JAMES PATTERSON
ULTIMA MOSSA
(Violets Are Blue, 2001)
Dedico questo libro al mio amico Kyle Craig, che non lavora per l'FBI ma, secondo me, ha un gran bel nome. Grazie anche a Jim Heekin, Mary Jordan, Fern Galperin, Maria Pugatch, Irene Markocki, Barbara Groszewski, Tony Peyser e alla mia cara Suzie.
PROLOGO
COME UN FULMINE A CIEL SERENO
1
Nulla comincia mai dove crediamo. E in effetti nemmeno questa storia ha avuto inizio con l'efferato omicidio di Betsey Cavalierre, agente dell'FBI nonché mia carissima amica. Sono stato io a pensarlo. Ma mi sbagliavo di grosso.
Arrivai a casa di Betsey a Woodbridge, in Virginia, nel cuore della notte. Non c'ero mai stato, ma non ebbi difficoltà a trovarla. L'FBI e le ambulanze erano già sul posto: c'erano luci gialle e rosse che lampeggiavano ovunque, dipingendo sinistre strisce luminose sul prato e sulla facciata.
Presi fiato ed entrai, con la testa che mi girava, barcollando. Salutai con un cenno Sandy Hammonds, un'agente dell'FBI alta e bionda, e mi accorsi che aveva pianto. Anche lei era amica di Betsey.
Su un tavolino nel corridoio notai la rivoltella d'ordinanza, accanto a una comunicazione sull'esercitazione obbligatoria di tiro a segno al poligono dell'FBI cui Betsey avrebbe dovuto partecipare. Amara ironia.
Mi feci forza e percorsi il corridoio che portava dal salotto alle altre stanze. Era una casa di quasi cent'anni, piena di mobili e oggetti in stile country, come piaceva a lei. La camera da letto era in fondo al corridoio.
Capii immediatamente che l'omicidio era avvenuto lì. Tecnici dell'FBI e della polizia locale andavano e venivano come vespe infuriate intorno a un nido in pericolo, ma nella casa regnava un silenzio strano, minaccioso. Era una brutta faccenda. Bruttissima.
Era morta un'altra collega.
La seconda a venire brutalmente assassinata in due anni.
E Betsey era molto più di una collega per me.
Come poteva essere successo? Che cosa voleva dire?
Vidi il cadavere steso sul pavimento di legno e rimasi raggelato. Istintivamente mi coprii la faccia con una mano.
Era nuda, la parte inferiore del corpo orrendamente insanguinata. Nella camera da letto non vidi né camicia da notte né pigiama. L'assassino l'aveva massacrata di coltellate, infierendo senza pietà. Avrei voluto coprirla, ma sapevo che non era possibile.
Gli occhi castani di Betsey mi fissavano senza vedermi: li avevo baciati, come avevo fatto con il suo viso dolcissimo. Ripensai alla sua risata sonora e musicale e rimasi lì, impalato, a piangerla, in preda a una nostalgia indicibile. Avrei voluto girarmi dall'altra parte, ma non ci riuscivo. Non potevo lasciarla in quel modo.
Mentre cercavo di dare una spiegazione logica a quello scempio, mi squillò il cellulare nella tasca della giacca, facendomi trasalire. Esitai: non volevo rispondere.
«Alex Cross», dissi alla fine.
Sentii una voce deformata da un filtro trapassarmi come una lama. Rabbrividii.
«So chi sei e so dove sei. A casa della povera Betsey, che è stata massacrata. Non ti senti come una marionetta appesa a un filo, detective? Dovresti, perché lo sei», sussurrò il Mastermind. «Sei la mia marionetta preferita.»
«Perché l'hai uccisa? Perché?» chiesi.
Il mostro scoppiò in una risata meccanica che mi fece accapponare la pelle. «Dovresti arrivarci da solo, non ti pare? Sei il famoso detective Alex Cross. Hai risolto tutti quei casi importanti... Hai preso Gary Soneji, Casanova, Jack & Jill. Sei in gamba, no?»
A voce bassissima, ribattei: «Perché non vieni qui? Stanotte, adesso? Visto che sai dove sono...»
Il Mastermind rise di nuovo, questa volta pianissimo. «E se invece stanotte uccidessi tua nonna e i tuoi tre figli? So dove sono. Li hai lasciati con il tuo collega, vero? Credi che sia in grado di fermarmi? John Sampson non ha speranze contro di me.»
Riattaccai e corsi fuori. Telefonai a Sampson, che rispose al secondo squillo.
«Tutto a posto?» chiesi ansioso.
«Tutto tranquillo, Alex. Nessun problema. Ti sento agitato, però: che cosa c'è? Cos'è successo?»
«Ha detto che verrà da voi. Da te, Nana e i ragazzi», risposi. «Il Mastermind.»
«I tuoi sono al sicuro, amico mio. Nessuno gli torcerà un capello finché ci sono io. Che ci provi, se ne ha il coraggio!»
«Stai attento, John. Io torno subito a Washington. Sii prudente, per favore. È un malato di mente. Non l'ha soltanto uccisa, ha infierito su di lei con un accanimento terrificante.»
Appena finito di parlare con Sampson, mi precipitai verso la mia vecchia Porsche.
Il cellulare squillò di nuovo prima che arrivassi alla macchina.
«Cross», risposi senza smettere di correre, cercando di tenere il telefono vicino all'orecchio e alla bocca.
Era di nuovo lui e rideva come un pazzo. «Rilassati, dottore. Hai il fiatone. Per stanotte non gli faccio niente di male, ti stavo soltanto prendendo per il culo. Volevo divertirmi un po' a tue spese. Stai correndo, vero? Be', continua pure, ma sappi che non correrai mai abbastanza. Non puoi sfuggirmi. È te che voglio, dottor Cross. Il prossimo sei tu.»
PARTE PRIMA
GLI OMICIDI DELLA CALIFORNIA
2
Il tenente dell'esercito degli Stati Uniti Martha Wiatt e il suo fidanzato, il sergente Davis O'Hara, stavano facendo jogging nel Golden Gate Park quando la nebbia della sera cominciò a scendere come una nube sulfurea su San Francisco. Alla luce del crepuscolo erano atletici, bellissimi.
La prima volta che Martha sentì ringhiare alle proprie spalle pensò che qualcuno avesse lasciato libero un cane nella parte del parco che andava da Haight-Ashbury fino al mare, abbastanza lontano da non preoccuparla affatto.
«Questo è sicuramente un bestione!» disse scherzosamente a Davis mentre affrontavano una ripida salita da cui si godeva una vista magnifica dell'imponente ponte sospeso tra San Francisco e la contea di Marin. Nel loro linguaggio, un «bestione» era qualsiasi cosa avesse dimensioni superiori alla norma - dagli aerei agli attributi sessuali ai canini...
La nebbia stava per avvolgere il ponte e la baia nascondendoli completamente, ma per il momento la vista era splendida, incomparabile: era una delle cose che più amavano di San Francisco.
«Mi piace venire a correre qui, con il ponte, il tramonto e tutto il resto», commentò Martha con la sua cadenza regolare e rilassata. «Be', basta con il romanticismo: adesso ti faccio mangiare la polvere, O'Hara. Muovi le tue belle chiappe atletiche!»
«Non giocare con me alla femminista da strapazzo!» ribatté lui, ma sorrideva, mettendo in mostra i denti più bianchi che Martha avesse mai visto o baciato in vita sua.
La ragazza allungò il passo. Alla Pepperdine University era stata campionessa di corsa campestre ed era ancora in ottima forma. «E tu preparati a incassare con signorilità l'ennesima sconfitta», replicò lei.
«Ride bene chi ride ultimo. Chi perde paga all'Abbey.»
«Pregusto già una Dos Equis. Hmm, che sete!»
Lo scambio di battute fu interrotto all'improvviso da un altro ringhio, molto più forte del precedente. E più vicino.
Era impossibile che un cane avesse percorso tanta strada in così poco tempo. Forse c'erano due «bestioni» liberi nei paraggi.
«Non ci saranno delle bestie feroci in questo parco?» chiese Davis. «Che so, un puma?»
«Ma no! Che cosa dici? Siamo a San Francisco, non nel Montana.» Martha scosse la testa, mandando una pioggia di gocce di sudore tutto intorno. Poi le parve di sentire dei passi. Qualcuno che faceva jogging con un grosso cane?
«Usciamo dal bosco, okay?» suggerì Davis.
«Sono d'accordo. L'ultimo che arriva al parcheggio il cane se lo mangia.»
«Battuta di cattivo gusto, tenente Martha. Io comincio ad avere un po' paura.»
«Non mi risulta che ci siano bestie feroci in giro da queste parti, ma credo di aver appena visto un micino.»
Udirono un altro ringhio, vicinissimo. Proprio alle loro spalle. Che guadagnava velocemente terreno.
«Forza, togliamoci di qui! Di corsa!» disse Martha Wiatt. Adesso anche lei era un po' spaventata e si mise a correre più veloce che poteva, che nel suo caso voleva dire molto veloce.
Un altro ringhio sinistro echeggiò nella nebbia sempre più fitta.
3
Il tenente Martha Wiatt aveva decisamente accelerato l'andatura, aumentando il distacco da Davis. Lei si dedicava al triathlon per divertimento. Lui invece lavorava in ufficio, ma accidenti se era in forma, per essere un passacarte!
«Forza, forza, non mollare, Davis! Non restare indietro!» gli gridò senza voltarsi.
Il fidanzato non le rispose. Martha pensò che stavano insieme da un anno e quello bastava per chiudere tutte le eventuali discussioni su chi dei due fosse più allenato, su chi fosse il vero atleta. Per la verità, non aveva mai avuto dubbi in proposito.
