimo sigaro, quello che riempie la stanza.
“Sua madre è ancora a letto?”
“Non può muoversi, anche se lo volesse.”
“Ho chiesto a un paio di miei agenti di raggiungermi,” dice. “Hanno con loro un cane. È un controllo d’obbligo.”
Eugenio Ardenghi muove appena il collo in un gesto d’assenso che risulta goffo. Il resto del corpo rimane rigido sulle gambe, busto diritto, faccia ferma, più rosso che mai, a soffiare fumo.
Colasette allunga la mano sulla maniglia, tira la porta. Entra Bercalli e appena il cane mette il muso dentro comincia ad abbaiare trascinandosi dietro l’agente. Agita la testa come un ossesso, tira il guinzaglio, abbaia come a volersi mangiare il mondo, si alza sulle zampe posteriori, morde l’aria.
“Cosa significa?” chiede Colasette.
“Ma non lo sente lei quest’odore?” si lamenta l’agente.
“Addestriamo i cani antisigaro adesso?”
“Ma quale sigaro, dottore, mica c’è bisogno del cane.”
Colasette gira lo sguardo su Eugenio, immobile, imbarazzato, la statua di un bambino di un metro e novanta che se l’è fatta addosso. Sembra sul punto di piangere.
“La stufa,” dice Bercalli. Gira intorno al tavolo, prende la bacchetta di ferro, infila l’uncino nell’apertura di metallo, la tira verso di sé. Una vampata di calore le arriva diritta in faccia. Con la stufa aperta l’odore si fa ancora più intenso. Il pastore tedesco impazzisce, combatte contro fantasmi che gli stuzzicano le narici.
“Lo porti fuori,” dice Colasette.
L’agente esce con il cane. Eugenio Ardenghi, impalato col sigaro in mano, guarda a destra Bercalli. Guarda a sinistra Colasette. Vorrebbe dire qualcosa, ma ha finito le parole. In cinque minuti ha scoperto cose che sono successe per anni intorno a lui, e ha agito in fretta. Ha cercato, trovato e buttato nella stufa la marijuana che la madre teneva semplicemente nella dispensa, insieme al sale, all’olio, al pane, sentendo adesso qualcosa che non è rimorso, no di certo, il rimorso non c’entra niente. È solo imbarazzo, profondo imbarazzo, e anche fastidio, rancore di non potersi liberare, neanche alla sua età, neanche con la sua vita, neppure col suo successo lavorativo, dal legame con la famiglia. Da quel padre così scontroso e malvisto. Da quella sorella che era venuta come era venuta. Dalla madre sempre vittima di tutto. Ora è Colasette che con l’uncino muove i ciocchi dentro la stufa. Il viso troppo vicino. La marijuana non si vede più. In quel momento, nella stanza, c’è solo il presente, ognuno il proprio, e lui non ci si ritrova, non gli è chiaro se uno scopo l’abbia raggiunto, e comunque non è convinto di aver fatto la cosa giusta.
“Basta, basta, lasciatela in pace mia figlia.” È il grido della vecchia Ardenghi a rimettere insieme quelle persone, a dare loro una dimensione comune. “Lasciate almeno che riposi in pace. Andate a pregare. Andate a pregare che Dio la perdoni.” Più che un grido è un lamento. Un rantolo, forse. Colasette chiude la stufa, passa di lato a Eugenio, non dice nulla e sale al piano superiore. Ardenghi lo segue, anche quando Colasette entra nella camera della madre. Ma non fa domande, non è questo che vuole. Vuole solo vederla, quella signora anziana. Vederla per averne un’immagine quando gli capiterà di pensare a lei. E la signora Ardenghi è immensa sotto le coperte, un mondo intero. Solo il viso le esce, una faccia enorme, rossa. Piange. È brutta, una vecchia bruttissima, alla luce di una lampada di fianco al letto, le persiane chiuse.
“Ma non avete rispetto dei morti? Pregate per lei, con tutto quello che ha sofferto.”
“Pregare non cambierà la vita che ha avuto,” dice Colasette. “Cosa ha sofferto sua figlia, signora?”
“Ha sofferto la vita, tutta la vita, e ha fatto soffrire noi, tutti noi, che almeno riposi in pace. E anch’io adesso, anch’io potrò morire in pace.” Cerca di girarsi di lato, per nascondere il viso.
“Basta così, mamma,” dice Eugenio. “Stai tranquilla. Tanta gente pregherà per la Ilde.” Si avvicina. Le rimbocca la coperta che è scesa scoprendo il collo, parte del busto.
Colasette è già tornato indietro, comincia a scendere le scale. Ha la faccia sudata.
Subito dopo Eugenio lo raggiunge di sotto. Bercalli è uscita, ci sono solo loro due, ma non hanno molto da aggiungere. Colasette si volta.
“Bene, devo andare.”
“Mi dispiace,” dice Ardenghi.
“Di cosa?”
“I legami familiari possono essere delle catene, ma io, davvero, non ne sapevo niente.”
“Allora continui a non saperne niente, se ne è stato capace finora.”
“Aspetti un momento,” dice Ardenghi. Si sposta verso la cassettiera sulla quale è appoggiato il telefono. Di fianco al telefono c’è una vecchia scatola in metallo, di quelle dei biscotti. La apre, cerca in un’agenda, estrae un biglietto da visita. “Questo è lo psichiatra che seguiva mia sorella.”
Colasette allunga il braccio sopra la tavola, prende il biglietto, lo guarda. “Padre Carmelo?”
“Ha un’ottima reputazione come psichiatra.”
“E come prete?” domanda senza aspettare risposta. Si gira. Mentre esce gli giunge la voce di Eugenio Ardenghi. “La ringrazio per quello che ha fatto.” Chiude in fretta la porta. Quello che sente sono le campane. Tutti gli undici rintocchi mentre passa accanto all’auto, a Bercalli e si incammina giù per la discesa.
Prende il cellulare dalla tasca. Un istinto curioso a controllare l’ora. Quello che nota, guardando lo schermo, è che Luna, ancora, non si è fatta sentire.
***
Irene guida piano. Deve concentrarsi per mettere insieme qualche domanda da fare a Lory, anzi Martina, deve abituarsi a chiamarla Martina. Non si ricorda neppure che faccia abbia. L’ha vista solo per cinque minuti, alla luce delle auto, in quel parcheggio, e adesso sta andando a incontrarla. Ci sta andando per Tore. Tore è in ospedale. E lei cerca di capire perché. Tutto qui. E Martina, che è stata la sua fidanzata, può aiutarla. È un buon motivo. Non c’è niente che meriti la sua agitazione.
Sulla superstrada le auto formano un lungo serpente in movimento. È l’ultimo fine settimana sciistico. Di neve ce n’è tanta, hanno detto alla televisione, tutta l’acqua che è scesa in pianura è neve fresca sui monti. Tergicristalli in movimento, una visuale fatta dalle luci rosse dei fari posteriori delle auto, dagli spruzzi d’acqua che salgono dalle ruote. Il lago sulla destra, opaco, grigio, col canneto che arriva fino a ridosso della strada. Poi il ponte della strada nuova, che arriva nella parte alta della città. Deve chiamare Martina, ricordarle l’appuntamento. Entra in galleria, prende il cellulare, cerca il nome e, una volta fuori, fa partire il vivavoce.
Il telefonino, a Martina, le suona davanti, appoggiato sul tavolo della cucina, di fianco alla bottiglietta di plastica con la carta stagnola sulla bocca e una cannuccia infilata di lato. È seduta, indossa una vestaglia di seta con decorazioni giapponesi, una specie di kimono. Ha le mani occupate. Con una tiene un accendino sotto un cucchiaio. Dentro cocaina e ammoniaca. Non può rispondere adesso, la coca è quasi pronta. Le sigarette appoggiate nel portacenere si stanno consumando. Anche la cenere da mettere nella carta stagnola è quasi pronta per il suo narghilè improvvisato. Fumata, è così che preferisce la cocaina, la mattina. Le piace anche il rito preparatorio.
