William le diede altri venti dollari. «Sedicimila piedi», ribadì. «Credimi, l'abbiamo già fatto.»
«Okay. Tanto le dita e le orecchie si congelano a voi», replicò Callie. «Io vi ho avvertito.»
«Siamo due creature a sangue caldo, non ti preoccupare. Tu, piuttosto, quanta esperienza hai come pilota?»
La ragazza sorrise. «Be', lo vedrete da soli, no? Diciamo che non è la prima volta neanche per me.»
William controllò l'altimetro per essere sicuro che non cercasse di fregarli. A sedicimila piedi di quota, l'Otter smise di salire. C'era poco vento e la vista era incantevole. Sembrava che l'aereo volasse da solo.
«Non mi sembra una buona idea», li avvertì la ragazza. «Fa un freddo pazzesco, lì fuori.»
«Sì che è una bella idea, invece! E anche questa!» gridò William.
La prese lì dov'era. Le morse il collo con forza, piantandole i denti nella gola e cominciò a succhiare, a bere sangue a sedicimila piedi di quota.
Era l'altezza giusta per l'erotismo più sadico. Callie gridò e scalciò, cercando di divincolarsi, ma invano. C'erano spruzzi di sangue dappertutto nell'abitacolo. William si sentiva potentissimo. La ragazza lottò con tanta furia che, nel cercare di alzarsi dal seggiolino del pilota, si lussò l'anca.
Batté le ginocchia contro il pannello di controllo poi, di colpo, si fermò. I suoi occhi castani si annebbiarono e quindi si spensero. Si era arresa. Le bevvero avidamente il sangue, tutti e due. Furono rapidi ed efficienti, ma non riuscirono a svuotarla completamente, lì dov'erano.
Non appena William aprì il portellone, fu investito da una folata d'aria gelida. «Dai!» gridò. E i due fratelli si lanciarono, in caduta libera.
Non era giusto parlare di caduta, la sensazione era piuttosto quella di volare.
Quando erano in orizzontale, galleggiavano a cento chilometri all'ora, ma non appena si mettevano in verticale precipitavano a centosessanta o forse addirittura a duecento.
Era un'emozione incredibile, assolutamente straordinaria. I loro corpi vibravano come diapason, rinvigoriti dal sangue fresco di Callie. Era un'ebbrezza ultraterrena.
A quella velocità, il minimo movimento di una gamba verso sinistra spostava violentemente tutto il corpo a destra.
Si misero in verticale e ci restarono quasi fino alla fine.
Aspettarono fino all'ultimo prima di tirare la cordicella. Era la cosa più divertente, rischiare la morte.
Il vento li spingeva e li tirava di qua e di là.
Era l'unico suono.
L'estasi.
Non avevano ancora aperto il paracadute. Fino a quando avrebbero potuto aspettare? Quanto ancora?
L'unico difetto, l'unica cosa che mancava per raggiungere la perfezione, per William, era l'assenza di dolore. Il dolore rendeva migliore qualsiasi esperienza. Era il segreto del piacere, che pochi conoscevano. Lui e Michael però lo sapevano benissimo.
Tirarono la cordicella proprio all'ultimo momento. I paracadute si aprirono con uno strattone. La terra era ormai vicinissima.
Atterrarono rotolando e si fermarono appena in tempo per vedere il Twin Otter che si schiantava e prendeva fuoco a uno o due chilometri di distanza, nel deserto.
«Nessuna prova contro di noi», disse William soddisfatto, gli occhi pieni di piacere ed eccitazione. «È stato magnifico.»
31
Marea rossa. Era così che William chiamava la loro spedizione omicida. Adesso che lui e Michael erano partiti, niente li avrebbe potuti fermare finché non avessero portato a termine la missione. Niente: né la pioggia, né la neve, né l'FBI.
Il furgone della Croce Rossa percorreva lentamente quella che un tempo era la strada principale di Las Vegas, Fremont Street. Passava inosservato tra le sgargianti insegne al neon, li rendeva invisibili. Come molti giovani uomini, William e Michael si sentivano invulnerabili. Nessuno li avrebbe mai presi, nessuno sarebbe riuscito a fermarli.
Osservarono tutto con attenzione: le ridicole fontane davanti ai casinò e gli hotel, la cappella per i matrimoni con gli altoparlanti che trasmettevano Love Me Tender, i pullman colorati dei turisti, come quello che avevano davanti in quel momento, dell'Associazione Conciatetti e Impermeabilizzatori Uniti.
«Questa è veramente una città da vampiri», dichiarò William. «Ne sento l'energia. Persino questi patetici vermi per strada devono sentirsi vivi, quando sono qui. E favolosa, così teatrale, scintillante, melodrammatica. Non ti piace da morire?»
Michael batté le mani. «Mi sento in paradiso. Qui possiamo fare gli schizzinosi.»
«Il piano è proprio questo», rispose il fratello. «Fare gli schizzinosi.»
A mezzanotte andarono nel Las Vegas Boulevard e si fermarono al Mirage, dove un'enorme insegna al neon pubblicizzava il DANIEL AND CHARLES MAGIC SHOW.
«Dici che è una buona idea?» domandò Michael andando verso il botteghino, dentro l'hotel. William fece finta di non averlo sentito e scelse due dei posti migliori per lo spettacolo dei prestigiatori. Avevano entrambi una tuta di pelle nera e stivali da lavoro, ma a Las Vegas si poteva andare in giro vestiti come si voleva. Si accomodarono al loro tavolo appena prima che cominciasse lo show.
Nel teatro tutto era spettacolare, esagerato. Il palco, enorme, era rivestito in velluto nero e sormontato da una struttura metallica alta dieci metri con schermi su cui venivano proiettate immagini che cambiavano continuamente. C'erano almeno cinque o sei tecnici delle luci, che davano l'idea di uno spazio grandioso.
William si accese un sigaro con la candela sul tavolo. «Caro fratello, ora comincia lo spettacolo. Ricordati cosa dicevi prima: possiamo permetterci di fare gli schizzinosi.»
L'ingresso dei due prestigiatori fu prevedibilmente spettacolare, con Daniel e Charles che volarono letteralmente sul palco, da un'altezza di almeno quindici metri.
Poi scomparvero e il pubblico, incantato, proruppe in un applauso.
Anche i due fratelli batterono le mani. William era impressionato dalla velocità dei macchinari di scena.
Daniel e Charles riapparvero subito dopo con due elefanti, uno stallone bianco e una magnifica tigre del Bengala.
«Sono io», sussurrò William all'orecchio del fratello. «Sono io la tigre. Sono a destra di Daniel. Farebbe meglio a stare attento.»
Il sistema dolby surround trasmetteva Stairway to Heaven dei Led Zeppelin. La colonna sonora era kitsch come tutto il resto. Un potente sistema di aerazione eliminava l'odore delle bestie e dei loro escrementi diffondendo nella sala un profumo abbastanza gradevole, una via di mezzo fra la vaniglia e la mandorla.
Nel frattempo, sul palco, i due maghi discutevano.
William si chinò verso la giovane coppia seduta al tavolo alla sua sinistra. Erano due ragazzi sui venticinque anni, molto belli. Li aveva riconosciuti perché partecipavano a una trasmissione televisiva di successo. Non sapeva decidere se era più bello lui o lei: entrambi erano molto sicuri di sé e disinvolti. Si chiamavano Andrew Cotton e Dara Grey: lo sapeva perché quando aveva tempo leggeva i tabloid scandalistici.
«Non è straordinario?» domandò ai due attori. «Adoro gli spettacoli di magia. Sono sempre così perversi e divertenti! Questo, poi, è uno spasso!»
Dara gli lanciò un'occhiata con l'intento di metterlo a posto, ma non appena incrociò il suo sguardo, cambiò idea. William l'aveva già conquistata. Soltanto dopo si preoccupò di vedere com'era vestita: tubino blu elettrico, cintura vintage, scarpine ingioiellate, borsa ricamata Fendi. Molto, molto carina. Voleva succhiarle il sangue.
Sarebbe stato bellissimo: una goduria.
Adesso doveva sedurre il ragazzo. Il caro Andrew. Caro, carissimo Andrew.
E poi avrebbero fatto baldoria fino all'alba.
32
I due maghi sul palco continuavano a battibeccare. William riportò lo sguardo sulle luci violente e il bisticcio a voce alta, e sorrise. Non riuscì a farne a meno: i prestigiatori facevano parte della serata. Una parte importante, a dire il vero. Essenziale.
Daniel e Charles avevano una quarantina d'anni, una bellezza un po' primitiva e l'aria sicura di sé, specie agli occhi del pubblico di basso livello di Las Vegas.
Daniel si rivolgeva alla sala come se fosse stato un avvocato che perora la sua causa davanti alla giuria, e brandiva una lunga spada luccicante, con cui sottolineava i punti salienti della sua orazione.
«Noi siamo uomini di spettacolo, forse i migliori al mondo, nel nostro campo. Ci siamo esibiti al Madison Square e al Winter Garden di New York, al Magic Castle e al Palladium di Londra, al Crazy Horse di Parigi, ma anche a Francoforte, Sydney, Melbourne, Mosca e Tokyo, naturalmente.»
Charles sembrava annoiato dallo sproloquio del partner e si sedette sul bordo del palco a sbadigliare senza pudore.
«Non gliene frega niente del nostro curriculum vitae, Daniel», disse a un certo punto. «Questi ignoranti non sanno che differenza c'è fra Houdini, Siegfried e Roy. Fagli un trucchetto qualsiasi: sono qui per questo. I numeri di magia piacciono ai bambini e loro non sono altro che mocciosi. Su, fagli vedere uno dei tuoi numeri. Uno qualsiasi, facile facile.»
Daniel gli puntò contro la spada e la agitò in maniera teatrale. «In guardia, marrano!»
William si voltò verso la coppia alla sua sinistra. «Questa parte è molto bella», sussurrò. «Credete a me.»
Incrociò lo sguardo dell'attore, che si voltò in gran fretta dall'altra parte. Troppo tardi. Aveva soggiogato anche lui. Quel ragazzo aveva voglia di togliergli le mutande. E chi poteva dargli torto, peraltro? Mio Dio, che sete! Aveva bisogno di alimentarsi. Lì, subito, adesso.
Nel frattempo Daniel si era messo a gridare contro Charles. «Ne ho abbastanza delle tue stronzate paternalistiche e piene di sussiego, compare. Mi sono stufato. Basta!»
«Peccato, perché avevo appena cominciato a tormentare te e questi ignoranti!» disse William sottovoce, anticipando la battuta successiva.
I due attori seduti lì a fianco risero. Ormai li aveva affascinati. Il povero Andrew non gli staccava gli occhi di dosso.
Tutto a un tratto Daniel, sul palco, saltò addosso a Charles e gli piantò la spada nel petto. L'urlo di quest'ultimo fu molto realistico, straziante. Dal petto gli sgorgò un fiotto di sangue, che schizzò dappertutto. Il pubblico, scioccato, trattenne il respiro.
William e Michael ridevano e ridevano e non riuscivano a smettere. Contagiarono anche la coppia a fianco. Alcuni spettatori li zittirono.
Daniel intanto trascinava molto lentamente sul palco il corpo di Charles, per far vedere che era pesantissimo. Alta recitazione. Si fermò davanti a una sorta di grosso tagliere da macellaio e vi posò sopra il compagno.
Poi prese un'ascia, la sollevò e gli tagliò la testa.
In sala molti gridarono e alcuni si coprirono gli occhi. «Non fa ridere!» urlò qualcuno.
William si sganasciava dalle risate, applaudiva e batteva i piedi per terra. Gli spettatori intorno a lui continuavano a zittirlo. Erano inorriditi, ma volevano vedere di più. Anche i due attori accanto a William ridevano. La ragazza gli batté amichevolmente una mano sul braccio.
Daniel mise la testa di Charles in una cesta di vimini con gesti molto teatrali, quindi si inchinò verso il pubblico. Che finalmente si rilassò.
William aggrottò la fronte e abbassò la testa. «La parte più bella è finita. Il resto è in calando.»
Daniel portò la cesta di vimini dall'altra parte del palco, camminando molto lentamente. Poi, con gran cura, trasferì la testa di Charles su un grande piatto d'argento.
«Fortuna che aveva un vassoio a portata di mano», commentò William sottovoce, rivolto alla coppia.
Daniel si voltò verso il pubblico. «Qualcuno ha già capito? No? Davvero? È morto.»
«Bugiardo, non è vero!» gridò William dal suo posto. «E morto il vostro trucco, ma Charles è vivo e vegeto. Purtroppo.»
A quel punto, la testa sul piatto d'argento si mosse. Charles aprì gli occhi e il pubblico andò in visibilio. Era un numero molto originale, e certamente eseguito alla perfezione.
Charles urlò: «Mio Dio, cos'hai fatto, Daniel? Ti hanno visto tutti. Non potrai mai farla franca, assassino, con tanti testimoni oculari».
Daniel fece spallucce. «Invece sì. Non interessa niente a nessuno, di te. Non piaci alla gente. Te lo sei meritato, Charles.»
La testa sul vassoio parlò: «Una decapitazione pubblica? Aiutami, Daniel».
«Qual è la parolina magica, Charles?»
«Per piacere, per piacere, Daniel, mi aiuti?»
Daniel coprì la testa con la cesta, la riportò al centro del palco e, con mille inchini e grande teatralità, la riattaccò al corpo. Charles si alzò in piedi e gli prese la mano.
I due prestigiatori si inchinarono, l'uno a fianco all'altro. «Signore e signori, siamo Daniel e Charles, i prestigiatori più bravi del mondo!» gridarono a testa alta.