Il ringhio successivo venne da un punto ancora più vicino, accompagnato da un rumore di passi pesanti sulle foglie. Stava per essere raggiunta. Ma da chi?
«Martha! C'è qualcosa che mi insegue! Mio Dio! Corri! Corri, Martha!» le gridò Davis. «Scappa più lontano che puoi!»
L'adrenalina le entrò in circolo. Chinò la testa come per affrontare l'ultimo scatto prima del traguardo e spinse con gambe e braccia, che si muovevano a tempo come pistoni di un motore in piena efficienza. Spostò il peso in avanti, da bravo corridore.
Udì delle grida dietro di sé e si voltò, ma non riuscì a vedere Davis. Erano così terrificanti che fu tentata di fermarsi. Se Davis era stato aggredito, tuttavia, se gli era successo qualcosa di terribile, era meglio andare a chiamare aiuto. La polizia. Chiunque.
Con le urla del fidanzato che le rimbombavano nelle orecchie, corse in preda al panico senza rendersi conto di dove andava. Inciampò in una pietra e rotolò giù per una discesa, andando a sbattere contro un albero. L'urto fu violento, ma se non altro la ragazza si fermò.
Si rialzò stordita. Gesù, doveva essersi rotta il braccio destro. Tenendoselo con l'altro, riprese a correre goffamente.
Arrivò a una delle strade asfaltate che attraversavano il parco. Davis aveva smesso di gridare. Che cosa gli era successo? Doveva andare a cercare aiuto.
Vide avvicinarsi un paio di fari e si buttò in mezzo alla strada gesticolando come una pazza. In fondo siamo a San Francisco!
«Fermatevi, per favore! Fermatevi! Ehi, ehi!» Alzando il braccio sano e gridando con tutto il fiato che aveva in gola, implorò: «Ferma! Ho bisogno di aiuto!»
Il furgone bianco proseguì a tutta velocità nella sua direzione, ma grazie a Dio all'ultimo momento si fermò. Scesero di corsa due uomini, che vennero verso di lei. L'avrebbero aiutata: sul cofano del furgone c'era il simbolo della Croce Rossa.
«Aiuto! Vi prego! È successo qualcosa di grave al mio fidanzato!»
Ma, d'improvviso, uno dei due uomini le sferrò un pugno e, prima ancora di capire che cosa stava succedendo, Martha stramazzò a terra. Batté il mento sull'asfalto e rimbalzò come una palla, inerte: il colpo era stato talmente forte che l'aveva quasi tramortita.
Guardò su, cercando di mettere a fuoco, e subito se ne pentì, perché vide due occhi iniettati di sangue che la fissavano e una bocca spalancata. Anzi, no, due bocche spalancate terrificanti. Non aveva mai visto denti del genere in vita sua. Affilati come coltelli. Enormi.
Se li sentì affondare nelle guance, poi nel collo. Com'è possibile? Martha gridò finché ebbe voce. Rotolò, si dibatté, prese a calci i suoi aggressori, ma fu inutile. Avevano una forza sovrumana. E ringhiavano.
«Estasi», le sussurrò uno dei due all'orecchio. «Non è meraviglioso? Sei fortunata: tu e Davis siete stati scelti fra tutta la gente più bella di San Francisco.»
4
A Washington era una mattina limpida, perfetta. Be', quasi perfetta: ero al telefono con il Mastermind. «Pronto, Alex. Non senti la mia mancanza? Io tantissimo, dottore.»
Quel bastardo mi faceva telefonate minatorie tutte le mattine da più di una settimana. A volte si limitava a insultarmi per parecchi minuti di seguito. Quel giorno sembrava decisamente più educato.
«Come va? Hai grandi progetti per oggi?» mi chiese.
In effetti sì, avevo in progetto di catturarlo. Ero a bordo di un furgone dell'FBI già in movimento, attrezzato per risalire alla fonte della telefonata. Di lì a poco lo avremmo localizzato. Avevo ottenuto un mandato per le intercettazioni ambientali e la società dei telefoni si stava occupando di rintracciare la chiamata. Io ero nel retro del furgone con tre agenti federali e il mio collega John Sampson. Eravamo partiti da casa mia, in 5th Street, non appena arrivata la telefonata, ed eravamo diretti a nord, sulla Interstate 395. Il mio compito era tenerlo in linea finché i tecnici non avessero finito il loro lavoro.
«Parlami di Betsey Cavalierre. Perché hai scelto lei invece di me?» domandai.
«Oh, perché lei è molto, ma molto più bella di te. Fa più sangue», replicò il Mastermind.
Uno degli agenti parlava in sottofondo e io cercavo di seguire entrambe le conversazioni contemporaneamente. «Non a caso si fa chiamare Mastermind. Con il telefono di Cross sotto controllo, dovremmo poter risalire immediatamente all'altro, e invece per qualche motivo non ci stiamo riuscendo.»
«Ma perché?» chiese Sampson esasperato, avvicinandosi agli agenti.
«Non saprei esattamente. Rileviamo posizioni diverse, che si spostano di continuo. Forse chiama da un cellulare ed è in macchina. Le chiamate dai portatili sono più difficili da rintracciare.»
Vidi che stavamo imboccando l'uscita di D Street. Poco dopo entrammo nella galleria di 3th Street. Dov'era quel bastardo?
«Tutto okay, Alex? Mi sembri un po' distratto», disse il Mastermind.
«No, no. Ti seguo. Sono un piacere queste nostre conversazioni mattutine.»
«Non capisco perché è così difficile, maledizione!», esclamò il tecnico.
Perché si tratta del Mastermind, avrei voluto urlargli.
Vidi il Washington Convention Center sulla destra. Il furgone procedeva a tutta velocità, in pieno centro.
Superammo il Renaissance Hotel. Da dove diavolo mi stava chiamando?
«Ci siamo, credo. Siamo vicinissimi», esclamò eccitato uno dei giovani agenti.
Il furgone si fermò di colpo. Sampson e io tirammo fuori la pistola. L'avevamo beccato. Non riuscivo a crederci!
Poi sentii gemiti e imprecazioni. Guardando fuori capii perché e scossi la testa, schifato.
«Ma che scherzo di merda!» gridò Sampson tempestando di pugni la fiancata del furgone. Eravamo al 935 di Pennsylvania Avenue, davanti al J. Edgar Hoover Building, il quartier generale dell'FBI.
«E adesso cosa facciamo?» chiesi all'agente che comandava l'operazione. «Dove diavolo è?»
«Merda, il segnale è di nuovo in roaming. Fuori da Washington. Okay. Ora è di nuovo in città. Cristo, ora risulta all'estero!»
«Ti saluto, Alex. Ma soltanto per il momento. Come ti ho già detto, sei il prossimo della lista», disse il Mastermind prima di riattaccare.
5
Il resto della giornata fu lungo, faticoso e deprimente. Ciò di cui avevo più bisogno, comunque, era una tregua con il Mastermind.
Non so esattamente perché, dove o come avevo trovato il coraggio, ma quella sera avevo dato appuntamento a una donna, un avvocato della procura di Washington, Elizabeth Moore. Molto spiritosa e piacevolmente irriverente, grande e grossa, con un bel sorriso contagioso. Andammo a cena a Foggy Bottom, da Marcel's, un locale adatto per questo genere di incontro. Cucina francese con contaminazioni fiamminghe. La serata stava andando benissimo, o almeno così mi sembrava, ed ero abbastanza sicuro che anche Elizabeth fosse contenta.
Quando il cameriere si allontanò, dopo aver preso l'ordinazione per il dessert e il caffè, Elizabeth posò delicatamente una mano sulla mia. Sul tavolo c'era una candela accesa, in un semplicissimo portacandele di cristallo.
«Okay, Alex. Abbiamo superato tutti i preliminari. Finora tutto bene», disse. «Dov'è l'inghippo? Perché non può non esserci. Gli uomini migliori sono già tutti occupati, lo so per esperienza. Come mai sei ancora single?»
Capivo benissimo che cosa intendeva, ma finsi di essere un po' perplesso.
«Inghippo?» ripetei alzando le spalle. Poi sorrisi.
Lei scoppiò a ridere. «Quanti anni hai? Trentanove? Quaranta?»
«Quarantadue, ma grazie lo stesso.»
«Finora hai superato tutte le prove...»
«Tipo?»
«Tipo scegliere un ottimo ristorante. Romantico, ma non troppo. Tipo passarmi a prendere puntuale. Tipo starmi ad ascoltare quando ti ho parlato di cose mie. Tipo essere belloccio... Non che questo abbia grande importanza, ma insomma...»
«Inoltre mi piacciono i bambini e non mi dispiacerebbe averne altri», aggiunsi. «Ho letto tutti i romanzi di Toni Morrison. Sono un buon idraulico. So cucinare, se necessario.»
«E l'inghippo?» ripeté lei. «Lasciamo perdere.»
Il cameriere tornò con il dessert e, proprio mentre serviva il caffè a Elizabeth, si udì il bip del cercapersone che portavo alla cintola.
Oh, Gesù. Fregato!
La guardai, seduta di fronte a me, e mi scusai.
«Ti dispiace se richiamo? È importante. Ho riconosciuto dal numero l'FBI di Quantico. Faccio presto. Torno subito.»
Andai nell'anticamera della toilette e con il mio cellulare chiamai Kyle Craig in Virginia. Eravamo amici da anni, ma da quando ero responsabile dei rapporti tra il Bureau e il dipartimento di polizia di Washington ci vedevamo un po' troppo per i miei gusti. Continuava a coinvolgermi nei peggiori casi di omicidio che capitassero all'FBI. Non ne potevo più delle sue telefonate. Che cos'era successo questa volta?