Scatta la segreteria. Irene si trova impreparata. “Pronto sono Irene, l’amica di Tore, ci siamo conosciute ieri sera, si ricorda? Stavo venendo, cioè sto venendo da lei, sono già sul ponte prima di Pontalto, se sente questo messaggio, magari mi richiami.” Quel tentativo di formalismo la aiuta a tenere un certo distacco, quasi volesse difendersi da qualcosa. Ma non sa da cosa. Si trova ormai alla fine del ponte, in mezzo ai grandi complessi industriali, allo svincolo principale. Le macchine sono in colonna. Poco male. Non ha fretta e non sa neanche cosa fare, adesso. Adesso che Martina è sparita. Forse dorme ancora. Forse si è dimenticata di lei.
Martina mette le palline di coca nella carta stagnola sulla bottiglia di plastica. Le sigarette stanno ancora bruciando, un attimo e anche la cenere è pronta. Prende il cellulare, richiama.
“Pronto,” dice Irene, “scusi se l’ho svegliata.”
“Sono sveglia, non preoccuparti. Tu dove sei?”
“Ho passato il ponte, vicino al centro commerciale.”
“Io ho bisogno ancora di mezz’ora, almeno. Ti dispiace?”
“No, per niente,” dice Irene, “tanto ci vuole ancora un po’ ad arrivare, e poi per trovare parcheggio.”
“Il parcheggio non è un problema, lo trovi appena più avanti dell’ingresso, alla prima strada che incroci. Te l’ho dato l’indirizzo, no?”
Mischia le palline di coca con la cenere e accende. Dà qualche boccata alla cannuccia, la metà della bottiglia senz’acqua si riempie di fumo. Comincia ad aspirare. Lunghi tiri inalati fino in fondo. Lunghi tiri che dalla bocca vanno diritti al cervello. Una buona colazione per i suoi neuroni un po’ intorpiditi di sonno. Rimane appoggiata al tavolo in compagnia delle sue paranoie. È una spugna di sensazioni, all’erta. Una bella scossa mattutina. Il cuore va a mille.
***
Entra diretto nel laboratorio senza neppure bussare. Per le analisi serve più tempo, ma se è come pensa, lo Scienziato deve essere in grado di confermarglielo.
“Allora dottor Moroni,” dice virando verso la leggerezza, “è un dolce di qualità?”
“Il commissario Colasette. Che onore che mi venga a trovare. Ma non crede che mi servirebbe un po’ più di tempo?”
“Forse l’ho sopravvalutata,” dice Colasette. Si siede sulla prima sedia girevole vicino alla porta. “Avrei dovuto portarla dalla mia panettiera quella torta, mi avrebbe saputo di certo dire qualcosa.”
“La sua panettiera è stata come lei una figlia dei fiori? Bei tempi, eh, come mi dispiace che io non ci fossi. Me la immagino lei con una bella camicia hawaiana, ballare al chiar di luna, mangiando di queste torte, recitando poesie.”
“La sua cultura è sbalorditiva, Moroni, ma riguardo alla camicia hawaiana credo stia facendo confusione con quella che ha indossato lei nelle sue ultime vacanze a Cuba. Ai tempi cui lei credo si riferisca, quando io ero solo un bambino, per scopare non serviva andare così lontano.”
“Ma le serviva questa roba, non mi dica di no.”
“Mi dispiace deluderla, non mi sono mai fatto una canna in vita mia. E non ho mai neppure pagato una ragazzina, bianca o mulatta che sia.”
“Lei ha un po’ troppi preconcetti, dottor Colasette.”
“Forse. Ma lei dovrebbe saperlo bene, no? I preconcetti aiutano a vivere meglio.”
Lo Scienziato non ha capito. Potrebbe essere un tentativo di offesa. Se lo è non è molto offensivo. Torna al dolce. “Ma sa che quasi quasi ci credo alla faccenda degli spinelli? È l’unico modo per spiegarmi che non abbia riconosciuto solo annusandola, questa torta. Però, sembra che lei già lo sappia di cosa è fatta.”
“Quella torta era in una casa tappezzata di merda, non avevo gran voglia di annusare. E da lei ho bisogno di una conferma.”
“Se vuole una conferma,” dice lo Scienziato e taglia una fetta, “dia un morso a questa.” Si alza dalla sedia, si dirige verso Colasette. “Poi aspetti un paio di minuti.”
“Non vorrei guastarmi l’appetito, grazie, me lo dica lei, per favore.”
“Se mangiasse questa fetta, davvero si metterebbe a scrivere poesie sulla pace nel mondo, sa che bel viaggio, c’è dentro una quantità di marijuana sufficiente a ravvivare un’intera festa dell’Unità. Le fanno ancora?”
“Me lo sta dicendo con certezza?”
“Se la vuole fare anche lei, impasti la farina con uova e burro, mandorle e noci tritate, una bella tavoletta di fumo e del cacao. Inforni e lasci cuocere il tempo necessario. Dia la ricetta alla sua amica panettiera.”
“Molta marijuana?”
“Più fumo che farina. Le quantità per la ricetta non posso dirgliele precise, ma in questa torta ce n’è molta, questo è certo.”
“Grazie, come arriva l’estate la invito a mangiare costicine a una festa dell’Unità. Per ora, se vuole, nel mio ufficio è rimasta della colomba. Venga a prenderne una fetta se le va, ma bussi prima di entrare.”
Si alza per andarsene.
“Colasette,” lo chiama Moroni, “io a Cuba non ho pagato nessuna ragazzina.”
Colasette si ferma sulla soglia. Ha avuto quello che gli serviva dallo Scienziato. Può andare. Lasciar perdere e andare. Ma le liti con Moroni, anche se è da un po’ che non capitano, sono piuttosto ricorrenti. Quella voce seria che ha tirato fuori per puntualizzare qualcosa, l’aver abbandonato la solita ironia, sono la premessa classica al confronto. Andarsene e tacere può suonare, nella testa bacata dello Scienziato, come un suo atto di remissione. E non è cosa, in questo momento, che a Colasette vada a genio. Lasciargli questa sensazione di vittoria, se pur minima. Andare o replicare? Replicare. “Ah no? Ci è andato a onorare Fidel Castro?”
“Solo le vacanze in un bel posto.”
“In un villaggio turistico vietato ai cubani? Eravate solo italiani nei ristoranti tipici del villaggio?”
“Può darsi, ma almeno portiamo un po’ di soldi a quella gente che fa la fame.”
“Molto gentile, per uno come lei che non li sopporta quando vengono qui da noi.”
“Noi andiamo come turisti, loro vengono qui per starci, e sono di tutte le razze e religioni.”
“Non mi dica che va in chiesa tutti i giorni?”
“No, però bisogna difendere chi ci va, questa è la nostra cultura. A lei piace che fanno andare in giro le donne con quei veli del cazzo?”
“Anche mia nonna lo usava, nessuno aveva niente da ridire.”
“E tutti i furti e i delitti e le droghe e le malattie e anche tutte le puttane che hanno portato?”
“La sua capacità di sintesi è davvero impressionante. Le ricordo comunque che ci sono puttane perché c’è chi come lei paga per andarci.”
“Potevano starsene a casa loro.”
“E voi puttanieri vi inculereste tra voi?”
“Se tutti la pensassero come lei i nostri paesi sarebbero invasi da quella gente. Lavori solo per loro, soldi della sanità solo per loro. Ma adesso le cose stanno cambiando.”
“Io le sue generalizzazioni non le capisco. Mi può spiegare a chi si riferisce con quella gente?”
Lo Scienziato non replica, semplicemente non ha capito cosa Colasette intenda, perché per lui, davvero, un cubano, un senegalese, un albanese, un rumeno, un cinese, a parte diversità epidermiche, sono nient’altro che quella gente. Ultimamente fa un’eccezione per i russi, da quando sta con Katrina.