L'applauso in sala fu lungo e sostenuto. Molti si alzarono in piedi a battere le mani e urlare. I due illusionisti si inchinarono più volte.
«Pagliacci!» gridavano i due fratelli. Videro che due buttafuori si stavano avvicinando al loro tavolo.
William si chinò verso Andrew Cotton e Dara Grey. «Vi piacciono la magia, il teatro, l'avventura?» domandò. «Io sono William Alexander e questo è mio fratello Michael. Ce ne andiamo da qualche parte insieme, a divertirci per davvero?»
I due attori si alzarono. Mentre stavano andando via, arrivarono i buttafuori.
«Vogliamo indietro i soldi del biglietto», disse loro William. «Daniel e Charles sono due impostori.»
33
«Da voi o da noi?» chiese William agli attori, cercando di sembrare il meno minaccioso possibile. Non voleva perdere Andrew e Dara proprio adesso. Aveva un piano.
«Dove alloggiate?» chiese la ragazza. Era incredibilmente sicura di sé, si credeva una diva, una dea. Una delle tante.
Rispose William. «Al Circus-Circus.»
«Noi siamo al Bellagio. Abbiamo preso una suite. Volete venire da noi? È molto bella, la migliore di Las Vegas. Abbiamo anche un po' di roba», propose Andrew. «Vi va?»
«Potremmo fare delle cose divertenti», disse Dara passando le dita fra i capelli biondi di William. Avrebbe potuto ucciderla, per questo, invece le fece il baciamano. Era una creatura a sangue caldo, piena di vita.
La suite era all'ultimo piano dell'hotel Bellagio e dava su un laghetto artificiale con fontane che sparavano acqua a decine di metri di altezza, a tempo di musica. Un brano di A Chorus Line. William pensò che era un grande spreco, tenuto conto del fatto che si trovavano in mezzo al deserto. Si diede un'occhiata in giro e rimase sorpreso nel trovare la stanza meno orribile di come aveva immaginato: non c'erano tappeti di nylon o pareti rivestite di acrilico, ma fruttiere e fiori freschi. Peccato che non avesse fame né di uva né di mele, però.
Dara si sfilò il tubino appena oltre la porta. Era molto tonica e abbronzata. Si tolse anche il costoso reggiseno.
Aveva seni piccoli ma sodi, con i capezzoli turgidi. Rimase con gli slip color avorio e le scarpe dal tacco alto.
William sorrise di fronte a quell'artefatto tentativo di seduzione ed erotismo. Non si sarebbe sorpreso se in quel momento fosse sbucato dall'armadio un truccatore, e si chiese tutto a un tratto com'erano Brad Pitt e Jennifer Aniston a letto. Probabilmente una splendida noia mortale in tutte le sfumature del biondo.
«Tocca a voi, adesso», disse in tono provocante Dara ai due fratelli. «Vediamo un po' che cosa avete da offrire. Datevi da fare.»
«Vedrai che non ti deluderemo», disse William sorridendo, e cominciò a spogliarsi. Si sfilò lentamente gli stivali e quindi si slacciò la cintura della tuta di pelle nera. «Sicura di non volerlo fare tu?» domandò a Dara.
Lei sgranò gli occhi. Anche Andrew era incuriosito.
William sciolse la coda di cavallo del fratello, lasciandogli cadere i lunghi capelli biondi sulla schiena, poi lo baciò sulla guancia e sulla spalla e cominciò a spogliarlo.
«Per la miseria», sussurrò Dara. «Siete bellissimi!»
Erano tutti e due nudi e ostentavano un'erezione. Erano abituati a farsi vedere nudi sin da bambini. E anche a fare sesso con gli sconosciuti.
Dara si guardò in giro e disse: «Siete tanti, ma credo di essere all'altezza». Prese della coca dalla borsa.
William la fermò, afferrandole la mano. «Non ne hai bisogno. Sdraiati sul letto. Fidati di me. Fidati di te stessa, Dara.»
Come un prestigiatore tirò fuori da chissà dove quattro foulard di seta sui toni del rosso, dell'azzurro e del grigio, e legò Dara al letto. Lei si divincolò un pochino, fingendo di avere paura. Tutti la guardavano compiaciuti, e Michael mise un braccio intorno alle spalle di Andrew, che fino a quel momento si era tenuto un po' in disparte. Era alterato: aveva lo sguardo fisso.
«Non vuoi metterti comodo?» gli sussurrò William. «Siamo fra amici, no?»
Andrew prese un paio di manette da una borsa di pelle nera posata per terra. «Queste sono per te. È soltanto per gioco, okay?»
Michael, ubbidiente, tese le braccia offrendo i polsi. «Soltanto per gioco», ripeté, ridendo.
«Vedrai che bello», continuò Andrew, con la voce impastata. «Mi sento già pronto. Ci sono quasi.»
«No, questo non è niente. Aspetta e vedrai», gli disse Michael.
Successe talmente in fretta che quasi non sembrava possibile. Improvvisamente Michael chiuse le manette intorno ai polsi di Andrew e lo sbatté sul tappeto, immobilizzandolo. Con l'aiuto di William, lo imbavagliò con altri foulard di seta. Agirono in fretta: lo spogliarono e gli legarono anche le caviglie.
«Fidati di noi, Andrew. Vedrai che bello. Non te lo immagini nemmeno», bisbigliò William. E osservò il fratello che gli mordeva il collo. Un piccolo assaggio. Soltanto un sorso. Un delizioso aperitivo.
Gli splendidi occhi di Andrew Cotton si riempirono di panico e confusione. Uno spettacolo impagabile. Sapeva che stava per morire. Sapeva che la morte era vicina, vicinissima.
Dara non vedeva quello che stava succedendo per terra. «Scusate, ma cosa state facendo voi tre? Ve la spassate? Vi state inchiappettando? Mi sento trascurata. Qualcuno venga da me.»
William le si avvicinò, con il membro turgido e pulsante, il ventre piattissimo, un sorriso ammaliante, irresistibile, sulle labbra.
«Ecco il diavolo tentatore», disse.
«Baciami, diavolo», gli sussurrò Dara, sbattendo le ciglia. «Scopami. Lascia perdere Andrew e Michael. Non sarai innamorato di tuo fratello, vero?»
«Chi non lo sarebbe?» domandò William.
Le si inginocchiò fra le gambe e si abbassò piano piano su di lei, abbracciandola. Tutto a un tratto Dara prese a tremare. Aveva capito, pur senza rendersene conto. Come molte delle vittime di William, uomini e donne, preferiva morire senza sapere che cosa aveva voluto dalla vita. William sapeva che lei si vedeva riflessa nei suoi occhi azzurri e si rendeva conto di non essere mai stata più desiderabile.
E infatti lui la desiderava. La voleva più di qualsiasi altra cosa al mondo, in quel momento. Sentiva il suo odore di carne, di sapone, di profumo. Sentiva il sangue che le scorreva nelle vene. Le leccò dolcemente un orecchio, sapendo che Dara lo sentiva dentro. Era impossibile, ma era come se la lingua di William l'avesse sfiorata nell'intimo.
A un certo punto, Michael depositò Andrew sul grande letto. C'era posto per tutti. Andrew era legato con i foulard e le manette e aveva un segno rosso sul collo. E un rivolo di sangue sul petto. Era già morto.
Dara stava cominciando a capire. William aveva ragione: era molto meglio, senza coca. La toccava dappertutto ed era così caldo, bollente, esperto. Lo desiderava, lo voleva, era già vicina all'orgasmo.
«Questo è soltanto l'inizio», le sussurrò William sfiorandole la gola. «Il tuo piacere è appena cominciato, te lo prometto, Dara.»
Le leccò il collo profumato, la baciò ripetutamente, e poi le affondò i denti nella gola.
Di bene in meglio.
L'estasi del dolore.
Morire così...
Non lo capiva nessuno, se non all'ultimo momento.
34
Era successo di nuovo. Gesù. Altri due omicidi spaventosi. Un elicottero dell'FBI mi aspettava all'aeroporto di Fresno per portarmi a Las Vegas, dove salii su una macchina messami a disposizione. L'autista, un agente che si chiamava Carl Lenards, mi informò che il responsabile delle indagini, Craig, era già sul posto, e mi aggiornò brevemente.
Il duplice omicidio era stato commesso al Bellagio, un hotel a cinque stelle. Quando aveva aperto, nel 1998, era il più caro del mondo. Era elegantissimo e molto tranquillo. O, perlomeno, lo era stato fino ad allora. A differenza del resto di Las Vegas, non vi si trovavano donne nude e gangster con vestiti lucidi.
All'altezza del Bellagio, Boulevard South era piena di auto della polizia e ambulanze, oltre ai furgoni di vari canali televisivi. Calcolai che dovevano esserci anche più o meno seicento curiosi assembrati davanti all'albergo. Ma perché tanta gente? Che cos'era successo di preciso? Sapevo soltanto pochi dettagli. Mi era stato riferito che i cadaveri erano dissanguati, ma che non erano stati appesi.
Mentre mi facevo largo tra la folla, vidi una cosa che mi turbò ancor più dei due omicidi.
Una decina di ragazzi e ragazze vestiti con redingote nere, cappelli a cilindro, calzoni di pelle, stivaloni neri. Uno di loro mi sorrise, mostrandomi due spaventosi canini affilati. Aveva lenti a contatto rosse, fosforescenti, e sembrava avermi riconosciuto. «Ciao, amico», mi disse con aria sprezzante. «Benvenuto all'inferno.»
Non potevo fargli niente, perciò tirai dritto verso l'ingresso del Bellagio. Quei bizzarri giocatori di ruolo sembravano non avere problemi a farsi vedere sul luogo del delitto. Che fra di loro ci fossero anche gli assassini? Che ci stessero guardando? Che cosa si aspettavano di vedere? Che cosa volevano dire quegli omicidi?
Speravo che la polizia di Las Vegas o l'FBI avessero filmato la gente fuori dell'hotel. Supponevo che Kyle ci avesse pensato. Ero lì per un motivo, per mettere insieme i particolari di un delitto che generalmente sfuggono ad altri poliziotti. Era stato Kyle Craig a chiedermi di intervenire. Lui sapeva in cosa ero bravo. E probabilmente conosceva anche i miei punti deboli.
La suite in cui era stata uccisa la coppia era spaziosa e abbastanza di buon gusto, tenuto conto degli standard del posto. La prima cosa che si notava entrando nel bagno era la vasca di marmo accanto alla vetrata fumé con vista su un laghetto artificiale e giochi d'acqua.
I due corpi erano nella vasca. Vidi spuntare la parte superiore della testa e i piedi nudi e, avvicinandomi, notai che presentavano morsi e ferite in più punti. Erano bianchissimi.
Nella suite non c'era niente cui appenderli.
Lo scarico era stato chiuso, ma sul fondo c'era pochissimo sangue. C'erano poliziotti dappertutto: troppi, per i miei gusti. Agenti del dipartimento di polizia cittadino, paramedici, tecnici della Scientifica, un medico legale, la squadra investigativa del coroner e, naturalmente, l'FBI.
Avevo bisogno di silenzio.
Esaminai per qualche minuto i due cadaveri, pallidi e patetici. Come tutte le altre vittime trovate fino a quel momento, erano molto belli.
Esemplari perfetti. È questo il motivo per cui li sceglie? E se non è così, perché allora?
La ragazza dimostrava poco più di vent'anni. Era piccola, bionda, magra, probabilmente pesava meno di cinquanta chili. Aveva le spalle esili e i seni piccoli, maciullati dai morsi. Anche sulle gambe aveva dei segni spaventosi. L'uomo doveva avere più o meno la stessa età. Biondo, occhi azzurri, aria atletica, un po' provinciale, muscoli scolpiti, anche lui era stato morsicato e aveva ferite profonde alla gola e sui polsi.
Non vidi lividi sulle mani che facessero pensare a una colluttazione.
Non si erano difesi. Conoscevano gli assassini.
«Hai visto quei dark, qui fuori?» mi chiese Kyle. «Quei guitti mascherati?»
Annuii. «Eppure è pieno giorno. Non dovrebbero essere pericolosi. Sono quelli che stanno nascosti nelle cripte che ci interessano.»
Kyle assentì, mi voltò le spalle e se ne andò.
Dopo che se ne furono andati quasi tutti, rimasi nella suite alcune ore. È un rito, per me, un'ossessione. Mi sembra di doverlo ai morti. Mi fermai a guardare la vista che dovevano aver ammirato anche loro. Presi nota di tutto: le sfumature avorio, rosa e gialle nella stanza, gli specchi in cornice, illuminati dai faretti incassati, la frutta e i fiori freschi.
Le vittime avevano disfatto i bagagli e messo via la loro roba. Controllai gli armadi pieni di vestiti firmati, scarpe con il tacco alto e alcune gonne. Costosi, chic, il meglio.
L'ultima cosa che si aspettavano era di morire.
C'erano pile di fiches dei casinò, il Venetian e il New York-New York, in bella vista sul comò. Gli assassini non le avevano prese. E nella borsa della donna c'erano anche due bustine di cocaina e una stecca di Marlboro Light.
Lo hanno fatto per dirci che non gli interessano né soldi né droga? Che non gliene importa niente del gioco d'azzardo? Delle sigarette? Che a loro interessa uccidere? Soltanto il sangue?
Nella borsa c'era anche un mucchietto di biglietti per le MGM Grand Adventures, gli spettacoli al Circus-Circus, le Folies Bergère del Tropicana, i maghi Siegfried e Roy. Souvenir? Una boccetta mezza vuota di Lolita Lempicka.
L'uomo aveva alcune ricevute di ristoranti. Le Cirque al Bellagio, Napa, Palm, Spago al Caesar.
