Le Donne di Alex

Il Fratello

(nonna, fidanzate)

(Alex Cross)

Era un modello psicologico veramente riuscito nella sua concisione e chiarezza: spiegava tutto quello che stava per succedere. Persino il dottor Cross l'avrebbe approvato. Era il perfetto triangolo della famiglia disastrata.

Avrebbe anche potuto andarlo a spiegare ad Alex in quel momento. Appena prima di ucciderlo. S'infilò guanti e soprascarpe di plastica, controllò che la pistola fosse carica: era tutto a posto. Andò di sopra. Il Visitatore Gentiluomo, il Mastermind, Svengali, Moriarty.

Conosceva bene la casa del detective, non aveva bisogno nemmeno di accendere la luce. Non fece nessun rumore. Nessun errore. Nessuna traccia, nessun indizio per la polizia locale o l'FBI.

Che morte incredibile per Cross e la sua famiglia. Che colpo. Che idea. L'ordine in cui ucciderli gli venne mentre saliva le scale. Sì, ne era certo.

Il piccolo Alex

Jannie

Damon

Nana

e per ultimo Cross.

Arrivò in fondo al corridoio e rimase un istante ad ascoltare, prima di aprire la porta della camera da letto. Silenzio perfetto. Spinse piano piano.

Cosa c'è? Sorpresa! Oddio!

Non gli piacevano le sorprese. Lui voleva ordine, precisione. Voleva avere il controllo assoluto di tutto.

La bambina, Jannie, era seduta accanto al letto del padre. Dormivano tutti e due. Gli stava facendo la guardia. Lo proteggeva.

Li osservò per un po', novanta secondi circa. La luce accanto al letto era accesa.

Cross aveva una spalla e una mano bendate e sudava nel sonno. Era ferito, malato. Non era lui. Non era un valido nemico. Sospirò, deluso. Che tristezza. Che disperazione.

No, no, no! Era tutto sbagliato! Non andava bene per niente. Tutto sbagliato! Tutto da rifare!

Chiuse piano la porta della camera, quindi scese la scala e uscì. Nessuno si sarebbe accorto che era stato lì. Nemmeno il grande detective.

Come al solito, nessuno sapeva niente di lui. Nessuno sospettava nulla.

Era il Mastermind, dopo tutto.

55

Quella notte mi svegliai varie volte. A un certo punto mi parve che in casa ci fosse qualcuno. La sensazione era foltissima, ma non ebbi la forza di alzarmi.

Al mattino, dopo aver passato quattordici ore a letto, mi sentivo meglio e riuscivo quasi a pensare lucidamente. Ero ancora spossato, però, avevo tutte le giunture dolenti e la vista appannata. Sentii della musica a basso volume in casa. Erykah Badu, una delle mie cantanti preferite.

Bussarono alla porta della camera. «Chi è? Entrate pure, sono presentabile.»

Era Jannie con la mia colazione su un vassoio di plastica rossa: uova in camicia, porridge, succo d'arancia e una tazza di caffè bollente. Sorrideva, tutta fiera di sé. Anch'io le sorrisi, pensando: Mia figlia! Era un vero tesoro, quando voleva.

«Non so se te la senti già di mangiare, papà. Ti ho portato la colazione, se ne hai voglia.»

«Grazie, amore. Sto un po' meglio», risposi, e riuscii a mettermi a sedere sul letto e a sistemarmi un paio di cuscini dietro la schiena con la mano sana.

Jannie portò il vassoio vicino al letto, me lo posò con cautela sulle ginocchia e si chinò per baciarmi la guancia ruvida. «Qui c'è qualcuno che ha bisogno di farsi la barba.»

«Come sei gentile oggi», le dissi.

«Lo sono sempre, papà. Ti fa piacere un po' di compagnia? Ti stiamo a guardare mentre mangi. Stiamo bravi. Non piantiamo grane, okay?»

«Proprio quello di cui ho bisogno», dissi.

Jannie tornò con il piccolo Alex in braccio e Damon al seguito, che mi salutò con il pollice alzato. Si sedettero sul letto e, come promesso, stettero bravissimi: era la miglior medicina per me.

«Mangia, che diventa freddo. Stai diventando troppo magro», mi raccomandò Jannie in tono scherzoso.

«Sì, sì. Magro. Scheletrico», convenne Damon.

«Squisito», commentai con un sorriso tra un boccone e l'altro di uova e pane tostato, che masticavo con cura sperando di riuscire a digerire. Intanto accarezzavo la testa al piccolo Alex.

«Ti hanno avvelenato, papà?» s'informò Jannie. «Che cosa ti è successo esattamente?»

Sospirai e scossi la testa. «Non lo so, tesoro. È un'infezione che si può prendere quando ti mordono.»

Jannie e Damon fecero una smorfia. «Nana dice che hai la setticemia. È come avere il sangue avvelenato», sentenziò Damon, che evidentemente si era documentato.

«Se lo dice Nana... In questo momento non sono proprio in grado di contraddirla», replicai per chiudere l'argomento. E mi chiesi se mai lo sarei stato.

Guardai l'ingombrante fasciatura che mi copriva quasi tutta la spalla destra. La pelle intorno alla garza era di un giallo malsano. «Mi è entrato qualcosa di brutto nel sangue, ma ora sto bene. Mi sto riprendendo.» Ma mi tornarono in mente le parole di Irwin Snyder: Adesso sei uno di noi.

56

Quella sera riuscii ad alzarmi e Nana mi ricompensò con pollo in casseruola accompagnato da panini dolci e mele al forno. Mi sforzai di mangiare e, con mia sorpresa, vidi che ce la facevo benissimo.

Dopo cena misi a letto il piccolo Alex e verso le otto e mezzo tornai in camera mia. Tutti diedero per scontato che ero stanco e che non mi ero ancora ripreso del tutto.

Invece non riuscii a prendere sonno subito. Avevo troppi brutti pensieri per la testa. A torto o a ragione, mi sembrava che ci stessimo avvicinando alla soluzione degli omicidi. Ma forse era soltanto un'illusione.

Lavorai per un paio d'ore al computer, concentrandomi senza difficoltà. Ero sicuro che dovesse esserci qualcosa che legava tra loro le città dove erano avvenuti gli omicidi. Sì, ma che cosa? Che cosa continuava a sfuggire a tutti? Cercai tutto e niente: controllai gli itinerari delle compagnie aeree che facevano scalo in quelle città, poi gli orari degli autobus e anche dei treni. Probabilmente era inutile, ma non si sa mai. E comunque non avevo altro da fare.

Cercai le grandi aziende che avevano la sede o una filiale in quelle città e vidi che ce n'erano parecchie presenti in tutte, ma non mi pareva di arrivare da nessuna parte. Federai Express, American Express, Gap, Limited, McDonald's, Sears e JC Penney erano praticamente dappertutto. E con questo?

Avevo almeno una guida di ognuna delle città in cui erano avvenuti gli omicidi e le studiai fino a mezzanotte passata, senza cavare un ragno dal buco. Il braccio aveva ricominciato a farmi male e mi stava venendo il mal di testa. Il resto della casa era immerso nel silenzio.

Decisi di controllare le trasferte delle squadre sportive, gli spostamenti di circhi e luna park, di autori che presentavano libri e di musicisti in concerto. E, a un certo punto, quando stavo per spegnere il computer, scoprii qualcosa nel settore dell'entertainment che mi sembrò interessante. Cercai di mantenere la calma, ma il cuore cominciò a battermi più forte. Lessi le informazioni sulla West Coast e poi sulla East Coast. Tombola. Forse.

Avevo trovato l'indizio che cercavo: uno spettacolo che veniva rappresentato durante l'inverno e l'inizio della primavera sulla West Coast e che poi si spostava sulla costa orientale. Fino a quel momento le città toccate dalla troupe e gli omicidi coincidevano. Gesù!

Erano in tournée da quindici anni.

Ero quasi certo di aver trovato un nesso con gli autori degli omicidi.

Due maghi. Di nome Daniel e Charles.

Gli stessi che Andrew Cotton e Dara Grey erano andati a vedere la sera in cui erano stati assassinati a Las Vegas.

Sapevo persino dov'era in programma il loro prossimo spettacolo. Probabilmente erano già sul posto.

New Orleans.

Telefonai a Kyle Craig.

57

Undici anni di omicidi irrisolti portavano a questo.

A New Orleans, in Louisiana.

A un night-club che si chiamava Howl.

A due maghi di nome Daniel e Charles.

Non ero ancora in condizioni di viaggiare, così rimasi a Washington. Mi dispiaceva moltissimo non essere a New Orleans, perché ero sicuro di perdere un'occasione straordinaria, ma c'era Kyle e pensai che, se voleva compiere l'arresto di persona, non lo si poteva biasimare. Sarebbe stato un passo decisivo per la sua carriera. Era un caso importantissimo.

Quella sera, a New Orleans, tra la folla che assisteva al primo spettacolo di Daniel e Charles erano mescolati cinque o sei agenti dell'FBI. Il locale si trovava vicino al terminal crociere di Julia Street. Di solito vi si esibivano gruppi musicali, e anche quella sera tra le pareti di mattoni riecheggiavano blues e jazz. Alcuni turisti tentarono di portarsi da bere nei bicchieri di plastica da Bourbon Street, con il solo risultato di farsi vietare «a vita» l'accesso al night.

Dalle macchine di seconda mano e dalle poche auto sportive ferme nel parcheggio si poteva intuire che il locale era molto frequentato da studenti dei college Tulane e Loyola. Sulla folla chiassosa e irrequieta aleggiava una densa nuvola. Tra gli spettatori, parecchi erano giovanissimi. I proprietari del night-club erano stati denunciati per aver servito alcolici a minorenni, ma evidentemente trovavano più comodo corrompere la polizia di New Orleans che far rispettare la legge nel locale.

Tutt'a un tratto, calò il silenzio. Una voce esclamò: «Oh, merda! Guarda là!»

Sul palco, coperto da strati e strati di velluto nero, era comparsa una tigre bianca.

Senza guinzaglio, domatore o altro. Il pubblico, prima tanto chiassoso, adesso taceva.

Il grosso felino alzò pigramente la testa e ruggì. Una ragazza in canottiera rosa shocking seduta in platea lanciò un grido. La tigre ruggì nuovamente.

Dalle quinte uscì una seconda tigre, che andò a fermarsi accanto alla prima, guardò il pubblico e ruggì. La platea era molto vicina al palco e gli spettatori cominciarono ad alzarsi e a fuggire, portando con sé le bottiglie di birra.

In quel momento dal fondo della sala, dietro il pubblico, si alzò un inconfondibile ruggito. Tutti rimasero paralizzati: quanti felini a piede libero c'erano nel night? E dove? Che cosa diavolo stava succedendo?

Rispetto al palcoscenico illuminato, i lati della sala erano immersi nel buio: scappare da quella parte era un rischio. I riflettori si spostarono da sinistra a destra, quindi da destra a sinistra. Le luci erano forti, quasi accecanti, e diedero l'illusione che il palco si fosse spostato.

Dalla folla si levò un brusio spaventato.

Le tigri erano sparite!

Al centro del palco adesso erano comparsi due maghi vestiti di nero e lamé dorato. Sorridevano; anzi, sembrava quasi che ridessero del pubblico atterrito.

Il più alto dei due, Daniel, prese la parola. «Non abbiate paura. Siamo Daniel e Charles, i prestigiatori più bravi del mondo! E ora ve lo dimostreremo. Che la magia abbia inizio!»

La folla cominciò ad applaudire, a fischiare e a ululare. Quella sera erano in programma due spettacoli della durata di un'ora e mezzo ciascuno. C'erano agenti dell'FBI infiltrati tra il pubblico. C'era anche Kyle Craig. Altri uomini erano di guardia fuori. Daniel e Charles si concentrarono per una serie di trucchi che definirono «omaggio a Houdini», poi eseguirono anche l'illusione della «vedova allegra» di Carl Hertz.

Il pubblico diede segno di apprezzare, e alla fine quasi tutti gli spettatori uscirono dal night impressionati, ripromettendosi di tornare e di raccomandarlo agli amici. A quanto pareva, succedeva ovunque Daniel e Charles si esibissero, da una costa all'altra degli Stati Uniti.

A quel punto toccava all'FBI. Dopo il secondo spettacolo, Charles e Daniel furono accompagnati fino a una limousine color argento che li aspettava con il motore acceso in un vicolo dietro il teatro, che la polizia aveva circondato. C'era molto rumore e confusione: Daniel e Charles litigavano.

Quando la limousine uscì dal vicolo, un gruppo di auto dell'FBI la seguì in mezzo al normale traffico del centro di New Orleans a quell'ora di notte e quindi fuori città, verso il lago Pontchartrain. Kyle Craig si tenne in contatto radio per tutto il viaggio.

La limousine si fermò davanti a una villa del periodo precedente la guerra civile, dove era in pieno svolgimento una festa privata. Nel grande giardino punteggiato da querce secolari riecheggiava a tutto volume della musica rock. Numerosi invitati si trovavano fuori della villa, nei prati in discesa affacciati sul lago, le cui onde luccicavano nel buio.

L'autista scese e aprì una delle portiere posteriori con fare teatrale. Sotto gli occhi increduli di vari agenti dell'FBI, dalla limousine scesero con un balzo due tigri bianche.

Daniel e Charles non erano in macchina. I maghi erano scomparsi.

58

Daniel e Charles erano in un piccolo club privato in una casa di Abita Springs, a circa ottanta chilometri da New Orleans, un locale che non veniva mai citato né nelle pagine degli spettacoli del Times-Picayune né in nessuna delle guide periodiche che si trovavano nella hall di quasi tutti gli alberghi della Louisiana.

George Hellenga li accolse con grande eccitazione ed entusiasmo. Era un omone con le guance butterate, le sopracciglia nere e folte, gli occhi infossati e resi scurissimi da lenti a contatto che li facevano sembrare completamente neri. Hellenga, che pesava quasi centoquaranta chili, indossava un completo di pelle nera comprato in un negozio Big & Tall di Houston. Fece un inchino ai due maghi e mormorò che era onorato della loro visita.

«Lo credo bene», ribatté secco Charles. «Abbiamo lavorato tutto il giorno e siamo stanchi. Sai perché siamo qui. Sbrighiamoci.» Al di fuori dei teatri, spesso era Charles a parlare per tutti e due, soprattutto se si trattava di rivolgersi a patetici tirapiedi e nullità come George Hellenga, il quale si affrettò ad accompagnarli al piano di sotto. I padroni erano loro. Lui era uno schiavo e come lui c'erano legioni di altri che, in moltissime città, aspettavano e speravano di avere occasione di servire il Sire.

Scendendo le scale, Daniel sorrise: aveva visto il prigioniero, lo schiavo, e lo trovava di suo gradimento.

Gli si avvicinò: era un ragazzo di diciotto o diciannove anni al massimo. Gli disse: «Eccomi qui. Piacere di conoscerti. Sei straordinario». Era alto quasi uno e novanta, aveva i capelli biondi tagliati molto corti, braccia e gambe agili, e splendide labbra carnose, messe in evidenza da sottili anelli d'argento.