Kyle sapeva che ero io a chiamare e non si degnò neppure di salutarmi. «Alex, ti ricordi quel caso cui abbiamo lavorato insieme circa quattordici mesi fa? Quello della ragazza scappata di casa che fu ritrovata appesa a un lampadario in una camera d'albergo? Patricia Cameron? Ci sono stati due omicidi analoghi a San Francisco, ieri sera al Golden Gate Park. Molto cruenti. I peggiori che abbia sentito da un po' di tempo a questa parte.»
«Ehi, sono a cena con una donna bella e molto interessante. Ne parliamo domani. Ti chiamo io. Stasera sono fuori servizio.»
Kyle rise. A volte mi trovava divertente. «Me lo ha già detto Nana. Un avvocato, giusto? Senti questa. Il diavolo incontra un avvocato e gli dice che lo può far diventare socio dello studio, ma soltanto se gli vende la sua anima e quella di tutti i suoi familiari. L'avvocato guarda il diavolo negli occhi e chiede: 'Dov'è l'inghippo?'» Dopo la barzelletta, Kyle si mise a raccontarmi più particolari di quelli che avrei voluto sapere sulle analogie tra gli spaventosi delitti di San Francisco e quello di Washington. Ricordavo benissimo la vittima, Patricia Cameron. Mi pareva di vedere ancora il suo volto. Scacciai l'immagine.
Quando ebbe finito - e Kyle è esauriente, se non addirittura prolisso - tornai da Elizabeth, che mi fece un sorrisetto triste e, scuotendo la testa, disse: «Credo di aver capito qual è l'inghippo».
Mi sforzai di ridere, ma dentro di me ero sconsolato. «Francamente, non è sempre così.»
Purtroppo è molto peggio.
6
L'indomani mattina, prima di andare all'aeroporto, accompagnai i ragazzi a scuola. Jannie ha otto anni e Damon ne ha appena compiuti dieci. Sono bravissimi, ma sono bambini: dai loro un dito e si prendono tutto il braccio. Anzi, se possono, pure la spalla. Qualcuno, non ricordo più chi, ha detto: «I bambini americani soffrono di troppa madre e di troppo poco padre». Nel caso dei miei figli, vale esattamente il contrario.
«Pensa che bello venire sempre a scuola in macchina», commentò Jannie mentre ci fermavamo davanti alla Sojourner Truth School. In sottofondo ascoltavamo un bellissimo CD di Helen Folasade Adu, in arte Sade.
«Scordatelo. Sono ottocento metri a piedi da casa a scuola. Quando ero piccolo, nel North Carolina, tutte le mattine mi facevo otto chilometri in mezzo ai campi di tabacco.»
«Ah, già, è vero. E ti sei dimenticato di dirci che li facevi scalzo», aggiunse Damon, in tono di scherno.
«Giusto: grazie di avermelo ricordato. Andavo a scuola a piedi nudi in mezzo alle stoppie del tabacco.»
I bambini risero e io con loro. Di solito sono simpatici. Li riprendo spesso con la videocamera, nella speranza di avere dei bei film da vedere quando saranno adolescenti. E anche perché ho paura che prima o poi mi venga l'RT, il Rincoglionimento Totale. Ormai è un'epidemia.
«Domenica ho un concerto importante», mi ricordò in quel momento Damon. Da due anni canta nel Washington Boys' Choir ed è veramente bravo. Vuole diventare un altro Luther Vandross, o magari Al Green, o forse semplicemente Damon Cross.
«Torno sabato, Damon. Fidati, non voglio perdermi il concerto.»
«Ne hai già persi parecchi», mi fece notare, pungendomi sul vivo.
«Quello era il vecchio Alex. Adesso hai a che fare con la nuova versione, riveduta e corretta. E comunque ne ho anche sentiti parecchi.»
«Sei proprio buffo, papà», esclamò Jannie ridendo. Sono tutti e due intelligenti, e con la risposta pronta.
«Sarò a casa per il concerto di Damon», promisi. «Date una mano alla nonna in casa. Ha quasi cent'anni, lo sapete.»
Jannie alzò gli occhi al cielo. «Ne ha soltanto ottanta, come dice lei. E far da mangiare, lavare i piatti e occuparsi di noi le piace», aggiunse imitando la risatina maliziosa di Nana. «Le piace da matti.»
«A sabato. Non vedo l'ora», sussurrai a Damon. Era la verità, tutta la verità e nient'altro che la verità. Il Washington Boys' Choir era uno dei tesori nascosti della capitale, e io ero felicissimo che fosse così bravo da farne parte. Soprattutto, mi faceva piacere che amasse cantare.
«Baci. E abbracci», dissi.
Damon e Jannie fecero una smorfia, ma si avvicinarono. Mi chiesi per quanto tempo ancora sarebbero stati disposti a farsi baciare sulla guancia e, già che c'ero, ne approfittai. Conviene cercare di far durare i momenti belli che si passano con i figli.
«Vi voglio bene», dissi prima che scendessero dalla macchina. «Come si dice?»
«Anche noi ti vogliamo bene», risposero all'unisono.
«Per questo ti permettiamo di farci fare queste figure davanti a tutta la scuola e ai nostri amici», aggiunse Jannie tirando fuori la lingua.
«È l'ultima volta che vi accompagno!» ribattei, facendo le boccacce anch'io prima che corressero via. Stavano crescendo troppo in fretta per me.
7
Dall'aeroporto telefonai a Kyle Craig, il quale mi disse che a Quantico stavano cercando casi in cui le vittime presentassero segni di morsicature, simili, cioè, a quelli già avvenuti dalle altre parti. Mi ripeté che era convinto che questo omicidio, oltre che terrificante, fosse importantissimo. Mi chiesi che cos'altro mi nascondeva, perché di solito sapeva più di quello che diceva.
«Ti sei alzato presto e sei già al lavoro, Kyle. Questa faccenda ti interessa molto. Come mai?»
«Be', è un caso unico. Non si è mai visto nulla di anche soltanto lontanamente paragonabile. L'ispettore Jamilla Hughes ti verrà a prendere all'aeroporto, se possibile. È lei che dirige le indagini. Dicono che sia molto competente. E una delle uniche due donne che lavorano alla Omicidi a San Francisco, perciò è probabile che sia abbastanza in gamba.»
In aereo lessi e rilessi i fax che avevo ricevuto quella mattina sullo spaventoso duplice omicidio del Golden Gate Park. Gli appunti presi dall'ispettore Hughes sulla scena del delitto erano precisi e dettagliati ma, soprattutto, agghiaccianti.
A mia volta, presi nota con il metodo che usavo sempre, in tutte le indagini.
Vittime, uomo e donna, trovate morte, 3.20, Golden Gate Park, San Francisco. Perché lì? Visitare parco se possibile.
Vittime appese per i piedi a una quercia. Perché appese? Per drenare il sangue? Motivo? Rito di purificazione? Espiazione spirituale?
Cadaveri nudi e coperti di sangue. Perché nudi? Erotismo? Omicidio a sfondo sessuale o semplice violenza? Desiderio di esporre le vittime al mondo? Per quale ragione?
Profonde lacerazioni su gambe, braccia e torace uomo: apparenti segni di ripetute morsicature. Causa di morte: morsi!!!
Donna con segni analoghi, meno profondi. Ferite da taglio prodotte con oggetto affilato. Morte per dissanguamento, emorragia classe IV: volume perso più del 40%.
Sulle caviglie, dove sono state legate prima di essere appese, le vittime presentano puntini rossi che il medico legale ha chiamato petecchie.
Le impronte dei denti sull'uomo sembrano di grosso animale. Possibile? Quale animale può aggredire in parco grande città? Improbabile.
Sostanza bianca su gambe e pancia uomo. Sperma? Che gioco amano i killer? Sadomaso?
Ripensai al caso simile avvenuto a Washington. Come avrei potuto dimenticarlo?
Una sedicenne scappata da casa a Orlando, in Florida, era stata trovata mutilata e uccisa nella stanza di un albergo del centro. Si chiamava Patricia Dawn Cameron. Le analogie con gli omicidi californiani erano troppo evidenti per non prenderle in considerazione. La ragazza presentava segni di morsicature su tutto il corpo ed era stata appesa per i piedi al lampadario della camera.
Il cadavere era stato scoperto quando il lampadario era crollato fragorosamente. Anche Patricia Cameron era morta dissanguata, per emorragia di classe IV, dopo aver perso quasi il 70 per cento del volume ematico.
La prima domanda era ovvia.
Cosa se ne faceva uno di tutto quel sangue?
8
Stavo ancora riflettendo su quegli strani, terribili morsi e su tutto quel sangue quando scesi dall'aereo e mi ritrovai nell'affollata sala arrivi del San Francisco International Airport. Mi guardai intorno in cerca dell'ispettore Jamilla Hughes. Mi avevano detto che era nera ed era una gran bella donna.
Notai un uomo d'affari che leggeva l'Examiner vicino all'uscita. Il titolo a caratteri cubitali in prima pagina diceva: «Orrore al Golden Gate Park, due morti».
Non vedendo nessuno ad aspettarmi, cominciai a cercare le indicazioni per andare in centro con i mezzi pubblici. Portavo soltanto un bagaglio a mano: avevo promesso che sarei tornato a casa in tempo per il concerto di Damon, ed ero seriamente intenzionato a mantenere la promessa. L'avevo giurato.
Mentre mi avviavo, vidi avvicinarsi una donna. «Scusi, è lei il detective Cross?»
L'avevo notata un attimo prima che mi rivolgesse la parola. Aveva un giaccone di pelle nera, jeans e una maglietta blu cobalto. Subito dopo riconobbi, inconfondibile, la fondina sotto la giacca. Avrà avuto trentacinque anni, era bella, diretta e gentile, per essere un ispettore della squadra Omicidi, categoria di solito piuttosto brusca nei modi.