C’è quell’attimo di silenzio che segue le sfuriate in cui Colasette rimugina sull’inutilità delle sfuriate. A lui può bastare e di nuovo apre la porta. Ma il dottore si è caricato per l’ultimo attacco.
“Non capisco cosa ci faccia uno come lei nella polizia,” dice Moroni.
Colasette si ferma con la mano sulla maniglia. Andare o replicare? Replicare, ovvio. Si volta. “Non se ne stupisca, lei è fatto per capire cosa c’è nella merda.”
***
Alla radio parte la canzone del momento. La canticchia, ferma al parcheggio. Osserva gli strani percorsi che le gocce d’acqua fanno sul parabrezza. Piccoli fiumi che si appesantiscono a ogni goccia, poi scivolano giù a zigzag irregolari, e si fermano, fino alla goccia dopo, in una piccola risacca, e ripartono. Non piove e tutto è incredibilmente grigio. “Amore, spazi infiniti nell’anima, cieli in tempesta negli occhi tuoi, l’ultima volta, ti prego, e me ne andrò, è mio diritto, lo so, e anche tu lo vuoi, lo so.” Controlla ancora l’ora. È passata più della mezz’ora stabilita. Spegne la radio. Raggiunge la pensilina di cemento. Cerca il numero tra le chiamate recenti. Si è scritta un protocollo di domande che riguardano tutte Tore. Ma il suo è il Tore fidanzatino dei giochi d’infanzia. Anche se poi non ne ha avuti altri di fidanzati nella vita. Né per gioco né sul serio. Cosa c’entra il suo Tore col Tore di Martina? Fa partire la telefonata.
Rimane a guardare al di là delle sbarre del cancello. È un insieme di quattro palazzi, ben curati, con ampi balconi, circondati da un cortile, con aiuole e piante. Martina spunta a destra del palazzo di fronte. Cammina lenta, quasi studiando i passi. Indossa pantaloni color salmone che si allargano su un paio di stivaletti bianchi con molte fibbie. Una giacchetta bianca e in testa un basco, anche quello rosa salmone. Gli occhiali da sole sono enormi. Fuma.
“Ciao, Irma. Hai fatto fatica a trovare il posto?” Lo dice con una familiarità da vecchie amiche, in un incontro che avviene regolare. Le sembra, a Irene, che Martina abbia detto Irma. Forse per la sigaretta in bocca. Si trova impreparata a quella naturalezza.
“Sei pronta per lo shopping?”
“Come vuoi tu,” risponde Irene, concentrandosi per darle del tu.
“Devo fare un salto anche da Lucio, il mio parrucchiere, per il colore, ci andiamo subito. Ok? Mi sono dimenticata di chiamarlo. Ma è meglio passarci di persona. Magari all’ora di pranzo un buco lo trova anche per te. E tu hai pensato che taglio fare?”
D’accordo la familiarità, ma questa del taglio è troppo.
“Avevamo parlato di fare acquisti,” accenna Irene. “Ma un taglio...”
“Niente ma,” la blocca Martina. “Eravamo d’accordo, oggi si fa tutto. La primavera sta arrivando. Pensaci, un taglio nuovo porta bene in primavera.” Butta via la sigaretta. Si guarda intorno per ricordarsi dove ha lasciato l’auto. Si strofina le mani. “Fa freddino però.”
“Almeno ha smesso di piovere. Io però un taglio, non...” cerca di dire Irene, ma Martina la prende sottobraccio senza darle ascolto.
“Ci sarà casino in giro. Sono anni, ci credi, che non esco di casa così presto.”
“Io però...” prova ancora Irene.
“Niente ma, niente però, con me, Irma,” dice Martina.
Quello che Irene voleva dire è che il motivo della sua visita è prima di tutto Tore, ma Martina parla dei negozi che visiteranno, delle sue amiche proprietarie. Arrivano alla sua Golf. Sul sedile posteriore mucchi di riviste di moda, pacchetti di sigarette, una bottiglia di spumante, un foulard.
“Non badare al casino,” dice Martina, inserendo la retro. “A proposito, chi era quel bel tipo in macchina con te ieri sera, il tuo fidanzato?”
“No, non ho il fidanzato. Era mio fratello.”
“Allora sei single anche tu. Brava, Irma. Ti piace divertirti.”
“No,” dice Irene. Si rende conto lei stessa della propria reazione. “Cioè, non mi chiamo Irma, il mio nome è Irene.”
“Irene, certo,” dice Martina. Nessun imbarazzo. “Avevo un’amica alle medie che si chiamava Irene. Si era innamorata di me. Che carina che era.”
Lo dice e si immette nella strada. Irene si infossa nel sedile con la testa rivolta a Martina, che riprende subito a parlare. Opporsi alla sua energia non è il caso e poi la trova divertente.
Un po’, però, la preoccupa la sua guida a scatti.
***
L’ultima cosa che avrebbe voluto era proprio quella. Guastarsi l’umore per via dello Scienziato. Ha già troppe beghe, questo è certo, per rimanere incazzato con quell’ignorante leghista razzista puttaniere. E coglione. Ma se l’è cercata.
Recupera dalla tasca il biglietto da visita lasciatogli da Eugenio Ardenghi. Padre Carmelo Vincenzi, psichiatra. È quasi mezzogiorno. Si mette alla scrivania, scrive su un pezzo di carta un paio di parole come promemoria delle cose da chiedere. Fa il numero.
“Pronto?”
“Dottor Vincenzi, buongiorno, mi fa piacere averla trovata alla prima telefonata, sono il commissario Colasette, la chiamo a riguardo di Ilde Ardenghi.”
“Aspettavo di essere interpellato,” dice padre Carmelo, senza sorpresa.
“Illuminazione divina o intuito professionale?”
“Semplicemente ho visto la tv,” risponde Vincenzi, lasciando cadere la malizia della domanda.
“È interessante questa sua doppia professione. Sono indiscreto a chiederle se in lei è nato prima il prete o lo psichiatra?”
“No, e perché? Diciamo che ho sempre voluto fare lo psichiatra, come professione, poi è subentrata la vocazione. Anche se in comune c’è che non dovrebbero essere due mestieri. Bisogna esserlo, sia prete che psichiatra.”
“E immagino che gli Ardenghi abbiano scelto lei perché era entrambe le cose.”
“Mi sono stati presentati da un prete, amico comune. Io in realtà non ho pazienti privati. Almeno non molti. Mi occupo maggiormente di diagnosi per la curia.”
“Diagnosi di chi?”
“Giovani che vogliono diventare preti. Mi vengono segnalati dai seminari. Soprattutto vocazioni adulte, i cosiddetti convertiti.”
“Non sapevo che fosse necessaria una perizia psichiatrica.”
“Infatti non è una perizia psichiatrica. Ma perché noi preti non dovremmo usufruire dei progressi della scienza?”
“Vero,” acconsente Colasette, mentre con la penna scarabocchia una croce. “Vero,” ripete, seguendo un pensiero nuovo. “Lei ha mai usato i progressi della scienza psichiatrica per fare diagnosi di personalità ai santi?”
“Parte da lontano con le sue indagini, non trova?”
“La casa di Ilde Ardenghi era piena di immagini sacre, cristi piagati, santi stigmatizzati, santine infilzate.”
“Posso chiederle perché tanta ostilità?”
“Mi trova ostile?”
“Lei come lo definirebbe il suo tono di voce?”
“Deformazione professionale, forse,” dice Colasette. Ma il prete ha ragione, lo sta aggredendo. La faccenda del prete psichiatra gli tocca qualcosa che non sa definire. “Mi potrebbe dire da quanto tempo era una sua paziente?”
Padre Carmelo si accorge del cambio di voce e apprezza. Prova anche lui una risposta più rilassata. “Non era propriamente una mia paziente. In qualche modo facevo da supporto.”
“Abbiamo trovato escrementi sul crocifisso, sui quadri religiosi.”
“Certo da un punto di vista psichiatrico un caso interessante, non pensavo potesse arrivare a tanto.”