«Fa il broncio. È triste. Liberalo, poverino», ordinò Daniel allo schiavo Hellenga. «Come si chiama?»

«Edward Haggerty, Sire. Fa il primo anno alla Louisiana State University. E vostro servo», disse George Hellenga, tremando visibilmente.

Aveva i polsi incatenati al muro di mattoni. Indossava soltanto un tanga argentato e un braccialetto d'argento alla caviglia. Era una creatura eccezionale, snella, tonica, perfetta da ogni punto di vista.

George Hellenga guardò il Sire con aria preoccupata. «Se lo sleghiamo, c'è il rischio che scappi, signore.»

Daniel aprì le braccia e strinse a sé il bel giovane come se fosse un bambino piccolo, baciandogli le guance, la fronte e le splendide labbra rosse.

«Non scappi, vero?» gli chiese con voce bassa e suadente.

«No», rispose il ragazzo, anch'egli sottovoce. «Voi siete il Sire e io non sono nulla.»

Daniel sorrise. Era la risposta perfetta.

59

Il telefono squillò molto presto, la mattina dopo. Mi affrettai a rispondere. Era Kyle che, con voce lenta e pacata, mi disse che la notte precedente Daniel e Charles erano svaniti nel nulla. Era arrabbiatissimo con i suoi agenti. Non l'avevo mai sentito così fuori di sé. Per il momento non erano stati denunciati omicidi a New Orleans e dintorni. Verso le sei del mattino, i due illusionisti erano rientrati a casa loro nel Garden District. Dov'erano stati tutta la notte? Che cos'era successo? Qualcosa dovevano aver fatto.

Rimasi a Washington anche quel giorno, convalescente dall'infezione. Studiai Daniel e Charles e ne tracciai un profilo provvisorio, da confrontare con quello che stavano preparando i colleghi di Quantico. La prima informazione importante era che i maghi si erano esibiti a Savannah, a Charleston e a Las Vegas. Ero in contatto con due tecnici che erano riusciti non soltanto a trovare una corrispondenza fra le tappe della tournée e circa la metà dei delitti, ma anche ad accertare che Daniel e Charles erano effettivamente presenti nelle varie città all'ora in cui erano avvenuti gli omicidi. Un'altra informazione preziosa era che le tigri viaggiavano al seguito della troupe soltanto quando si fermava per almeno una settimana nello stesso posto. A New Orleans erano in cartellone per le tre settimane successive e possedevano anche una casa, nel Garden District.

Comunicai i dati che avevo raccolto fino a quel momento a Quantico perché venissero aggiunti a quelli di cui l'FBI già disponeva, e mandai tutto quanto via fax a Jamilla Hughes a San Francisco. Stava facendo il possibile per venire anche lei a New Orleans, ma il suo capo non aveva ancora dato l'okay definitivo alla trasferta.

Interpellai Kyle al riguardo e lui, dopo aver tergiversato un po', mi promise che avrebbe richiesto ufficialmente la collaborazione dell'ispettore Hughes. In fondo, tutto era nato dal caso che lei aveva segnalato.

Cominciavo a stufarmi di stare chiuso in casa: mi sembrava di essere di sorveglianza in un posto - la mia camera da letto - in cui non c'era nulla da sorvegliare. L'unica consolazione era che trascorrevo molto tempo con il piccolo Alex e riuscivo a vedere di più Damon e Jannie, ma mi sentivo frustrato e tagliato fuori dal vivo delle indagini.

Quel pomeriggio andai al St. Anthony's per farmi visitare dal dottor Prahbu, il quale con una certa riluttanza mi autorizzò a tornare a lavorare, raccomandandomi però di non strafare, almeno per qualche giorno.

«Perché non vuol dirmi come ha fatto a procurarsi quelle morsicature?» mi chiese di nuovo.

«Gliel'ho già detto», ribattei. «Sono stati dei vampiri nel North Carolina.»

Lo ringraziai e tornai a casa per preparare la valigia. Ero un po' malfermo sulle gambe, ma non vedevo l'ora di essere a New Orleans. Questa volta Nana non protestò neppure, quando le annunciai la mia partenza, ma sapevo che era arrabbiata perché ero stato male.

Quel pomeriggio, non appena arrivai al New Orleans International Airport, presi un vecchio taxi giallo e mi feci portare in centro. Alla reception dell'albergo, il Dauphine Orleans Hotel, trovai un messaggio. Aprii la busta con una certa esitazione, ma erano buone notizie: Jamilla Hughes era partita per New Orleans.

Il testo era tipico: Arrivo a New Orleans e li sbattiamo dentro. Puoi scommetterci.

60

Jamilla e io ci incontrammo al Dauphine Hotel quella sera stessa. Indossava jeans, una maglietta bianca con le tasche e una giacca di pelle nera. Sembrava riposata e pronta a tutto; anch'io mi sentivo piuttosto in forma.

Cenammo insieme - bistecca, uova e birra - nel ristorante dell'albergo. Come al solito, trovai molto piacevole la sua compagnia: riusciva sempre a farmi ridere, e io a far ridere lei. Alle dieci e mezzo prendemmo la macchina e andammo all'Howl. Daniel e Charles avevano in programma due spettacoli: uno alle undici e uno all'una. E poi? Che avessero in serbo un'altra sparizione misteriosa?

Eravamo gasatissimi, sicuri di riuscire a sbatterli dentro. Purtroppo, però, ci mancavano ancora le prove del fatto che fossero proprio loro gli assassini. Avevamo a disposizione oltre duecento uomini, tra FBI e polizia di New Orleans. Qualcosa doveva succedere. Era probabile che Daniel e Charles azzannassero di nuovo qualcuno entro breve.

Era venerdì sera e, quando arrivammo, il night era quasi pieno. C'erano altoparlanti ovunque, sul soffitto e alle pareti, da cui usciva musica a tutto volume. Il pubblico era indisciplinato, composto prevalentemente da giovani che bevevano birra, fumavano e ballavano avvinghiati. In mezzo agli studenti dal look più normale si notavano vari dark. I due tipi di pubblico si guardavano in cagnesco, e l'atmosfera era tesa. Un fotografo della rivista OffBeat era già in posizione davanti al palco, in attesa dell'inizio dello spettacolo.

Jamilla e io ci sedemmo a un tavolino e ordinammo una birra. C'erano almeno dieci o dodici agenti dell'FBI all'interno del locale. Kyle era fuori su un'auto della sorveglianza. La sera prima era entrato anche lui, ma non era un tipo che si confondeva facilmente in una folla di giovani alla moda: si vedeva lontano un miglio che era un poliziotto.

Mi bruciava già la gola per il fumo di sigaretta e tutto il profumo che aleggiava nell'aria, ma dopo un sorso di birra mi sentii meglio. Il braccio e la mano mi facevano ancora male, ma avevo la mente lucidissima ed ero decisamente più in forze di prima. Ero contento di trovarmi di nuovo con Jamilla, sempre prodiga di saggi consigli.

«Kyle ha messo alle calcagna dei maghi sei squadre di sorveglianza, ventiquattr'ore su ventiquattro», le dissi. «Questa volta non li perderanno di vista, me l'ha giurato.»

«All'FBI pensano che siano davvero loro gli assassini?» domandò. «Non hanno nessun dubbio? Dici che possiamo sbatterli dentro e buttare via la chiave?»

«Immagino che qualche dubbio ci sia, ma minimo. Non si sa mai che cosa pensa veramente Kyle. Comunque sì, credo sia convinto che siano loro. Anche i tecnici di Quantico la pensano così, e io pure.»

Mi osservò da dietro la bottiglia di birra. «Tu e Kyle siete molto legati, eh?»

Annuii. «In questi ultimi anni ci siamo occupati di parecchi casi insieme e abbiamo lavorato bene. Ma non posso dire di conoscerlo veramente.»

«Non ho mai avuto una gran fortuna con l'FBI», osservò lei. «Ma è un problema mio, immagino.»

«Uno dei miei compiti è tenere i contatti tra il Bureau e il dipartimento di polizia di Washington. Kyle è molto in gamba. È soltanto un po' ermetico, a volte.»

Jamilla bevve un sorso. «A differenza di un'altra persona, che adesso è seduta a questo tavolo.»

«A differenza di tutt'e due le persone sedute a questo tavolo», la corressi, e scoppiammo a ridere.

Jamilla guardò verso il palco. «Che cosa aspettano? Dove sono? Dobbiamo cominciare a battere i piedi per terra perché escano fuori e ci mostrino qualcuno dei loro trucchi? Ce lo fanno vedere di che cosa sono capaci o no?»

Non fu necessario battere i piedi: un attimo dopo, uno dei due maghi si presentò sul palcoscenico.

Era Charles, e aveva l'aria da assassino.

61

Charles aveva un body nero aderentissimo e stivali di pelle che gli arrivavano alle cosce, un orecchino di brillanti a un lobo e uno dorato nel naso. Osservò il pubblico dall'alto in basso soffermandosi a lungo, con occhi pieni di odio e disprezzo, su ciascuno degli spettatori.

Mi parve che guardasse in particolare me e Jamilla, almeno due volte. Anche lei ebbe la stessa impressione.

«Sì, anche noi ti teniamo d'occhio, stronzo», disse lei alzando la bottiglia di birra come per brindare. «Secondo te, quei due vermi sanno chi siamo?» mi chiese poi.

«Chi lo sa? Sono in gamba. Non si sono ancora fatti beccare.»

«Ho capito. Ma spero che gli venga un tumore allo stomaco e facciano una fine lenta e atroce. Alla vostra salute.» Alzò di nuovo la bottiglia.

Charles si chinò e si rivolse a una coppia di giovanissimi seduti a un tavolo vicino al palco. Aveva il microfono.

«Che cos'avete da guardare, storditi? Attenti, se no vi trasformo in due rospi. Così fate un passo avanti nella catena alimentare.» E fece una risata profonda, di gola, che mi parve eccessivamente sgradevole, esagerata. Ma il pubblico rise e applaudì. La buona educazione non esiste più, al giorno d'oggi. Essere maleducati è diventato chic, la sfacciataggine è considerata in.

Mi voltai verso Jamilla. «Interessante, questo suo modo cannibalesco di ragionare.»

Un paio di minuti dopo si presentò sul palco il secondo mago, senza farsi annunciare da nessun effetto speciale, cosa che mi sorprese. Avevo sentito dire che lo spettacolo contemplava meraviglie sonore e stroboscopiche, ma quella sera no. Come mai avevano cambiato stile? Per noi? Sapevano chi eravamo?

«Per i non addetti ai lavori, io sono Daniel. Charles e io facciamo spettacoli di magia dall'età di dodici anni e viviamo in California, a San Diego. Siamo bravi. Possiamo farvi vedere la 'scomparsa del mago', uno dei trucchi preferiti di Houdini, oppure 'l'armadietto delle spade', la 'vedova allegra' di Carl Hertz, la 'sparizione con il drappo di seta' di DeKolta. Io sono invulnerabile, sono in grado di fermare con i denti una pallottola sparata da una Colt Magnum, e Charles anche. Non siamo speciali? Non vorreste essere come noi?»

Dalla platea si levarono urla e applausi. La musica era più bassa, si sentiva soltanto il ritmo delle percussioni in sottofondo.

«L'illusione che state per vedere è la stessa di cui si serviva Harry Houdini per concludere i suoi spettacoli a Parigi e a New York. Noi la usiamo per cominciare. Che altro vi devo dire?»

Le luci si spensero di colpo. Il palcoscenico era assolutamente buio. Alcune donne tra il pubblico lanciarono gridolini di finto terrore, ma perlopiù la gente rideva, anche se un po' nervosamente. Che cosa avevano intenzione di fare quei due?

Jamilla mi diede una gomitata. «Non aver paura. Ci sono qua io a difenderti.»

«Grazie.»

Sul palco comparvero tanti puntini luminosi, quindi si accesero di nuovo i riflettori. Per circa un minuto non successe nulla.

Poi entrò in scena Daniel a cavallo di uno stallone bianco impennato, coperto di lustrini blu dalla testa ai piedi, con un cappello a cilindro in tinta, che si tolse per salutare il pubblico entusiasta.

«Devo ammettere che fa il suo effetto», disse Jamilla. «Decisamente spettacolare. Che cosa succederà adesso?»

Otto uomini e donne in impeccabili uniformi bianche si disposero intorno a Daniel, seguiti da due tigri bianche. L'effetto era straordinario. Due donne aprirono un enorme ventaglio orientale, nascondendo alla vista il mago e il suo destriero. Avevo gli occhi incollati al palcoscenico.

«Gesù! Che cos'è?» mormorò Jamilla.

«Imitano Harry Houdini, come ha spiegato all'inizio. E ci riescono benissimo.»

Quando le due donne richiusero il ventaglio, Daniel era sparito, e Charles era comparso in groppa al cavallo bianco.

«Gesù!» esclamò di nuovo Jamilla. «Come hanno fatto?»

Con chissà quale trucco da trasformista, Charles era di nuovo vestito di nero e lamé. Il sorriso che aveva stampato sulla faccia era di un'arroganza ai limiti dell'incredibile e rivelava il più totale disprezzo per il pubblico, che pure sembrava al settimo cielo. Uno sbuffo di fumo e tutta la platea rimase nuovamente sbalordita.

Daniel era di nuovo sul palco, vicino a Charles e al suo destriero. L'illusione era stata eseguita in modo magistrale. Gli spettatori si alzarono in piedi e applaudirono entusiasti, tra fischi e urla assordanti.

«E questo è soltanto l'inizio!» esclamò Daniel. «Il bello deve ancora venire!»

Jamilla mi guardò e piegò gli angoli della bocca all'ingiù. «Alex, questi sono davvero in gamba, e te lo dico dopo aver visto Siegfried e Roy. Perché si esibiscono in postacci come questo? Perché sprecano il loro tempo qui?»

«Perché gli va bene così», risposi. «Perché è qui che cercano le loro vittime.»

62

Jamilla e io assistemmo a tutti e due gli spettacoli quella sera, e restammo impressionati dalla calma e dalla sicurezza dei due illusionisti. Dopo il secondo spettacolo, Daniel e Charles andarono a casa e, a detta degli agenti di guardia nei dintorni, ci restarono. Non capivo. E Jamilla neanche.

Rientrammo al Dauphine verso le tre di notte. Due squadre dell'FBI rimasero a sorvegliare la casa di Daniel e Charles fino al mattino. Cominciavamo a sentirci frustrati e confusi. Stavamo facendo lavorare un sacco di gente.

Mi sarebbe piaciuto invitare Jamilla a bere una birra da me, ma non lo feci: era troppo complicato, almeno per il momento. O forse invecchiando stavo diventando più fifone. O più saggio. No, più saggio no.

Alle sei ero di nuovo in piedi e prendevo appunti nella mia camera d'albergo. Stavo scoprendo cose che avrei preferito non sapere, e non soltanto sull'illusionismo. Ormai sapevo che, nello strano mondo dei vampiri, la zona circostante la residenza principale di un sire, principe o anziano si chiama dominio. FBI e polizia di New Orleans sorvegliavano la parte del Garden District in cui vivevano Daniel Erickson e Charles Defoe.