«Non ci sono né biglietti né ricevute con la data di ieri», feci notare a Kyle. «Dobbiamo scoprire dove sono stati. Dove hanno incontrato gli assassini. Potrebbero aver fatto amicizia con loro da qualche parte e averli invitati nella suite.»
35
Mi squillò il cellulare nella tasca della giacca. Merda! Ma perché mi porto appresso questo aggeggio infernale? Che bisogno ha una persona sana di mente di essere sempre reperibile?
Guardai l'ora, con il telefono in mano. Erano già le undici. Che vita di merda. Sapevamo che Andrew Cotton e Dara Grey erano andati al Rum Jungle a bere qualcosa e poi al Mirage a vedere uno spettacolo di magia. Erano stati visti chiacchierare con due persone, ma in sala era buio. Fino a quel momento non sapevamo altro.
Dal tardo pomeriggio ero nella suite dove era stato commesso l'omicidio. Quel caso cominciava a farmi veramente paura. Erano crimini brutali, primitivi. Avevo letto di casi analoghi avvenuti a Parigi e Berlino. «Azzannati vivi», li definivano. Ma io non avevo mai visto di persona una cosa del genere.
«Alex Cross», risposi al cellulare. Mi voltai verso la vetrata. La vista sul lago e sul deserto era incantevole, in totale contrasto con quella dentro la suite.
«Sono Jamilla. Scusa, Alex, ti ho svegliato?»
«Figurati. Magari fossi a dormire. Sono sul luogo di un omicidio, a Las Vegas. Sto ammirando il deserto. Anche tu stai facendo le ore piccole?»
Mi faceva piacere sentirla.
«A volte mi fermo in ufficio sino a tardi. Almeno così riesco a combinare qualcosa, quando tutti se ne sono andati a casa. Alex, volevo parlarti di questa storia degli 'azzannati vivi'.»
Dalla voce intuii che non mi avrebbe reso le cose più facili.
«Dimmi, Jamilla. Ti ascolto.»
«Okay. Ho contattato i medici legali delle altre città in cui hanno colpito i vampiri. Credo che abbiamo trovato una traccia importante a San Luis Obispo e a San Diego.»
Ascoltavo con attenzione.
«In tutti e due i casi i periti sono stati molto collaborativi. Abbiamo riesumato il cadavere di San Luis Obispo e anche Guy Millner, il medico legale di San Diego, ha fatto lo stesso. Non voglio tediarti con i particolari adesso, ma se vuoi te li faccio avere in albergo.»
«Grazie, sì. Naturalmente non via fax.»
«Senti che cosa abbiamo scoperto. In entrambi gli omicidi, i segni delle morsicature sono diversi da quelli di San Francisco e Los Angeles. Sempre procurati da denti umani, ma da individui diversi. Le prove sono incontrovertibili. Questo significa che ci sono almeno quattro assassini diversi in circolazione, Alex. Abbiamo infatti quattro diverse dentature.»
Stavo cercando di dare un senso a quello che Jamilla mi aveva appena rivelato. «Parli dei cadaveri riesumati? Possibile che denti umani lascino segni sulle ossa?»
«Sì. Su questo i medici legali erano d'accordo. Lo smalto dentale è la sostanza più dura di tutto il corpo umano. Inoltre, come sai, gli assassini potrebbero aver usato denti finti.»
«Canini?»
«Esatto. Le ossa della vittima di San Diego erano state addirittura rosicchiate. I segni erano chiarissimi.»
«Rosicchiate?» Ero sbigottito.
«Sei tu l'esperto, Alex. Immagino che quest'atto implichi un'azione decisa, ripetitiva e intenzionale, che giustifica la presenza di segni di morsicature. La vittima aveva superato i cinquant'anni e questo è importante perché, a quanto mi hanno spiegato, le ossa presentavano minore densità a causa dell'osteoporosi. Ecco il perché dei segni. Ma come si spiega tanto accanimento? Dimmelo tu.»
Ci stavo pensando. «E se fosse per via del midollo? Il midollo osseo è fortemente vascolarizzato e quindi ricco di sangue.»
«Oddio, che schifo!» esclamò Jamilla. «Sì, può essere. Fa ribrezzo, ma può essere.»
36
L'omicidio dei due attori portò il caso dei vampiri alla ribalta nazionale.
Di colpo ci arrivarono centinaia di segnalazioni e troppe tracce fasulle da seguire: alla fine, sembrava che Dara Grey e Andrew Cotton fossero stati visti in quasi tutti i club e gli hotel di Las Vegas. Ci mancava soltanto questo, a confondere le acque. Avevamo deciso di non divulgare la notizia secondo cui gli assassini potevano essere più di uno. Né la California né il Nevada erano pronti a questo.
Kyle Craig decise di trattenersi un paio di giorni. Io feci lo stesso. Non che avessi molta scelta, peraltro. Il caso, già scottante, stava assumendo dimensioni abnormi. Ci stavano lavorando oltre mille agenti, fra polizia locale ed FBI.
Poi gli omicidi smisero improvvisamente.
Quella che ci era parsa un'escalation si interruppe, e gli assassini, che sembravano sempre più audaci e sicuri, sparirono improvvisamente dalla circolazione. O forse eravamo noi che non trovavamo più i cadaveri.
Ero costantemente in contatto con gli esperti di Quantico, ma nessuno sembrava aver tracciato un profilo accettabile. Nemmeno Jamilla Hughes riusciva più a tirar fuori teorie e ipotesi interessanti.
Eravamo a un'impasse.
Gli assassini avevano smesso di uccidere.
Ma perché? Che cos'era successo? La pubblicità li aveva spaventati? O era accaduto qualcos'altro? Dov'erano spariti? E quanti erano?
Era ora che me ne tornassi a casa. Quello rimaneva il lato positivo della faccenda, e lo presi per quello che era. Kyle mi diede l'okay e tornai a Washington con la brutta sensazione di aver fallito e la paura che gli assassini la facessero franca.
Arrivai in 5th Street. La facciata era un po' sbiadita, ma la casa sembrava accogliente come al solito. Mi ripromisi di pitturare l'esterno e anche di riparare le grondaie. In un certo senso, mi sarebbe piaciuto mettermi all'opera subito.
A casa non c'era nessuno. Deserto assoluto. Mancavo da quattordici giorni.
Il mio intento era fare una sorpresa ai ragazzi, ma probabilmente non era stata una grande idea. Ultimamente mi sembrava di non farne una giusta.
Girai un po' per casa, osservando tutto e notando le piccole cose che erano cambiate durante la mia assenza. Il monopattino aveva la ruota posteriore rotta. La tunica bianca che Damon usava per cantare nel coro era appesa alla balaustra, dentro un sacco di nylon della lavanderia.
Mi sentivo in colpa già per conto mio e la casa vuota e silenziosa non mi aiutava a stare meglio. Guardai le foto appese al muro. Quella del matrimonio con Maria, i ritratti di Damon e Jannie, alcune istantanee del piccolo Alex, una foto del coro che avevo scattato alla National Cathedral.
«Daddy's home, Daddy's home», canticchiai per tirarmi su di morale. Era una canzone degli anni '60 che mi tornò alla memoria mentre controllavo le camere al piano di sopra.
Non c'era nessuno. Il Campidoglio e la Biblioteca del Congresso erano abbastanza vicini a casa e sapevo che Nana a volte ci portava i ragazzi. Che fossero andati là?
Sospirai e mi chiesi per l'ennesima volta se lasciare definitivamente la polizia. Il problema era che il mio lavoro mi piaceva. Anche se sulla West Coast avevo fatto cilecca, generalmente ero piuttosto bravo. Avevo anche salvato qualche vita, negli ultimi anni. L'FBI mi aveva coinvolto in alcuni dei casi più difficili. Siccome mi pareva che fosse il mio ego ferito a parlare, smisi di raccontarmi stronzate e lasciai perdere.
Feci una doccia bollente, m'infilai una maglietta, un paio di jeans e le ciabatte. Mi sentivo molto più a mio agio, così, come se fossi ritornato nella mia pelle. Mi sembrava quasi di potermi illudere che i vampiri assassini fossero spariti dalla mia vita. Mi avrebbe fatto molto piacere, per la verità. Che ritornassero da dove erano venuti.
Scesi in cucina e presi una Coca-Cola dal frigo. Nana aveva appiccicato alcuni dei capolavori dei miei figli sulla porta. Incontro galattico ravvicinato di Damon e Marina Scurry salva ancora una volta la situazione di Janelle.
Sul tavolo della cucina c'era un libro. Dieci scelte sbagliate che rovinano la vita delle donne nere. Nana si era rimessa a leggere. Lo sfogliai per vedere se fra le scelte sbagliate c'ero anch'io.
Uscii in veranda. Rosie, la gatta, dormiva sul dondolo di Nana e sbadigliò nel vedermi, senza accennare a venirsi a strusciare contro le mie gambe. Ero stato via troppo tempo.
«Traditrice», le dissi. Andai a grattarle il collo e mi lasciò fare.
Sentii dei passi e andai ad aprire. La luce dei miei occhi.
Jannie e Damon mi videro e gridarono: «Chi è lei? Che cosa ci fa in casa nostra?»
«Ah, ah, ah. Che ridere», replicai. «Su, venite a darmi un bacio. Svelti!»
Mi gettarono le braccia al collo e a me si scaldò il cuore. Poi mi venne in mente una cosa cui avrei preferito non pensare: il Mastermind sapeva che ero lì? La nostra casa era ancora sicura?
37
La vita, a volte, sa essere bella e semplice, come dovrebbe essere sempre. In un'incantevole mattina di sole, partimmo tutti insieme per uno dei posti di Washington che ai miei figli piacevano di più: l'enorme, meraviglioso e molto istruttivo Istituto Smithsonian. Eravamo tutti d'accordo che lo Smitty, come lo chiamava Jannie da piccola, era la nostra meta preferita di quel giorno.
L'unico problema era decidere quale parte visitare, una volta entrati.
Dal momento che Nana sarebbe rimasta con noi soltanto un paio d'ore, per via del piccolo Alex, lasciammo scegliere a lei la nostra prima tappa.
«Tiro a indovinare», disse Jannie, alzando gli occhi al cielo. «Il Museo di Arte Africana?»
Nana le lanciò un'occhiata ammonitrice. «No, signorina Saputellis. In realtà preferirei andare nel padiglione dell'industria e dell'artigianato. È questa la mia scelta. Sorpresa, signorinella? Ti stupisce che Nana sia meno abitudinaria di quello che pensavi?»
Intervenne Damon: «Nana vuole vedere la mostra dei fotografi neri. Ne hanno parlato a scuola. Pare ci siano delle belle foto di cowboy neri. È vero, Nana?»
«E non soltanto», fece lei. «Vedrai, Damon. Vi sorprenderete e sarete orgogliosi di essere neri, e magari verrà voglia di scattare qualche foto anche a voi. Parlo anche con te, Jannie. E con Alex. Nessuno fa foto, in questa famiglia, a parte me.»
Così iniziammo con il padiglione dell'industria e dell'artigianato, che era molto bello, come sempre. In sottofondo si sentivano il ronzio dei condizionatori e un gospel. Ammirammo i cowboy neri e molte altre fotografie eccezionali della Harlem Renaissance.
Ci fermammo davanti a una foto di quattro metri per quattro che ritraeva dall'alto alcuni signori neri in giacca e cravatta e cappello a cilindro. Un ritratto indimenticabile.
«Se mi trovassi davanti questa scena per strada, farei una foto anch'io», dichiarò Jannie.
Finito di visitare il padiglione dell'industria e dell'artigianato, la demmo vinta a Jannie ed entrammo nell'Einstein Planetarium per assistere - sarà stata almeno la quinta volta - alla presentazione animata che spiegava l'importanza della Stella Polare. O forse era la sesta o la settima, non importava. Nana portò a casa il piccolo Alex, che era abituato a fare un sonnellino dopo pranzo, e noi girammo per il Museo Aerospaziale, visitando quelle che Jannie chiamava «le sale piene di aerei e di treni che piacciono tanto a Damon perché è un maschio».
In realtà piacevano anche a lei. L'aereo dei fratelli Wright sospeso sopra di noi era meraviglioso con le sue intelaiature di legno e le ali di tela bianca. Alla sua destra c'era il Breitling Orbiter 3, altra pagina importante della storia dell'aeronautica, il primo pallone aerostatico a fare il giro del mondo. E poi il modulo di comando dell'Apollo 11, che con le sue sei tonnellate e mezzo aveva reso possibile «un piccolo passo per l'uomo, un passo da gigante per il genere umano». Di fronte a queste cose si può essere cinici oppure decidere di apprezzarle. Io tendo a dar loro il giusto valore: è un atteggiamento che rende la vita più facile e più gratificante.
Dopo aver osservato una serie di miracoli dell'aeronautica, Damon insistette perché andassimo a vedere Missione sulla Mir sullo schermo IMAX del Langley Theater.
«Io da grande voglio andare nello spazio», dichiarò.
«Ti do una bella notizia», replicò Jannie. «Ci sei già, nello spazio.»
In onore di Nana ci fermammo al Museo di Arte Africana, dove i ragazzi si entusiasmarono nel vedere le maschere e le vesti cerimoniali e apprezzarono soprattutto la mostra temporanea di conchiglie di ciprea, braccialetti e anelli utilizzati come merce di scambio. Era un posto tranquillo, spazioso, pieno di colori, molto gradevole. L'ultima tappa fu la sala dei dinosauri nel Museo di Storia Naturale. Poi però Jannie e Damon sostennero che dovevamo assolutamente assistere al pasto della tarantola all'Orlon Insect Zoo. Sulle pareti dipinte in maniera da ricordare la foresta pluviale c'era scritto: GLI INSETTI NON EREDITERANNO LA TERRA: NE SONO GIÀ PADRONI.