“E da quello religioso?”
“Da quello religioso, è certo un gesto sacrilego. Ma si merita la nostra pietà. Il Dio cristiano è un Dio pietoso.”
“Mi piacerebbe avere le cartelle cliniche.”
“Senz’altro. Ma era già troppo tardi quando si sono rivolti a me.”
“Di cosa si trattava?”
“In verità non rientra in nessuna categoria diagnostica perfettamente definibile. L’anamnesi potrebbe far pensare a una forma adolescenziale di Tourette.”
Colasette disegna un’altra croce sul pezzo di carta. “Il fratello me ne ha accennato,” dice. “Tendenza a un linguaggio volgare, esclamazioni blasfeme e attacchi al clero.”
“Queste sono le caratteristiche che hanno reso famosa la sindrome di Tourette,” conferma padre Carmelo, come preparazione a una puntualizzazione. “In realtà sono altri i disturbi più tipici. Comunque sono solo attacchi verbali e rari. Non sono di solito individui pericolosi. Nella famiglia della Ilde, quando lei era ancora una bambina, hanno cercato di arginare il problema a modo loro. Per questo dico che quando mi è stata presentata era già perfettamente strutturata e non c’era molto da fare. Io ho cercato una cura farmacologica che la potesse aiutare.”
“Che lei sia prete, immagino, poteva essere determinante per la signora Ilde.”
“Lei mi vedeva più come prete, più come rappresentante di Dio che come dottore. Il mio supporto era poco più che avergli dato il mio numero di telefono. Quando aveva bisogno poteva chiamarmi e attaccarmi con le sue oscenità.”
Colasette attende un momento. Scarabocchia veloce due croci sulle croci che ha già scarabocchiato per assimilare l’informazione, per non essere precipitoso e trovare un tono pacato nel suo stupore. “Mi sta dicendo che lei era pagato per essere insultato?”
“Non ho mai chiesto soldi. Però, in modo riduttivo è così. Ero la sua valvola di sfogo, la possibilità di uno spazio dove il suo desiderio blasfemo era controllato. Era rassicurante per lei avere in ogni momento, se l’impulso diventava irrefrenabile, il modo di sfogarlo. La aiutava ad avere una vita sociale più accettabile.”
“Peccato che fosse anche completamente spenta, mi è stato detto.”
“C’è sempre un pro e un contro, per qualsiasi intervento farmacologico.”
“È stato lei a suggerire l’uso di marijuana?”
“Marijuana?” ripete pacato padre Carmelo, pur avendo capito. Stavolta è lui a non voler mostrare stupore nello stupore che l’informazione porta.
“La signora Ilde ne assumeva regolarmente, e in modo pesante,” puntualizza Colasette.
“Mi creda, la cosa mi sorprende. Degli effetti positivi dell’uso dei cannabinoidi, in alcuni disturbi mentali, si è parlato parecchio. Ma non certo io, tantomeno con la famiglia Ardenghi. Io mi sono sempre limitato a prescrivere antidepressivi e, adesso che mi dice questo, devo ricredermi sugli esiti positivi.”
“Era la madre a fornirgliela. Dottore, quando ha ricevuto l’ultima telefonata della signora Ilde?”
“Nel periodo quaresimale ne ricevevo almeno un paio, anche di più, ogni settimana. Se non rispondevo, era libera di lasciare i suoi messaggi osceni nella segreteria telefonica.”
“In quaresima più del solito, mi dice.”
“Più del solito, certo, il periodo sacro, la forte componente religiosa della Pasqua, erano degli elementi scatenanti in Ilde. Succedeva anche a Natale. Posso controllare quando mi ha chiamato l’ultima volta. Ma questa settimana non è successo.”
“E allo stesso modo quindi si potrebbe spiegare questo attacco blasfemo alle opere sacre, addirittura con le feci, addirittura distruggendole.”
“Gliel’ho già detto, questo non me lo sarei mai aspettato. Ilde manifestava una calma raggiunta, pur con le altre episodiche manifestazioni, che non lasciava prevedere un’esplosione tale.”
“A meno che le ragioni della calma raggiunta non fossero venute meno in quei giorni, non trova?”
“Cioè?” chiede padre Carmelo.
Sembrano due colleghi, adesso, interessati a interessarsi l’un l’altro per capire lo stesso caso. Non se ne rende conto, Colasette, ma c’è della lusinga interiore a dare le sue spiegazioni allo psichiatra che, dall’altra parte del telefono, sta aspettando.
“La madre era bloccata a letto, quindi Ilde si è trovata da sola, può darsi che non abbia rispettato i tempi dei suoi farmaci. È anche accusata di tentato omicidio, lo sa?”
“Ho sentito, ma mi sembra impossibile.”
“Perché?”
“Perché la rabbia di Ilde era contro Dio, non contro gli uomini.”
“E come se l’è spiegata lei questa rabbia?”
“Le nostre spiegazioni arrivano sempre a un certo limite, ma c’è anche un oltre. E io accetto questo oltre, questo lato oscuro dell’essere umano.”
***
Avrebbe potuto starsene in ufficio, un panino alla scrivania. Oppure andarsene in un bar, in un ristorante. Invece no, deve tornare a casa. Un impulso. Tornare a casa, nessuna alternativa. Forse anche lui ha la stessa sindrome di Ilde a comportamenti compulsivi. Lui non bestemmia ma è aggressivo con i preti. Due preti in una mattina gli hanno detto la stessa cosa. Entra in casa, butta la giacca sullo schienale della poltrona. Mezzogiorno e venti. Ecco cosa ci fa a casa, aspetta che l’ora sia un’ora migliore per chiamare Luna. Vuole farlo seduto alla sua poltrona, da solo. E deve giocarsela bene, in un momento in cui Luna potrebbe rispondere, quando, toltisi gli sci, si siederà al tavolo, ordinerà qualcosa per pranzo, controllerà il telefonino. Ammesso che sulle piste ci sia salita. Perché in montagna c’è andata con Francesco. E Francesco si è portato il cane. E il cane non possono lasciarlo tutto il giorno da solo, in casa. E in casa allora c’è rimasto anche Francesco. E di certo Luna gli avrà fatto compagnia, tutto il giorno, da soli, in casa, lei e il biologo educasanguisughe.
Cerca qualcosa da mangiare. Ma non può aspettare troppo. All’una deve incontrarsi con Bercalli e andare incontro agli eventi successi. Dare senso alle cose. Chiudere il caso. Tutto spiegato. Un’altra vittoria del senso. Una prostituta del senso, ecco cos’è. Non riesce a dare un senso alla propria vita e ha il compito di dare senso alle morti altrui.
Il senso che Luna cerca nella vita è chiaro. Bambini, una casa con un televisore, qualche libro per farci su una conversazione, magari un cane e un uomo. Non ha già vissuto la stessa storia? Lui è già fuggito, orecchie basse e scomparire. Quante volte? E poi i rimorsi che non lo mollano più, braccato ogni volta che si è ritrovato in un altro letto, stanato come una preda. Non è lui l’uomo che Luna descrive. O forse vorrebbe esserlo. O forse ha solo paura della perdita. Siamo alle solite. Ha sbagliato tutto entrando in polizia, ecco. Avrebbe potuto laurearsi in biologia, come l’amico di Luna, e passare le giornate di fronte a vasche di vetro a osservare i percorsi che le sanguisughe evitano per non prendersi scariche elettriche. Non è forse meglio che la vita di questa umanità? Scariche elettriche che ci beccano all’improvviso. La nostra intelligenza non serve a farci prendere direzioni migliori. Abbiamo l’urgenza genetica di essere fulminati. Illusioni, desideri, delusioni, bisogno di denaro, bisogno di affetto. Denaro. Affetto. Malattia. Per le sanguisughe è sufficiente evitare una scarica elettrica.