La loro casa si trovava in LaSalle Street, vicino a 6th Street. Era di pietra grigia e doveva avere almeno una ventina di stanze. Si trovava in cima a una collina e aveva un muro di cinta alto e robusto che ricordava i bastioni di un castello. Era dotata di una grande cantina sotterranea, cosa rara in quella zona piatta e paludosa. Nessuno dei membri della task force era disposto ad ammettere di credere nei vampiri, ma tutti sapevano che era stata commessa una serie di omicidi brutali e che Daniel e Charles ne erano i probabili esecutori.

Jamilla e io passammo i due giorni successivi a sorvegliare la casa, il dominio, facendo i doppi turni. Fu una noia mortale. A volte, durante gli appostamenti, mi viene in mente una scena del Braccio violento della legge in cui Gene Hackman è fuori al freddo mentre gli spacciatori francesi sono a cena in un ristorante di New York. È così, proprio così, a volte per sedici o diciotto ore di seguito.

Se non altro eravamo in un bel posto: LaSalle Street e il Garden District, dove a metà Ottocento vivevano i baroni dello zucchero e del cotone, erano molto ben conservati. La maggior parte delle case dell'epoca era bianca, ma alcune erano dipinte in delicati colori pastello che ricordavano il Mediterraneo. Ai cancelli di ferro battuto erano appesi cartelli informativi destinati ai numerosi turisti che visitavano la zona a piedi.

Ma, anche in compagnia di Jamilla Hughes, era pur sempre un appostamento.

63

Durante le lunghe ore trascorse in LaSalle Street, Jamilla e io scoprimmo che riuscivamo a parlare praticamente di qualsiasi cosa, e fu così che ingannammo il tempo toccando argomenti che andavano dalle barzellette sui poliziotti agli investimenti finanziari, passando per il cinema, l'architettura gotica, la politica e anche esperienze personali. Jamilla, per esempio, mi raccontò che suo padre se n'era andato di casa quando lei aveva sei anni. Le raccontai a mia volta che i miei genitori erano morti giovani tutti e due per una combinazione letale di alcolismo e tumore ai polmoni, cui probabilmente si erano sommati esaurimento e disperazione.

«Ho lavorato due anni come psichiatra. Come libero professionista. All'epoca nella mia zona di Washington erano in pochi a potersi permettere una terapia, e io non potevo certo lavorare gratis. La maggior parte dei bianchi si rifiutava di andare da uno strizzacervelli nero. Così sono entrato nella polizia con l'idea di restarci soltanto per un po'. Non immaginavo che mi piacesse, ma, una volta cominciato a lavorare, non sono più riuscito a smettere. È diventata una vera passione.»

«Cos'è stato a farti innamorare del lavoro di detective?» Sapeva ascoltare, era interessata. «Ricordi un episodio o qualcosa di particolare?»

«In effetti, sì. Erano stati ammazzati due uomini nel quartiere in cui sono cresciuto e vivo tuttora. Era considerato un delitto maturato nell'ambiente della droga, il che significava che nessuno ci avrebbe sprecato tempo. All'epoca a Washington era normale. Anzi lo è ancora.»

Jamilla annuì. «Succede in certe zone di San Francisco, temo. Ci piace pensare che la nostra sia una città illuminata, e in certi casi lo è, ma c'è anche gente molto brava a voltarsi dall'altra parte e fingere di non vedere. È uno schifo.»

«Fatto sta che io conoscevo le vittime ed ero quasi certo che non fossero coinvolte nel traffico di stupefacenti. Lavoravano entrambi in un piccolo negozio di musica. Può darsi che fumassero un po' d'erba, ma niente di più.»

«Ho presente i tipi.»

«Così mi misi a indagare per conto mio, con l'aiuto di un mio amico detective, John Sampson. Seguii il mio istinto e scoprii che uno dei due usciva con una donna che frequentava il boss del quartiere. Continuai a scavare, sempre seguendo l'istinto, e scoprii che era stato il boss ad ammazzare i due uomini. Risolvere quel caso fu per me decisivo: mi accorsi che ero bravo, forse per via della formazione che avevo, e che mi piaceva fare giustizia. O forse semplicemente sentirmi nel giusto.»

«Eppure sembri una persona equilibrata. Hai dei figli, una nonna, degli amici...» commentò Jamilla.

Lasciammo cadere il discorso per non giungere all'inevitabile conclusione, ovvero che eravamo tutti e due single. Non c'entrava con il nostro lavoro. Se soltanto fosse stato così semplice...

64

Una certezza rassicurante del lavoro di polizia è che capita molto raramente di indagare su delitti con caratteristiche mai viste o mai sentite. Quella volta, però, gli omicidi erano davvero diversi dal solito: apparentemente casuali, spietati, si succedevano da oltre undici anni con modalità che cambiavano ogni volta. La difficoltà principale era dovuta al fatto che gli assassini potevano essere più di uno.

La mattina seguente, Kyle e io ci incontrammo per parlare delle indagini. Lui era di pessimo umore e io non vedevo l'ora di andarmene. Confrontammo le rispettive teorie e lamentazioni, dopodiché raggiunsi Jamilla nel Garden District.

Arrivai con una scatola di ciambelle, facendomi prendere in giro sia da lei sia da alcuni dei federali appostati nei pressi, i quali però si servirono volentieri, tanto che nel giro di pochi minuti sparirono tutte.

«I due maghi sembrano tipi casalinghi», commentò Jamilla con la bocca piena.

«È ancora giorno. Probabilmente sono a riposare nelle loro bare», ribattei.

Lei sorrise e scosse la testa, con gli occhi scuri che brillavano divertiti. «Ti sbagli. Il più basso, Charles, è stato tutta la mattina a lavorare in giardino. Non ha paura del sole, credi a me.»

«Allora forse il vero vampiro è Daniel. Il Sire, il più potente tra i due.»

«Charles ha parlato un sacco al telefono. Sta organizzando una festa in casa. Senti questa: un ballo mascherato. Ognuno si traveste come preferisce: leather, rubber, dark, vittoriano, ognuno secondo i suoi gusti. A te cosa piace?» mi chiese.

Risi e ci pensai un attimo. «Più che altro jeans, velluto a coste. Ho un giaccone di pelle. Un po' consumato, ma mi dà l'aria da duro.»

Jamilla rise. «Secondo me faresti un figurone, vestito da principe gotico.»

«E tu? Hai qualche gusto particolare?»

«Be', confesso che possiedo due giacche e un paio di pantaloni di pelle e un paio di stivaloni neri che non ho ancora finito di pagare. Sono di San Francisco, sai. Una ragazza deve stare al passo con i tempi.»

«Vale anche per noi maschietti.»

Fu un'altra lunga giornata. Restammo di guardia alla casa fino al tramonto. Verso le nove arrivarono due agenti dell'FBI a darci il cambio. «Andiamo a mettere qualcosa sotto i denti», proposi a Jamilla.

«I canini?» ribatté lei, ed entrambi scoppiammo a ridere in maniera un po' forzata.

Siccome non volevamo allontanarci troppo dalla casa dei maghi, decidemmo di andare al Camellia Grill in South Carrollton Avenue, vicino al fiume. Da fuori sembrava una piccola casa colonica; dentro era accogliente, con un lungo bancone e gli sgabelli fissati al pavimento. Fummo serviti da un cameriere in giacca bianca e cravatta nera. Ordinammo caffè e omelette, che erano enormi, soffici e leggere. Jamilla prese anche fagioli rossi e riso. Eravamo a New Orleans...

Mangiammo bene, il caffè era ottimo e la compagnia molto piacevole. Tra di noi c'era una simpatia reciproca, se non qualcosa di più. Anche le pause nella conversazione erano prive di imbarazzo, oltre che rare. Un mio amico una volta ha detto che l'amore è trovare una persona con cui si riesce a parlare fino a tarda notte. Trovo che sia una buona definizione.

«Nessuna chiamata», disse Jamilla controllando il cercapersone mentre finivamo di bere tranquillamente il caffè dopo cena. Avevo sentito dire che a volte c'era la fila davanti al Camellia, ma quella era un'ora morta.

«Chissà che cosa combinano quei due in quella casa così grande e sinistra. Secondo te, Alex, che cosa fanno gli assassini psicopatici nel tempo libero?»

Ne avevo studiati abbastanza per dire che non c'erano regole fisse. «Certi sono sposati, magari anche felicemente, se chiedi alla moglie. Gary Soneji aveva una figlia, Geoffrey Shafer tre bambini. La cosa più spaventosa è quella: che un marito, un vicino di casa, un padre, tutt'a un tratto si riveli essere uno spietato assassino. Eppure succede. L'ho visto con i miei occhi.»

Jamilla bevve un sorso del secondo caffè. «I vicini parlano bene di Daniel e Charles. Li trovano eccentrici ma simpatici e - senti questa - dotati di grande senso civico. La casa è intestata a Daniel, che l'ha ereditata dal padre, il quale era a sua volta un eccentrico. Faceva il pittore. Si mormora che i maghi siano gay, anche se spesso sono stati visti in compagnia di donne giovani e belle.»

«I vampiri non fanno discriminazioni tra uomini e donne. Me l'ha spiegato Peter Westin», osservai. «Pari opportunità anche tra gli assassini, che possono essere di entrambi i sessi. Eppure c'è qualcosa che non mi quadra, una lacuna logica che non riesco a colmare. Anzi più di una.»

«Le tappe delle tournée corrispondono a molte località in cui si sono verificati gli omicidi.»

«Lo so. Non voglio negare le prove che abbiamo raccolto finora.»

«Però hai una delle tue famose intuizioni...»

«Non so se sia una famosa intuizione, ma c'è qualcosa che non mi torna. Questa storia non sta in piedi. Mancano degli elementi. Ed è questo che mi preoccupa. Perché tutt'a un tratto Daniel e Charles sono diventati così poco prudenti? Sono riusciti a passare inosservati per anni e adesso hanno decine di agenti dell'FBI che li sorvegliano giorno e notte!»

Finimmo il caffè, ma restammo al tavolo. La sala era piena a metà e si sarebbe affollata soltanto all'orario di chiusura dei bar. Nessuno ci faceva fretta e noi non avevamo nessuna voglia di tornare alla noia dell'appostamento.

Jamilla mi interessava per molti motivi, ma il principale era probabilmente che in lei vedevo riflessa gran parte della mia esperienza di vita. Eravamo entrambi dediti al lavoro di polizia, avevamo una vita piena, con amici e parenti, e tuttavia in un certo senso eravamo dei solitari. Perché?

«Tutto bene?» mi chiese con aria preoccupata. Di solito riconosco a naso le persone di buon cuore, e lei lo era. Non avevo dubbi.

«Avevo la mente altrove», risposi. «Ma ora sono di nuovo qui.»

«Dove vai, quando parti per il mondo dei sogni?»

«A Firenze», risposi. «Credo che sia la città più bella del mondo. Almeno per me.»

«Dunque un momento fa eri in Italia?»

«Per la verità stavo pensando alle somiglianze fra la tua vita e la mia.»

Jamilla annuì. «Ci ho pensato anch'io. Chissà cosa ne sarà di noi. Dici che siamo condannati a ripetere sempre gli stessi errori, Alex?»

«Be', prima di tutto arresteremo due assassini incalliti qui a New Orleans. E non mi sembra poco, no?»

Jamilla allungò una mano e mi accarezzò la guancia, dicendo con aria malinconica: «Proprio come pensavo: non c'è speranza».

65

Il Mastermind guardò con il binocolo Alex Cross scendere dalla macchina.

Cross e la bella Jamilla Hughes si erano presi una pausa per cenare ed erano tornati in servizio. Stavano facendo amicizia? Si sarebbero innamorati a New Orleans? Un innegabile punto debole di Cross era proprio il bisogno di essere amato, no?

Ma adesso il detective stava scendendo di nuovo dalla macchina.

C'è qualcosa che disturba il grande Cross. Forse gli è venuta voglia di fare due passi dopo mangiato. O magari vuole riflettere ancora un po' sul caso e ha bisogno di solitudine. E un solitario, proprio come me.

Era incredibile. Stava andando tutto storto.

Seguì Cross in una traversa buia fiancheggiata da modeste case del primo Novecento tipiche di quella parte di New Orleans.

Inspirò l'aria che profumava di caprifoglio, gelsomino e gardenie. Cento anni prima, il profumo dei fiori serviva a mascherare il tanfo dei vicini macelli. Il Mastermind conosceva la storia e sapeva un sacco di cose. Seguì Cross tenendosi a distanza di sicurezza e riflettendo. Aveva buona memoria e sapeva usare le proprie informazioni.

Udì lo sferragliare del tram di St. Charles Avenue, che correva sui binari pochi isolati più in là e copriva il rumore dei suoi passi.

La passeggiata in compagnia di Cross lo divertiva moltissimo. Pensò che quella sarebbe anche potuta essere la notte fatale, e la sola idea gli provocò una scarica di adrenalina.

Si avvicinò sempre di più. Sì, stasera. Qui, ora.

Quasi si aspettava che Cross si voltasse a guardarlo. Sarebbe stato bello: ironico, perfetto. Una dimostrazione del fatto che Cross aveva un grande intuito ed era un avversario degno di lui.

Imboccò una traversa per aggirarlo. Adesso era a pochi metri da lui. Poteva raggiungerlo in un attimo.

Cross si fermò davanti al Lafayette Cemetery, soprannominato «la città dei morti». Oltre i cancelli c'erano lussuose cappelle e tombe di famiglia.

Anche il Mastermind si fermò, assaporando ogni secondo.

Sulla cancellata era affisso un cartello del dipartimento di polizia di New Orleans che diceva: IL CIMITERO È SORVEGLIATO.

Il Mastermind nutriva seri dubbi in proposito, ma, in ogni caso, che importanza aveva? Se ne faceva un baffo, lui, dei piedipiatti.

Il detective si guardò intorno, ma non vide il Mastermind nell'ombra. Forse era il momento giusto... Anche se avesse opposto resistenza, non gli sarebbe importato: era sicuro di vincere. Osservò Alex Cross e pensò che stava per esalare l'ultimo respiro. Che idea!

Cross voltò le spalle al cimitero e imboccò una strada secondaria, diretto all'auto di pattuglia, da Jamilla Hughes.

Il Mastermind fece uno scatto, ma poi tornò indietro: Cross non sarebbe morto quella sera. Nella sua infinita pietà, aveva deciso di risparmiarlo.

Motivo: quella strada era troppo buia. Non sarebbe riuscito a guardarlo negli occhi mentre lo uccideva.

66

L'indomani mattina avvenne un fatto sorprendente, che secondo me nessuno di noi si aspettava. Io rimasi scioccato, esterrefatto. Ci trovavamo nell'ufficio dell'FBI a New Orleans, per il briefing mattutino: eravamo una trentina in una grande sala asettica con vista sulle acque fangose del Mississippi.

Alle nove Kyle si rivolse alla squadra che era stata di guardia alla casa nelle ventiquattr'ore precedenti, dopodiché cominciò ad assegnare i compiti per quel giorno, specificandone tutti i particolari. Era tipico di Kyle essere chiaro, preciso, efficiente e non commettere mai né errori né sviste.