«Sei fortunato», disse Jannie per stuzzicare il fratello. «Sei già padrone della Terra.»
Finalmente, intorno alle sei, attraversammo Madison Drive e andammo al Mall. I ragazzi erano taciturni, stanchi e affamati. Non ne potevo più neanch'io. Facemmo un picnic sotto gli alberi, ai piedi del Campidoglio.
Era la giornata più bella che avessi passato da diverse settimane a quella parte.
Non mi aveva telefonato nessuno.
38
Come aveva già fatto diverse volte, almeno una decina, il Mastermind osservava Alex Cross e la sua famiglia.
Amore uguale odio, pensava. Era un'equazione incredibile ma vera, verissima, il motore che muoveva il mondo. Alex Cross avrebbe fatto meglio a metterselo in testa. Cristo, era troppo ottimista, quell'uomo. Gli faceva venire i nervi.
Se a qualcuno fosse saltato in mente di studiare il suo passato, avrebbe scoperto la chiave di tutto quello che era successo fino a quel momento. Il suo curriculum criminoso era uno dei più audaci della storia. Durava ormai da ventotto anni. Gli errori commessi si sarebbero potuti contare sulle dita di una mano. Gli ingredienti fondamentali erano chiari:
Disturbo della personalità di tipo narcisistico.
Tutto cominciava da lì. E lì sarebbe finito.
Megalomane.
Sì, era proprio lui.
Si aspetta di essere riconosciuto come essere superiore, capace di grandi realizzazioni.
Nutre fantasie di successo, potere, intelligenza e amore illimitati.
Sfrutta gli altri.
Certamente: viveva per questo.
Privo di empatia.
Come minimo.
Ma siete pregati di notare, dottor Cross e tutti voi che manifestate il desiderio di studiare il mio percorso lungo e tortuoso, questo è un disturbo della personalità, non una psicosi. Io ho un pensiero organizzato al limite dell'ossessivo. So elaborare piani complessi che soddisfano il mio bisogno di competizione, critica e controllo. Le tre C, insomma. Sono di rado impulsivo.
Domande che dovreste porvi riguardo a me:
Sono vivi i miei genitori? Risposta: sì, per modo di dire.
Sono mai stato sposato? Risposta: sì.
Fratelli o sorelle? Risposta: certamente. Nota bene.
Visto che sono sposato, ho figli? Risposta: due splendidi esemplari di American Beauty. Sì, ho visto il film. Kevin Spacey è bravissimo. Mi è piaciuto un sacco.
Sono attraente oppure ho difetti fisici visibili? Risposta: sì e sì.
Adesso, li volete fare i compiti? Tracciate i triangoli di amore e odio nella mia vita. Dottore, ci sei dentro anche tu, naturalmente. E anche la tua famiglia: Nana, Damon, Jannie e Alex junior. Tutto ciò che ti è caro, che ti rappresenta, è racchiuso in quei magnifici triangoli, nella mia ossessione.
Allora dai, sbroglia la matassa, prima che sia troppo tardi sia per me sia per te. E per tutti i tuoi cari, ovviamente.
Sono davanti a casa tua, in 5th Street, e mi sarebbe molto facile entrare, adesso. Per non parlare di quanto sarebbe stato facile ammazzarvi tutti allo Smithsonian. Lo Smitty, come lo chiama tua figlia.
Troppo facile. Un'impresa da poco, come ho cercato di farti capire...
Il telefono in mano al Mastermind squillava, chiamava, cercava qualcuno che andasse a rispondere. Lo lasciò continuare, pazientemente.
Alla fine Cross rispose.
«Sono megalomane», dichiarò il Mastermind.
39
Ritornai alle mie incombenze di Washington e mi beccai gli strali dei miei colleghi, che mi rimproveravano di lavorare troppo con il Federai Bureau, ultimamente. Non sapevano che mi era stato addirittura offerto di entrare nell'FBI e che stavo prendendo in seria considerazione la proposta. Ma il lavoro per le strade di Washington mi piaceva ancora troppo.
Dopo una settimana decente, il venerdì sera avevo un appuntamento con una donna. Non è facile conoscere gente alla mia età, specie se si hanno dei bambini, ma io mi impegnavo. Pur avendo capito già da tempo che la cosa migliore che mi fosse capitata nella vita era stata sposare Maria e fare due splendidi figli con lei, volevo innamorarmi di nuovo, se possibile, sistemarmi e cambiare vita. Come molti altri, immagino.
Ogni tanto sentivo le mie zie che mormoravano: «Povero Alex, non ha una fidanzata, vero? E tutto solo, poverino».
Non era del tutto vero. Povero Alex un accidente. Avevo Damon, Jannie e il piccolo Alex. E anche Nana. Oltre a un sacco di amici a Washington. Sono uno che fa amicizia facilmente, come Jamilla Hughes. Fino a quel momento non mi era mai capitato di non avere nessuna donna con cui uscire a cena. Fino a quel momento.
Macy Francis e io ci conoscevamo sin dall'infanzia e abitavamo nello stesso quartiere. Macy aveva studiato lettere e didattica alla Howard e alla Georgetown. Io ero andato alla Georgetown e quindi alla Johns Hopkins, dove mi sono specializzato in psichiatria.
Circa un anno prima, Macy era tornata a Washington a insegnare inglese e ci eravamo rivisti a una delle feste di Sampson. Ci eravamo parlati per quasi un'ora, quella sera, e mi ero accorto che era una persona piacevole. Ci eravamo ripromessi di vederci presto.
L'avevo chiamata quando ero tornato dalla California. Ci eravamo dati appuntamento al 1789 Restaurant per un aperitivo e mangiare qualcosa. Era vicino a casa sua, a Georgetown.
Il ristorante era in un edificio antico, in stile federale. Arrivai prima io, e Macy mi raggiunse poco dopo. Mi si avvicinò e mi diede un bacio affettuoso sulla guancia. Poi ci andammo a sedere al bar, che era molto accogliente. Mi piacquero il tocco rapido delle sue labbra e il profumo di agrumi che aveva sul collo. Indossava un dolcevita lilla senza maniche e una gonna nera aderente, scarpe di camoscio e orecchini di brillanti.
A quanto ricordavo, Macy era sempre stata carina ed elegante.
«Ti svelerò un segreto, Alex», mi disse dopo che avemmo ordinato un bicchiere di vino. «Quando ti ho visto alla festa di John Sampson, ho pensato: 'Alex Cross è più bello che mai' Mi dispiace, ma il mio primo pensiero è stato questo.»
Scoppiammo a ridere tutti e due. Macy aveva denti bianchi e regolari e occhi castani acuti e intelligenti. Era sempre stata la prima della classe. «Anch'io ho pensato lo stesso di te», le confidai. «Ti piace insegnare? Ti trovi bene alla Georgetown? I gesuiti non ti danno fastidio?»
Annuì. «Una volta mio padre mi ha detto che è una gran fortuna se nella vita si trova qualcosa che ti piace fare. E un miracolo se per farla si viene pure pagati. Pertanto mi reputo una donna molto fortunata. E tu?»
«Be', non so se il mio lavoro mi piace o se ormai mi sono assuefatto. Però direi che, in generale, sono contento», risposi, serio.
«Non fai altro che lavorare?» mi chiese. «Di' la verità.»
«No... anche se... Be', certe settimane, sì.»
«Questa settimana no, però? Almeno stasera sei libero.»
«Mah, questi giorni sono stati abbastanza calmi. E stasera è tranquillissima. Mi piacerebbe che fosse sempre così», dissi, e scoppiai a ridere.
«Infatti mi sembri sereno, Alex. Mi fa piacere rivederti.»
Continuammo a chiacchierare. Agli altri tavoli qualcuno mangiava, ma l'atmosfera era rilassata. Capita spesso che i genitori degli studenti della Georgetown portino i figli al 1789 per una cena un po' speciale. Effettivamente è un posto particolare. Ero contento che ci fossimo visti lì: Macy aveva scelto bene.
«Ho chiesto un po' di te alle mie amiche», mi confessò ridendo. «E mi hanno detto che Alex Cross non è 'disponibile'. Una ti ha accusato di essere un nero che fa finta di essere bianco, ma le altre le hanno dato della visionaria. Io comunque lo chiedo a te...»
Scossi la testa. «È strano come la gente abbia sempre bisogno di etichettare il suo prossimo. Non vivo sempre nello stesso quartiere? Se volessi fare il bianco, avrei almeno cambiato zona, ti pare?»
Macy era d'accordo con me. «Sì, hai ragione. Non sono in tanti a capire che cosa vuol dire crescere lì. Pensa che a me hanno dato il nome di un supermercato. Ci credi?»
«Certo che ci credo. Sono cresciuto lì anch'io, Macy.» Facemmo tintinnare i bicchieri e scoppiammo a ridere.
«Fortuna che non mi hanno chiamato Bloomingdale.»
Un paio di volte le proposi di cenare, ma Macy preferiva stare seduta lì a bere e chiacchierare. Io conoscevo la cuoca, Ris Lacoste, e adoravo la sua cucina. Avevo voglia di ordinare un pasticcio di granchio con insalata. Invece ordinammo ancora un paio di bicchieri e dopo un po' Macy cominciò a bere più in fretta di me.
«Sicura di non voler mangiare qualcosa?» le domandai di nuovo.
«Mi sembra di avertelo già detto, Alex», replicò. Poi si sforzò di sorridere. «Mi piace chiacchierare con te. Preferisco rimanere qui al bar. Tu no?»
Anche a me piaceva conversare con lei, ma era da quella mattina a colazione che non mangiavo niente e avevo bisogno di mettere sotto i denti qualcosa di solido. Una bella minestra di fagioli neri, per esempio. Guardai l'ora e vidi che erano già le dieci e mezzo. Mi chiesi a che ora smettevano di servire la cena al 1789.
Macy cominciò a parlarmi dei suoi matrimoni. Il primo marito era un fallito senza speranza e il secondo, di Grenada, più giovane di lei, ancora peggio. Parlava a voce alta e ogni tanto qualche testa si voltava verso di noi.
«E così, a trentasette anni, mi è toccato ritornare a lavorare, benché non ne avessi nessuna voglia. Insegno al primo anno. Inglese e letteratura comparata. L'unica consolazione è che insegnare all'ultimo anno è ancora peggio.»
Mi pareva di ricordare che quel lavoro le piaceva, ma forse avevo sentito male, oppure stava facendo dell'ironia. Io non parlavo praticamente più, e mi limitavo ad ascoltare. Alla fine Macy se ne accorse e posò una mano sulla mia. Era morbidissima. «Scusa, mi sono lasciata trasportare, Alex. Parlo troppo, vero? Me lo dicono in tanti. Mi dispiace.»
«Non ci vedevamo da un sacco di tempo. Abbiamo tante cose da raccontarci.»
Mi guardò: aveva occhi bellissimi. Mi rincresceva che gli uomini l'avessero fatta soffrire, che avesse due matrimoni falliti alle spalle, ma succede anche alle persone migliori. Evidentemente Macy era rimasta segnata dalla sofferenza.
«Ti trovo in forma», mi disse. «E, per essere un uomo, sai ascoltare. È importante, sai.»
«Anch'io ti trovo bene, Macy. E mi piace starti a sentire.»
Non mi lasciò la mano, anzi cominciò ad accarezzarla. Mi piaceva, a dire il vero. Il messaggio era chiaro. Si passò la lingua sul labbro superiore e si mordicchiò quello inferiore. Stavo cominciando a dimenticarmi il pasticcio di granchio e la minestra di fagioli neri. Macy mi guardava negli occhi. Eravamo adulti, single, e lei era decisamente attraente.
«Abito qui vicino, Alex», mi disse. «Di solito non faccio così, ma... Vieni da me. Accompagnami a casa.»
Così feci. Barcollava un po' e si impappinava nel parlare. Le misi un braccio intorno alla vita per sorreggerla.
Viveva al pianterreno di una casa vicino all'università, con pochi mobili e le pareti verde chiaro. Aveva un pianoforte nero appoggiato a un muro. Mi cadde l'occhio su un articolo incorniciato su Rudy Crew. Le parole dell'educatore erano a caratteri abbastanza grossi: «Insegnare significa distribuire conoscenza. Il problema del nostro Paese è come viene distribuita questa merce particolare».
Ci abbracciammo brevemente sul divano del salotto. Mi piacevano le sue carezze, i suoi baci, ma c'era qualcosa che non mi convinceva. Avrei preferito non trovarmi in quella situazione. Non quella sera, perlomeno. Macy non era nelle migliori condizioni di spirito.
«E difficile trovare un uomo perbene», mi disse, avvicinandomi a sé. Parlava ancora con la voce strascicata. «Tu non ne hai idea. E così difficile. Un inferno.»
In realtà sapevo anch'io per esperienza quanto era arduo trovare una persona con cui andare d'accordo, ma sorvolai. Magari un'altra volta.
«Macy, io ora vado», le dissi a un certo punto. «Mi ha fatto molto piacere rivederti, davvero.»
«Lo sapevo! Me l'aspettavo!» sbottò. «Okay, Alex, vattene. Non ti voglio rivedere mai più!»
Prima che la rabbia lo cancellasse, avevo scorto nei suoi occhi qualcosa di bellissimo, quasi irresistibile. Ma era scomparso subito. Forse Macy sarebbe riuscita a recuperarlo, oppure no. Quando scoppiò a piangere, capii che non aveva senso cercare di consolarla. Sarei sembrato patetico.
Me ne andai da quella casa con il pianoforte nero e la bella frase di Rudy Crew appesa al muro. Macy non faceva per me. Non in quello stato, in ogni caso.