In giardino nuvole grigie e nere, veloci, come se fosse in arrivo un diluvio. Un tempo che se uno ti chiede che tempo fa lo declini al futuro: presto pioverà, forse schiarirà. Le camelie sono splendide. Piccoli rami carichi di fiori rossi, sbocciati un po’ tardi per il freddo. Petali carnosi come bistecche, sbattuti dal vento sul prato, sembrano il riflesso della pianta in uno specchio impressionista. Le camelie sono piante sfacciate, nei giorni di fioritura sboccate, volgari in quel tentativo estremo della natura di essere provocante. Il plumbago, quello dalla parte della rete, si è staccato e macchia di indaco il terreno. La signora Giulia gliel’aveva detto che bisognava legarlo. Il pitosforo è ancora nel vaso. Colasette ha sempre rimandato e, adesso, quello che vorrebbe del suo pomeriggio è di starsene lì, in giardino, vanga in mano, a sistemare il plumbago con Luna in casa che studia alla scrivania o arrotolata sul divano, una coperta sulle spalle, i libri sulle ginocchia, i pennarelli colorati sparsi. Un pomeriggio così, una dimensione domestica in cui si è trovato a vivere ma che non riesce psicologicamente ad accettare come propria. Una dimensione domestica che desidera adesso, con Luna, solo perché Luna non c’è. Anche Luna se ne sta andando. Nella sua vita le donne ci sono entrate da sole e poi, allo stesso modo, ne sono uscite, lasciandolo a se stesso, con la sensazione terribile di inadeguatezza, di non avere niente da offrire, lui, perché rimanessero.
E con Luna, al contrario, neppure gli è più chiaro cosa avesse lei da offrirgli. Le cose sono successe senza troppa volontà o amore, da parte sua e lui si è sforzato di convincersi che poteva durare. Neppure la convivenza è stata una scelta, ma una soluzione pratica da cui poi non c’era stato modo di uscire. Ma si sta comportando da vittima, sì, ci sta ricascando. È una scappatoia, un evitamento dell’introspezione che non ha mai sopportato negli altri e ci si sta ritrovando lui stesso. E non gli va. Guardi in faccia la realtà e se lo dica che lui e Luna non c’entravano un cazzo l’uno con l’altra, ma ognuno dei due, per i propri motivi, ci ha messo in gioco la vita, ovvio, che altro abbiamo da mettere in gioco?, sotterrando le aspettative e, forse, anche le aspirazioni.
Strofina i piedi per liberare le suole dal terriccio dei lombrichi. È Luna che gli ha comprato quella spazzola fissata a terra, a forma di riccio, per pulire le suole. Lascia sul tavolo della cucina il pezzo di pane che gli è rimasto in mano. Torna in soggiorno, beve un lungo sorso d’acqua, si siede, schiaccia il tasto automatico del numero di Luna, che suona, cinque squilli, poi la segreteria: “Mi dispiace ma non posso rispondere, se lasciate un messaggio sarete richiamati.” Se lasciate un messaggio. Un messaggio. Riattacca.
“Luna, ci sei?”
Resta a guardare lo schermo poi invia.
***
“Dobbiamo andare,” dice Martina seduta al bar, guardando l’orologio. “Mai far aspettare Lucio.”
Sono passate prima da Lucio per strappargli un appuntamento, poi hanno riempito qualche borsa nei negozi. Poi aperitivo veloce. E adesso è ora di ripartire. Hanno trovato posto solo perché Martina è di casa nel suo salone. Martina scende dallo sgabello, insiste per pagare lei, Irene è sua ospite. Lei pagherebbe volentieri, quel posto le piace. E poi si è divertita in giro con Martina, di acquisti ne ha fatti anche lei.
Escono dal bar. Ognuna le sue borse.
“Però potevi tenerteli addosso i vestiti nuovi,” dice Martina.
“Domani,” risponde Irene, “che è festa.”
“Domani, domani, bisogna sempre rimandare a domani,” la stoppa Martina.
Raggiungono il salone. Martina entra a passi brevi e svelti sugli stivaletti che tintinnano. Aspettano in piedi.
“La primavera dovrà pur arrivare, non potrà sempre piovere, neh?” è la frase con cui le accoglie Lucio, la stessa frase che ha già usato la commessa del negozio. Forse è la frase che usano tutti, in quei giorni di pioggia. “Vieni, Irene, vieni con me,” dice a Irene appoggiandole una mano sul braccio. Non è riuscita a fermare Martina quando ha fissato l’appuntamento e Lucio si ricorda anche il suo nome. Ora non ci pensa neppure a contraddirlo e aveva già una mezza idea di sistemare il taglio. Lucio le fa togliere la giacca. L’accompagna su una poltrona libera. Comincia a toccarle i capelli, li allarga sui lati. “Allora che ne dici? Questo peso, lo togliamo? Vedrai, un bel taglio primaverile.” La guarda allo specchio. “Che dici? li accorciamo proprio fino a qui? Un taglio classico. Un po’ più lunghi qui, che ti incorniciano il viso, come ti sembra?”
Irene non sa che dire. Lucio si muove e parla proprio come un parrucchiere alla tv, in quei programmi sulla moda che le capita a volte di vedere. Con quei pantaloni di pelle neri, stretti, quella camicia bianca aperta sul petto senza neppure un pelo, una collana con un pesante crocifisso, la faccia magra, due occhi spiritati, mai fermi, pizzo nerissimo. Anche i capelli sono nerissimi, sparati in aria a ciuffi irregolari, tinti. E poi, davvero, si sente presa in considerazione già per il semplice fatto che Lucio la chiama per nome. Non è abituata a questi modi. La sua parrucchiera è Carla, da anni, e appena Irene entra, Carla sa già tutto. Non hanno bisogno neppure di parlare di capelli, e parlano d’altro infatti, delle morti recenti, del malore del prete, mentre Carla lava, taglia, asciuga.
Da come Lucio ha parlato e le ha mosso i capelli, Irene ha capito che vuole disfarsi della riga in mezzo. Anche lei se ne è convinta. I faretti la illuminano dall’alto e rendono la sua immagine allo specchio nitida, precisa. Su quella poltrona si sente importante.
“Mi piace l’idea di togliere la riga in mezzo,” dice infine Irene, “però non troppo corti, mi piace che scendano ancora sulle spalle.”
“Perfetto, sono d’accordo,” dice Lucio, che sembra aver capito tutto quello che Irene non ha detto. “Piace anche a me.”
Chiama una sua assistente, le spiega quello che deve fare, e quello che deve fare sembra proprio quello che Irene aveva solo in parte detto. Lucio è in gamba. È il suo mestiere, e lo fa bene. Prima di lasciarla nelle mani della ragazza, gliela presenta.
“Lei è Deborah, una maga delle forbici. E, un’altra cosa, gli diamo una leggera sfumatura di rosso, no?”
***
Non avrebbe immaginato di sorprendersi, guardandosi allo specchio, a lavoro finito. Si fissa e, con quel nuovo taglio, si sente esposta. Si sente sotto una specie di riflettore che la seguirà nella vita quotidiana rivelando a chiunque che anche lei, come tutte, ci tiene a essere osservata, anche lei ci tiene a se stessa. Il suo viso è diverso. Non avrebbe mai pensato che una nuova pettinatura le potesse cambiare il viso, l’espressione, addirittura. Si alza, si guarda ancora allo specchio, va alla cassa.
“Te l’avevo detto che il rosso ti dona proprio,” le dice Lucio.
“Grazie,” dice Irene. Non uscirebbe dal negozio. Finché è lì dentro è in un territorio protetto, non ha nulla da temere. Il salone di bellezza è una parentesi che le piacerebbe trasportare nella vita reale. Usa la carta di credito. Teme che non le funzioni più, di aver superato il limite consentito. Non le è mai capitato in una sola mattina di usarla così spesso, e adesso ha speso almeno tre volte di più che un taglio da Carla. Ma alla cassa le mostrano la ricevuta da firmare, e mentre firma vede Martina già fuori che cerca di specchiarsi nella vetrina. Saluta Lucio e Deborah, prende le sue borse, si incammina verso l’uscita. Martina è ancora con la faccia quasi attaccata al vetro. Con la sigaretta in mano si solleva gli occhiali da sole sui capelli. Controlla, di nuovo, se l’occhio ha ripreso il colore normale. Non sono bastati gli specchi dentro il salone di bellezza. Non basta che si è guardata e riguardata, truccata e ritruccata. Lì fuori, appena accesa la sigaretta, d’istinto le è venuto di guardarsi ancora. E alla vetrina, certo, si nota meno il colore nero viola giallo tutto intorno all’occhio. Il gonfiore è quasi sparito.