Credeva di aver finito, quando si alzò una mano: «Scusi, signor Craig, non ha nominato me. Che cosa devo fare io oggi?»

Era Jamilla Hughes, e dal tono della voce non sembrava affatto contenta. Kyle stava già raccogliendo i suoi appunti e mettendo alcuni fogli in una grossa valigetta nera. Alzò a malapena la testa e rispose: «Lo chieda al dottor Cross. Sta a lui decidere».

Era una risposta eccessivamente brusca anche per uno come Kyle. Rimasi sorpreso dal suo modo rude, dalla sua mancanza di tatto.

«Mi prende in giro?» esclamò Jamilla alzandosi in piedi. «Trovo la sua risposta inaccettabile, signor Craig. Tanto più detta con quel tono irritante e altezzoso.»

Tutti gli agenti federali presenti la guardarono, perché in genere nessuno osava rispondere per le rime a Kyle Craig. Correva voce che fosse destinato alle cariche più alte all'interno del Bureau e molti sostenevano meritasse di far carriera, essendo certamente il più intelligente di tutto l'FBI, oltre che il più impegnato.

«Senta, non ho niente contro il detective Cross, ma l'inchiesta è stata aperta anche grazie al mio contributo, dopo gli omicidi avvenuti nella mia giurisdizione», continuò Jamilla. «Non voglio né applausi né pacche sulle spalle, grazie, ma sono venuta fin qui per dare una mano e quindi voglio partecipare alle indagini ed essere trattata con un minimo di rispetto. Peraltro, non posso fare a meno di notare che c'è una sola altra donna in tutta la task force. Non è il caso che se ne scusi», concluse respingendo con un cenno della mano eventuali giustificazioni di Kyle prima ancora che le avesse espresse.

Kyle non perse la calma. «Come i presunti vampiri, ispettore Hughes, io non faccio discriminazioni tra uomini e donne e apprezzo molto il lavoro che ha svolto nelle prime fasi delle indagini. Ma, come le ho detto, per le sue mansioni di oggi si deve rivolgere al dottor Cross. Se non le va, può anche tornarsene a casa. Grazie a tutti», disse facendo il saluto militare alla squadra. «Buona caccia. E speriamo che oggi sia il giorno giusto.»

Rimasi molto sorpreso dalla reazione di Kyle, ma anche da come si era infiammata Jamilla. Quando venne verso di me dopo la riunione, mi sentii a disagio.

«Mi ha fatto talmente incazzare... Grr...» esclamò scuotendo la testa e facendo una smorfia. «Io avrò un brutto carattere, ma lui ha torto marcio. Quell'uomo ha qualcosa di strano, non mi piace per niente. Perché ce l'ha con me? Gli rode che lavoro con te? Allora, che cosa facciamo oggi, dottor Cross? Io non ho nessuna intenzione di andarmene soltanto perché uno stronzo mi prende a pesci in faccia.»

«Si è comportato male, è vero. Mi dispiace. Vediamo che cosa si può fare adesso.»

«Non essere accondiscendente», ribatté Jamilla.

«Non lo sono affatto. Sei tu che devi scendere dal piedistallo.»

La rabbia per il diverbio con Kyle non le era ancora passata. Replicò: «Te lo dico io: a quello non piacciono le donne. È un tipico maschio fanatico delle tre C: competizione, critica e controllo».

«Su, dimmi che cosa pensi veramente di Kyle. E degli uomini in generale.»

Finalmente Jamilla accennò un sorriso. «Penso, e mi pare che sia un giudizio piuttosto obiettivo e pacato, che il tuo presunto amico abbia un bisogno assurdo di tenere tutto sotto controllo e si comporti come un perfetto cretino. Quanto agli uomini, dipende dai singoli casi.»

67

I veri vampiri erano arrivati e si credevano invulnerabili. William e Michael capirono che l'incantevole città di New Orleans era nelle loro mani non appena attraversarono il ponte. Erano due giovani principi dai capelli biondi raccolti in una coda di cavallo, camicia nera, pantaloni neri e stivali di pelle lucidissimi. Se tutto fosse andato come doveva, e non poteva essere altrimenti, la loro missione sarebbe terminata lì.

Attraversarono il French Quarter a bordo del furgone della Croce Rossa guidato da William, in cerca di una preda. Percorsero lentamente tutte le vie più famose - Burgundy, Dauphine, Bourbon, Royal, Chartres Street - ascoltando musica a tutto volume.

Alla fine scesero, si avviarono a piedi lungo Riverwalk ed entrarono nel centro commerciale, che a William diede letteralmente il voltastomaco per la mediocrità, la banalità, la totale stupidità che vi imperavano: Banana Republic, Eddie Bauer, Limited, Sharper Image, Gap. «Che cosa vuoi fare?» chiese al fratello. «Guarda che schifo di negozi! Pensare che è una città così bella...»

«Prendiamo qualcuno in questa merda di centro commerciale. Potremmo nutrirci nei camerini di Banana Republic, per esempio. L'idea mi piace.»

«No!» esclamò William afferrandolo per un braccio. «Abbiamo lavorato troppo. Secondo me abbiamo bisogno di un diversivo.»

Non potevano fare altre vittime, non lì. Non così vicino al dominio di Daniel e Charles. Ci voleva davvero un diversivo. Così William si rimise al volante e uscirono da New Orleans, presero la Interstate 10 ed entrarono nella vera Louisiana.

William trovò quello che cercava dopo circa un'ora di viaggio. La parete di roccia era alta soltanto una sessantina di metri, ma era molto ripida e per scalarla ci voleva una grande concentrazione: la minima svista e precipitavi. Ed eri morto.

I fratelli decisero di affrontarla slegati, ovvero nella versione più estrema del free climbing, senza né corde né protezioni di alcun tipo.

«Siamo due veri sestogradisti!» gridò ridendo Michael quando furono a metà altezza. I sestogradisti erano gli arrampicatori più abili, i migliori, e ai fratelli piaceva considerarsi tali.

«Sì!» fece eco William. «Ci sono arrampicatori audaci e arrampicatori rapaci.»

«Ma soltanto noi siamo sia l'uno sia l'altro!» replicò Michael con una sonora risata.

L'impresa si rivelò più ardua di quanto non sembrasse: la parete richiedeva la padronanza di molte tecniche diverse, dall'arrampicata in camino a quella in placca, in cui dovevano schiacciarsi contro la roccia e tenersi con le mani ad appigli piccolissimi.

«Adesso viene il bello!» urlò Michael con tutto il fiato che aveva. Si era dimenticato le prede e la sete, non pensava ad altro che ad arrampicare e a sopravvivere. Soltanto i più forti ce la fanno.

Poco dopo si trovarono di fronte a una scelta irrevocabile: erano arrivati a un punto tale per cui, se fossero andati avanti, non sarebbero più potuti tornare per la stessa via da cui erano saliti. Non restava che arrivare fino in cima. O arrendersi subito.

«Che ne dici, fratellino? Decidi tu per tutti e due. Che cosa ti suggerisce l'istinto?»

Michael rise così forte che dovette afferrarsi alla parete di roccia con tutte e due le mani per non cadere. Guardò giù e vide che, se fosse precipitato, per lui sarebbe stata morte certa. «Non provarti nemmeno a pensare di tornare indietro. Non cadremo, fratello. Mai. Non moriremo mai!»

Arrivarono in cima alla parete, da dove si vedeva tutta New Orleans. Ormai era la loro città.

«Siamo immortali! Non moriremo mai!» gridarono al vento.

68

Guardai le grandi querce dalla folta chioma, poi le magnolie e i banani dalle foglie a ventaglio del Garden District. Non avevo altro da fare. L'appostamento continuava. Jamilla stava cominciando a diventare ripetitiva, e io anche, malgrado ci scherzassimo sopra. Il sedile posteriore dell'auto era pieno di giornali. Avevamo letto il Times-Picayune da cima a fondo.

«Non abbiamo nessuna prova concreta che leghi Daniel o Charles a nessuno dei delitti commessi finora. Da nessuna parte. Tutto quello che abbiamo sono prove indiziarie o speculazioni, ipotesi merdose e basta. Ti pare, Alex? Secondo me è così.» Probabilmente parlava tanto per parlare, ma non aveva tutti i torti. «I conti non tornano. Quei due non possono essere così bravi. È impossibile che non sbaglino mai.»

Eravamo a quattro isolati di distanza dalla casa di LaSalle Street, dal dominio. L'avremmo potuta raggiungere nel giro di pochi secondi, nel caso fosse successo qualcosa. Ma per il momento non era successo assolutamente nulla. Il problema era quello. Daniel e Charles uscivano raramente dalla loro bella villa ottocentesca, e soltanto per andare a fare shopping o a mangiare in qualche ristorante di lusso del centro. Come prevedibile, avevano buon gusto.

Cercai di rispondere alla domanda di Jamilla. «Hai ragione a dire che non siamo in grado di dimostrare alcun legame tra loro e i primi omicidi, ma lo sai anche tu che dopo un po' di tempo diventa quasi impossibile trovare testimoni o prove inequivocabili. Quello che non capisco è perché non abbiamo trovato niente neanche nei casi più recenti.»

«Lo stavo pensando anch'io. Abbiamo dei testimoni a Las Vegas e a Charleston, ma nessuno che abbia riconosciuto le foto di Daniel e Charles. Perché? Che cosa ci sfugge?»

«Forse non sono loro gli esecutori materiali degli omicidi. Forse prima uccidevano di persona, ma ora non più.»

«Ma non bevono il sangue delle vittime? Perché le uccidono, altrimenti? Sono sacrifici simbolici? Fanno parte di qualche mito antico o inventato di sana pianta? Gesù, Alex, che cosa stanno facendo questi due mostri?»

Non sapevo come rispondere né alle sue né alle mie domande. E purtroppo nessun altro aveva risposte. Così continuammo a stare seduti in macchina nell'afa ad aspettare che Daniel e Charles facessero la loro mossa successiva.

Se erano così prudenti e così in gamba, perché li avevamo individuati? Perché eravamo lì?

69

William lo trovava ridicolo. Mio Dio, che spasso! Impagabile. Osservava i poliziotti che, a turno, sorvegliavano la casa degli orrori di proprietà di Daniel e Charles. Troppo divertente. Il giovane principe passò in LaSalle Street fumando una sigaretta, altero e sicuro di sé, senza paura, convinto di essere superiore a chiunque da qualsiasi punto di vista. Michael stava riposando e lui aveva deciso di andare a fare due passi.

Che bellezza! Magari avrebbe incontrato qualcuno dei personaggi famosi che vivevano nel Garden District, tipo il favoloso Trent Reznor dei Nine Inch Nails, o uno dei coglioni della casa del Grande Fratello.

C'erano due anonime Lincoln parcheggiate lungo il marciapiede. Si chiese se Daniel e Charles le avessero notate e sorrise, scuotendo la testa. Chissà cosa diavolo credevano di fare quei due. Senza dubbio erano prudenti, perché uccidevano da anni e anni. E con questo? Prima o poi qualcosa doveva succedere.

Proseguì fino all'angolo e svoltò in direzione sud. Quasi tutte le case avevano una veranda protetta da rampicanti. A un certo punto vide un bell'esemplare di maschio, un ventenne a torso nudo, con i pettorali che luccicavano di sudore, e si tirò su di morale. Stava lavando una BMW decappottabile color argento come quella di James Bond.

La vista di quel fisico perfetto, il getto d'acqua e l'auto dalla carrozzeria lucente lo eccitarono all'istante. Ma si controllò e proseguì per la sua strada.

Poi, poco più in là, scorse una ragazza. Avrà avuto quattordici anni ed era seduta davanti a una casa ad accarezzare un gatto persiano. Era molto carina, sensuale.

I lunghi capelli castani le scendevano sulle spalle, arrivando a sfiorarle il seno. Portava una canottiera che le lasciava scoperta la pancia e, sopra, un top impalpabile stampato a pelle di serpente; jeans blu scuro molto aderenti, con la vita bassa, svasati al punto giusto. Vari orecchini d'oro e d'argento, anelli alle dita dei piedi, braccialetti multicolori. Una tipica teenager, ma di una bellezza eccezionale, sfacciata. Proprio come lui.

William si fermò e con un sorriso accattivante disse: «Bel gatto!»

La ragazza alzò gli occhi, dello stesso verde intenso di quelli del persiano, e lo squadrò da capo a piedi. William capì di aver fatto colpo. Gli succedeva sempre, sia con gli uomini sia con le donne.

«Perché tirarsi indietro?» le chiese, continuando a sorridere. «Se vuoi una cosa, prendila. Sempre. Ti offro questa perla di saggezza. Una piccola lezione omaggio.»

«Ah, perché tu sei un maestro?» ribatté lei restando dov'era. «Non lo sembri per niente.»

«Sono un maestro, ma anche un discepolo.»

La desiderava: non soltanto aveva un corpo stupendo, ma anche l'istinto giusto. Era sexy e smaliziata. A differenza di molti giovani, che sprecano il talento e le potenzialità che hanno, sapeva usare le proprie doti. Non disse altro, non sorrise, ma non distolse neppure lo sguardo.

A William quella sicurezza di sé piacque, come pure il modo in cui gli occhi verdi cercavano di prendersi gioco di lui senza riuscirci del tutto. Gli piaceva anche che stesse con il petto in fuori, quasi fosse la sua unica arma contro di lui. Ebbe voglia di avvicinarsi e prenderla lì, subito, morderla, bere il suo sangue e vederlo zampillare sulle assi imbiancate a calce della veranda.

No. Non adesso, non ancora, non qui. Mio Dio, quanto si detestava, quanto detestava non essere se stesso. Voleva esercitare il suo potere, sfruttare i propri doni.

Alla fine si incamminò. Ci volle tutta la sua forza di volontà, tutto il suo coraggio, per lasciare lì quella meravigliosa creatura seduta in maniera così invitante.

Proprio in quel momento la ragazza si decise a parlare. «Perché ti tiri indietro?» gli gridò, ridendo senza pietà.

William sorrise, quindi si voltò e tornò verso di lei.

«Sei fortunata», disse. «Sei stata scelta.»

70

Prima o poi qualcosa doveva succedere. Alle sette del mattino ero seduto da solo a un tavolino davanti al Café Du Monde, di fronte a Jackson Square, e facevo colazione con frittelle spolverate di zucchero e caffè di cicoria osservando le guglie della St. Louis Cathedral. In lontananza si udivano le sirene dei battelli che scendevano sul Mississippi.

Sarebbe stato bello, se non fossi stato troppo frustrato e pieno di rabbia per godermelo. Avevo addosso una tensione terribile, che non sapevo come scaricare.

Avevo affrontato un sacco di indagini difficili in vita mia, ma quello sembrava il caso più intricato di tutti. Quei macabri omicidi si susseguivano da oltre undici anni, ma ancora non era chiaro né quale disegno nascondessero né quale fosse il movente.

Non appena arrivato negli uffici dell'FBI ricevetti l'inquietante notizia della scomparsa di una quindicenne che abitava a poca distanza dalla casa dei due maghi. Poteva essere semplicemente scappata di casa, ma a me sembrava poco probabile. L'allontanamento risaliva a meno di ventiquattr'ore prima.