Che serata deludente...
Anche trovare una donna perbene è difficile, avrei voluto dirle.
Mio Dio, quanto odiavo la ricerca di una partner.
40
Il ricordo della serata con Macy Francis continuò a turbarmi per giorni. Era come un motivetto triste che mi risuonava incessante nella testa. Non mi aspettavo che andasse a finire così. Non mi piaceva quello che avevo visto e sentito. Non riuscivo a dimenticare il suo sguardo, quel terribile misto di dolore, vulnerabilità e rabbia, così difficile da lenire.
Il mercoledì sera, prima di uscire dal lavoro, mi misi d'accordo con John Sampson per andare a bere qualcosa al Mark, un locale vicino a 5th Street. Un bar di quartiere, con il soffitto di lamiera, il pavimento di legno, un lungo bancone di mogano e ventilatori che giravano lentamente sul soffitto.
«Per la miseria, Sugar», esclamò Sampson quando arrivò e mi trovò seduto davanti a una birra chiara, a guardare il vecchio orologio a muro. «Non ti offendere, ma hai l'aria distrutta. Dormi di notte? E ancora da solo, vero?»
«Mi fa piacere vederti», gli dissi. «Accomodati, beviamo una birra.»
A quel punto John mi mise un braccio intorno alle spalle e mi abbracciò come un bambino. «Che cosa diamine ti succede?»
Scossi la testa. «Non lo so, veramente. La caccia all'uomo sulla West Coast è andata malissimo. Voglio dire, non abbiamo cavato un ragno dal buco. Non si sa niente nemmeno dell'omicidio di Betsey Cavalierre. L'altra sera sono andato a cena fuori con una donna, ed è stato un tale fiasco che ho giurato a me stesso di non riprovarci mai più.»
Sampson annuì. «Ho capito l'antifona.» Ordinò una Bud al barista, un ex poliziotto che conoscevamo entrambi, Tommy DeFeo.
«Il caso su cui lavoravo in California è finito nel modo peggiore, John. Gli assassini sono scomparsi nel nulla. E tu? Come va? Ti trovo bene. Il che è già molto per te.»
Mi fece un gestaccio. Poi mi puntò un dito fra gli occhi. «Io sono sempre in forma, capito? Non cambiare discorso, comunque. Che cosa c'è sotto?»
«Per la miseria, sai che non mi piace parlare dei miei problemi, John. Raccontami di te.» Cercai di ridere, ma lui rimase serio.
Mi guardò, rimase zitto e aspettò che parlassi io.
«Saresti un discreto strizzacervelli, immagino», gli dissi.
«A proposito, sei andato dalla Finally, ultimamente?» Adele Finally è la mia psichiatra. Anche Sampson è stato da lei un paio di volte. E molto in gamba, ne siamo convinti tutti e due, e siamo suoi accaniti sostenitori.
«Macché. E arrabbiata con me, dice che non mi impegno abbastanza, che non accolgo il dolore. Roba così.»
John annuì e sorrise poco convinto. «E perché?»
Feci una smorfia. «Non ti ho detto che sono d'accordo con lei.»
Bevvi un sorso di birra. Avevo ordinato una Foggy Bottom: non era male, e poi mi piaceva l'idea di dar lavoro a una birreria locale.
«Quando mi sforzo di accogliere il mio cazzo di dolore, mi trovo di fronte al solito conflitto tra il lavoro e la vita che mi piacerebbe vivere. Mi sono perso un altro dei concerti di Damon, mentre ero in California. Continuo a commettere gli stessi errori.»
Sampson mi diede una pacca sulla spalla. «Non è la fine del mondo, sai? Damon sa che gli vuoi bene. Ogni tanto gli parlo. Per lui non è più un problema. Sei soltanto tu che devi fartene una ragione.»
«A furia di indagare su omicidi terribili, ho l'impressione di essere cambiato, in questi ultimi anni.»
John annuì. Era d'accordo con me: quella risposta gli piaceva. «Sei un po' esaurito, insomma.»
«Più che altro mi sento intrappolato in un incubo che non vuole finire a nessun costo. Troppe coincidenze. Il Mastermind che ce l'ha con me, mi minaccia. Non so come fare a fermarlo.»
Mi guardò negli occhi. «Hai parlato di coincidenze, Sugar. Con il piccolo particolare che tu non credi alle coincidenze.»
«È proprio questo che rende la cosa ancor più spaventosa. Se vuoi sapere la verità, credo che qualcuno ce l'abbia veramente con me, e da un sacco di tempo, e chiunque sia, mi fa più paura dei vampiri. Continuo a ricevere strane telefonate, John. Tutti i santi giorni. Una voce maschile. E non riusciamo a risalire alle chiamate.»
Sampson si passò una mano sulla fronte. «Adesso fai paura anche a me. Ma chi può avercela con te? Chi osa prendersela con l'Ammazzadraghi? Dev'essere un cretino.»
«Credimi. È tutt'altro che cretino.»
41
Sampson e io restammo al Mark più di quanto avremmo dovuto. Bevemmo un sacco di birra e ce ne andammo soltanto all'ora di chiusura, verso le due. Fummo abbastanza furbi e prudenti da lasciare le macchine nel parcheggio e tornare a casa a piedi. C'era una luna bellissima. Mi ricordava i tempi in cui eravamo bambini, in quella stessa zona, e andavamo a piedi dappertutto. Al massimo prendevamo un autobus, se proprio eravamo in vena. Mi accompagnò fino a casa e proseguì verso Navy Yard.
La mattina dopo mi alzai presto per andare a recuperare la macchina prima di entrare in ufficio. Nana e il piccolo Alex erano già in piedi. Bevvi mezzo bricco di caffè, sistemai il bambino nel passeggino e lo portai con me.
Era una bella mattina limpida, e per strada non c'era nessuno. Erano le sette. Vivevo in 5th Street da trent'anni, da quando Nana vi si era trasferita da New Jersey Avenue. Mi piaceva. Era il quartiere della famiglia Cross. Non so se sarei mai riuscito ad andarmene.
«Papà è stato con lo zio John, ieri sera», gli dissi, chinandomi verso di lui, mentre spingevo il passeggino bianco e blu. Una signora molto carina ci superò, diretta al lavoro, e mi sorrise, come se fossi stato l'uomo migliore del mondo perché ero in giro con mio figlio a quell'ora del mattino. Non ci credetti nemmeno per un secondo, ma l'idea mi lusingava lo stesso.
Il piccolo Alex ha nove mesi ed è un bambino sveglio, che osserva con grande interesse la gente, le macchine e le nuvole che gli corrono sopra la testa. Adora andare in giro sul passeggino e a me piace portarcelo, parlargli e cantargli canzoncine.
«Vedi il vento che muove le foglie?» gli dissi, e lui alzò la testa.
Era impossibile sapere quanto capiva, ma sembrava reagire nella maniera giusta. Anche Damon e sua sorella erano così, alla sua età, benché Jannie da piccola blaterasse in continuazione. Era rimasta una chiacchierona e voleva sempre avere l'ultima parola - e anche la penultima - come sua nonna e, pensandoci bene, come sua madre Maria.
«Adesso mi devi dare una mano», dissi chinandomi verso il piccolo Alex.
Mi guardò e sorrise. Certo, papi, nessun problema.
«Devi tenermi insieme per un po'. Devi darmi qualcosa di importante su cui concentrarmi. Posso contare su di te?»
Alex continuava a sorridere. Ma certo, papi. Conta su di me. Lo sai che ci sono. Appoggiati pure.
«Bravo, Alex, sapevo di poter fare affidamento su di te. Tu continua semplicemente a fare quello che fai. Sei la cosa più bella che mi sia capitata da un bel po'. Ti voglio bene, piccolo.»
Mentre gli dicevo queste cose, mi sentii avvolgere dagli stessi sentimenti della sera prima, come se la nebbia fredda salisse dal fiume Anacostia. Coincidenze, ricordai. Da due anni a quella parte mi erano capitate un sacco di cose brutte. Un vero periodaccio. L'assassinio di Betsey Cavalierre, il Mastermind, i vampiri.
Avevo bisogno di un po' di pace, di una boccata d'aria fresca.
Quando arrivai in ufficio, quella mattina, mi aspettava un messaggio. C'era stato un altro omicidio. I vampiri avevano colpito ancora. Cambiando le regole del gioco, però.
Questa volta era successo a Charleston, nel South Carolina.
Gli assassini erano tornati sulla East Coast.
PARTE TERZA
MORTE NEL SUD
42
Presi il primo volo per Charleston e arrivai poco prima delle dieci del mattino. La notizia dell'omicidio era sulle prime pagine del Post and Courier e di USA Today, a caratteri cubitali.
Percepii incertezza e paura negli spazi luminosi, asettici e pieni di negozi dell'aeroporto. La gente sembrava nervosa e stanca. Molti avevano l'aria di non aver dormito la notte.
Sono certo che alcuni pensavano che, se i misteriosi assassini potevano colpire nel cuore di Charleston, potevano farlo altrettanto facilmente nella sala d'aspetto o nel ristorante di un aeroporto. Non si sentivano più al sicuro da nessuna parte.
Noleggiai un'automobile e andai al Colonial Lake, in città. Due persone che facevano jogging, un uomo e una donna, erano state uccise intorno alle sei della mattina precedente. Erano sposati da quattro mesi soltanto. Le analogie con il caso del Golden Gate Park erano inequivocabili.
Non ero mai stato a Charleston, ma avevo letto vari libri ambientati in quella città. Mi accorsi subito che era bellissima. In passato era stata molto ricca grazie al cotone, al riso e agli schiavi, naturalmente. Il riso era il prodotto più esportato, ma i proventi maggiori derivavano dagli schiavi che arrivavano nel porto di Charleston e venivano poi venduti in tutto il Sud. I proprietari delle piantagioni avevano case in città, nelle quali si recavano per feste, concerti e balli in maschera. Anche gli antenati di Nana erano stati sbarcati a Charleston e lì erano stati venduti.
Trovai posteggio in Beaufain Street, una via molto bella costeggiata da case in stile vittoriano. Notai alcuni giardini all'inglese. Non era il posto adatto per omicidi tanto efferati: troppo bello, troppo idilliaco. Era proprio questo ad attirare gli assassini, la bellezza? Ma la inseguivano per amore o per odio? Che cosa stavano cercando di dirci con i loro delitti? Qual era la loro oscura fantasia, la loro horror story?
Se la popolazione di Charleston era sospettosa e impaurita da questi fatti, nelle strade intorno al Colonial Lake regnava il terrore. La gente si scambiava occhiate diffidenti e gelide. Nessun sorriso, neanche l'ombra della tipica ospitalità del Sud.
Avevo lasciato un messaggio a Kyle dandogli appuntamento al lago, che era circondato da ampi sentieri con panchine in ferro battuto. Il giorno prima doveva essere stato un luogo incantevole e tranquillo, ma quella mattina all'incrocio fra Beaufain e Rutledge c'era una zona isolata da nastro giallo e piantonata da poliziotti che controllavano chiunque passasse, come se gli assassini potessero tornare.
Dopo un po' che giravo, vidi Kyle che mi aspettava sotto un grande albero, e gli andai incontro. Era una mattinata tiepida, e dal mare soffiava una brezza che sapeva di pesce e salmastro. Kyle era vestito come al solito: completo grigio, camicia bianca, anonima cravatta azzurra. Notai che assomigliava più che mai al drammaturgo e attore Sam Shepard. Aveva l'aria stanca e afflitta, e doveva provare lo stesso stress cui ero sottoposto io. Anche lui sembrava turbato, dagli omicidi o da qualcos'altro.
«Doveva essere così anche ieri mattina, a parte che l'omicidio è avvenuto più presto», dissi avvicinandomi. «Nessuno ha visto niente? Possibile che non ci fossero testimoni, in un posto così, come ho letto sul verbale della polizia?»
Kyle sospirò. «In realtà un testimone c'era. Ha visto due uomini uscire di corsa dal parco. È un vecchietto di ottant'anni e passa. Dice che gli era sembrato che avessero gli abiti sporchi di sangue, ma ha pensato di essersi sbagliato. Finché non ha trovato i corpi.»
Mi guardai intorno di nuovo. Il sole era forte e dovetti proteggermi gli occhi per non rimanere abbagliato. Gli uccelli cinguettavano sui rami. Il parco era aperto, tutto era in vista. «Hanno agito in piena luce: bei vampiri», borbottai.
Kyle mi scrutò. «Non starai cominciando a credere a questa fesseria, vero?»
«Credo che esistano persone che vivono da vampiri. E che alcune siano convinte di esserlo veramente. Si fanno affilare i canini e sono molto violente. Certo che, se fosse vero che possono assumere sembianze animali, il testimone di ieri avrebbe visto scappar via due pipistrelli, anziché due uomini», risposi. «Era una battuta, Kyle. Che cos'altro ha dichiarato il vecchietto, comunque?»
«Niente di importante. Gli sono sembrati molto giovani. Vent'anni, trenta. Non è stato molto preciso. Camminavano a passo svelto, ma non si sono allarmati, vedendolo. Ha ottantasei anni, Alex, e sembra un po' frastornato da tutta l'attenzione di cui è oggetto.»
«In ogni caso, questi assassini sono molto coraggiosi. Oppure completamente stupidi. Mi chiedo se sono gli stessi che abbiamo cercato di catturare in California e nel Nevada.»
Kyle s'illuminò. Gli era venuta in mente una cosa. «A Quantico sono stati svegli tutta la notte. Come al solito. E hanno tirato fuori un elenco di una decina di città sulla East Coast in cui risultano omicidi insoluti che potrebbero essere collegati a questi.»