«Ispettore Hughes?» chiesi.
«Jamilla.» Mi porse la mano e mi sorrise. Un bel sorriso. «Piacere di conoscerti. Di solito diffido di tutti quelli che hanno a che fare con l'FBI, ma tu hai una tale reputazione... E l'omicidio di Washington era spaventosamente simile, vero? Quindi, benvenuto a San Francisco.»
«Grazie.» Ricambiai il sorriso e le strinsi la mano. Aveva una stretta decisa, ma non troppo. «Stavo proprio pensando a quel caso», le dissi. «Gli appunti che hai preso sulla scena del delitto me l'hanno fatto tornare in mente. Purtroppo però l'assassino di Patricia Cameron non è mai stato identificato. Se vuoi aggiungerlo al file della mia cosiddetta reputazione...»
Jamilla Hughes mi concesse un altro sorriso, sincero, ma non esagerato. Del resto non c'era nulla di esagerato in lei. Non aveva il look da poliziotta, il che probabilmente era un bene. Anzi, sembrava fin troppo normale per lavorare nella polizia.
«Be', sarà meglio che ci sbrighiamo. Ho contattato uno specialista in odontoiatria veterinaria che ci aspetta all'obitorio. È amico del medico legale. Che ne dici, come inizio del giro turistico della città?»
Scossi la testa ridendo. «Ma se sono venuto apposta! Ho letto da qualche parte che chi passa per San Francisco non deve perdere l'occasione di visitare l'obitorio comunale.»
«Non è nelle guide, ma meriterebbe di esserci. È molto più interessante di qualsiasi giro sui cable car», replicò Jamilla.
9
Meno di cinquanta minuti dopo, Jamilla Hughes e io eravamo all'obitorio della famosa Corte di Giustizia di San Francisco, dove fummo raggiunti dal medico legale Walter Lee e dall'esperto di odontoiatria, il dottor Allen Pang.
Quest'ultimo esaminò con tutta calma entrambi i cadaveri prima di pronunciarsi. Aveva già studiato le fotografie dei morsi scattate sulla scena del delitto. Era basso e completamente pelato e portava un paio di occhiali dalla montatura nera e dalle lenti molto spesse. A un certo punto vidi che Jamilla strizzava l'occhio al medico legale: credo che trovassero il dottor Pang un po' strano. Anch'io avevo l'impressione di avere a che fare con un tipo bizzarro, ma l'importante era che fosse scrupoloso e prendesse sul serio il compito che gli era stato affidato.
«Okay, okay. Ora posso dirvi di che natura sono i morsi», dichiarò alla fine del suo esame voltandosi verso di noi. «Hai detto che avete preso le impronte dei segni, vero, Walter?»
«Sì, abbiamo usato la polvere con cui rileviamo le impronte digitali. I calchi dovrebbero essere pronti tra un paio di giorni al massimo. Abbiamo anche eseguito dei tamponi per analizzare la saliva, naturalmente.»
«Bene, bene. È l'approccio migliore, secondo me. Sono pronto a esporvi il mio parere, benché naturalmente sia soltanto una supposizione.»
«Grazie, Allen», replicò Lee in tono pacato e dignitoso. Portava un camice bianco con il soprannome Dragon ricamato sul taschino. Era alto, sarà stato quasi uno e novanta, e doveva pesare almeno centodieci chili. Con la sua aria sicura di sé, mi spiegò: «Il dottor Pang è un amico, e mi è stato di grande aiuto in altre occasioni. È l'esperto di odontoiatria veterinaria dell'Animal Medical Center di Berkeley. Uno degli specialisti migliori del mondo. Siamo fortunati a poterci avvalere della sua consulenza in questo caso».
«Lei è sempre molto disponibile, dottor Pang, grazie», aggiunse l'ispettore Hughes. «È stato gentilissimo a venire.»
«Grazie», dissi unendomi anch'io al coro.
«Non c'è di che», ribatté lui. «Non so esattamente da dove cominciare, a parte dirvi che questi due omicidi sono di grande interesse per me. Dai morsi sul corpo dell'uomo, molto profondi, sono relativamente certo che l'aggressione sia stata opera di... be', di una tigre. A morsicare la donna invece sono stati due esseri umani. Sembra quasi che gli assassini e il felino fossero insieme, come se facessero parte dello stesso branco. Straordinario. A dir poco inconsueto.»
«Una tigre?» esclamò Jamilla dando voce all'incredulità che tutti provavamo. «È sicuro? Mi sembra impossibile, dottor Pang.»
«Allen, spiegati meglio, per favore», disse Walter Lee.
«Dunque, come sapete, gli esseri umani sono eterodonti, ovvero dotati di denti con forma diversa e funzioni specializzate. Molto importanti sono i canini, che si trovano tra gli incisivi laterali e il primo premolare su entrambi i lati della mascella, e che servono per strappare il cibo.»
Walter Lee annuì e il dottor Pang continuò. A quel punto si rivolgeva esclusivamente al medico legale. Incrociai lo sguardo di Jamilla, che mi strizzò l'occhio. Mi piaceva il fatto che avesse il senso dell'umorismo.
Il dottor Pang era nel suo mondo. «A differenza degli esseri umani, alcuni animali sono omodonti, dotati cioè di denti che hanno tutti la stessa forma, dimensione e anche la stessa funzione. Questo non vale però per i grossi felini e in particolare per le tigri, i cui denti si sono evoluti in base alle abitudini alimentari della specie. In ciascuna arcata le tigri hanno sei incisivi appuntiti e taglienti, due canini molto affilati e ricurvi, e i molari, anch'essi simili a lame.»
«E questo è importante ai fini degli omicidi?» chiese Jamilla. Anch'io avevo pensato di fare una domanda del genere al dottor Pang, ma in termini molto meno diplomatici.
L'ometto annuì entusiasta. «Oh, sì, certo. Le tigri hanno mascelle robustissime, capaci persino di stritolare un osso, ma articolate soltanto in senso verticale: non si muovono lateralmente. Questo significa che la tigre può strappare e triturare il cibo, ma non masticare o digrignare i denti.» Accompagnò la spiegazione mimando i vari gesti con la bocca.
Io deglutii e mi ritrovai a scuotere la testa. Una tigre coinvolta negli omicidi? Com'era possibile?
Il dottor Pang smise di parlare, alzò un braccio e si grattò piuttosto energicamente la testa pelata, quindi aggiunse: «Quello che non riesco assolutamente a spiegarmi è che qualcuno sia riuscito a strappare la preda alla tigre dopo che questa l'aveva aggredita. Eppure dev'essere successo, perché altrimenti l'avrebbe sbranata completamente».
«Straordinario!» commentò il medico legale dando una pacca sulla spalla al dottor Pang. Poi guardò Jamilla e me. «Non dovrebbe essere poi così difficile trovare una tigre a San Francisco, non vi pare?»
10
La grossa tigre bianca emise uno sbuffo, una specie di fischio soffocato, trattenuto, un risucchio che veniva dal fondo della gola, un suono quasi ultraterreno. Da un cipresso nelle vicinanze si alzarono in volo gli uccelli e gli animali più piccoli scapparono via veloci.
Era lunga quasi due metri e mezzo e pesava poco più di duecentosessanta chili. Le sue prede naturali erano maiali, cervi, antilopi, bufali d'acqua. In California non ce n'erano, ma in compenso c'erano un sacco di uomini.
Il possente felino, apparentemente senza sforzo, spiccò un balzo veloce, agile. Il giovanotto biondo non tentò neppure di resistere.
La tigre spalancò le fauci e le richiuse sulla testa dell'uomo. Avrebbe potuto stritolargli il cranio.
L'uomo gridò: «Ferma! Ferma! Ferma!»
La tigre, incredibile ma vero, si bloccò.
Così. A comando.
«Hai vinto tu», disse ridendo il ragazzo, e la accarezzò, mentre quella gli lasciava libera la testa.
Poi il giovane fece un salto verso sinistra, agile e leggero, e la attaccò a sua volta, affondandole i denti nella pancia bianca e vulnerabile, coperta di morbido pelo. «Ti ho preso, baby! Hai perso! Ti ho in pugno.»
William Alexander, in piedi a una certa distanza, osservava il fratello con un misto di curiosità e timore. Michael era bellissimo, straordinariamente aggraziato e atletico, di una forza incredibile. Aveva indosso una maglietta nera con le tasche e un paio di pantaloni corti blu cobalto. Era alto uno e novanta e pesava ottantatré chili. Era perfetto. Come lui, del resto.
William si allontanò ammirando i monti verdi in lontananza. Amava moltissimo quel posto, la sua bellezza e la solitudine, la libertà di fare tutto quello che voleva.
Provava una calma grande e profonda. Era un'arte che stava ancora perfezionando.
Quando lui e Michael erano piccoli, in quel posto c'era una comune. I loro genitori erano hippy, spiriti liberi e avventurosi, amanti della libertà, grandi consumatori di droga. Avevano inculcato ai due figli l'idea che il mondo esterno fosse non soltanto pericoloso, ma anche sbagliato. La madre gli aveva insegnato che si potevano avere rapporti sessuali con chiunque, purché fossero consensuali, e quindi William e Michael erano stati a letto con la madre, con il padre e con molti altri membri della comune. La loro dissolutezza era degenerata al punto da farli finire per due anni in una casa di correzione penale. Dopo un arresto per possesso di sostanze stupefacenti, erano stati condannati per aggressione aggravata ed erano sospettati di aver commesso reati molto più gravi, per i quali mancavano però le prove.