Era stata indetta una riunione. Andai al piano di sopra per saperne di più e anche per chiedere come mai non ero stato avvertito prima. Quando entrai nella sala, percepii la frustrazione di tutti i presenti. Era difficile immaginare una situazione più spinosa: credevamo di aver individuato gli assassini, ma non potevamo arrestarli, e adesso sembrava che avessero colpito di nuovo sotto il nostro naso.

Mi sedetti vicino a Jamilla. Tutti e due avevamo una tazza di caffè bollente in mano e l'edizione del mattino del Times-Picayune, che non accennava alla ragazza scomparsa. Evidentemente la polizia di New Orleans non si era mossa fino a quella mattina.

Non avevo mai visto Kyle così arrabbiato. Era letteralmente furioso e camminava avanti e indietro passandosi nervoso la mano destra fra i capelli. Non potevo biasimarlo. La collaborazione tra la polizia locale e l'FBI era indispensabile per il buon esito delle indagini, ma il dipartimento di New Orleans era venuto meno ai patti, incrinando i rapporti di reciproca fiducia.

«Per una volta, sono d'accordo con Craig», disse Jamilla. «I colleghi di qui hanno veramente esagerato.»

«Potevamo cominciare le ricerche ore fa», convenni. «È un pasticcio, e non può che peggiorare.»

«Se stasera riuscissimo a intrufolarci nella casa durante la festa, potrebbe essere la nostra grande occasione. Che ne dici? Io ci proverei», mi bisbigliò Jamilla. «Gli invitati saranno tutti in maschera, no? Almeno, io ho capito così. Qualcuno di noi deve provare a entrare in quella casa. Bisogna fare qualcosa.»

Kyle ci lanciò un'occhiataccia e disse: «È possibile avere un po' di silenzio quando gli altri parlano?»

«Quando lui parla», mi sussurrò Jamilla. Mi chiesi come mai avesse preso tanto in antipatia Kyle, benché fosse innegabile che lui si comportava in modo strano. La tensione delle indagini lo stava logorando, c'era qualcosa che lo teneva sulle spine.

«Digli quello che pensi», le consigliai. «Ti darà ascolto. Soprattutto adesso che è scomparsa quella ragazza.»

«Ne dubito, ma che cosa può farmi? Licenziarmi?»

Si voltò sulla sedia e guardò Kyle. «Secondo me dovremmo cercare di intrufolarci nella casa durante la festa di stasera. Anche se non ce la facessimo, che cosa abbiamo da perdere? La ragazza potrebbe essere là dentro.»

Dopo un attimo di esitazione, Kyle disse: «Okay. Andiamo a vedere che cosa c'è in quella casa».

71

Soltanto a New Orleans poteva succedere una cosa simile. Passai parte del pomeriggio a procurarmi due inviti per la festa, poi Jamilla e io preparammo il travestimento. Il ballo cominciava a mezzanotte, ma avevamo sentito dire che la maggior parte della gente sarebbe arrivata verso le due.

Quando intorno alla villa cominciò a esserci un certo movimento, per noi la serata era già stata lunga. Aspettammo fino alle due passate per avvicinarci alla casa. Parte degli invitati erano studenti universitari, altri anche più giovani, ma la metà era sulla trentina e oltre. Qualcuno arrivò a bordo di limousine o altre auto di lusso. Le mise erano decisamente eccentriche: giacche a coda di rondine e cappelli a cilindro che erano autentici pezzi d'antiquariato, abiti da sera vittoriani in velluto, corsetti, bastoni e tiare.

I gotici fasciavano i loro corpi androgini in velluto e pelle nera, con pizzi bianchi e neri per qualcuna delle signore, piercing e orecchini ovunque, anelli all'ombelico, collari con le borchie, rossetto nero e grande abbondanza di mascara sia per gli uomini sia per le donne.

Occhi rossi ci fissavano dappertutto. Era difficile distogliere lo sguardo. Da altoparlanti nascosti fuori della casa uscivano le note di una canzone intitolata Pistol Grip Pump. Canini affilati e sangue finto dappertutto. Alcune donne avevano fasce di velluto viola o nero intorno al collo, presumibilmente per nascondere il segno dei morsi ricevuti.

In casa la scena divenne ancora più interessante e sinistra. Gli ospiti si chiamavano usando titoli altisonanti: Sir Nicholas, Lady Anne, baronessa, principe William, maestro Ormson. Una donna dal fisico statuario squadrò Jamilla con aria strafottente: era coperta di fondotinta color bronzo e portava soltanto un perizoma color bronzo. L'odore ferroso del sangue si mescolava a quello del fumo, del cuoio e a quello acre dell'olio delle torce accese qua e là lungo le pareti.

Jamilla aveva un look da dura pienamente in carattere: si era messa un vestito nero aderente, stivali e calze nere che le davano un'aria quanto mai sexy. Si era comprata un rossetto nero e delle polsiere in cuoio, e mi aveva aiutato a scegliere il mio costume: una giacca a coda di rondine che sfiorava il pavimento, cravatta molto larga, pantaloni e stivali neri fino al ginocchio.

Nessuno fece particolarmente caso a noi e, dopo aver perlustrato il piano terra, scendemmo insieme con la folla nel seminterrato. Sui muri di pietra c'erano torce accese dappertutto, il pavimento era di pietra e terra battuta e l'aria era fredda, umida e odorava di muffa.

«Gesù, Alex!» mi bisbigliò all'orecchio Jamilla. Mi prese per un braccio e mi tenne stretto. «Se me lo raccontassero, non ci crederei.»

Anch'io stentavo a credere ai miei occhi. Molti dei presenti avevano lunghi canini terrificanti. Le uniche fonti di luce erano torce accese e finti candelabri. Alle pareti erano inchiodati teschi umani sicuramente autentici.

Cominciai a guardarmi intorno in cerca di una via d'uscita, in caso di emergenza, e vidi che non sarebbe stato facile squagliarsela in fretta: il sotterraneo era sempre più affollato e cominciava a darmi un senso di claustrofobia. Mi chiesi se stava per morire qualcuno e, se mai, chi.

In quel momento una voce annunciò: «Il Sire è qui. Inchinatevi».

72

Nella cavernosa sala sotterranea scese un silenzio carico di tensione. Ebbi la sgradevole sensazione di essere in procinto di assistere a qualcosa che non avrei dovuto vedere. Un attimo dopo, Daniel Erickson e Charles Defoe fecero la loro entrée.

Nella loro eccentricità bohémien, i due illusionisti davano un'impressione di estrema regalità. L'assemblea dei fedeli chinò disciplinatamente la testa. Charles era a torso nudo, con pantaloni aderentissimi e stivali di cuoio che mettevano in evidenza il suo fisico possente e molto sensuale. Daniel portava una redingote nera aderente, con pantaloni neri e fazzoletto di seta al collo. Era muscoloso, ma aveva la vita sottile.

Davanti a loro, trattenuta da una pesante catena, c'era una tigre bianca del Bengala. Jamilla e io ci scambiammo un'occhiata. «Sempre più interessante», mormorò lei.

Daniel si fermò a parlare con alcuni dei ragazzi presenti. Mi ricordai che le vittime dei primi omicidi erano tutte di sesso maschile. La tigre era a meno di tre metri da me. Che ruolo aveva in tutto ciò? Era soltanto un simbolo? E di cosa?

Charles raggiunse Daniel vicino al muro in fondo e gli bisbigliò qualcosa, poi risero e si guardarono intorno.

Daniel prese la parola, con voce forte e chiara e l'aria di chi si aspetta di essere ascoltato, sicuro di sé e della propria presenza carismatica. «Io sono il Sire. Che assemblea viva e vibrante!» esclamò. «Sento l'energia che circola nella sala. Mi eccita. La forza raccolta qui stasera non conosce limiti. Abbiate fiducia in essa. Abbiate fiducia in voi stessi. Questa è una notte speciale. Venite con me nella stanza accanto. Passate di livello, se avete fede. O, meglio ancora, se non ne avete.»

73

Non avevo mai visto nulla di simile. In silenzio, con gli occhi sgranati, Jamilla e io entrammo in una sala ancora più ampia, illuminata da candelabri, perlopiù elettrici. Molti dei presenti ostentavano candidi denti aguzzi. La tigre bianca aveva cominciato a ruggire. Non potei fare a meno di pensare ai corpi straziati dai morsi.

Chi va a caccia di vampiri, dai vampiri vien cacciato.

Che cosa stava succedendo in quella cripta sinistra? Qual era il vero scopo di quella riunione notturna? Chi erano gli esseri demoniaci accorsi là sotto a centinaia?

Daniel e Charles erano accanto a due giovani alti e belli che indossavano una lunga veste di raso nero. Avranno avuto vent'anni, se non meno. Due giovani dèi. Tutti si fecero avanti per vedere meglio.

«Sono qui per ungere due nuovi principi vampiri», annunciò Daniel con grande solennità. Il tono era lo stesso che usava sul palcoscenico. «Inchinatevi!»

Una donna nelle prime file gridò: «I nostri principi! Principi delle tenebre! Vi adoro!»

«Silenzio!» intimò Charles. «Portate via quell'idiota. Cacciatela.»

Le luci tremolarono e poi si spensero completamente. Le fiamme delle poche torce vere furono soffocate. Presi per mano Jamilla e insieme ci spostammo verso il muro più vicino.

Non vedevo nulla. Mi sentii gelare.

«Che cosa diavolo sta succedendo, Alex?»

«Non lo so. Stiamo vicini.»

Al buio la situazione degenerò rapidamente. Udimmo delle grida, lo schiocco di una frusta non lontano da noi, poi fu la follia. Il caos. Il terrore.

Jamilla e io sfoderammo la pistola, ma era così buio che non potevamo fare nulla.

Passarono un minuto o due, che, al buio pesto, sembrarono eterni. Insopportabilmente lunghi. Avevo paura di essere accoltellato, oppure azzannato.

In lontananza si sentì entrare in funzione un generatore. Le luci tremolarono e finalmente si riaccesero. Poi si spensero di nuovo. E si riaccesero definitivamente.

Abbagliato, vidi aloni di luce colorata e poi...

I maghi erano scomparsi.

Qualcuno gridò: «C'è stato un omicidio! Oh, mio Dio, sono morti tutti e due!»

74

Mi feci largo tra la folla, che, in preda allo shock, non oppose resistenza. E vidi i cadaveri. I due ragazzi con la veste nera erano stesi a terra in una pozza di sangue. Erano stati pugnalati e sgozzati. Ma dov'erano Daniel e Charles?

«Polizia!» gridai. «Non toccateli. State indietro!»

Le persone più vicine ai cadaveri arretrarono. Mi chiesi se volessero bere il sangue versato. Non era quello il rituale? Non era questo che era successo alle vittime precedenti?

«Sono soltanto due! Due sbirri!» urlò qualcuno.

«Attenzione o sparo!» gridò Jamilla con voce forte e chiara.

«State indietro, ho detto. Dove sono Daniel e Charles?» gridai.

Siccome la folla avanzava minacciosa, sparai un colpo in aria che riecheggiò nel sotterraneo aumentando la confusione. La gente cominciò a precipitarsi verso le scale. Ma nessuno sarebbe riuscito a sfuggirci: fuori ad aspettarli c'erano gli agenti dell'FBI.

Jamilla e io riuscimmo a introdurci in un corridoio sotterraneo, molto stretto e illuminato solo da candele. Probabilmente era da lì che, quando si erano spente le luci, erano arrivati Daniel e Charles. Soltanto loro potevano sapare di quel passaggio segreto.

C'erano tante piccole stanze l'una vicino all'altra che si affacciavano sul corridoio polveroso, disposte in un modo da ricordare le antiche catacombe. Il senso di soffocamento era lo stesso: l'aria umida sapeva di muffa, l'atmosfera era deprimente e dava i brividi.

«Tutto okay?» chiesi, voltandomi a guardare Jamilla.

«Per ora sì. Anche se comincio a non poterne più di questo posto», rispose in tono scherzoso. Ma si guardava intorno con aria preoccupata.

Sentii Kyle che ci chiamava. I federali dovevano essere entrati. «Cosa c'è laggiù, Alex? Vedi niente?»

«Per il momento, no. Daniel e Charles sono spariti quando si sono spente le luci. Non c'è traccia di loro.»

Avanzavamo con cautela, controllando tutte le stanze. La maggior parte era adibita a magazzino, ma alcune erano completamente vuote, umide e sinistre come loculi. Probabilmente era tutta scena, ma facevano paura per davvero.

Aprii con un calcio l'ennesima porta e mi affacciai a guardare insieme con Jamilla, che spalancò la bocca senza riuscire a urlare. «Oh, Gesù, Alex! Che cosa diavolo è successo?»

Allungai una mano e mi tenni al suo braccio. Non riuscivo a credere ai miei occhi, non volevo crederci. Sentii che mi cedevano le ginocchia.

A terra c'erano Daniel e Charles, morti ammazzati. Ero senza parole. Anche Kyle, entrato in quel momento, taceva inorridito.

Ci avvicinammo, pur sapendo che non c'era più niente da fare per i due poveretti, che erano stati sgozzati e azzannati selvaggiamente.

Ma chi era adesso il Sire?

PARTE QUARTA

CACCIA ALL'UOMO

75

Nel tardo pomeriggio del giorno seguente, Jamilla doveva tornare a San Francisco. Praticamente ammise che non riusciva a raccapezzarsi e che non ne poteva più di quel caso. La accompagnai all'aeroporto e, benché ci rendessimo conto che stava diventando un'ossessione, parlammo delle indagini per tutto il tragitto.

Gli avvenimenti della notte precedente avevano cambiato tutto. Avevamo individuato i presunti assassini, ma questi erano stati assassinati a loro volta: la vicenda si era ulteriormente intricata. A quel punto poteva succedere qualsiasi cosa. Se non erano necessariamente intelligenti, non si poteva dire che i colpevoli non fossero fantasiosi.

«E adesso che cosa farai, Alex?» mi chiese Jamilla mentre entravamo nel parcheggio dell'aeroporto.

Risi. «Già. Che cosa faccio?»

«Dai, hai capito benissimo.»

«Penso che resterò qui ancora un giorno o due per vedere se posso dare una mano. Tutti quelli che si trovavano nella casa e che non sono riusciti a scappare sono in stato di fermo e vanno interrogati. Un lavoraccio. Qualcuno deve pur sapere qualcosa.»

«Ammesso che si riesca a farli parlare. Credi che la polizia di New Orleans adesso collaborerà? Perché finora se n'è ben guardata.»

Sorrisi. «Lo sai anche tu che gli agenti della polizia metropolitana a volte sono testardi, ma otterremo quello che ci serve. Al massimo ci vorrà un po' più di tempo. Credo che sia anche per questo che Kyle mi ha chiesto di restare.»

Nel sentir nominare Kyle, Jamilla si rabbuiò. Ma forse le dispiaceva partire. «Devo tornare a casa, però non ho intenzione di arrendermi. Il mio amico Tim dell'Examiner sta scrivendo un altro articolo sugli omicidi in California. In fondo è partito tutto da là. Pensaci.»