«In che periodo sono stati commessi?» domandai.
«È questo il bello. È possibile che la cosa vada avanti da un sacco di tempo. I casi non erano mai stati messi in relazione prima d'ora. Coprono un periodo di undici anni.»
43
Quella sera, Kyle e io andammo a cena con un'amica a Charleston. Aveva organizzato tutto Kyle, che aveva anche prenotato al ristorante The Grille di North Tyron.
Kate McTiernan non era cambiata molto dall'ultima volta che ci eravamo visti a Durham e Chapel Hill, nel North Carolina. L'assassino Casanova l'aveva rapita a Chapel Hill, ritenendola la donna più bella del Sud degli Stati Uniti.
Kate non era soltanto bella, ma anche molto intelligente. Adesso faceva la pediatra e stava pensando di specializzarsi in chirurgia.
Quando ci raggiunse al tavolo, Kyle e io stavamo parlando animatamente della strategia da adottare nelle indagini.
«Salve, ragazzi.» Kate aveva lunghi capelli scuri e vivaci occhi azzurri. Aveva un fisico da atleta, ma sapevo che nell'intimo era una donna molto tenera.
«Basta così», ci disse. «Lavorate troppo. Stasera siamo qui per divertirci.»
Non appena la vedemmo, Kyle e io saltammo subito in piedi, sorridendo come due scemi. Ne avevamo passate di tutti i colori insieme e ci ritenevamo fortunati a essere sopravvissuti per ritrovarci a quell'improbabile cena a Charleston.
«Che coincidenza. Ero a un congresso medico fuori città», ci spiegò, sedendosi al nostro tavolo.
«Alex non crede nelle coincidenze», ribatté Kyle.
«Be', non importa. Siamo di nuovo insieme. Per intervento divino o quant'altro. Sia lode al Signore», disse Kate sorridendo.
«Sei di buon umore», osservò Kyle. Sembrava piuttosto euforico anche lui.
«Sono felice di rivedervi. È stata una bellissima sorpresa. E comunque, sì, è un periodo in cui sto bene. La primavera prossima mi sposo. Thomas me lo ha proposto ufficialmente due sere fa.»
Kyle si congratulò con lei e io chiamai il cameriere e ordinai una bottiglia di champagne per festeggiare la bella notizia. Kate ci parlò di Thomas, disse che era un uomo molto in gamba. Aveva una piccola libreria molto intellettuale nel North Carolina. E faceva anche il paesaggista.
«Naturalmente sono un po' di parte, ma, visto che in genere sono un tipo incontentabile, credo che sia bravo sul serio. È un uomo eccezionale. Come stanno Nana e i bambini? E Louise, Kyle? Su, raccontatemi un po' di voi. Mi siete mancati.»
Alla fine della cena eravamo tutti di buon umore, un po' per via dello champagne e un po' per la compagnia. Avevo già notato che Kate aveva la capacità di rasserenare le persone, compreso Kyle, che di solito è un orso. Non le aveva staccato gli occhi di dosso tutta la sera.
Verso le undici ci abbracciammo e baciammo.
«Dovete assolutamente venire al mio matrimonio», disse Kate battendo un piede per terra. «Tu, Kyle, porti Louise. E tu, Alex, la tua nuova fidanzata. Promesso?»
Promettemmo. Anche perché non ci lasciò alternative. Poi la accompagnammo alla macchina, una vecchia Volvo azzurra che usava per fare le visite a domicilio.
«Mi è sempre piaciuta», sussurrai.
«Piace molto anche a me», ribatté Kyle, continuando a guardarla finché non fu scomparsa. «È una donna eccezionale.»
44
Stavamo cominciando a unire i puntini e a intravedere un disegno, finalmente. Speravo di riuscire a risolvere il mistero dei vampiri il prima possibile. Il pomeriggio del giorno dopo, l'FBI ci comunicò le dodici città sulla costa orientale degli Stati Uniti in cui dal 1989 in poi erano stati commessi omicidi con caratteristiche simili a quelli su cui stavamo indagando. Scrissi i nomi su una delle mie schede, poi lessi l'elenco e meditai. Che cosa avevano in comune quelle città?
Atlanta
Birmingham
Charleston
Charlotte
Charlottesville
Gainesville
Jacksonville
New Orleans
Orlando
Richmond
Savannah
Washington
Erano tante, forse troppe. Ed era spaventoso il fatto che gli omicidi fossero distribuiti in un lasso di tempo tanto lungo.
Poi redassi un elenco delle città in cui erano state denunciate aggressioni da parte di presunti vampiri, che non si erano concluse con la morte delle vittime. Studiai la lista, ancora più lunga della prima, e cominciai a deprimermi. Sembrava un groviglio inestricabile.
New York City
Boston
Philadelphia
Pittsburgh
Virginia Beach
White Plains
Newburgh
Trenton
Atlanta
Newark
Atlantic City
Tom's River
Baltimora
Princeton
Miami
Gainesville
Memphis
College Park
Charlottesville
Rochester
Buffalo
Albany
L'unità Crimini violenti di Quantico era al lavoro giorno e notte. Kyle e io eravamo abbastanza sicuri che sarebbero saltate fuori altre città e forse anche reati commessi prima del 1989.
Ad Atlanta, Gainesville, New Orleans e Savannah risultavano omicidi commessi in almeno due anni diversi, ma la situazione peggiore, fino a quel punto, era a Charlotte, nel North Carolina, dove erano stati commessi tre omicidi molto sospetti nel 1989. Era possibile che tutto fosse cominciato lì.
L'FBI aveva inviato alcuni agenti in ciascuna delle dodici città identificate e una task force a Charlotte, Atlanta e New Orleans.
Con ciò conclusi le mie indagini a Charleston senza essere arrivato a molto. Per il momento, i media non erano al corrente dell'elenco di città in cui sembrava avessero colpito gli assassini, e noi speravamo di tenerli all'oscuro il più possibile.
Quella sera andai allo Spooky Tooth, l'unico locale nei dintorni di Charleston frequentato da dark e presunti vampiri. Trovai un gruppo di giovani, perlopiù studenti sotto i vent'anni. Parlai con il padrone e gli feci qualche domanda sulla clientela del suo night-club. Erano decisamente arrabbiati e inquieti, ma non sembravano degli assassini.
Tornai a Washington il pomeriggio successivo. Ci tenevo. Alle sette e mezzo Nana, Jannie, il piccolo Alex e io andammo al concerto del coro di Damon.
Furono bravissimi. Damon era uno dei solisti. Cantò The Ash Grove.
«Ti rendi conto di che cosa ti sei perso?» mi disse Nana nell'orecchio.
45
William e Michael erano contenti di essere arrivati nel Sud. Era selvaggio e libero come loro. E, soprattutto, erano in perfetto orario sulla tabella di marcia.
Savannah, Georgia. William percorse Oglethorpe Street e fermò il furgone davanti al famoso Colonial Park Cemetery, poi imboccarono Abercom Street e Perry Street, attraversando Chippewa Square e Orleans Square. William disse a Michael: «Savannah è costruita sui suoi morti. Gran parte della città è sorta sui cimiteri». Gli spiegò inoltre che era stata risparmiata dalla guerra civile ed era una delle città meglio conservate del Sud degli Stati Uniti.
A William piaceva molto, ed era contento di dover fare una vittima lì. Pregustava già l'idea di alimentarsi a Savannah e di portare a termine la missione. Affascinato dalla bellezza del centro storico, smise di far caso ai nomi delle strade. C'erano eleganti palazzi del periodo federale, chiese del XIX secolo, ferro battuto, greche e fiori dappertutto. Ammirò le case più famose: Green-Meldrim, Hamilton-Turner, quella di Joe Odom.
«Che bella città. Non mi dispiacerebbe viverci. Non credi che un giorno o l'altro dovremmo fermarci da qualche parte? Non ti piacerebbe?»
«Ho fame. Fermiamoci subito», rispose Michael, ridendo. «Forza, scegliamo il meglio che Savannah ha da offrirci.»
William parcheggiò in una strada che si chiamava West Bay e finalmente scesero a sgranchirsi gambe e braccia.
Videro arrivare due ragazze con la maglia del Savannah College of Art and Design e blue jeans tagliati. Avevano gambe lunghe e affusolate e la pelle abbronzata. Sembravano spensierate.
«Possiamo donare il sangue?» chiese la più bassa di statura, con un sorriso seducente. Dimostrava sedici o diciassette anni, aveva il piercing sul labbro e i capelli tinti di rosso ciliegia.
«Sei proprio un bel bocconcino», le disse Michael guardandola negli occhi.
«Sono un sacco di cose», replicò la ragazza, lanciando un'occhiata all'amica. «Ma di certo non un bocconcino. Non credi, Carla?» L'altra annuì e alzò gli occhi verdi al cielo.
William le squadrò da capo a piedi e pensò che potevano trovare di meglio: quelle due vagabonde non erano alla loro altezza.
«Mi dispiace, ma siamo chiusi», le rispose. Fu educato e sorrise cordialmente, in maniera quasi accattivante. «Magari più tardi, ragazze. Perché non ripassate stasera? Che cosa ne dite?»
La ragazza più bassa ribatté, un po' offesa: «Se fate così, di donatori non ne troverete mica tanti. Dicevamo per dire».
William si passò le dita fra i lunghi capelli biondi, sempre sorridendo. «Lo so, lo so. Anch'io dicevo per dire. Siete due belle ragazze. Devo sentirmi in colpa? Come dicevo, magari ci si vede più tardi. Naturalmente vi faremo un prelievo: è per una giusta causa.»
William e Michael decisero di fare due passi verso il fiume e la Riverfront Plaza. Non fecero molta attenzione a mercantili, rimorchiatori o al Savannah River Queen, un battello a vapore pieno di festoni. Non degnarono neppure di uno sguardo la statua, imponente e bronzea, di una ragazza che salutava con la mano i marinai in partenza: preferivano osservare gli uomini e le donne che passeggiavano. Stavano cercando una preda, benché sapessero che era pericoloso colpire in pieno giorno. C'era un mercato delle pulci e alcuni artisti locali avevano attirato una discreta folla, composta perlopiù di soldati e di donne, alcune molto graziose.
«Voglio prendermi qualcuno. Qui, in questo bel lungofiume del cazzo», dichiarò William.
«Quello lì va bene», replicò il fratello indicando un giovane con una maglietta nera e blue jeans sfrangiati.
«Mi accontenterei anche di uno spuntino: che ne dici di quella bimbetta succulenta che gioca con la sabbia? Hmm. Almeno lei non ha l'odore dolce e stucchevole che si sente dappertutto.»
William apprezzò il senso dell'umorismo del fratello. «Quello che senti è profumo di praline. Ma questa città è famosa anche per i barbecue. Molto speziati, pare», rimarcò.
«Non ho voglia di manzo o maiale», protestò Michael arricciando il naso.
«Be', potremmo mangiare un boccone in fretta... Vedi qualcuno che ti piace? Dai, scegli.»
Michael glielo indicò.
«Perfetto», sussurrò William.
46
Orrore. C'era stato un altro omicidio spietato nello stile dei vampiri. A Savannah. Kyle e io ci precipitammo in Georgia a bordo di un Bell Jet nero che avrebbe fatto felice Lord Fenner. Kyle non voleva mollare il caso. E non voleva mollare nemmeno me.
Dall'elicottero la vista della città e del suo porto era molto suggestiva, con i palazzi d'epoca, i caratteristici quartieri dei negozi e il fiume che si snodava fra le paludi dorate prima di sfociare nell'Atlantico. Perché gli omicidi venivano commessi in località così belle e piene di gente? Perché proprio lì?
Doveva esserci un motivo che fino a quel momento ci era sfuggito. Gli assassini seguivano certamente un filo conduttore, una fantasia. Ma quale?
Una berlina dell'FBI ci stava aspettando per portarci alla cattedrale di San Giovanni Battista in East Harris Street, nel centro storico. C'erano auto della polizia ovunque, fra le case costruite prima della guerra civile. E un sacco di ambulanze.
«Abbiamo bloccato le autostrade tutto intorno alla città», mi disse Kyle mentre sfrecciavamo nel traffico cittadino. «Questa è la cosa più bizzarra e orribile che sia capitata a Savannah dall'omicidio che ha ispirato Mezzanotte nel giardino del bene e del male di John Berendt. Dovrebbe attirare un bel po' di turisti, però. Ti pare? Forse il tour dei vampiri finirà per diventare più famoso di quello del romanzo.»
«Non credo che sia il genere di turismo auspicato dalla gente del posto», osservai. «Kyle, ma che cosa succede? Gli assassini uccidono sotto il nostro naso. Stanno cercando di dirci qualcosa. Colpiscono nelle città più belle degli Stati Uniti, nei giardini pubblici, negli hotel di lusso, adesso persino in una cattedrale. Vogliono che li prendiamo? O si ritengono invincibili?»
Kyle guardò le guglie della chiesa davanti a noi. «Forse tutte e due le cose. Sono d'accordo con te, comunque. Per motivi che non riesco a capire, corrono rischi spaventosi. Ma è proprio per questo che siamo qui. Tu sei uno psichiatra, no? Dovresti capire come funzionano le loro menti malate.»
Non riuscivo a togliermi dalla testa che quegli assassini volessero farsi beccare. Ma perché?
47
Kyle e io scendemmo dalla macchina e ci avviammo a passo svelto verso la cattedrale, sui cui portali campeggiava uno stendardo bianco e oro con la scritta: UNA FEDE, UNA FAMIGLIA.
Le guglie della chiesa si innalzavano sulla città di Savannah. Lo stile era gotico francese, con grandi archi e intagli e vetrate colorate. L'altare era di marmo italiano. Mi guardai intorno attentamente, ma non notai nulla di particolare.