Osservando il panorama, William rifletté sul concetto di immaginazione sfrenata. Giorno dopo giorno si stava lasciando alle spalle lo squallido bagaglio del proprio passato, e ben presto si sarebbe affrancato completamente dalla falsa morale, dall'etica e da tutte le altre insulse inibizioni che il mondo civile continuava a spacciare per necessarie.
Si stava avvicinando alla verità. E Michael lo seguiva da vicino.
William aveva vent'anni.
Michael soltanto diciassette.
Uccidevano insieme ormai da cinque anni e stavano diventando sempre più in gamba.
Erano invincibili.
Immortali.
11
Quella sera i due fratelli uscirono a caccia a Mill Valley, una cittadina della contea di Marin in una zona bellissima, con monti coperti di splendidi, rigogliosi sempreverdi e alberi di eucalipto. La casa di legno di sequoia era un centinaio di metri più avanti, in cima a una salita rocciosa che affrontarono senza sforzo. Un sentierino di cotto conduceva a un portone di legno a due battenti.
«Dovremo andare via per un po'», disse William a Michael, senza voltarsi. «Il Sire ci ha affidato una missione. San Francisco è stato soltanto l'inizio.»
«Ottimo», commentò Michael con un sorriso. «A me è piaciuto molto. Chi abita in quella bella casa in cima alla salita?»
William alzò le spalle. «Semplici mortali. Non sono nessuno.»
Michael si accigliò. «Perché non mi vuoi dire chi sono?»
«Il Sire ha detto di non parlarne e di non portare la tigre.»
Michael non pose altre domande. La sua obbedienza al Sire era totale.
Il Sire diceva che cosa pensare, che cosa sentire e che cosa fare.
Il Sire non rendeva conto a nessuno, non riconosceva altra autorità al di fuori di sé.
Il Sire, come loro, disprezzava il mondo dei comuni mortali.
E quello che avevano davanti, in cima alla salita, ne era un ottimo esempio. La villa aveva tutti gli accessori d'obbligo: un giardino a terrazze, curato e innaffiato ogni giorno, una vasca con i pesci rossi, e una casa di oltre dodici vani per due sole persone. Che snobismo!
William si diresse alla porta con passo deciso e Michael lo seguì. L'atrio aveva il soffitto alto sei metri, un ridicolo lampadario di cristallo e una scala a chiocciola.
Trovarono marito e moglie in cucina intenti a preparare con gran cura la cena.
«Yuppie in azione», commentò William, e sorrise.
«Ehi!» esclamò il marito alzando le braccia. Era alto più di uno e novanta e aveva un bel fisico. Stava lavando la verdura come uno sguattero. «Che cosa diavolo volete? Fuori di qui.»
«Tu devi essere l'avvocato rompiscatole», disse William puntando un dito contro la moglie, una donna sulla trentina, magra e con poco seno, i capelli biondi corti e gli zigomi alti. «Siamo venuti a cena.»
«Anch'io faccio l'avvocato», replicò il marito in tono dispotico. «Non credo siate stati invitati. Anzi, ne sono sicuro. Fuori di qui! Capito? Andatevene subito!»
«Hai minacciato il Sire», continuò William rivolto alla donna. «E lui ci ha mandato a vendicare l'affronto.»
«Ora chiamo la polizia», disse lei con voce angosciata, i seni che si alzavano e si abbassavano sotto la maglietta. William notò che aveva un piccolo cellulare in mano. Da dove l'aveva tirato fuori? Dalle mutande? L'idea lo fece sorridere.
In un balzo le fu addosso, mentre Michael con altrettanta facilità metteva fuori combattimento il marito. I due fratelli erano incredibilmente forti e veloci, e ne erano consapevoli.
Fecero un ruggito, ma era soltanto una tattica per spaventare le vittime.
«Abbiamo dei soldi in casa. Mio Dio, non fateci del male», gridò il marito con voce stridula, quasi da donna.
«Non ci interessano i vostri luridi soldi. Non sappiamo che farcene. E non siamo serial killer», ribatté William.
Addentò il collo rosa e succulento della donna, che subito smise di dibattersi e si abbandonò a lui. Lo guardò negli occhi e svenne, mentre una lacrima le scendeva lungo la guancia.
William non rialzò la testa finché non si fu saziato. «Siamo vampiri», bisbigliò alla fine ai due cadaveri.
12
Il secondo giorno a San Francisco mi misi al lavoro alla Corte di Giustizia, vicino alla scrivania di Jamilla Hughes. Presenziai a due dei suoi briefing sugli omicidi del Golden Gate Park, che mi parvero esaurienti e molto professionali. Era davvero in gamba.
Tutto, in quel caso, sembrava inspiegabile e privo di logica. Nessuno aveva ancora le idee chiare al riguardo e non erano state avanzate ipotesi valide, o perlomeno io non ne avevo sentite. L'unica cosa che sapevamo con certezza era che le vittime erano state assassinate in modo particolarmente raccapricciante. Ma questo succede sempre più spesso, di questi tempi.
Verso mezzogiorno, ricevetti una telefonata al cellulare. «Soltanto un controllino», esordì il Mastermind. «Com'è San Francisco, Alex? Bella città, eh? Pensi di lasciarci il cuore? Ti sembra un posto adatto per morire? E che mi dici di Jamilla? Ti piace? Carina, vero? Proprio il tuo tipo. Hai intenzione di scopartela? Caso mai, ti conviene sbrigarti. Tempus fugit.» E riattaccò.
Mi rimisi al lavoro e per due ore fui totalmente assorbito. Cominciavo a fare qualche piccolo passo in avanti.
Verso le quattro, mentre guardavo dalla finestra il traffico dell'ora di punta a San Francisco - non troppo caotico, devo dire - parlai con Kyle Craig. Era ancora a Quantico, ma si stava occupando del caso a tempo pieno.
Kyle era in una posizione tale da poter decidere quali indagini seguire di persona, e mi comunicò che gli omicidi di San Francisco rientravano nella sua scelta: ci saremmo trovati di nuovo a lavorare insieme. La prospettiva mi allettava.
Con la coda dell'occhio vidi Jamilla che veniva verso la mia scrivania. Si stava infilando la giacca di pelle. Dove andava? «Aspetta un attimo, Kyle.»
«Dobbiamo andare a San Luis Obispo», mi informò Jamilla. «Stanno per riesumare un cadavere. Credo che ci sia un nesso con gli omicidi del Golden Gate Park.»
Comunicai a Kyle che dovevo scappare e lui mi augurò buon lavoro. Insieme con Jamilla presi l'ascensore per scendere nel garage sotto la Corte di Giustizia. Più la vedevo all'opera, più apprezzavo il suo senso pratico e soprattutto il suo entusiasmo. Molti detective dopo due o tre anni lo perdono, evidentemente lei no. Hai intenzione di scopartela? Caso mai, ti conviene sbrigarti.
«Sei sempre così carica?» le chiesi quando fummo sulla sua Saab azzurra, diretti verso la 101.
«Più o meno sì. Questo lavoro mi piace. E duro, ma interessante e perlopiù onesto. Farei volentieri a meno degli aspetti più violenti, ma...»
«Be', i cadaveri appesi per i piedi fanno venire la pelle d'oca anche a me.»
Jamilla si voltò a guardarmi. «A proposito di pelle d'oca, mettiti la cintura. La strada è lunga e io adoro la guida sportiva. Non lasciarti trarre in inganno dall'aspetto innocuo della mia Saab.»
Non scherzava. Stando alle indicazioni, da lì a San Luis Obispo c'erano 377 chilometri. Piovve forte per quasi tutto il viaggio, ma alle otto e mezzo eravamo a destinazione.
«Sani e salvi.» Jamilla annuì e mi strizzò l'occhio mentre imboccavamo a tutta velocità l'uscita.
San Luis Obispo sembrava un posto idilliaco, ma noi ci trovavamo lì per riesumare il cadavere di una ragazzina, morta dissanguata e appesa per i piedi.
13
San Luis Obispo è una città universitaria molto graziosa, perlomeno vista dall'esterno. Trovammo Higuera Street e la percorremmo fino a Osos Street, passando davanti a negozietti tipici, ma anche a uno Starbuck, una libreria Barnes & Noble e un Firestone Grill. Jamilla mi spiegò che a San Luis Obispo si poteva scoprire che ora era dai profumi e dagli odori che si sentivano nell'aria: nel pomeriggio, fumo di barbecue in Marsh Street e, di notte, l'aroma del grano e dell'orzo nei pressi della distilleria.
La detective Nancy Goodes ci aspettava alla stazione di polizia del centro. Era una donna minuta, piacente, con una bell'abbronzatura da californiana e l'aria piuttosto autorevole. Oltre a contattare noi per la riesumazione, si stava occupando delle indagini sulla morte di due studenti del California State Polytechnic. Non sembravano esserci collegamenti con il nostro caso, ma non era da escludere. Come la maggior parte dei detective specializzati in omicidi, era oberata di lavoro.
«Abbiamo tutte le autorizzazioni necessarie per la riesumazione», ci disse mentre andavamo al cimitero. Se non altro aveva smesso di piovere e, grazie ai venti di Santa Ana, faceva caldo.
«Che cosa ci puoi dire sulla Richardson? Avevi seguito tu il caso, vero?» le chiese Jamilla.
Nancy annuì. «Sì. Come tutti gli altri investigatori della città, peraltro: la tragedia destò grande scalpore nella zona. Mary Alice Richardson frequentava il liceo cattolico ed era figlia di un medico molto conosciuto e benvoluto. Era una brava ragazza, anche se un po' ribelle. Che cosa posso dirvi? Era come tutte le ragazzine di quindici anni.»