«Undici anni fa, se non di più», dissi. «Ma chi erano i primi assassini? Daniel Erickson e Charles Defoe? Qualche altro membro della setta? Esiste una setta?»

Jamilla allargò le braccia. «A questo punto non ne ho la più pallida idea. Ho l'elettroencefalogramma piatto. Adesso salgo in aereo e dormo finché non atterriamo.»

Facemmo ancora qualche commento sulla stranezza di quella vicenda, poi le chiesi di Tim. «È soltanto un amico», rispose.

Ci stringemmo la mano sul marciapiede davanti alle partenze dell'American Airlines. Jamilla si avvicinò e mi diede un bacio su una guancia.

Le misi una mano dietro la nuca e la abbracciai per pochi secondi. Ci conoscevamo da poco, ma ne avevamo passate di tutti i colori insieme. Avevamo persino rischiato la vita.

«Alex, è stato un onore conoscerti», disse staccandosi da me. «Grazie delle ciambelle e di tutto.»

«Fatti viva», replicai. «Promesso?»

«Promesso. Ti chiamerò. Contaci.»

Poi l'ispettore Jamilla Hughes si voltò ed entrò nel terminal affollato del New Orleans International Airport. Sapevo che mi sarebbe mancata. La consideravo già un'amica.

La guardai allontanarsi, poi tornai negli uffici dell'FBI di New Orleans e mi rituffai nel lavoro, rivedendo con Kyle tutto quello che avevamo fatto sino ad allora, e poi ripassandolo di nuovo per essere proprio sicuri che fosse davvero il casino che sembrava. Insieme giungemmo alla conclusione che non avevamo neppure una teoria plausibile sulla fine di Daniel e Charles. Brancolavamo nel buio. Nessuno dei presenti alla serata parlava. Forse nessuno aveva visto niente.

«Chiunque sia stato a ucciderli, sta cercando di dimostrarci la sua superiorità. Nei confronti dei due maghi e nei nostri. Dal punto di vista fisico e mentale. E anche della spietatezza», dissi. Ma non ne ero del tutto convinto, stavo semplicemente riflettendo ad alta voce.

«Secondo me, non è un caso che la faccenda sembri un po' un gioco di prestigio», mi fece notare Kyle. «Non pare anche a te, Alex, che ci possa essere un nesso con la magia?»

«Sì, ma non si è trattato di un trucco. Daniel e Charles sono morti, e non soltanto loro. In tutti questi anni ci sono state un sacco di vittime.»

«Siamo a un'impasse. È questo che stai dicendo?»

«Sì. E non mi piace per niente», risposi.

76

Quella sera lavorai fino a tardi nell'ufficio dell'FBI. Tanto per cambiare. Verso le nove cominciai a sentirmi solo, teso, agitato. Telefonai a casa, ma non c'era nessuno. Mi preoccupai un po', finché non mi ricordai che era il compleanno di mia zia Tia e che Nana aveva organizzato una festa nella sua nuova casa di Chapel Gate, a nord di Baltimora.

Mi ero dimenticato di comprare un regalo per Tia. Maledetti compleanni. Anzi, maledetto me. Benché mi fossi trasferito a Washington da bambino, mia zia non aveva mai dimenticato il mio compleanno. Mai. Per l'ultimo mi aveva regalato l'orologio che avevo indosso in quel momento. Telefonai nel Maryland e parlai con quasi tutta la famiglia. Mi dissero che mi stavo perdendo un'ottima torta alla cannella con le noci e mi chiesero dov'ero e quando tornavo.

Non ero in grado di dare una risposta soddisfacente. «Non appena posso. Mi mancate tutti. Non sapete quanto mi dispiace non essere lì con voi.»

Decisi che prima di rientrare al Dauphine dovevo passare a casa dei maghi. Dovevo? Sì, era un mio bisogno. Dovevo farlo. Perché sono un tipo eccessivamente scrupoloso. C'erano due poliziotti di guardia alla porta, con l'aria annoiata e inutile: di sicuro loro non erano eccessivamente scrupolosi.

Mostrai il tesserino e mi lasciarono entrare. «Nessun problema, detective Cross.»

Non avrei saputo spiegare perché, ma avevo la sensazione che ci fosse sfuggito qualcosa in quella casa. La Scientifica ci aveva lavorato per ore, e io pure, senza trovare nulla di concreto. Però non mi piaceva essere di nuovo lì, nel dominio.

Attraversai l'atrio e il soggiorno dall'arredamento barocco, ascoltando il rumore dei miei passi che riecheggiava nelle stanze vuote e continuando a chiedermi: Che cosa ci è sfuggito? Che cosa mi è sfuggito?

La camera da letto principale era al piano di sopra. Non era cambiato nulla dall'ultima volta. Cosa diavolo ci ero tornato a fare? La grande stanza era piena di quadri moderni, alcuni appesi, altri semplicemente appoggiati alle pareti. I due illusionisti dormivano in un letto, non nelle bare che avevamo trovato nei sotterranei della villa.

Mentre frugavo ancora una volta nell'armadio, mi imbattei in qualcosa che prima non avevo visto. Ero certo che non ci fossero, quando avevo perquisito la stanza l'ultima volta: tra le scarpe c'erano due bamboline in miniatura fatte a immagine e somiglianza di Daniel e Charles.

Erano piene di tagli sulla gola, sul petto e sul viso. Uguali a quelli che avevamo trovato sui due maghi uccisi.

Da dove erano spuntati quei due macabri pupazzi? Che cosa volevano dire? Che cosa stava succedendo a New Orleans? Chi si era introdotto nella casa dopo che avevamo messo i sigilli? Fui tentato di chiamare Kyle, ma lasciai perdere, non so nemmeno io perché.

Avrei preferito non tornare nelle gallerie sotterranee da solo, e tantomeno di notte, ma già che ero lì mi parve meglio dare un'altra occhiata. In fondo c'erano due poliziotti di guardia alla porta, no?

Che cosa ci era sfuggito?

Un eccidio di inaudita violenza che andava avanti da almeno undici anni.

I due principali sospetti erano stati ammazzati.

E qualcuno aveva messo nella loro camera due bambole a loro immagine e somiglianza.

Scesi nel seminterrato e da lì nelle gallerie che si diramavano in varie direzioni sotto la casa. New Orleans si trova circa due metri e mezzo sotto il livello del mare e probabilmente la cantina e le gallerie erano sempre umide. Le pareti trasudavano.

Sentii raspare e mi fermai. C'era qualcosa o qualcuno nel sotterraneo. Estrassi la mia Glock dalla fondina da spalla e tesi le orecchie. Niente. Poi lo sentii di nuovo.

Topi, pensai. Probabilmente non è nulla di strano. Anzi, quasi sicuramente.

Però dovevo controllare. Il mio problema era quello, no? Dovevo andare a vedere, dovevo indagare, non potevo girarmi e andarmene. Che cosa stavo cercando di dimostrare a me stesso? Che non avevo paura di niente? Che non ero come mio padre, il quale aveva abbandonato tutto e tutti nella vita, compresi i suoi figli e se stesso?

Continuai ad avanzare lentamente, senza far rumore, tendendo le orecchie.

Udii un gocciolio proveniente dalle gallerie buie.

Con il mio vecchio Zippo accesi alcune delle torce appese alle pareti del tunnel. Avevo un sacco di brutti pensieri in testa: vedevo i cadaveri sbranati, immaginavo la scena dell'aggressione a Daniel e Charles, ripensavo ai morsi che mi avevano dato a Charlotte. Adesso sei uno di noi.

La rabbia, la follia di quegli omicidi si era manifestata in tante città.

Da dove scaturiva?

E dove si trovavano gli assassini in quel momento?

Non li sentii arrivare, non vidi muovere nulla.

Fui colpito due volte. I miei aggressori uscirono velocissimi dal buio. Uno mi si avventò alla testa e al collo, l'altro mi afferrò per le ginocchia. Fu un lavoro di squadra, compiuto con grande efficienza.

Caddi a terra rimanendo senza fiato, colpii quello che mi aveva placcato afferrandomi per le gambe e sentii uno schianto come di ossa che si spezzano, seguito da un grido. Lo sconosciuto mi lasciò andare.

Mi alzai, ma avevo il secondo aggressore sulla schiena. E sentii che mi mordeva! Gesù, no!

Imprecai e lo sbattei contro il muro una volta, poi un'altra. Chi diavolo erano quei due pazzi scatenati? Chi era la sanguisuga che avevo sulle spalle?

Finalmente il bastardo mi mollò. Mi girai di scatto e gli sferrai un colpo alla testa con il calcio della pistola, quindi lo colpii di nuovo con un gancio sinistro. Si afflosciò come un sacco.

Ansimavo, ma non avevo nessuna intenzione di mollare. I due erano quasi immobili. Li tenni sotto tiro e intanto accesi un'altra candela, pensando che la luce aiuta sempre.

Vidi un ragazzo e una ragazza di sedici o diciassette anni al massimo, con occhi che sembravano buchi neri. Il ragazzo sarà stato almeno un metro e ottanta, forse più.

Aveva una maglietta bianca sbrindellata e un paio di jeans neri larghi e malconci.

La ragazza era circa uno e sessanta di statura, aveva i capelli neri unti, con alcune ciocche rosse, e i fianchi larghi; non soltanto quelli, per la verità.

Mi toccai il collo e mi accorsi con una certa sorpresa che non avevo ferite.

«Siete in arresto, maledetti succhiasangue», gridai.

77

Vampiri? Assassini? Killer?

Che cos'erano quelle due creature perverse?

Si chiamavano Anne Elo e John Masterson, detto «Jack», e fino a circa sei mesi prima avevano frequentato una scuola cattolica a Baton Rouge. Erano scappati di casa. Avevano diciassette anni. Ragazzini.

Quella notte passai tre ore a cercare di interrogarli e altre quattro la mattina seguente, ma la Elo e Masterson non volevano parlare né con me né con nessun altro. Si rifiutarono di spiegare che cosa facevano dentro la villa del Garden District e perché mi avevano aggredito, o se erano stati loro a mettere le due sinistre bamboline nell'armadio dei maghi morti.

Si ostinavano a guardare con aria torva oltre il tavolo di legno della saletta per gli interrogatori. I genitori furono avvertiti e invitati a presentarsi, ma i due ragazzi non vollero parlare neppure con loro. A un certo punto, Anne Elo disse al padre: «Mi fai schifo». Mi chiesi in che modo il culto dei vampiri soddisfacesse i suoi bisogni, la sua terribile ira repressa.

Nel frattempo stavamo interrogando anche molti partecipanti al ballo in maschera. La caratteristica comune a tutti era che facevano lavori normalissimi a New Orleans: erano baristi e cameriere, concierge di alberghi, programmatori, attori, alcuni addirittura insegnanti. La maggior parte, nel timore che le loro frequentazioni poco ortodosse venissero a conoscenza di colleghi e datori di lavoro, finì per parlare. Purtroppo nessuno ci disse nulla di eclatante su Daniel e Charles o su chi li aveva uccisi.

Fu una nottata molto movimentata alla stazione di polizia. Più di venti tra detective della Omicidi e agenti dell'FBI erano impegnati negli interrogatori. Ci scambiammo appunti e dati biografici dei sospetti dopo aver evidenziato le incoerenze e ci accanimmo contro coloro che mentivano in maniera più evidente. Stilammo anche un elenco dei testimoni che avevano l'aria di poter cedere più facilmente se sottoposti a pressione e li facemmo interrogare da più persone: li mandavamo in cella, li richiamavamo senza dar loro il tempo di riposarsi e ricominciavamo daccapo.

«Basterebbe avere qualche bel tubo di gomma», disse uno dei detective locali mentre aspettavamo che Anne Elo venisse tirata fuori dalla cella per la sesta volta di seguito. Si chiamava Mitchell Sams, era un nero sulla cinquantina, obeso, tosto e cinico, molto in gamba.

Quando Anne Elo si presentò nella saletta, sembrava una sonnambula, uno zombie: aveva due profonde occhiaie scure e le labbra screpolate e incrostate di sangue.

Sams attaccò subito. «Buongiorno, gioia: che piacere rivederti! Bel colorito, davvero. Sei un po' sbattuta, o sbaglio? Ma dire sbattuta è poco. Lo sai che parecchi dei tuoi amici, compreso quel miserabile del tuo fidanzato, sono già crollati?»

La ragazza rivolse lo sguardo vacuo verso il muro di mattoni. «Guardate che io sono una che se ne sbatte di tutto», disse.

Decisi di provare una tattica che mi era venuta in mente un paio d'ore prima e che avevo già sperimentato con alcuni altri. «Sappiamo chi è il nuovo Sire», le comunicai. «È tornato in California. Non è qui. Non può né aiutarti né farti del male.»

La ragazza rimase impassibile, ma incrociò le braccia e s'ingobbì leggermente. Le avevano ricominciato a sanguinare le labbra, forse perché se le era morsicate. «Me ne sbatto.»

In quel momento un detective della polizia di New Orleans si precipitò nella stanza. Aveva gli occhi cisposi, due aloni bagnati sotto le ascelle e la barba lunga: insomma, aveva l'aria esausta. Come lo capivo...

«C'è stato un altro omicidio», disse a Sams. «Un altro cadavere appeso per i piedi.»

Anne Elo batté le mani lentamente, a tempo. «Bene», disse.

78

Mi recai sulla scena del delitto da solo, in preda a una sensazione sempre più intensa di straniamento e irrealtà. Gli ingranaggi del mio cervello giravano lenti e metodici. Che cosa dovevamo fare, adesso? Non ne avevo la minima idea. Maledizione, ero sfinito.

La casa era una dépendance di una delle dimore storiche del Garden District, una ex rimessa per le carrozze con un balcone al primo piano che sarebbe stata ideale per un bed and breakfast, circondata da magnolie e banani e da una delle molte elaborate recinzioni in ferro battuto del French Quarter.

Sul posto era già accorsa circa la metà del dipartimento di polizia metropolitana, oltre a un paio di ambulanze con la luce lampeggiante sul tetto. E stavano arrivando anche i giornalisti del turno di notte.

Il detective Sams, giunto sul posto un paio di minuti prima di me, mi venne incontro nel corridoio del primo piano, davanti alla camera da letto dove era avvenuto l'omicidio. In quella casa tutto era rifinito con cura, dai soffitti al corrimano delle scale, dalle modanature lungo le pareti alle porte. Chi aveva arredato quella casa aveva gusto e, a quanto pareva, una gran passione per il Mardi Gras: ai muri erano appese moltissime piume e perle, maschere colorate e costumi carnevaleschi.

«Brutta roba, ancora peggio di quanto pensassimo», mi disse. «La vittima è una collega, Maureen Cooke. Lavorava alla Buoncostume, ma stava dando una mano nelle indagini su Daniel e Charles, come quasi tutto il resto del dipartimento.»

Sams mi accompagnò nella camera da letto della detective: era piccola ma graziosa, con il soffitto azzurro cielo. Una volta qualcuno mi aveva detto che quel colore serviva per tenere lontano gli insetti.