L'omicidio era stato scoperto meno di due ore prima. Kyle e io eravamo saliti in elicottero subito dopo la comunicazione da parte della polizia di Savannah. Le televisioni avevano già diffuso la notizia.
Sentii odore di incenso. Vidi la vittima non appena entrai e non riuscii a trattenere un gemito, colto da un'ondata di nausea. Era un ragazzo di ventun anni, come ci era stato riferito dalla polizia, studente di storia dell'arte alla University of Georgia. Si chiamava Stephen Fenton. Gli assassini non gli avevano portato via né portafoglio né denaro né niente, a parte la maglietta.
La cattedrale era grande e probabilmente poteva contenere un migliaio di fedeli. La luce che filtrava dalle vetrate creava motivi colorati sul pavimento. Anche da lontano mi accorsi che Fenton era stato sgozzato. Il corpo, a torso nudo, era muscoloso e tonico, come quello delle altre vittime. Giaceva ai piedi della tredicesima stazione della Via Crucis. Per terra c'erano alcune macchie di sangue quasi asciutte.
Gli hanno succhiato il sangue qui in chiesa? Voleva essere un sacrilegio? Un macabro rito? Che cosa c'entra la Via Crucis?
Kyle e io ci avvicinammo al cadavere. Nella navata era già stato predisposto un sacco mortuario. I tecnici della Scientifica di Savannah stavano lì, inquieti e arrabbiati, ansiosi di fare il loro lavoro e andare via. Li stavamo facendo aspettare. Il medico legale era intento a esaminare il corpo.
Kyle e io ci inginocchiammo. Mi infilai un paio di guanti di plastica. Kyle non li usava quasi mai: toccava raramente le prove sul luogo del delitto. Mi ero sempre chiesto perché, ma di solito aveva un gran fiuto.
Se eravamo tutti e due tanto capaci, però, come mai non avevamo idea di dove fossero andati gli assassini e di quando avessero intenzione di colpire ancora? Era quella la domanda che mi tormentava di più, ogni volta che vedevo una delle loro vittime. Che cosa significava quella carneficina?
«Sono impulsivi», mormorai a Kyle. «Sospetto che abbiano meno di trent'anni. Potrebbero averne venti o poco più. Magari anche meno. Non mi sorprenderei se fossero addirittura adolescenti.»
«Sono d'accordo. Non sembrano avere paura di niente.» Kyle parlava piano e osservava le ferite di Stephen Fenton. «Sembra quasi che sia stato aggredito da una bestia feroce. Una tigre, come in California. Adesso anche sulla East Coast. Il problema è che non sappiamo veramente né quand'è cominciata questa catena di omicidi, né quanti assassini ci sono o se colpiscono anche fuori degli Stati Uniti.»
«E questi sono tre problemi, tre interrogativi cui dobbiamo dare una risposta. I tuoi agenti continuano a interrogare i frequentatori di club di vampiri e di dark? Hanno provato su Internet? Ci sarà pure qualcuno che sa qualcosa.»
«Se lo sanno, stanno zitti. Ho sguinzagliato oltre trecento agenti a tempo pieno, Alex. Non possiamo reggere a lungo questo ritmo.»
Alzai lo sguardo verso la stazione della Via Crucis. Gesù, deposto dalla croce, era fra le braccia della madre. Corona di spine, crocifissione, ferite, sangue. Era il sangue il punto in comune? La vita eterna? Non sapevo che cosa pensare. A Santa Barbara, Peter Westin mi aveva detto che alcuni vampiri hanno un forte senso della spiritualità. Era stato un omicidio rituale o casuale? Forse avrei dovuto parlare di nuovo con lui. Sembrava il più informato di tutti coloro che avevo consultato a proposito dei vampiri fino a quel momento.
La vittima indossava un paio di pantaloni beige e scarpe da ginnastica Reebok, nuove. Esaminai le ferite sul collo. Aveva profondi tagli anche sulla spalla sinistra e nella parte superiore del torace. Uno degli assassini - se non tutti e due - doveva essere arrabbiato, furioso.
«Perché gli hanno preso la maglietta?» domandò Kyle. «Anche a Marin era successo.»
«Forse era zuppa di sangue», risposi, continuando a esaminare le ferite. «Questi sono decisamente segni provocati da denti umani. Ma la modalità d'attacco è animalesca. La tigre dev'essere un modello, un simbolo, un elemento importante. Che cosa vorrà dire?»
Il cellulare di Kyle squillò. Quando rispose pensai subito al Mastermind, che mi chiamava continuamente. Kyle stette a sentire per circa venti secondi, poi si voltò verso di me. «Dobbiamo andare subito a Charlotte. C'è stato un altro omicidio, Alex. Hanno colpito di nuovo. Sono già nel North Carolina.»
«Ma come... Ma che cosa diavolo stanno facendo?»
Corremmo fuori della cattedrale come se avessimo il diavolo alle calcagna.
48
Ogni tanto un omicidio o una serie di omicidi colpisce e sconvolge particolarmente l'opinione pubblica. Gli efferati delitti del mostro di Milwakee, Jeffrey Dahmer, l'uccisione di Gianni Versace e delle successive vittime di Andrew Philip Cunanan, e le gesta del più spietato serial killer russo, Andrei Chikatilo. Adesso questa carneficina sulle due coste degli Stati Uniti.
Fortunatamente avevamo l'elicottero dell'FBI per trasferirci al più presto da Savannah a Charlotte. Mentre eravamo in volo, Kyle contattò i suoi agenti a terra, che avevano circondato una fattoria abbandonata a una trentina di chilometri da Charlotte. Non lo avevo mai visto tanto agitato ed eccitato da un caso, nemmeno quando indagavamo su Casanova o sul Visitatore Gentiluomo.
«Forse stavolta riusciremo nel nostro intento», mi disse. «Finché non arriviamo noi, da quella casa non esce nessuno. Speriamo bene.»
«Già. Ma non sono convinto che siano gli stessi assassini.» Avevo smesso di tirare conclusioni azzardate. Perché proprio Charlotte? Sarebbe stato il quarto colpo nella stessa città. Tutte le piste portavano nel North Carolina. Ma perché?
Kyle ascoltò un nuovo rapporto dagli agenti sul posto e quindi mi riferì i particolari più interessanti. «I genitori di un diciassettenne di Charlotte sono stati aggrediti nel sonno, ieri sera. Ammazzati di botte. Nella camera è stato ritrovato un martello a granchio. I cadaveri presentavano segni di morsicature. Sembra che le vittime siano state azzannate da un grosso animale o da un individuo con canini metallici molto aguzzi.» Kyle alzò gli occhi al cielo. Continuava a non credere ai vampiri.
«Il figlio è scappato in un casolare abbandonato vicino al Loblolly River, fuori Charlotte. A quanto sappiamo, sembra che il rudere sia un ritrovo di ragazzi, anche molto giovani. È un pasticcio, Alex. Finché non arriviamo noi, non si muove nessuno. Il problema è che molti sono minorenni.»
Dieci minuti dopo, atterrammo in un campo pieno di fiori selvatici a circa cinque chilometri dal casolare in cui forse si era rifugiato l'assassino. Sembrava una scena alla Bonnie and Clyde. Arrivammo nel bosco fitto intorno alla casa dopo le cinque. Stava per imbrunire.
La casa era a due piani, di legno, nascosta da glicine e cespugli di mirto. Per terra c'erano pigne, noci e grosse bacche che mi fecero tornare in mente la mia infanzia. Ero cresciuto nel Sud, ma non avevo conservato bei ricordi, purtroppo. Mio padre e mia madre erano morti giovani, prima di compiere quarant'anni. La mia terapista aveva una teoria secondo cui io ero convinto che sarei morto giovane perché così era successo ai miei genitori. Anche il Mastermind sembrava pensarla così. E forse avrebbe fatto avverare la mia paura quanto prima.
Il tetto del casolare era a punta, con un lucernario rotto. I muri esterni erano bianchi e scrostati, ma abbastanza ben conservati, mentre le tegole di amianto erano rotte in diversi punti e lasciavano intravedere la carta catramata sottostante. Era un posto che faceva venire i brividi.
I federali erano molto preoccupati al pensiero che la maggior parte dei ragazzi dentro la casa era minorenne. Non sapevano esattamente quanti erano o se avevano precedenti penali. Non c'era nessuna prova che fossero coinvolti negli omicidi. Alla fine si decise che, se non fossimo stati scoperti prima, avremmo aspettato di vedere se entrava o usciva qualcuno nel corso della serata e poi avremmo fatto irruzione nel casolare. La situazione si stava facendo spinosa, soprattutto dal punto di vista politico, e le conseguenze, se fosse rimasto ucciso o ferito un minorenne, avrebbero potuto essere gravi.
Peraltro, nei boschi sembrava tutto tranquillo. Il casolare era stranamente silenzioso, tenuto conto del fatto che supponevamo fosse pieno di ragazzini. Non si sentivano né risate né musica, e nemmeno odore di cibo. Si vedevano tremolare luci fievoli.
La mia paura era che l'assassino se ne fosse già andato. Che fossimo arrivati troppo tardi.
49
Mi sentii bisbigliare qualcosa nell'orecchio: era Kyle.
«Andiamo, Alex. È ora di muoverci.»
Il segnale di irrompere nel casolare venne dato alle quattro del mattino. Kyle dirigeva l'operazione. Aveva autorità anche sugli agenti del posto.
Io andai con una decina di agenti con la giacca a vento blu. Nessuno si sentiva sicuro e ci avvicinammo guardinghi al limitare del bosco, a settantacinque metri dalla casa. Due cecchini appostati a una trentina di metri dalla casa segnalarono via radio che dentro c'era silenzio. Troppo silenzio?
«Sono ragazzini», ci ricordò Kyle prima di entrare. «Ma proteggete prima di tutto voi stessi.»
Strisciammo per terra fino all'altezza dei due cecchini e quindi corremmo verso il casolare, facendo irruzione da tre parti.
Kyle e io passammo dalla porta principale, gli altri dai lati e dal retro. Lanciammo un paio di granate stordenti Flashbang. Al pianterreno si alzarono delle urla. Strilli acutissimi. Erano ragazzini. Per il momento, niente spari.
La scena era irreale, caotica. Erano una ventina, fumati, quasi tutti in mutande o nudi. Dormivano per terra. Non c'era elettricità, soltanto candele. C'era puzza di urina, di marijuana, di muffa, di vino da quattro soldi e di cera. Alle pareti erano appesi poster degli Insane Clown Posse e di Killah Priest.
L'atrio, che era minuscolo, e il salotto davano su una sala grande. I ragazzi dormivano su coperte stese per terra, oppure direttamente sul pavimento di legno. Ma adesso erano svegli e arrabbiati. «Porci! Sbirri, toglietevi dalle palle!»
Gli agenti ne stavano svegliando altri al primo piano. Volò qualche cazzotto, ma nessuno sparo. Non c'erano feriti, almeno fino a quel momento. La sensazione era di sconforto, di fallimento.
Un ragazzo si mise a gridare con tutto il fiato che aveva in corpo e mi si lanciò addosso. Sembrava non aver paura di niente e aveva gli occhi rossissimi: lenti a contatto colorate. Aveva la schiuma alla bocca e ringhiava. Lo immobilizzai, lo ammanettai e gli dissi di darsi una calmata, se non voleva prenderle sul serio. Dubitavo che pesasse più di sessanta chili, ma era più forte e muscoloso di quanto sembrasse a prima vista.
L'agente vicino a me non fu altrettanto fortunato, perché una ragazza molto robusta, con i capelli rossi, lo morse sulla guancia mentre lui tentava di fermarla e poi lo azzannò sul petto. L'agente gridò, cercando di scrollarsela di dosso, ma quella teneva duro, come un cane che non vuole mollare l'osso di cui si è impossessato.
La strappai via io e la ammanettai con i polsi dietro la schiena. Indossava una maglietta nera con la scritta BUON NATALE DEL CAZZO e aveva serpi e teschi tatuati dappertutto. Mi gridò in faccia: «Sei un pezzente! Mi fai schifo!»
«Quello che cerchiamo è in cantina!» mi urlò Kyle. «L'assassino si chiama Irwin Snyder.» Lo seguii in una cucina in uno stato desolante e oltre una porta di legno sbilenca che conduceva in cantina.
Avevamo le pistole in pugno. Consapevoli di quanto era stato rapido e violento quando aveva ucciso, non avevamo nessuna voglia di affrontarlo. Spalancai la porta e Kyle, io e altri due agenti scendemmo, con grande cautela, tre scalini malfermi.
Era buio. Il silenzio era totale. Un agente puntò la torcia nella cantina.
A quel punto vedemmo l'assassino. E lui vide noi.
50
In un angolo in fondo alla cantina era accovacciato un ragazzo robusto, con un lurido giubbotto di pelle con le borchie e jeans neri. Ci stava aspettando. Aveva in mano un piede di porco. Saltò su e cominciò a sferrare colpi in aria ringhiando. Doveva essere Irwin Snyder, il ragazzo che aveva ucciso i suoi genitori. Era giovanissimo, aveva soltanto diciassette anni. Che cosa gli era preso?
Aveva i canini dorati, lunghissimi, e lenti a contatto rosse. Sul naso e sulle sopracciglia aveva almeno dodici cerchietti d'oro e d'argento. Era molto muscoloso e alto più di un metro e ottanta. Era stato un bravo giocatore di basket, prima di lasciare la scuola all'improvviso.
Continuava a ringhiare nella nostra direzione. Aveva i piedi in una pozzanghera, ma sembrava non accorgersene. Gli occhi infossati, lo sguardo vitreo.