«Che cosa intende per 'un po' ribelle'?» chiesi.
La detective Goodes sospirò ed esitò a rispondere. Era chiaro che il caso l'aveva segnata. «Faceva molte assenze a scuola, a volte anche due o tre alla settimana. Era intelligente, ma prendeva pessimi voti. Bazzicava un brutto giro: rave party, magia nera, alcol, ecstasy, forse anche cocaina. Era stata arrestata una volta sola, ma aveva dato parecchi grattacapi ai suoi.»
«Tu l'avevi vista, Nancy? Eri stata sulla scena del delitto?» Notai che Jamilla la trattava con grande rispetto e stava attenta a non usare toni aggressivi.
«Purtroppo sì. È uno dei motivi per cui mi sono data tanto da fare per avere il permesso di riesumare il cadavere. Sono passati un anno e tre mesi, ma non dimenticherò mai, mai e poi mai lo stato in cui la trovammo.»
Jamilla e io ci scambiammo un'occhiata. Non eravamo ancora stati edotti su tutti i particolari di quell'assassinio. Stavamo ancora raccogliendo informazioni.
La Goodes continuò: «Mi parve subito chiaro che l'assassino voleva che la trovassimo. Il cadavere fu scoperto da due ragazzi che avevano lasciato la macchina in un posto molto frequentato dagli studenti del politecnico, ed erano andati a fare una passeggiata al chiaro di luna. Sono sicura che hanno avuto gli incubi per un pezzo, dopo lo spettacolo che si videro davanti quella sera. Mary Alice era appesa per i piedi a un albero, completamente nuda. Gli assassini le avevano lasciato soltanto gli orecchini e un piccolo zaffiro all'ombelico. Di certo non l'avevano uccisa per derubarla».
«E i vestiti?» domandai.
«Li trovammo in seguito: pantaloni da paracadutista, scarpe Nike, maglietta Chili Peppers. Che ci risulti, non mancava nulla.»
Lanciai un'occhiata a Jamilla. «L'assassino non prende nulla per ricordo. Per un motivo o per l'altro, non ha bisogno di trofei. Almeno così pare. Singolare per un serial killer.»
«Vero. Sono d'accordo al cento per cento. Sapete che cos'è la scarificazione?» replicò la Goodes.
Annuii. «Mi è già capitato di vedere gente che si procura cicatrici, ferite... Perlopiù sulle gambe e sulle braccia, talvolta sul petto o sul dorso. Evitano la faccia, perché se si vede c'è il rischio che qualcuno li costringa a smettere. Di solito si tratta di una forma di autolesionismo.»
«Esatto», confermò Nancy. «O Mary Alice si autoinfliggeva tagli da qualche mese o glieli faceva qualcuno. Fatto sta che aveva oltre settanta ferite sul corpo. Dappertutto, tranne che sul viso.»
La Suburban bianca imboccò un viale di ghiaia e superò un cancello arrugginito in ferro battuto.
«Ci siamo. Togliamoci il pensiero. I cimiteri mi fanno venire la pelle d'oca. Non ho nessuna voglia di fare quello che stiamo per fare: mi mette una tristezza...»
Metteva tristezza anche a me.
14
Devo ancora conoscere una persona normale cui non venga la pelle d'oca se si trova al buio in un cimitero. E, siccome mi considero relativamente equilibrato, ero pietrificato. Nancy Goodes aveva ragione: la storia di quella ragazza, di quella giovane vita stroncata così tragicamente, metteva una gran tristezza.
Il camposanto era ai piedi delle morbide colline di Santa Lucia. C'erano tre auto del dipartimento di polizia di San Luis Obispo ferme nei pressi della tomba di Mary Alice Richardson, e non lontano erano parcheggiati il furgone del medico legale e due malandati pick-up senza contrassegni.
Quattro operai stavano scavando alla luce dei fari delle auto della polizia. La terra era umida, argillosa e piena di vermi. Quando la buca fu abbastanza profonda, arrivò anche una scavatrice meccanica.
A tutti i presenti, me compreso, non restava che aspettare pazientemente intorno alla tomba. Per ingannare l'attesa bevemmo caffè, scambiammo quattro chiacchiere e qualche battuta sinistra, ma nessuno aveva voglia di ridere.
Spensi il cellulare. Ci mancava soltanto una chiamata del Mastermind, o di chiunque altro, lì, in mezzo alle tombe.
Verso l'una del mattino gli operai arrivarono finalmente alla cassa. Avevo un nodo allo stomaco, ma non distolsi lo sguardo. Jamilla, vicino a me, rabbrividì, ma strinse i denti. Nancy Goodes era andata a sedersi in macchina. Furba.
Per sollevare la bara usarono un piede di porco. Si udì un rumore che sembrava il gemito di un sofferente.
La fossa era profonda circa un metro e ottanta, lunga due e quaranta e larga poco più di un metro.
Né Jamilla né io aprimmo bocca, concentrati unicamente sulla riesumazione. Le ciglia mi battevano veloci alla luce forte dei fari, avevo il respiro affannoso e la gola asciutta.
Ripensai alle foto del ritrovamento di Mary Alice. Quindici anni. Appesa per le caviglie con la testa a mezzo metro da terra e lasciata lì per parecchie ore. Il dissanguamento era stato quasi completo. Un'altra morte per emorragia classe IV. Morsi e coltellate.
La vittima di Washington non era stata accoltellata. Che cosa significava? Perché quelle variazioni sul tema? Che cosa se ne facevano di tutto quel sangue? Forse preferivo non sapere le risposte agli interrogativi che mi mulinavano nel cervello.
Sotto la bara vennero fatte passare consunte cinghie di tela grigia e finalmente, piano piano, il feretro venne riportato in superficie.
Avevo il respiro sempre più affannoso e, tutto a un tratto, mi sentii in colpa: mi venne il dubbio che non fosse giusto disturbare quella povera ragazza nella tomba, che quello che stavamo facendo fosse un atto sacrilego verso una persona che aveva già subito fin troppe atrocità.
«Lo so, lo so. È uno schifo. Anch'io mi sento come te», mi sussurrò Jamilla tra i denti, posandomi una mano sul braccio. «Però dobbiamo farlo. Non abbiamo scelta. Dobbiamo scoprire se gli assassini sono gli stessi.»
«Già... Ma perché questo non basta a mettermi l'anima in pace? Mi sento completamente svuotato.»
«Povera ragazza. Perdonaci, Mary Alice. Poverina», disse Jamilla.
Un funzionario delle pompe funebri, che aveva acconsentito a partecipare, scoperchiò la bara. E indietreggiò come se avesse visto un fantasma.
Mi feci avanti e trattenni a stento un urlo. Jamilla si coprì la bocca con le mani. Due degli operai si fecero il segno della croce e chinarono il capo.
Davanti ai nostri occhi c'era Mary Alice Richardson con un lungo vestito bianco e le trecce bionde, che ci fissava come se fosse stata sepolta viva. Il cadavere era praticamente intatto.
«C'è una spiegazione», disse il funzionario delle pompe funebri. «I Richardson sono miei amici e mi chiesero se si poteva fare qualcosa per conservare il più a lungo possibile la figlia. Quasi sapessero che quella non era l'ultima volta in cui sarebbe stata vista. Il grado di decomposizione di un corpo, una volta tumulato, varia molto a seconda degli ingredienti. Per imbalsamarla usai una soluzione a base di arsenico, come si faceva un tempo. Giudicate voi stessi il risultato.»
Tacque, mentre noi, con gli occhi sbarrati, continuavamo a fissare il cadavere.
«Mary Alice è esattamente come il giorno in cui fu sepolta. Questa è la povera ragazza che fu assassinata così brutalmente.»
15
Rientrammo a San Francisco alle sette del mattino. Non so dove Jamilla trovò la forza per guidare da San Luis Obispo fino a casa, ma ci riuscì. Per tenerci svegli ci sforzammo di parlare quasi tutto il viaggio e ci facemmo persino qualche risata, ma io ero esausto e facevo fatica a tenere gli occhi aperti. Quando, arrivato in albergo, finalmente li chiusi, vidi Mary Alice Richardson stesa nella bara.
Mi presentai alla Corte di Giustizia alle due del pomeriggio e trovai Jamilla Hughes che beveva un caffè alla sua scrivania; sembrava fresca e riposata. In ottima forma. Lavorava a quel caso con impegno pari, se non superiore, al mio. Speravo che servisse a qualcosa.
«Non dormi mai?» le chiesi fermandomi un attimo e notando quanto era ingombra la scrivania.
C'era anche la foto di un bell'uomo sorridente e mi rallegrai che almeno Jamilla trovasse il tempo per avere una vita sentimentale. Pensai a Christine Johnson, che adesso viveva sulla West Coast, e provai un grande rammarico. Christine non era più l'amore della mia vita, purtroppo: si era trasferita da Washington a Seattle, dove si trovava bene e aveva ricominciato a insegnare.
La donna alzò le spalle. «Mi sono svegliata verso mezzogiorno e non sono più riuscita a riaddormentarmi. Forse sono troppo stanca. Il medico legale di San Luis Obispo dice che ci manda il rapporto entro stasera. Ma senti questa: ho appena ricevuto un'e-mail da Quantico. Ci sono stati otto omicidi in California e Nevada che presentano analogie con quelli del Golden Gate Park. Non tutte le vittime sono state appese per i piedi, ma tutte presentavano segni di morsicature. Il più vecchio dei casi risale a sei anni fa, per ora. Ma stanno cercando anche più indietro.»
«In quali città?» domandai.
Diede un'occhiata agli appunti. «Sacramento, la nostra rispettabile capitale. San Diego. Santa Cruz. Las Vegas. Lake Tahoc San José. San Francisco. San Luis Obispo. È raccapricciante, Alex. Uno soltanto di questi omicidi basterebbe a non farmi dormire per mesi.»