“Wow, stupenda,” dice Martina. “Un’altra persona. Cosa ti avevo detto di Lucio? È vero o no?” Lo dice in modo sbrigativo, non aspetta risposta e prende a camminare. Irene l’affianca. Le sembra che tutto il mondo la guardi muoversi per strada, la giudichi. Eppure lo sa che non è vero, nessuno la osserva. Al massimo guardano Martina. Se lo ripete, lì per strada, mentalmente, non c’è niente di sbagliato, niente, e nessuno la giudica. Camminano zitte. Martina ha fretta di arrivare alla macchina. Del tempo passato insieme, quello è il primo momento di silenzio. A Martina sono entrate altre cose nella testa. Arrivano all’auto. Mettono le borse sopra tutto il casino del sedile posteriore. Irene sente che qualcosa però manca. Non hanno neppure accennato a Tore. È venuta per lui, e si ritrova con un look diverso e tre borse di vestiti.
“In settimana farò un salto in ospedale,” dice. “Da Tore.”
Martina non si gira neppure a guardarla, non dice nulla, concentrata a uscire dal parcheggio.
“Al telegiornale hanno detto che le speranze sono davvero poche,” continua Irene, “ma non si sa mai, e se si risvegliasse ci potrebbe dire cosa gli è successo. A te non interessa?”
No, a Martina non interessa, non in questo momento. Sente la domanda, si costringe a pensare a Tore. È vero, con lui si è lasciata andare più del solito. Una specie di relazione normale. Non le viene niente da dire.
“Tu l’amavi?” domanda Irene, diretta, sorprendendo anche se stessa.
Neppure a questa domanda Martina trova una risposta. Non la cerca. I movimenti le si sono fatti frenetici. Vuole solo arrivare.
“Lui ti amava,” dice Irene.
Martina butta la testa all’indietro, le esce una risata, un po’ teatrale ma vera. “Sai quanti uomini me l’hanno detto, mi sono rotta di sentirmelo dire. Appena ce l’hanno in tiro mi amano tutti.” La mattina di leggerezza e compere è terminata anche per lei. La realtà è tornata a riprendersi il suo spazio.
“Lui voleva sposarti.”
“Era gentile, più gentile degli altri, questo è vero.”
“E tu?”
“Un mazzo di fiori fa piacere anche a me. Ma non basta, mi piacciono tante cose e...” Ci pensa un istante. “E ci vogliono i soldi.”
“Tore era pieno di debiti,” dice Irene. Le sembra che questo possa essere la prova dei sentimenti di Tore.
“Cazzi suoi,” cambia tono Martina. “Gli uomini il cervello ce l’hanno in mezzo alle gambe.” Non ha alzato la voce, ma la rabbia è profonda. “Io li odio.”
“Perché?” chiede Irene. La rabbia di Martina fa impressione.
“Questo,” stacca una mano dal volante, si indica l’occhio, “questo è amore, lo sai? E non è solo il panzone. Sono tutti così. Tore voleva sposarmi per poter dire che ero solo sua. Non era diverso dal panzone che mi ha riempito di botte, per amore... Però con Tore ci siamo anche divertiti.”
“Loro due si conoscevano?” chiede Irene.
“Certo. Il panzone era geloso, Tore era più giovane, e io stavo sempre con lui. Io, è vero, preferivo stare con Tore, almeno per un periodo, prima che si mettesse a piangere sempre che dovevo smettere.”
“Forse anche lui era geloso.”
“Tore era gentile, ma non geloso. Non del panzone. Aveva capito che non me ne fregava niente. Però gli invidiava i soldi.”
“Questo panzone deve essere uno che vedi spesso,” dice Irene. Si sente coinvolta nel racconto.
“Lo vedevo spesso, sì, ma lascia perdere,” dice Martina, “questi sono affari miei. Spero solo che non mi si presenti più davanti.”
“Secondo te potrebbe essere stato lui?”
“A fare che?”
“A fare male a Tore.”
“Il panzone? Ma figurati. Tore aveva paura di qualcuno, questo è sicuro, ma mica del panzone. Quindi, te lo dico io, lascia perdere. Scusa, sai, ma non mi sembri la tipa giusta per immischiarti in certe cose.”
“E tu l’avresti sposato a Tore...” prende tempo, “... dopo l’operazione?”
“Non è che sei tu innamorata di Tore?”
“Figurati, eravamo solo amici, da bambini.”
“Glielo dicevo, mi piaceva dirlo, perché è bello qualche volta sentirsi in una storia normale. Ma operarmi è come dire smettere di lavorare.”
“Ma tu vorresti?” chiede Irene. Intende: smettere di lavorare, sposarsi.
Martina aspetta a rispondere, si concentra per svoltare a sinistra, al semaforo. “Forse sì,” risponde, intendendo operarsi, ma dovrebbe aggiungere che, se anche volesse, di soldi non ne ha abbastanza. Tutti spesi per l’affitto, i vestiti, l’estetista, l’auto, la cocaina. E quelli che dà al padre e alla madre.
***
Bercalli trova un parcheggio. Escono dall’auto. Raggiungono il cancello davanti ai quattro palazzi.
“Abbiamo il numero dell’appartamento?” chiede Colasette di fronte al citofono con un centinaio di pulsanti.
“No, ma il numero civico è questo,” risponde Bercalli.
“Citofoniamo a tutti sperando che non ci siano troppe Lory.”
“Sempre ammesso che si chiami Lory anche di giorno.”
“Io e lei parliamo troppo di filosofia,” dice Colasette, “e dovremmo tornare coi piedi per terra. Mi sentirei ridicolo se fossimo venuti qua per niente. Comincio io. Si citofona e si chiede di Lory, vediamo cosa succede.”
Martina e Irene prendono le borse dall’auto. Camminano sul marciapiede che costeggia il muro di cinta del giardino e i parcheggi interni. L’ingresso è una rientranza del muro, con una pensilina di cemento armato a fare da protezione. Martina cerca le chiavi. Irene li vede un po’ piegati sui citofoni, li riconosce subito.
“Fammi sapere quando vai all’ospedale,” dice Martina continuando a frugare nella borsa. “Se sono libera vengo anch’io.”
Bercalli e Colasette, sentendo parlare, si girano verso di loro. Ci mettono un momento e la riconoscono. La stanno osservando. Questo sente Irene, di nuovo, la stanno giudicando. Non perché è lì con Martina. Questo neppure le passa per la testa. Ma per il nuovo taglio, per i suoi capelli dai riflessi rossi.
“Spese di primavera?” chiede Colasette per rompere il silenzio con una frase innocua.
A Irene suona anche questo come un giudizio. “Mi servivano dei vestiti,” dice.
“Vi conoscete?” chiede Martina, rivolta a Irene.
“È la polizia. E lei è Martina.” Si sente stupida nel fare quella presentazione. Ma qualcosa deve pur fare.
Colasette e Bercalli non dicono nulla. Irene e Martina neppure, ognuno a cercare il proprio spazio. Non può essere una coincidenza che Irene Iannone sia anche lei lì, a Pontalto, in quel palazzo, con una persona che non sia la Lory che stanno cercando. E poi il suo imbarazzo, così visibile, per Colasette e Bercalli è una prova.
“Bene,” dice Colasette. “Martina, vorremmo farle delle domande a proposito di Lory.”