Maureen Cooke era rossa di capelli, alta e magra, sulla trentina. L'avevano appesa per i piedi al lampadario. Aveva lo smalto rosso alle unghie ed era completamente nuda, a parte un sottile braccialetto d'argento al polso.

C'erano strisce insanguinate su tutto il corpo, ma nessuna pozza per terra o da nessun'altra parte.

Mi avvicinai. «Che tristezza!» mormorai. Una vita spezzata, così, senza motivo. Un'altra collega morta.

Guardai Mitchell Sams, che aspettava che dicessi qualcosa.

«Non è detto che gli assassini siano gli stessi», dissi scuotendo la testa. «Le morsicature mi sembrano diverse, più superficiali. È cambiato qualcosa.»

Feci un passo indietro e osservai la camera di Maureen Cooke. C'erano alcune foto famose: le prostitute di Storyville immortalate da E.J. Bellocq. Strano, ma non poi così tanto, per una detective della Buoncostume. Due ventagli orientali incorniciati sopra il letto, che era sfatto. O ci aveva dormito quella notte, o non lo aveva rifatto il giorno precedente.

Il mio cellulare squillò. Premetti un pulsante con il pollice, confuso, stordito. Avevo assolutamente bisogno di dormire.

«L'hai già trovata, dottor Cross? Che cosa ne pensi? Dimmi qual è secondo te il metodo migliore per fermare questi assassini. A questo punto devi esserci arrivato.»

Il Mastermind. Come faceva a saperlo?

Mi ritrovai a urlare nel telefonino: «Ti sbatterò dentro, stronzo! Ecco a che punto sono arrivato!»

Riattaccai e spensi il telefono. Mi guardai intorno. Kyle Craig era sulla soglia e mi osservava.

«Tutto a posto, Alex?» mormorò.

79

Arrivai in albergo alle dieci e mezzo del mattino con la tachicardia, troppo stanco e troppo teso per riuscire a dormire, e trovai un messaggio per me: l'ispettore Hughes aveva telefonato da San Francisco.

Mi stesi sul letto e richiamai Jamilla a casa. Chiusi gli occhi. Avevo voglia di sentire una voce amica, e la sua più che mai.

«Forse ho una buona notizia per te», mi annunciò. «Nel tempo libero - bella questa, eh? - ho dato un'occhiata a Santa Cruz. Perché proprio Santa Cruz, mi chiederai. Perché sono arrivate parecchie denunce di scomparsa di persone mai più ritrovate. Troppe, Alex. Ho fatto un po' di conti e ho deciso che c'è sotto qualcosa. Qualcosa che quadra con il resto della storia.»

«Santa Cruz era sulla nostra lista», osservai, cercando di far mente locale. Non ricordavo dove si trovava esattamente.

«Dalla voce sembri stanco. Stai bene?» mi chiese.

«Sono rientrato in albergo pochi minuti fa. E stata una nottataccia.»

«Allora fatti una bella dormita. Tutto questo può aspettare. Buonanotte.»

«No, tanto non riesco a dormire. Dimmi di Santa Cruz. Sono curioso.»

«Allora, ho parlato con il tenente Conover del dipartimento di Santa Cruz. È stata una conversazione molto interessante, ma anche preoccupante. Sanno benissimo che le scomparse sono troppe, com'è ovvio, e da un anno a questa parte hanno notato che svaniscono nel nulla anche animali domestici e bestiame vario. Nella zona ci sono un sacco di ranch. Naturalmente nessuno crede ai vampiri, ma Santa Cruz ha una certa fama: i giovani la chiamano la capitale dei vampiri degli Stati Uniti.»

«Devo vedere i dati che hai raccolto finora», le dissi. «Adesso cerco di dormire un po', ma voglio leggere tutto quello che ti mandano da Santa Cruz. Puoi inoltrarmelo?»

«Il mio amico Tim dell'Examiner mi ha promesso di farmi avere tutto. Oggi è il mio giorno libero: magari vado a fare un giro da quelle parti.»

Sgranai gli occhi. «Non da sola, mi raccomando. Portati Tim. Stai attenta.» Le raccontai della fine che aveva fatto Maureen Cooke a New Orleans. «Non andarci da sola. Non sappiamo ancora con chi abbiamo a che fare.»

«Mi porterò qualcuno», promise, ma non sapevo se crederci o no.

«Sii prudente, Jamilla. Ho dei brutti presentimenti.»

«Sei soltanto stanco. Dormi. Sono maggiorenne e vaccinata, sai.»

Parlammo ancora un po', ma avevo la sensazione che Jamilla non volesse darmi retta: come la maggior parte dei bravi detective, era testarda.

Chiusi di nuovo gli occhi, mi assopii e subito dopo caddi in un sonno profondo.

80

Jamilla ripensò a una frase di un romanzo di Shirley Jackson che le piaceva molto, La casa degli invasati, da cui era stato tratto un film piuttosto deludente. «Qualunque cosa vagasse sin lì lo faceva in solitudine», aveva scritto la Jackson. Era più o meno la sensazione che aveva in quell'indagine. E anche nella vita in generale, negli ultimi tempi: le sembrava sempre di vagare, e in solitudine.

Salì sulla sua fida Saab impolverata e si mise in viaggio per Santa Cruz, stringendo il volante con un po' troppa forza. Le formicolavano le dita e il torcicollo le dava sempre più fastidio. Non riusciva a rassegnarsi all'idea che quegli efferati assassini fossero ancora a piede libero e potessero continuare a uccidere finché qualcuno non li fermava. Forse toccava a lei farlo.

Aveva cercato di convincere il suo attuale fidanzato ad accompagnarla, ma Tim stava seguendo una manifestazione di ecologisti in bicicletta per conto dell'Examiner. A parte il fatto che non era sicura di voler passare tutta la giornata con lui. Tim era affettuoso, ma non era... Be', non era Alex Cross. Così si accingeva a uscire dalla Route 1 ed entrare a Santa Cruz da sola. Da sola. Come al solito, maledizione.

Per farsi coraggio pensò che Tim sapeva dov'era e che, oltre a essere maggiorenne e vaccinata, era anche armata fino ai denti. Brr, denti, pensò, rabbrividendo all'idea dei canini dei vampiri e della fine atroce fatta dalle loro vittime.

Santa Cruz le era sempre piaciuta, però. Nell'89 era stata l'epicentro del terremoto di Loma Prieta - 6,9 scala Richter, sessantatré vittime - ma si era ripresa con coraggio, rifiutando di arrendersi. La maggior parte delle costruzioni era nuova, antisismica, di non più di due piani. Santa Cruz era pura California.

Passando, vide un surfista alto e biondo scendere da una Volkswagen con una tavola legata sul tetto. Stava mangiando un trancio di pizza e si dirigeva verso la libreria. Pura California.

C'era gente di tutti i tipi: ex hippy, giovani imprenditori del settore high-tech, turisti, surfisti, studenti. Un'atmosfera che a Jamilla piaceva molto. Dove si nascondevano i maledetti vampiri? C'erano veramente? Sapevano che lei era a Santa Cruz, pronta a stanarli? Si confondevano tra quella folla immensa?

La sua prima meta era il dipartimento di polizia. Il tenente Harry Conover rimase di sasso nel vederla arrivare: probabilmente per lui l'idea che un detective si prendesse la briga di fare tanta strada per lavoro era inconcepibile.

«Ti ho detto che ti avrei passato tutto quello che trovavo sui dark e sui presunti vampiri. Non ti fidavi?» le chiese scuotendo la testa dai ricci biondi piuttosto lunghi e alzando al cielo gli occhi castani. Conover era alto, atletico, sui trentacinque. Più o meno come lei. Jamilla capì subito che era un donnaiolo e che si credeva bellissimo.

«Certo. Ma avevo un giorno libero e, siccome questo caso non mi lascia dormire, ho pensato di venire a dare un'occhiata di persona. Sempre meglio della posta elettronica, no, Harry? Che cos'hai per me?»

Intuì che stava per dirle di lasciar perdere e godersi la giornata di vacanza. Se lo era sentito dire altre volte, e forse non era neanche sbagliato. Ma in quel momento, con quel caso per le mani, non aveva nessuna intenzione di seguire il suo consiglio.

«A quanto sta scritto su certi rapporti, sembra che alcuni dei presunti vampiri di questa zona vivano in una specie di comune. Sai mica dove?» domandò.

Conover annuì, fingendosi interessato. In realtà stava cercando di capire che tipo era. E le guardava le tette. «La notizia non è mai stata confermata», rispose. «Tanti giovani convivono, naturalmente, ma non so di nessuna comune. Ci sono un paio di locali molto chiacchierati, tipo il Catalyst e il Palookaville. E tante case affittate a studenti in fondo a Pacific Street.»

Jamilla non si arrese. «Supposto che siano in gran numero, dove pensi che potrebbero stare?»

Conover sospirò e non nascose un certo fastidio per la sua insistenza. Era chiaro che non era il tipo che si sbatte più di tanto per il lavoro. Se fosse stato un suo subordinato, Jamilla l'avrebbe fatto trasferire subito e Conover l'avrebbe accusata di essere prevenuta nei confronti degli uomini. Non era vero. Quello che detestava di lui era la pigrizia, la mediocrità. Dal suo lavoro dipendeva la vita di molte persone. Non se ne rendeva conto?

«Forse nell'entroterra. O magari a nord, verso Boulder Creek», disse finalmente Conover in tono strascicato. «Non saprei proprio.»

Me l'aspettavo.

«Dove cominceresti a cercare?» insistette Jamilla. Se non fossi uno sbirro da tre soldi.

«Io non farei grandi ricerche su una cosa come questa. È vero che parecchia gente è scomparsa inspiegabilmente, ma succede un po' in tutta la California. I giovani d'oggi sono più ribelli di quanto eravamo noi alla loro età. Secondo me non succede nulla di particolarmente grave a Santa Cruz, e tutte quelle storie sulla capitale dei vampiri degli Stati Uniti non me le bevo proprio. Non è vero. Dammi retta. Non ci sono vampiri a Santa Cruz.»

Jamilla annuì, fingendo di essere d'accordo, e disse: «Penso che comincerò dall'entroterra».

Conover le fece il saluto militare. «Se finisci di inseguire fantasmi prima delle sette, chiamami. Potremmo andare a bere qualcosa insieme. Hai detto che è il tuo giorno libero, giusto?»

Jamilla fece di sì con la testa. «Certo. Se finisco prima delle sette. Grazie della collaborazione.» Idiota.

81

Adesso era veramente incazzata. Chi non lo sarebbe stato? Era lì a farsi il mazzo in una città che non rientrava nemmeno nella sua giurisdizione. Parcheggiò la Saab in una stradina del centro, vicino al Metro Center, di fronte all'Asti Bar. Guidando lo aveva perso di vista, ma nelle vicinanze c'era il San Lorenzo River. Almeno a giudicare dall'odore.

Non appena scesa dalla macchina, vide arrivare due ragazzi che le andarono incontro a passo svelto e la affiancarono, uno da una parte e l'altro dall'altra.

Jamilla trasalì. Sembravano comparsi dal nulla. Biondi, con la coda di cavallo, notò. Studenti? Surfisti? Speriamo bene.

Erano muscolosi, ma non palestrati. Robusti di natura, si sarebbe detto. Le vennero in mente statue di Eros, Ermes, Apollo. Corpi dalla muscolatura ben definita, virili, statuari.

«Avete bisogno di qualcosa? State cercando la spiaggia?» disse.

Il più alto dei due rispose in tono estremamente sicuro di sé, per non dire arrogante: «No, affatto. Non siamo surfisti. A parte il fatto che siamo di qui. E lei, piuttosto?»

Avevano entrambi gli occhi di un azzurro molto intenso, vivissimo. Uno dimostrava al massimo sedici anni. Si muovevano lentamente, con gesti deliberati che non le piacquero per niente. Per la strada non c'era nessuno che potesse eventualmente intervenire.

«Sapreste dirmi dov'è la spiaggia?»

I due le si erano avvicinati ancora di più. Troppo: così non poteva né muoversi né estrarre la pistola senza urtarli. Portavano jeans e maglietta neri e scarpe da montagna.

«Vi dispiace scostarvi un po'?» disse alla fine. «Scostatevi, capito?»

Il più grande dei due sorrise. L'incavo tra il labbro superiore e il naso era una fossetta tonda, molto sexy. «Mi chiamo William. E questo è mio fratello Michael. Ci stava per caso cercando, ispettore Hughes?»

Oh, no! Gesù! Jamilla cercò di estrarre la pistola dalla fondina che portava sotto la giacca, ma i due la afferrarono e gliela portarono via come se fosse una bambina. La velocità e la forza con cui agirono la lasciarono esterrefatta. La strattonarono e le misero le manette. Dove se le erano procurate? A New Orleans? Le avevano prese alla detective assassinata?

Parlò di nuovo il più grande. «Non gridare o ti tiro il collo», sussurrò come se niente fosse. Ti tiro il collo.

L'altro aprì la bocca per dire qualcosa, proprio davanti a lei: aveva due lunghi canini appuntiti. «Chi va a caccia di vampiri, dai vampiri vien cacciato.»

82

La imbavagliarono e la caricarono di peso sul sedile posteriore di un pick-up. Misero in moto e partirono con uno scossone.

Jamilla cercò di fare attenzione a tutti i particolari del viaggio. Contò i secondi e poi i minuti, riconobbe dalle frenate e dalle partenze ai semafori le strade che percorsero in città e poi, quando presero velocità, immaginò che avessero imboccato la Route 1.

Poi affrontarono un tratto molto accidentato, forse su una strada sterrata. Calcolò che in tutto il viaggio fosse durato una quarantina di minuti.

La portarono dentro un edificio, una specie di ranch o di fattoria. Sentì delle risate. Ridevano di lei? Avevano i canini affilati. La depositarono su una branda in una stanzetta e le tolsero il bavaglio.

«Sei venuta a cercare il Sire», le bisbigliò quello che aveva detto di chiamarsi William, avvicinandosi alla sua faccia. «Hai commesso un gravissimo errore. Uno sbaglio che pagherai con la vita.»

Fece un sorriso raccapricciante e Jamilla ebbe la sensazione che la stesse prendendo in giro e, al tempo stesso, che cercasse di sedurla. William le sfiorò la guancia con le dita lunghe e sottili. Le accarezzò delicatamente la gola e la guardò negli occhi.

Inorridita, Jamilla avrebbe voluto scappare, ma non poteva: c'erano dieci o dodici vampiri che la fissavano bramosi di sangue.

«Non so niente di nessun Sire», disse. «Chi sarebbe questo Sire? Spiegatemi.»

I fratelli si guardarono e si scambiarono un sorriso malizioso. Qualcun altro rise sguaiatamente.

«Il Sire è colui che comanda», rispose William. Calmissimo, estremamente sicuro di sé.

«Su chi comanda?» chiese.

«Su chiunque sia disposto a seguirlo», continuò William, e di nuovo rise, apparentemente molto divertito. «Sui vampiri. Su altre persone come Michael e me. Su moltissima gente, in moltissime città. Non hai idea di quante. Il Sire detta chiare regole su cosa pensare, cosa fare e simili. Il Sire non risponde a nessuna autorità. Il Sire è un essere superiore. Cominci a capire? Ti piacerebbe conoscerlo?»