«Più il caso Cameron a Washington», aggiunsi. «Chiederò all'FBI di controllare anche sulla East Coast.»
Mi rivolse un sorriso imbarazzato. «L'ho già fatto io. Ci stanno lavorando.»
«Allora noi che ci stiamo a fare?» chiesi scherzando.
«Quello che fanno i poliziotti quando non gli resta che aspettare. Mangiamo ciambelle e beviamo caffè», ribatté alzando al cielo gli occhi scuri. Nonostante il sonno arretrato era molto bella, un fascino spontaneo e naturale.
Andammo a fare colazione dietro l'angolo, al Roma's, e parlammo delle indagini. Poi le chiesi quali casi aveva risolto. Pur essendo molto sicura di sé, non si dava arie, e questo mi piaceva. Quando ebbe finito la sua omelette con il pane tostato, prese a tamburellare nervosamente con le dita sul tavolo. Aveva parecchi tic e sembrava sempre piuttosto tesa. Capii che con la testa era già tornata al lavoro.
«Che cosa c'è?» le chiesi. «Mi stai nascondendo qualcosa, o sbaglio?»
Annuì. «Mi hanno telefonato dalla KRON-TV. Stanno per mandare in onda un servizio sugli omicidi della California.»
Aggrottai la fronte. «E come l'hanno saputo?»
Scosse la testa. «Chi lo sa? Sto per dare l'okay a un giornalista che conosco all'Examiner, che sarà il primo a pubblicare la notizia.»
«Un momento», obiettai. «Sei sicura?»
«Sicurissima. Mi fido di lui. Se non altro darà un taglio realistico alla faccenda. Adesso aiutami a decidere se c'è qualcosa che vogliamo che l'assassino legga sui giornali. È il minimo che il mio amico possa fare per noi.»
Al rientro in ufficio ci aspettava una brutta notizia: l'assassino aveva colpito ancora.
16
Un'altra brutta storia. Altri due cadaveri appesi.
Jamilla e io, non appena arrivati a Mill Valley, ci dividemmo sulla scena del delitto. Avevamo due modi diversi di lavorare, tecniche differenti, ma non so perché ero convinto che saremmo giunti entrambi alle stesse conclusioni. E che sarebbero state inquietanti lo si intuiva fin dai primi indizi.
I due corpi erano appesi a testa in giù a una rastrelliera usata per le pentole di rame, nella cucina modernissima di una grande villa di lusso. Dawn e Gavin Brody dovevano aver passato da poco la trentina. Come le altre vittime, erano morti dissanguati.
Il primo fatto curioso era che, sebbene fossero nudi, non erano stati derubati dei gioielli. Gli assassini avevano lasciato due Rolex, le fedi, un anello di fidanzamento con un grosso diamante e un paio di orecchini tempestati di brillanti. Evidentemente non erano interessati né ai preziosi né ai soldi, e forse volevano farcelo notare.
Ma dov'erano gli indumenti delle vittime? Erano stati usati per pulire, per asciugare il sangue? Era per questo che gli assassini li avevano portati via?
L'impressione era che i Brody, entrambi avvocati di grido, fossero stati sorpresi mentre preparavano la cena. C'era un significato simbolico nascosto? Un macabro senso dell'umorismo? Si trattava di una semplice coincidenza, o erano stati deliberatamente aggrediti proprio a quell'ora? Era un esempio di cannibalismo punitivo nei confronti dei ricchi?
Insieme con noi, nella cucina, c'erano vari agenti della polizia locale e tecnici dell'FBI. Mi resi conto che il danno era già stato fatto: gli uomini di Mill Valley, per quanto bene intenzionati, probabilmente non avevano mai avuto a che fare con un omicidio di quel genere. Infatti sul pavimento di pietra grezza c'erano alcune impronte che quasi sicuramente non erano state lasciate né dagli assassini né dai padroni di casa.
Jamilla, fatto il giro della grande cucina, mi raggiunse. Aveva visto abbastanza. Scuoteva la testa e non ci voleva molto per capire che cosa stesse pensando. Le tracce erano state irrimediabilmente confuse dalla polizia locale.
«È così strano», mi sussurrò dopo un po'. «Questi assassini devono avere un tale odio dentro! Non ho mai visto nulla di simile. Tu hai mai visto una furia del genere, Alex?»
La guardai negli occhi, ma non dissi nulla. Purtroppo l'avevo già vista.
17
L'articolo uscito in prima pagina sul San Francisco Examiner che descriveva l'escalation di omicidi sulla West Coast aveva già scatenato un putiferio.
Quella sera William e Michael, guardando la televisione, rimasero impressionati dalle loro stesse prodezze. Eppure si aspettavano di essere al centro dell'attenzione dei media. Anzi, ci contavano: faceva parte del piano.
William e Michael erano speciali, erano la squadra scelta appositamente per compiere quella missione. Ed erano di nuovo in azione.
Stavano cenando in una tavola calda di Woodland Hills, a nord di Los Angeles. La gente nel locale li notava. Era logico. Alti uno e novanta, con i capelli biondi raccolti in una coda di cavallo, il fisico asciutto e muscoloso, vestiti rigorosamente di nero, William e Michael parevano gli archetipi della gioventù moderna. Un incrocio tra bellezza ferina e portamento regale.
Il telegiornale continuava. Gli omicidi erano la notizia principale e occuparono parecchi minuti, con interviste a gente spaventata di Los Angeles, Las Vegas, San Francisco e San Diego che rilasciava le dichiarazioni più insulse che si potessero immaginare.
Michael si rabbuiò e lanciò un'occhiata al fratello. «Non hanno capito un cazzo! Idioti!»
William mangiò un boccone del suo sandwich e alzò di nuovo gli occhi verso lo schermo. «I giornali e la televisione non capiscono mai niente, fratellino. Fanno parte del problema più generale. E sta a noi risolverlo. Come con i due avvocati di Mill Valley. Hai finito?»
Il ragazzo trangugiò in un sol boccone quel che restava del suo cheeseburger al sangue. «Sì, e ho fame anch'io. Ho bisogno di nutrirmi.» Gli splendidi occhi azzurri erano velati.
William sorrise e gli diede un bacio sulla guancia. «Andiamo, allora. Ho un bel programma per stasera.»
Michael esitò. «Non dovremmo stare un po' attenti? La polizia ci sta cercando, no? Adesso siamo famosi.»
William continuò a sorridere. L'ingenuità del fratello lo commuoveva e lo divertiva. «Siamo incredibilmente importanti. Siamo gli eroi del futuro. Vieni, fratellino. Abbiamo bisogno di nutrirci tutti e due. Ce lo meritiamo. A parte il fatto che la polizia non sa chi siamo. Non dimenticarlo mai: i poliziotti sono degli idioti incompetenti.»
Al volante del furgone bianco, William riattraversò Woodland Hills, rammaricandosi di non aver portato la tigre. Ma quella volta il viaggio era troppo lungo. Entrò nel parcheggio di un centro commerciale esageratamente illuminato e osservò le insegne dei negozi: Wal-Mart, Denny's, Staples, Circuit City. C'era anche uno sportello della Wells Fargo. Li disprezzava tutti, dal primo all'ultimo, e disdegnava chi ci andava.
«Non starai cercando una preda in questo posto?» esclamò Michael guardandosi intorno con aria preoccupata.
William scosse la testa, facendo oscillare la coda bionda. «No, no, figurati. Questa gente non è alla nostra altezza, fratellino. Be', quella ragazza bionda laggiù, con i jeans aderenti, potrebbe anche andare bene.»
Michael piegò la testa da una parte e si leccò le labbra. «Ma sì, dai! Come antipasto.»
William scese dal furgone e si avviò verso l'altro lato del parcheggio con andatura scattante, testa alta e sorriso sulle labbra. Michael lo seguì. Insieme attraversarono il cortile dietro la banca e poi il parcheggio del ristorante Denny's, che a detta di William puzzava di fritto e di gente obesa.
Michael cominciò a sorridere quando capì le intenzioni del fratello.
Davanti a loro si stagliava una sobria insegna in bianco e nero, illuminata dall'interno, che diceva: POMPE FUNEBRI SOREL.
18
William impiegò meno di un minuto a forzare la porta di servizio. Era un gioco da ragazzi perché le misure di sicurezza erano minime.
«Ci siamo quasi», disse al fratello. Stava cominciando a eccitarsi e, guidato dall'olfatto, si diresse verso la sala delle imbalsamazioni, dove scovò tre cadaveri conservati in una cella frigorifera. «Due maschi e una femmina», sussurrò.
William li esaminò sommariamente. Erano morti da poco. Solo due erano già stati imbalsamati. Il ragazzo si intendeva di tanatologia e sapeva come venivano trattate le salme. Per l'imbalsamazione il sangue veniva drenato e sostituito con un liquido a base di formaldeide tramite sonde inserite nella carotide e nella vena giugulare. La fase successiva consisteva nello svuotare gli organi interni dai fluidi contenuti, dopodiché si effettuavano operazioni prevalentemente cosmetiche: le mascelle del cadavere venivano chiuse e bloccate con un filo, le labbra composte e sigillate con una specie di colla. Sotto le palpebre si inserivano delle semisfere per impedire al globo oculare di sprofondare nel cranio.
William indicò la pompa che serviva per drenare il sangue e gli altri liquidi corporei e rise. «Stasera non ne abbiamo bisogno!»
Era sveglissimo, estremamente attento. Si sentiva invincibile. Avendo un'ottima visione notturna, la luce di una lampada da tavolo gli era più che sufficiente.