«Indietro!» gridò. «Non avete idea della merda in cui vi siete cacciati. Idioti! Uscite di qui, bastardi!»
Continuava a far roteare il piede di porco, che era pesante e arrugginito. Noi ci bloccammo. Io volevo sentire che cosa aveva da dire.
«Perché siamo nella merda?» gli domandai.
«Io so chi sei», mi urlò, con la schiuma alla bocca. Era furioso, completamente stordito dalla droga. Era pronto ad ammazzare.
«Chi sono?» gli chiesi. Come poteva saperlo veramente?
«Sei Cross, cazzone. Ecco chi sei», rispose, scoprendo i denti. Aveva un sorriso da folle. La sua risposta mi inquietò. «E voialtri siete stronzi cani dell'FBI. Dovete morire! Creperete tutti. Cross qui non ci deve venire.»
«Perché hai ammazzato i tuoi?» chiese Kyle dalle scale.
«Per liberarli», ribatté il ragazzo in tono di scherno. «Adesso sono felici come uccellini nel cielo.»
«Non ti credo», replicai. «Balle.»
Continuava a ringhiare. «Allora non sei proprio cretino, Cross.»
«Perché li hai azzannati con quei denti di metallo? Che cosa rappresenta la tigre, Irwin?» gli chiesi.
«Lo sai già, altrimenti non me lo chiederesti», replicò, scoppiando in una risata sinistra. Aveva i denti gialli e macchiati di nicotina, i jeans luridi, sporchi di cenere. Dal giubbotto di pelle mancavano un sacco di borchie. La cantina puzzava di carne marcia. Che cosa avevano fatto là sotto? Quasi quasi avrei preferito non saperlo.
«Perché hai ammazzato i tuoi genitori?» gli domandai di nuovo.
«Li ho eliminati per liberarmi», gridò. «Li ho fatti fuori perché seguo la Tigre.»
«E chi è la Tigre? Che cosa rappresenta?»
Mi lanciò un'occhiata di sfida. «Lo vedrai molto presto. E rimpiangerai di averlo fatto.»
Mollò il piede di porco e si infilò una mano nei jeans. Io gli saltai addosso. Irwin cercò di colpirmi con uno stiletto, ma io mi scansai.
Non fui abbastanza veloce, però, e mi ferì sul braccio. Provai un bruciore lancinante. Snyder ululò trionfante e mi si avventò contro un'altra volta. Era rapido, atletico, scattante.
Riuscii a togliergli di mano lo stiletto, ma lui mi morsicò sulla spalla e cercò di avvicinarsi al collo. Nel frattempo erano intervenuti Kyle e gli altri.
«Maledizione!» imprecai. Gli mollai un pugno in faccia, ma lui mi addentò una mano. Mio Dio, che male!
Gli agenti federali faticarono a immobilizzarlo, beccandosi una serie di insulti e minacce. Avevano paura che mordesse anche loro.
«Adesso sei uno di noi. Sei uno di noi! Ora puoi incontrare la Tigre», gridò, ridendo.
51
Mi faceva male la testa, ma passai le quattro ore successive a interrogare Irwin Snyder nel carcere di Charlotte, in una saletta spoglia, dai muri bianchi, talmente piccola che mi dava la claustrofobia. Per oltre un'ora Kyle rimase con me, ma non riuscii a cavare nulla al ragazzo. Poi chiesi a Kyle di lasciarci soli: Snyder era incatenato e mi sentivo abbastanza tranquillo. Mi chiedevo come si sentiva.
Mi pulsavano sia la mano sia il braccio, ma la faccenda era troppo importante perché desistessi. Irwin era stato informato del mio arrivo. Ma chi glielo aveva detto? Cos'altro sapeva? Come faceva quel giovane assassino di Charlotte a essere collegato agli altri omicidi?
Snyder era di un pallore malsano, aveva il pizzetto e le basette. Mi fissava con gli occhi scuri, vivaci e abbastanza intelligenti.
A un certo punto posò la testa sul piano di formica del tavolo e io lo presi per i capelli e lo costrinsi ad alzarsi in piedi. Mi insultò, poi chiese di vedere il suo avvocato.
«Fa male, eh?» dissi. «Non farmelo fare un'altra volta. Tieni su la testa, non è ora di dormire. Questo non è un gioco.»
Mi fece un gestaccio e posò di nuovo la testa sul tavolo. Intuii che si era comportato così a scuola e a casa per anni, senza che nessuno osasse dirgli niente. Ma con me non attaccava.
Lo tirai su per i capelli unti un'altra volta, anche più forte della prima. «Forse non mi hai capito. Parli la mia stessa lingua? Tu hai ammazzato i tuoi genitori a sangue freddo. Sei un assassino.»
«Avvocato!» gridò. «Avvocato? Avvocato? Mi stanno torturando! Questo poliziotto mi picchia! Avvocato! Avvocato! Voglio il mio avvocato, cazzo!»
Gli afferrai il mento con la mano libera e lui mi sputò addosso. Lo ignorai.
«Stammi bene a sentire», gli dissi. «Apri le orecchie. Qui dentro non c'è nessun altro dei tuoi compagni. Sono tutti nel posto di polizia in città. Non ti sente nessuno. E comunque non ti sto picchiando. Ma tu mi devi parlare.»
Gli tirai ancora i capelli, con forza ma stando attento a non stappargliene una ciocca. Snyder strillò, ma sapevo che non gli avevo fatto molto male.
«Hai ucciso tuo padre e tua madre con un martello a granchio. Mi hai morsicato due volte. E puzzi da far schifo. Non mi piaci per niente, ma dobbiamo parlare.»
«Ti converrebbe farteli vedere, quei morsi, brutto maiale», mi schernì. «T'ho avvertito.»
Continuava a fare il duro, ma, quando accennai a prenderlo un'altra volta per i capelli, trasalì e indietreggiò.
«Come facevi a sapere che stavo arrivando a Charlotte? Come fai a sapere come mi chiamo? Dimmelo.»
«Chiedilo alla Tigre, quando la incontri. Vedrai che succederà prima di quanto credi.»
52
Era chiaro che Irwin Snyder non poteva aver commesso gli omicidi precedenti. Era uscito dal North Carolina soltanto una o due volte nella vita, e la maggior parte dei suoi contatti con il mondo esterno avveniva attraverso Internet. E naturalmente era troppo giovane per avere a che fare con assassini commessi undici anni prima.
Quel diciassettenne aveva ucciso i suoi genitori, però, e non mostrava il minimo rimorso. Era stata la Tigre a dirgli di farlo. Non ero riuscito a estorcergli altro: si rifiutò di dirmi come era entrato in contatto con la persona o la setta che avevano tanto potere su di lui.
Mentre interrogavo Snyder e gli altri ragazzi fermati nel casolare, mi cominciarono a prudere e a fare male la spalla e la mano. I morsi mi avevano lasciato dei buchi dai quali era uscito poco sangue. Quello sulla spalla era il più profondo, benché avessi la giacca, e aveva lasciato un segno molto chiaro, che era stato fotografato alla stazione di polizia.
Non ero andato al pronto soccorso perché avevo troppo da fare, ma nel giro di un po' di tempo il dolore divenne insopportabile. A fine mattinata non riuscivo più a chiudere le dita e con ogni probabilità non sarei stato in grado nemmeno di sparare. Adesso sei uno di noi, mi aveva detto Irwin Snyder.
Mi chiedevo a quale gruppo, cellula o setta appartenesse. Dov'era la Tigre? Era una persona sola o più di una? Presi parte a una riunione con FBI e polizia di Charlotte che durò fino alle otto di quella sera senza che ci avvicinassimo di un millimetro alla soluzione del mistero. L'FBI stava scandagliando la Rete alla ricerca di messaggi che facessero riferimento alla Tigre, o alle tigri in generale.
Tornai a Washington dopo la riunione e in aereo riuscii a dormire un po'. Non abbastanza, però. Non appena entrai in casa, squillò il telefono. Ma chi diavolo...
«Sei di nuovo a casa, dottor Cross? Mi fa piacere. Bentornato, allora. Mi sei mancato, sai? Sei stato bene a Charlotte?»
Posai la cornetta e corsi fuori. Non vidi nessuno. In 5th Street era tutto tranquillo, anche se questo non escludeva che il Mastermind si nascondesse vicino a casa mia. Come faceva a sapere che ero tornato?
Corsi per la strada e scrutai nel buio. Non vedevo nessuno, anche se forse lui vedeva me. Qualcuno doveva certamente avermi pedinato. Ed era lì fuori, a spiare.
«Sono tornato», gridai. «Vienimi a prendere. Chiudiamo la questione adesso, avanti! Su, forza, facciamola finita. Sono qui, bastardo!» Silenzio.
Poi sentii dei passi alle mie spalle e mi voltai di scatto. Non era il Mastermind.
«Cosa succede, Alex? Quando sei arrivato? Con chi stai parlando?»
Era Nana. Mi sembrò piccolissima e molto spaventata. Mi si avvicinò e mi abbracciò.
53
La mattina dopo, quando mi svegliai verso le sei, stavo malissimo. Intorno alle ferite la pelle era calda e arrossata. Mi pulsava tutto. Il morso sulla mano spurgava ed era molto gonfio. Non andava per niente bene. Stavo male ed era l'ultima cosa al mondo di cui avevo bisogno, in quel momento.
Presi la macchina e andai al pronto soccorso del St. Anthony's Hospital, dove per prima cosa mi misurarono la febbre: trentanove e mezzo.
Il medico che mi visitò era un pakistano molto alto, che si chiamava Prahbu. Sarebbe potuto essere uno dei figli del film East Is East. Disse che probabilmente si trattava di un'infezione da stafilococco, un batterio comunemente trovato nella saliva.
«Come si è procurato questi morsi?» mi domandò. Immaginai che la mia risposta non gli sarebbe piaciuta, ma gliela diedi lo stesso. «Durante una colluttazione con un vampiro», gli dissi.
«Dico sul serio, detective Cross. Chi l'ha morsicata? Io sono una persona seria e penso di meritare una risposta seria. Ho bisogno di sapere com'è avvenuto l'incidente.»
«Ma io non sto scherzando. Faccio parte della squadra che indaga sui delitti dei vampiri. Sono stato morsicato da un tizio con i canini di metallo.»
«D'accordo, come vuole.»
Mi fecero analisi del sangue, VES e una coltura del pus che usciva dalle ferite. Mi dissero che mi avrebbero comunicato in seguito i risultati, e io feci presente al dottor Prahbu che avevo bisogno di una copia del referto. L'ospedale non me la voleva rilasciare, ma alla fine riuscii nel mio intento e spedii un fax a Quantico.
Mi dimisero prescrivendomi un farmaco che si chiama Keflex e raccomandandomi di tenere sollevato il braccio e disinfettarlo con il Domeboro ogni quattro ore.
Quando arrivai a casa, stavo troppo male per fare qualsiasi cosa. Mi coricai e ascoltai Elliot in the Morning alla radio. Nana e i ragazzi mi stavano vicino. Avevo una nausea mortale e non riuscivo né a mangiare né a dormire o a concentrarmi su niente, a parte il doloroso pulsare della spalla e della mano. Per qualche ora delirai.
Adesso sei uno di noi.
Finalmente mi addormentai, ma mi svegliai verso l'una del mattino. L'ora delle streghe. Mi sentivo ancora peggio. Avevo paura che suonasse il telefono e che fosse il Mastermind.
C'era qualcuno con me, nella stanza.
Tirai un sospiro di sollievo quando mi accorsi di chi era.
Jannie era seduta sulla sedia, al mio capezzale, a vegliarmi.
«Anche tu mi sei stato vicino quando ero malata, l'anno scorso. Dormi, papà. Riposati. E non provarti a diventare un vampiro, okay?»
Non le risposi. Non riuscivo a pronunciare nemmeno una parola. Mi addormentai di nuovo.
54
Nessuno se l'aspettava, ed era per questo che era così bello, così meraviglioso. La fine di Alex Cross.
Era ora. Anzi, forse era già tardi. Cross doveva morire.
Il Mastermind si era introdotto in casa sua, era un'esperienza emozionante e straordinaria, proprio come immaginava. Non si era mai sentito così potente. Era in piedi nel salotto buio, alle tre del mattino appena passate. Aveva vinto la battaglia. Aveva trionfato. Cross era uscito sconfitto dallo scontro. L'indomani tutta Washington avrebbe pianto la sua dipartita.
Poteva fare qualsiasi cosa: da dove cominciare?
Aveva voglia di sedersi e pensarci su. Non c'era nessuna fretta. Dove si sarebbe seduto? Be', certo, sullo sgabello del pianoforte nella veranda. Il posto in cui Cross si rilassava, evadeva dalla routine quotidiana, in cui giocava con i suoi figli, stupido sentimentale che non era altro.
Il Mastermind fu tentato di suonare qualche accordo, magari un pezzo di Gershwin, per dimostrare a Cross che era più bravo di lui anche al piano. Aveva voglia di annunciare la propria presenza in maniera teatrale. Era stupendo, fantastico. Avrebbe voluto che quella notte non finisse mai.
Ma era davvero la cosa migliore da fare? Dovevano essere ore indimenticabili, da assaporare per sempre. Un ricordo importante per lui, e per lui soltanto.
C'erano due triangoli che spiegavano il suo rapporto complesso con Alex Cross e li visualizzò proprio lì, seduto tranquillamente in veranda a godersela come non mai. Cristo, sorrideva come uno scemo. Era felice, davvero felice.
Il Mastermind |
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AMORE |
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Il Cattivo |
Il Padre |
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(suo fratello) |
(Alex Cross) |
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Il Mastermind |
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AMORE |
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