Martina non risponde. Si gira verso Irene per cercare di capire. Irene è impacciata, si guarda le mani mentre cambia senza motivo la posizione delle borse. Colasette guarda Lory. Una donna giovane, ossessionata da un’estetica di femminilità, desiderosa, forse, di avere conferme. Gli occhiali, poi, lenti enormi, sfumate, con la scritta Dior a perline argentate, le coprono metà viso. Ma non il livido sulla tempia destra, non tutto. Colasette lo nota subito. È quanto basta per avere qualcosa da cui partire. “Posso chiederle cosa le è successo all’occhio?”
Martina immaginava che la polizia sarebbe arrivata, ma non adesso, adesso ha freddo, e deve anche andare in bagno, vuole solo salirsene in casa ed essere lasciata in pace.
“Scusate,” dice, forzando la naturalezza del tono, “io devo rientrare. Ho un po’ freddo.”
“Ci può prima dire cosa le è successo all’occhio?” insiste Colasette.
“Niente, un incidente.”
“Se intende un incidente d’auto, immagino abbia sporto denuncia.”
“Non ce n’è stato bisogno.”
“E come mai?”
“Ho fatto tutto da sola.”
“E quando le è successo?”
“Un paio di giorni fa.”
“Un paio di giorni o di notti fa?”
Silenzio.
“Proprio un paio di notti fa anche un’altra persona ha picchiato la testa, ma è stato un po’ più sfortunato di lei. È in coma all’ospedale. E tutto è successo dopo aver ricevuto una sua telefonata.”
“L’ho saputo solo ieri sera. Non ho niente da dire.”
“Cominci con il motivo della chiamata.”
“Per vederci, ovvio.”
“Ovvio. Così ovvio che lei potrebbe averlo anche visto Salvatore Cantoni.”
“Non è mai venuto all’appuntamento.”
“Non è mai venuto e lei prontamente gli ha scritto un sms di offese.”
Martina capisce immediatamente quello che il poliziotto intende, ma non replica.
“Lo ha scritto per Cantoni o perché lo leggessimo noi della polizia? Come alibi non è che regga molto.”
Martina non replica neanche stavolta. Vuole solo salire, pisciare, scaldarsi, ricaricarsi di coca, e non sentire quella tristezza che la sta assalendo.
“Per quanto ci riguarda ci deve provare che non ha visto Cantoni due sere fa. Per noi lei può essere stata l’esca per farlo uscire, la sua telefonata l’esca per attirarlo sulle scale, dove qualcuno lo attendeva per farlo fuori. Ci sono arrivati vicino. Sempre stando a quanto ne sappiamo noi quella persona che lo attendeva poteva benissimo essere lei.”
“Non so di cosa stia parlando.”
“Mi può mostrare la sua macchina incidentata?”
“Non era la mia, era di un’altra persona.”
“E chi è questa persona?”
“Non lo so.”
“Lei mi sta dicendo che era sulla macchina di una persona che non conosceva?”
“Vedo molte persone, io.” Lo dice e si sente braccata senza un motivo, senza una colpa, e le sale lo schifo improvviso per la vita, quello schifo che la coglie quando sente di non avere via d’uscita, da una situazione, da se stessa, dalla propria esistenza. Quando in corpo la spinta della coca la abbandona alla sua normalità. Un senso di invasione, il sogno che si sgretola, questo suo sogno tentato di avere non una ma due, tre, cento vite non funziona, e adesso lì, in strada, davanti al cancello che l’avrebbe portata nel suo pomeriggio, deve ammetterlo, anche lei di vita ne ha una sola.
“Succhio cazzi per vivere, se le interessa.” La tristezza dell’ammissione, il sovrapporsi delle sue vite, questo è quello che ha sempre rifuggito, e deve rifuggire anche adesso, con la rabbia, lo dice guardando diritto in faccia Colasette, che si sente protetto dagli occhiali assurdi che Martina indossa, che le negano gli occhi, un’espressione. Ma non nascondono la rabbia. La rabbia è in quella voce maschile.
“Signorina,” interviene Colasette senza lasciare spazio a pensieri. Deve rispondere subito. Niente pietà, niente sensi di colpa. Lui non c’entra niente con lei, questa donna, questa vita. Non le ha inventate lui le puttane, e neanche i puttanieri. “Signorina, nessuno le ha chiesto niente del suo lavoro, io, noi, quello che vogliamo è sapere cosa è successo due notti fa, e il pugno, se è stato un pugno, e chi gliel’ha dato, fa parte del pacchetto.”
“Io non ho richiesto il vostro intervento.” La voce le è tornata quella di prima, senza rabbia. Contraddice, adesso, per necessità.
Colasette non replica. Muove la testa verso la strada, come distratto da un’auto che sta passando. Rimane a fissarla fino a che si perde dietro un palazzo.
“Ora la lascio con la mia collega,” dice tornando a guardare Martina. “Se lei non è coinvolta, per favore faccia in modo che possiamo crederle.”
“Ho bisogno di un bagno.” La voce stavolta le trema, ma anche il corpo sembra tremare di freddo.
“Va bene,” interviene Bercalli, “salgo con lei, possiamo parlare di sopra.”
“Qual è il numero dell’appartamento?” chiede Colasette. Non gli sembra il caso che Bercalli salga con Martina, da sola, ma neppure vuole contraddirla.
“Ventuno,” dice Martina che ha già preso le chiavi dalla borsa.
***
Colasette rimane a guardare le due che si allontanano verso il palazzo, come se si fosse dimenticato di Irene. Poi si volta, finalmente, ed eccoli, uno di fronte all’altra, eccoli lì, insieme.
“Mi spiega, per favore, la sua amicizia con Martina.”
“L’ho vista la prima volta ieri sera,” dice Irene, cercando un tono tranquillo.
“Curioso che l’abbia conosciuta proprio quando Salvatore Cantoni è in coma, non trova?”
Irene alza lo sguardo sullo sguardo di Colasette ed è in un istante di nuovo esposta, sotto quella pensilina, che la protegge dalla pioggia che ha ripreso a venire giù indifferente alla stagione, sotto quella pensilina che non la protegge dagli sguardi di quest’uomo, quest’uomo che la sta guardando, la sta scoprendo. Proprio quest’uomo così importante per lei, da adolescente, proprio lui, forse, la sta riconoscendo, e non ne regge più lo sguardo, la sta riconoscendo, lei quella bambina presentatasi in centrale a denunciare il padre. Abbassa la testa, sulle sue scarpe, a guardare l’umidità del marciapiede, e si vergogna anche dei capelli rossi che le scivolano sulle guance.
“Non mi giudichi,” dice, molto piano.
“Giudicarla?” La reazione di quella donna è incomprensibile per Colasette. “Se è venuta qui, immagino che lei avrà le sue ragioni.” È colto di sorpresa da quella rassegnazione. “Ma se sono ragioni lavorative, i fatti accaduti in quel condominio non competono ai Servizi sociali. È un affare che riguarda noi della polizia.”
“Non ha nulla a che vedere con il mio lavoro, solo ragioni personali,” dice Irene, sempre a testa bassa, confortata dalle parole di Colasette.
“E allora le devo chiedere di rendermi partecipe delle sue ragioni personali. È arrivata a Martina prima di noi, forse lei sa qualcosa che io non so. Le va di parlarmene davanti a una tazza di caffè?”
Irene alza la testa, riesce a guardarlo negli occhi. Allora non la sta giudicando, e la voce è proprio quella voce, pacata e rassicurante, col potere di azzerare vent’anni in un transfert da marciapiede, e Irene che guarda Colasette è l’Irene ragazzina di vent’anni prima. Non sta rivivendo, è proprio la prima volta che vede Colasette. “Io mangerei una pizza,” dice e dicendolo si accorge di averlo detto e si sorprende di averlo detto e vede anche la sorpresa in Colasette e ha la sensazione di svegliarsi.
“Io ho già pranzato, ma avranno qualcosa per lei.”