«È qui?» domandò lei. «Dove siamo?»

William continuò a guardarla dall'alto in basso. Era un ragazzo pieno di fascino. Di un fascino perverso. Si chinò e le disse: «Sei tu la detective. Il Sire è qui? Dove ti trovi? Dimmelo tu».

Jamilla aveva voglia di vomitare, si sentiva mancare l'aria. «Perché siamo qui?» chiese, per continuare a farli parlare e tenerli occupati più a lungo che poteva.

William alzò le spalle. «Oh, siamo sempre stati qui. Questa una volta era una comune di hippy che sognavano la California, piena di sostanze psicotrope e di musica di Joni Mitchell. I nostri genitori erano hippy. Essendo isolati dal resto del mondo, dipendevamo gli uni dagli altri. Tra mio fratello e me c'è un legame fortissimo. Ma non contiamo nulla. Siamo qui per servire il Sire.»

«Il Sire viveva nella comune?»

Il ragazzo scosse la testa e la guardò serio. «Qui ci sono sempre stati vampiri. Vivevano per conto loro e lasciavano in pace gli altri, a meno che qualcuno non li andasse a cercare.»

«Quanti ce ne sono?»

William guardò Michael, scrollò le spalle robuste e tutti e due risero. «Milioni! Siamo ovunque!»

Tutt'a un tratto, William emise una specie di ruggito e le saltò alla gola. Jamilla non poté fare a meno di lanciare un urlo.

Il vampiro si fermò a pochi centimetri e ruggì di nuovo, poi imitò un gatto che fa le fusa e con la lingua le sfiorò la guancia, le labbra, le palpebre. Jamilla non riusciva a credere a quello che le stava succedendo.

«Adesso ti appendiamo e beviamo il tuo sangue fino all'ultima goccia. La cosa straordinaria è che ti piacerà morire, Jamilla. Sarà l'estasi, vedrai.»

83

Tornato a Washington, mi concessi un giorno di meritato riposo. E perché no? Avevo passato pochissimo tempo con i miei figli ultimamente, e poi era sabato.

Nel pomeriggio, Damon, Jannie e io andammo alla Corcoran Gallery of Art. Le due piccole pesti all'inizio non volevano venire, ma una volta entrate nel museo rimasero affascinate e non volevano più andare via. Tipico.

Verso le quattro, quando tornammo a casa, Nana mi disse che dovevo chiamare Tim Bradley del San Francisco Examiner.

Lasciatemi in pace, pensai. Concedetemi una tregua. Adesso mi tocca pure chiamare l'amico di Jamilla?

«È urgente, ha detto», mi riferì Nana. Stava preparando due torte con le ciliegie, tanto per ricordarmi quanto si sta bene a casa.

In California era l'una. Telefonai a Tim Bradley in ufficio. Rispose al primo squillo. «Bradley.»

«Sono il detective Alex Cross.»

«Salve. Aspettavo la sua chiamata. Sono un amico di Jamilla Hughes.»

Fin lì c'ero arrivato. Lo interruppi. «Le è successo qualcosa?»

«Anche lei è preoccupato, detective? Sapeva che ieri è andata a Santa Cruz?»

«Me l'ha accennato. E andata con qualcuno? Le avevo consigliato di non andarci da sola.»

Tim rispose un po' brusco, sulle difensive. «No. Jamilla dice sempre che è maggiorenne e vaccinata. E che ha la pistola.»

Scossi la testa, corrucciato. «Allora che cosa c'è? Perché mi ha telefonato? Cos'è successo?»

«Non lo so, ma di solito Jamilla è prudente, puntuale. Invece non l'ho più sentita, benché fossimo rimasti d'accordo che mi avrebbe chiamato ieri sera. Adesso sono passate altre quattro ore da quando mi sono deciso a telefonare a lei, dottor Cross, e comincio a preoccuparmi. Probabilmente non è nulla di grave, ma ho pensato che lei fosse la persona più informata... Su questo caso.»

«Lo fa spesso?» chiesi.

«Cosa? Indagare nei giorni liberi? Sì, è da lei. Ma se Jamilla mi promette di telefonarmi, lo fa.»

Non volevo metterlo più in agitazione di quanto già non fosse, ma ero preoccupatissimo. Pensai che già due mie colleghe erano state uccise e che non avevamo ancora scoperto il colpevole. Il Mastermind sosteneva di aver ucciso Betsey Cavalierre. Poi Maureen Cooke a New Orleans... Cos'era successo all'ispettore Jamilla Hughes?

«Chiamerò la polizia di Santa Cruz. Jamilla mi ha dato un nome e un numero di telefono. Conover, se non ricordo male. Me lo sono scritto da qualche parte. Lo chiamo subito.»

«Bene. Grazie, detective. Mi terrà informato?» disse il giornalista. «Gliene sarei molto grato.»

Promisi di farlo e poi cercai di mettermi in contatto con il tenente Conover alla sede della polizia di Santa Cruz. Non era in servizio, ma insistetti e nominai Kyle Craig. Controvoglia, mi diedero il suo numero di casa.

Non appena alzarono la cornetta, sentii in sottofondo una canzone che mi parve degli U2. «Pronto? Stiamo dando una festa in piscina. Se vuoi, vieni anche tu, altrimenti richiama lunedì», disse una voce maschile. «Ciao e arnvederci.»

E buttò giù.

Rifeci il numero e dissi: «Tenente Conover, per favore, si tratta di un'emergenza. Sono il detective Alex Cross e chiamo per via dell'ispettore Jamilla Hughes del dipartimento di polizia di San Francisco».

«Oh, merda», sentii esclamare. Poi: «Sono Conover. Mi ripete il suo nome?»

Spiegai chi ero e che ruolo avevo nella vicenda il più concisamente possibile, con la netta sensazione che Conover fosse ubriaco o quasi. Era il suo giorno libero, d'accordo, ma in California non erano ancora le due del pomeriggio.

«È andata nell'entroterra in cerca di vampiri», mi disse ridendo sprezzante. «Non ci sono vampiri a Santa Cruz, detective. Dia retta a me. Sono sicuro che sta bene. A quest'ora sarà tornata a San Francisco.»

«Ci sono stati più di venti morti azzannati finora», replicai nel tentativo di far ragionare Conover, o perlomeno di attirare la sua attenzione. «Appesi per i piedi, completamente dissanguati.»

«Le ho detto tutto quello che so, detective», ribatté lui. «Immagino che dovrò mandare un'auto di pattuglia», aggiunse poi.

«Sarà meglio. Io nel frattempo chiamerò l'FBI. Che non esclude l'esistenza di vampiri, o presunti tali. Quand'è stata l'ultima volta che ha visto l'ispettore Hughes?»

Conover esitò. «Chi se lo ricorda? Vediamo, saranno passate quasi ventiquattr'ore.»

Riattaccai. Quell'uomo non mi piaceva per niente.

Poi mi sedetti a ripensare a tutto ciò che era successo dalla prima volta che avevo visto Jamilla. Quel caso mi faceva girare la testa: era così esagerato da tutti i punti di vista, così fuori dagli schemi... E la presenza del Mastermind non faceva che peggiorare le cose.

Telefonai a Kyle Craig e poi all'American Airlines, quindi a Tim Bradley per dirgli che stavo per partire per la California.

Santa Cruz.

La capitale dei vampiri.

Jamilla era nei guai. Me lo sentivo.

84

Durante il volo per la California, mi resi conto che da due giorni il Mastermind non mi assillava più. Era strano, e mi chiesi se anche lui era in viaggio. Que pasa, Mastermind? Che fosse sul mio stesso aereo per San Francisco? Mi tornò in mente una vecchia barzelletta sulla paranoia, Un uomo dice al suo psichiatra: «Tutti mi odiano». Lo psichiatra risponde: «Ma no, mica tutti la conoscono».

Ero teso come una corda di violino. A un certo punto mi alzai e andai avanti e indietro nel corridoio controllando gli altri passeggeri senza trovare neanche una faccia sia pur lontanamente nota. Il Mastermind non era a bordo. E non c'era nemmeno nessuno con i canini affilati. Stavo perdendo la testa.

Al San Francisco International Airport trovai ad aspettarmi alcuni agenti dell'FBI, che mi dissero che Kyle stava per arrivare da New Orleans. Ultimamente aveva insistito molto per convincermi a entrare nel Bureau, il che dal punto di vista economico sarebbe stato senza dubbio vantaggioso per me: gli agenti federali guadagnano molto più dei detective. Anche l'orario di solito è migliore. Mi ripromisi di parlarne con Nana e con i ragazzi non appena risolto quel caso. Speravo che non ci volesse più molto. Ma che cosa me lo faceva pensare?

Uscii dall'aeroporto in compagnia di tre agenti a bordo di un fuoristrada blu scuro. Ero seduto dietro, vicino a quello di grado più alto, che si chiamava Robert Hatfield, il quale mi aggiornò su quanto era stato scoperto fino a quel momento. «Abbiamo individuato la casa dove si trovano alcuni dei cosiddetti vampiri. È un ranch sulle alture a nord di Santa Cruz, non lontano dal mare. In questa fase, non sappiamo se l'ispettore Hughes sia prigioniera là dentro. Non è stata avvistata.»

«Che cosa c'è nella zona?» gli chiesi. Hatfield era un tipo giovanile dall'età indefinibile - poteva avere da trentacinque a cinquant'anni - ed era in forma, con i capelli a spazzola e l'aria di uno che tiene al proprio aspetto.

«Niente di speciale. Campagna. Ci sono alcuni grossi ranch, rocce, rapaci, puma...»

«Niente tigri?»

«Strano che chieda delle tigri. Una volta nel ranch che le dicevo c'erano molti animali feroci: orsi, lupi, tigri. Avevano persino un paio di elefanti. I proprietari li addestravano, perlopiù per film e spot pubblicitari. Erano hippy. Il ranch aveva la licenza del dipartimento degli Interni e aveva clienti del rango di Tippi Hedren e Siegfried e Roy.»

«Gli animali sono ancora nella tenuta?»

«Non più. I proprietari originari sono scomparsi quattro o cinque anni fa e nessuno ha comprato la terra. Sono circa una ventina di ettari, pressoché inutilizzabili, come vedrà.»

«E gli animali che fine hanno fatto?»

«Alcuni sono stati comprati da altri addestratori che forniscono animali rari agli studi cinematografici. Alcuni pare che se li sia presi Brigitte Bardot, altri lo zoo di San Diego.»

Mi misi comodo e riflettei. Non volevo crearmi eccessive speranze, ma mi chiesi se i vecchi proprietari non avessero lasciato una tigre nel ranch e mi venne in mente una possibilità, forse remota, ma piuttosto interessante. In Africa e in Asia vi era la credenza che i vampiri assumessero forma di tigre e non di pipistrello. E le tigri fanno decisamente più paura dei pipistrelli, come i cadaveri straziati che avevo visto. A parte il fatto che Santa Cruz aveva una reputazione da mantenere in quanto capitale dei vampiri.

Passammo una fattoria e poi una piccola azienda vinicola, ma, a parte questo, non c'era un granché da vedere lungo la strada. L'agente Hatfield mi spiegò che d'estate le colline prendevano un colore marrone dorato che ricordava molto il veld africano.

Cercavo di non pensare a Jamilla e a cosa poteva esserle capitato. Perché era andata da sola? Che cosa la spingeva a correre certi rischi? Le stesse motivazioni che muovevano me? Se fosse morta, non me lo sarei mai potuto perdonare.

Alla fine lasciammo la strada principale. Non vedevo né case né costruzioni di alcun genere, ma soltanto colline spoglie. Un falco si librava leggero nel cielo azzurro. Il panorama era silenzioso e sereno, molto bello.

Imboccammo uno sterrato e proseguimmo per circa un chilometro e mezzo lungo una strada sassosa e dissestata. Superammo la recinzione di un pascolo. Per un centinaio di metri la strada correva lungo una staccionata che s'interrompeva e dopo un po' ricominciava.

A un certo punto trovammo sei veicoli parcheggiati ai lati dello sterrato. Erano tutti fuoristrada.

Accanto a uno di essi c'era Kyle Craig con le mani sui fianchi, che sorrideva come se avesse un segreto straordinario da rivelarmi.

E infatti era proprio così.

85

«Secondo me, è proprio quello che cercavamo», mi disse mentre mi avvicinavo. Mi strinse la mano, come faceva sempre: era un tipo molto formale. Mi parve più calmo e controllato rispetto alla volta precedente. «Vieni che ti mostro una cosa.»

Lo seguii lungo la staccionata fino a un cancello rotto, dove mi indicò la figura sbiadita di una tigre, marchiata a fuoco nel legno. Era quasi invisibile, ma era una tigre. Forse avevamo trovato la tana.

«Nella casa c'è un gruppo di gente agli ordini del Sire. Anzi, del nuovo Sire. Non siamo riusciti a stabilire chi sia, ma sappiamo che il precedente era il mago Daniel Erickson. Due membri del gruppo sono appena tornati da New Orleans. Comincia a combaciare tutto.»

Lo guardai e scossi la testa. «Come hai fatto a scoprire tutte queste cose? Quando sei arrivato, Kyle?» Quante cose mi hai tenuto nascoste? E perché?

«La polizia di Santa Cruz ci ha contattato e io mi sono precipitato qui. Hanno beccato uno dei 'non-morti' mentre lasciava il ranch. È un pesce piccolo, uno che ha appena abbandonato gli studi, meno coinvolto degli altri. Ci ha raccontato tutto quello che sapeva.»

«Il Sire è là dentro?»

«Sembra di sì. Il ragazzo non l'ha mai visto, perché non fa parte della cerchia degli intimi. I due che erano a New Orleans però ci sono. Secondo lui, sono stati loro a uccidere Daniel e Charles. Dice che sono completamente matti.»

«Be', questo mi pare credibile.» Osservai il ranch più in basso, tra i rami dei pini e dei cipressi. «E Jamilla Hughes?»

Kyle distolse lo sguardo. «Abbiamo trovato la sua auto in città, Alex. Ma di lei nessuna traccia. Neanche il ragazzo che abbiamo interrogato sapeva niente di lei. Però ha detto che ieri notte si sono sentiti dei rumori strani. Ha pensato che qualcuno si fosse intrufolato nella proprietà, che fosse la polizia, ma poi è tornata la calma, secondo lui. Non abbiamo prove che Jamilla sia qui.»

«Posso parlargli?»

Kyle guardò dall'altra parte, come se non volesse rispondermi. «La polizia di Santa Cruz lo ha portato via. Per vederlo dovresti tornare in città. L'ho interrogato io. Pensa che gli ho fatto paura!»

Kyle si comportava in modo strano, ma sapevo che capiva la mente dei criminali meglio di tutti gli altri agenti dell'FBI o poliziotti con cui avevo lavorato nella mia carriera. I suoi sottoposti erano convinti che prima o poi sarebbe arrivato ai vertici del Bureau. Io però mi chiedevo se fosse disposto ad abbandonare il lavoro sul campo.