“È che non bevo il caffè,” dice di scatto Irene. “Ma va bene, ho visto un bar qua dietro.” Si gira per nascondere il volto che le è tornato rosso, per nascondersi a se stessa.
Colasette la segue, la osserva, minuta, le borse sono enormi rispetto alla sua figura. Aspetta pochi passi, poi accelera, le è a fianco, ma non dice niente. Arrivano al bar. Un bancone, l’angolo per il totocalcio, qualche tavolo, qualche sedia.
Colasette ordina un caffè e un bicchiere d’acqua. Irene un succo alla pera. Si siedono al tavolo in fondo, vicino a una macchina del poker elettronico, che lampeggia.
Irene si avvicina il bicchiere alla bocca. Beve un sorso di succo. “Tore aveva una relazione con Martina. È così che sono arrivata a lei.”
“Noi abbiamo trovato solo telefonate fatte a Lory,” precisa Colasette. “Come sapeva dove lavorava?”
“Me l’ha detto mio fratello. Al bar della Rotonda lo sapevano tutti.”
“Peccato che io ieri sera sia andato nel bar sbagliato,” dice Colasette prendendo la frase di Irene come un appunto personale. “E che tipo di relazione era?”
“Tore diceva che si sarebbero sposati, si era anche presentato al bar con lei.”
“Lei conosce la famiglia?”
“La sorella di Tore è andata ad abitare a Varese, dopo che si è sposata. Ma non ci siamo più viste da quando eravamo bambine. La signora Annetta la conoscono tutti. È anziana. Tore l’accompagna in chiesa. L’accompagna al centro degli anziani, quando non lavora. Mi hanno detto che la sorella ha telefonato in Comune per avere informazioni. Non sono ancora andate all’ospedale, da Tore.”
“E Martina cosa le ha detto?”
“Di cosa?”
“La sua relazione con Tore.”
“Non ne ha parlato come di un fidanzato.”
“E lei cosa ne pensa?”
Irene beve ancora. “Martina non sapeva niente di quello che era successo a Tore.”
“E come ha reagito quando lei gliel’ha detto?”
“È rimasta sorpresa, questo sì, sorpresa e anche dispiaciuta della notizia,” dice Irene incerta e l’incertezza fa suonare la sua voce come falsa. Un’improvvisazione poco riuscita.
“Perché cerca di difendere quella ragazza?” chiede Colasette.
“Sto solo cercando di capirla.”
“E ci riesce?”
“Ha bisogno di persone che le vogliono bene. E lei?”
“Io cosa?”
“Cosa ha capito?”
“Io non mi aspetto di capire le persone, mi basta la sequenza dei fatti.”
“Sono le persone che compiono i fatti,” dice Irene.
“Certo, ma io non distinguo più.” Beve l’acqua. Il caffè non l’ha neppure toccato, e ormai è freddo. “Le ha detto chi l’ha presa a pugni?”
“Un uomo grasso. Non ha detto il nome. Il panzone, diceva. L’ha aggredita e lei si è anche difesa, l’ha graffiato, ma lui l’ha colpita più volte.”
“E lei, coi suoi informatori del bar, non ha una qualche idea di chi possa essere?”
“No.”
“E perché questo panzone l’ha aggredita?”
“Era geloso. Geloso di Tore, perché con Tore c’era qualcosa di più.”
“Quindi Tore e il panzone picchiatore si conoscevano bene,” dice Colasette.
“Ha solo detto che si conoscevano, per questo Martina ha chiamato Tore a difenderla.”
“A farsi difendere o forse a far sì che i due si ammazzassero tra loro.”
“Come fa a dire questo?”
“Se vuoi conoscere gli uomini dai ascolto alle puttane,” dice Colasette. “Potrebbe essere un proverbio.”
“Perché le chiama così?” le viene da chiedere a Irene.
Colasette incassa questo appunto e lascia correre. E, come gli capita spesso, senza nessun preavviso, gli viene voglia di alzarsi, uscire e starsene per i cavoli suoi. Si fa forza per non lasciarsi prendere da quella sua solita ansia da estraniamento. “Lo dico perché Tore in fondo alle scale con la testa rotta in qualche modo ci deve essere arrivato. E ci sembra impossibile che sia stata la signora Ilde. Quindi o ha fatto tutto da sé oppure deve essere intervenuto qualcun altro. La lite tra questo fantomatico panzone e Tore, a causa di Martina, al momento potrebbe essere una possibilità logica. Non le sembra?”
“Tore non è mai arrivato all’appuntamento,” fa notare Irene, riattaccandosi al suo succo di frutta.
Colasette guarda le luci del poker elettronico. “È questo il punto. Può essere che il panzone l’abbia anticipato e l’abbia fermato sulle scale.”
Anche Irene, come Colasette, non ne è convinta.
“Lory mi ha detto che in questi giorni Tore aveva paura.”
“Paura di cosa?”
“Di qualcuno, e mio fratello mi ha detto che Tore aveva certa gente che gli stava addosso.”
“E le ha anche detto perché stavano addosso a Tore?” dice Colasette, togliendo gli occhi dal poker.
“Forse aveva fatto debiti anche con loro, persone di fuori. Gente che è meglio evitare, criminali veri, mi ha detto.”
“Stiamo cercando di identificare anche loro. In paese li hanno visti tutti ma nessuno sa chi sono.”
Sta per dire altro ma si ferma. Stacca la schiena dalla sedia, porta i gomiti al tavolo e appoggia il mento sulle mani intrecciate. La donna che ha di fronte ha scoperto più cose di quante ne abbiano scoperte lui e i suoi poliziotti, semplicemente perché lei ci vive in quel mondo in cui lui sta cercando di farsi strada. Rimane un momento a osservarla.
“Sa come chiamiamo noi della polizia quello che lei sta facendo?” dice. “Le chiamiamo indagini.”
“Indagini,” ripete Irene, sinceramente sorpresa. “Ma le ho spiegato che...”
“Certo, ragioni personali,” la interrompe Colasette. “Facciamo così, io non le impedisco di andare in giro a fare domande, è pur sempre parte del suo lavoro, ma primo non deve mettersi in situazioni di pericolo, secondo mi deve tenere al corrente. Siamo d’accordo?”
Irene si limita a guardarlo. Adesso che glielo ha fatto notare, è vero, da fuori potrebbe sembrare che lei stia facendo delle sue indagini personali.
Anche Colasette rimane in silenzio il tempo necessario perché Irene possa obiettare o dirgli altro.
Ma Irene tace e Colasette riprende. “Vede, nel mio lavoro ci sono momenti in cui si devono fare cose anche contro la propria volontà. Glielo dico perché so che non farà piacere neanche a lei. Se Martina non dirà alla mia collega chi è l’uomo che l’ha aggredita, sarò costretto ad arrestarla.”
“Ma non c’è niente contro di lei, no?”
“Intanto non collabora. Immagino che non sappia che lei lavora per i Servizi sociali, altrimenti dubito che le avrebbe raccontato tutto quello che le ha raccontato. E, seconda ragione, se non collabora perché ha paura, è più facile che in carcere decida di parlare. E anche il panzone, sapendola in carcere, un po’ si dovrà preoccupare. E poi se è stata aggredita una volta per gelosia, come ha detto, potrebbe succedere di nuovo ma stavolta perché se ne stia zitta. E in carcere almeno nessuno può entrarci, è un modo per proteggerla.”
“Poverina, ha subito violenza e deve anche rimetterci.”
“Sembra che ci tenga molto a Martina.”
“È strano anche per me,” ammette Irene, come se lei stessa cominciasse a capire qualcosa. “Io l’ho incontrata cinque minuti, ieri sera, ma lei stamattina era come se non l’avessi voluta incontrare per Tore, come se io fossi una sua cara amica. Diceva: ‘Andiamo in quel negozio la commessa è mia amica, il proprietario è mio amico.’ In realtà ci spende un sacco di soldi.”
“Gli uomini comprano lei, lei si compra gli amici,” dice Colasette. “Il suo affetto passa attraverso i soldi.”