Aprì uno dei frigoriferi, prese in braccio il cadavere non ancora imbalsamato di una donna sulla quarantina, e lo trasferì su un tavolo di ceramica.
Guardò il fratello, si sfregò leggermente le mani e prese fiato. Avevano compiuto altri raid negli obitori e, pur non essendo paragonabili alla carne fresca, anche i cadaveri erano pur sempre prede appetibili.
Oltretutto, la donna era in condizioni abbastanza buone per la sua età: era bella e decisamente più sexy di quella che avevano aggredito a San Francisco. Sul corpo c'era una targhetta con il nome: DIANA GINN.
«Spero che non l'abbia già assaggiata qualche addetto delle pompe funebri», disse William al fratello. Ogni tanto capitava che un miserabile maniaco si improvvisasse becchino per approfittare a suo piacimento dei cadaveri, eseguendo esplorazioni assolutamente non richieste delle cavità vaginali e anali. Avere rapporti sessuali con il morto nella bara era un passatempo perverso assai più diffuso di quanto la gente pensasse.
William si accorse di essere eccitato. Era un'esperienza senza pari. Salì sul tavolo e si piazzò sopra la donna.
Il corpo nudo di Diana Ginn era cereo, ma, nella penombra, affascinante. Aveva le labbra bluastre, carnose. Si chiese come fosse morta, dal momento che non sembrava né malata né presentava ferite evidenti che facessero supporre un incidente.
Le sollevò delicatamente le palpebre e la guardò negli occhi. «Ciao, tesoro. Sei bellissima, sai, Diana», le sussurrò con voce sognante. «E non è un complimento tanto per fare. Dico sul serio. Sei eccezionale, la regina di una notte come questa, degna di me e di Michael. Non ti deluderemo.»
Le sfiorò le guance, poi il lungo collo e il seno ormai flaccido, studiando la rete intricata delle vene. Era stupenda. Gli stava facendo letteralmente girare la testa.
Nel frattempo suo fratello le accarezzava i piedi ossuti e le caviglie sottili e risaliva con tocco amorevole lungo le gambe, gemendo piano, quasi volesse risvegliarla delicatamente da quel sonno profondo.
«Ti amiamo», sussurrò Michael. «Sappiamo che ci senti. Sei ancora dentro il tuo corpo, vero? Lo sappiamo, Diana. Sappiamo esattamente come ti senti. Perché noi siamo non-morti.»
19
La straordinaria disciplina e l'impegno di Jamilla Hughes continuavano a impressionarmi. Che cosa la spingeva a lavorare tanto? Un segreto nascosto nel suo passato? Qualcosa di più manifesto e recente? Il fatto di essere una delle due uniche donne nella Omicidi di San Francisco? Tutte queste motivazioni messe insieme? Jamilla mi aveva raccontato che non prendeva un giorno di ferie da quasi due anni. Conoscevo il problema.
Il giorno successivo accennai un paio di volte alla sua etica del lavoro, ma lei minimizzò con un cenno del capo. Gli altri investigatori della squadra la rispettavano molto: era una persona normale, che non si dava arie e non contava balle. Venni a sapere che aveva un nomignolo, Jam, che a mio parere le stava a pennello.
Nel pomeriggio passai un paio d'ore a informarmi sulle tigri. Erano in corso indagini a tappeto in tutti gli zoo e gli allevamenti della zona, nel tentativo di identificare tutte le tigri che si trovavano in California. Per il momento, la pista migliore era quella della belva assassina.
Tenevo un mio elenco personale di fatti e cose che per un motivo o per l'altro mi colpivano in modo particolare.
Qualcuno era stato in grado di comandare e controllare il felino prima e dopo l'attacco mortale a Davis O'Hara nel Golden Gate Park. Un domatore? Un veterinario?
Le mascelle di una tigre sono così forti da poter stritolare e polverizzare le ossa umane. Eppure c'era qualcuno che riusciva a staccare la tigre dalla sua preda.
Tutte le specie di questi animali sono considerate in via di estinzione, ha progressiva scomparsa del loro habitat naturale e la caccia di frodo ne minacciano la sopravvivenza. Che gli assassini fossero ambientalisti?
Le tigri vengono cacciate per via delle presunte virtù terapeutiche di molte parti del loro corpo, considerate preziose e, in alcuni casi, addirittura sacre.
Hanno anche un significato magico in certe culture, soprattutto in alcune regioni dell'Africa e dell'Asia. Che questo fosse importante ai fini delle indagini?
Avevo perso la cognizione del tempo e, quando smisi di scrivere, fuori stava già facendo buio. Vidi Jamilla nel corridoio: veniva verso di me.
Aveva la giacca di pelle nera e sembrava in procinto di andare via. Si era messa il rossetto. Forse aveva un appuntamento galante. Era bellissima. «Tigre! Tigre! Divampante fulgore nelle foreste della notte», esclamò citando la famosa poesia di William Blake.
Risposi con l'unico altro verso che ricordavo: «Chi l'Agnello creò, creò anche te?»
Dapprima mi guardò con aria pensosa, poi sorrise. «Che squadra: i detective poeti! Vieni, andiamo a berci una birra.»
«Sono sfatto e ho ancora un paio di dossier da controllare. Credo che sia il jet lag.» Nel momento stesso in cui lo dicevo, mi chiesi perché diavolo stessi declinando l'invito.
Jamilla alzò una mano. «Va bene, va bene. Bastava che dicessi: 'No, grazie, non sei il mio tipo'. Accidenti! Ci vediamo domattina. Ma grazie dell'aiuto. Sul serio.» La vidi sorridere mentre si girava e si allontanava nel lungo corridoio che portava agli ascensori. Ma poi mi accorsi anche che scuoteva la testa.
Quando se ne fu andata, tornai alla mia scrivania con vista sulle strade di San Francisco e sospirai, scuotendo la testa a mia volta. Mi sentivo invadere da una stanchezza che mi era fin troppo nota. Ero di nuovo solo, e la colpa era soltanto mia. Perché avevo detto di no a Jamilla quando mi aveva proposto una birra? Mi era simpatica, non avevo altro da fare e non ero poi così sconvolto dal cambiamento di fuso orario.
Ma il motivo era semplice e credevo di conoscerlo: negli ultimi due casi di omicidio avevo fatto amicizia con le due colleghe che mi erano state assegnate. Entrambe mi piacevano ed entrambe erano morte.
Il Mastermind era ancora a piede libero.
Era possibile che fosse a San Francisco in quel momento?
Jamilla Hughes era al sicuro?
20
L'indomani mattina fui svegliato molto presto dal telefono della mia stanza d'albergo. Mezzo addormentato, tirai su il ricevitore.
Era Jamilla e sembrava un po' affannata. «Ieri sera mi ha chiamato il mio amico Tim dell'Examiner. Ha un'informazione che potrebbe essere preziosa per noi.» Mi aggiornò rapidamente, riferendomi i particolari su un tentato omicidio che risaliva a molto tempo prima. La vittima era sopravvissuta e noi avremmo potuto parlarle. Jamilla e io eravamo di nuovo in partenza. Non mi chiese neppure se volevo andare con lei: evidentemente lo dava per scontato.
«Ti passo a prendere tra mezz'ora, quaranta minuti al massimo. Andiamo a Los Angeles. Vestiti di nero, mi raccomando.»
La United Airlines ha un volo ogni ora da San Francisco a Los Angeles. Prendemmo quello delle nove, e circa un'ora dopo eravamo a destinazione. Chiacchierammo per tutto il viaggio. Prendemmo un'auto a noleggio e ci dirigemmo verso Brentwood, il quartiere dove era successo il fattaccio di OJ. Simpson. Ero gasato quanto Jamilla al pensiero di poter interrogare un testimone prezioso. Anche quelli dell'FBI sarebbero intervenuti.
Dalla macchina la Hughes chiamò il suo amico giornalista, Tim. Non potei fare a meno di chiedermi se c'era del tenero fra di loro. «Hai scoperto altro che ci possa servire?» gli chiese. Rimase ad ascoltare e poi mi riferì. Erano cose che in parte sapevamo già.
«La ragazza che stiamo per interrogare è stata aggredita da due uomini ed è riuscita a fuggire. È stata fortunata, fortunatissima. L'hanno azzannata più volte su petto, collo, pancia e viso. Le è sembrato che i due aggressori fossero sui quaranta, quarantacinque anni. Il fatto risale a circa un anno fa, Alex. Se ne è parlato molto sui tabloid.»
Io mi limitai ad ascoltare in silenzio, con grande attenzione. Era un caso molto strano. Non avevo mai sentito nulla di simile.
«Stavano per appenderla a un albero. Negli articoli che il mio amico è riuscito a trovare non si fa cenno a nessuna tigre. Un ispettore del dipartimento di Los Angeles ci aspetta alla stazione di polizia. Sono sicura che avrà altri particolari da darci. È stato lui a dirigere le indagini, all'epoca.»
Si voltò a guardarmi. Mi doveva dire ancora qualcosa, qualcosa di buono. «Ma senti questa, Alex. Secondo la mia fonte, la ragazza è convinta che i suoi aggressori fossero vampiri.»
21
Facemmo conoscenza con Gloria Dos Santos alla stazione di polizia di Brentwood. L'edificio di cemento, a un solo piano, era anonimo come un ufficio postale. L'ispettore Peter Kim ci raggiunse in una saletta per colloqui non più grande di un metro e mezzo per due, insonorizzata e con le pareti imbottite. Era un giovanotto alto e magro, ben vestito, e mi sembrò più un manager californiano in carriera che un poliziotto.
Lui e Gloria Dos Santos evidentemente si conoscevano e non si piacevano. Lei lo chiamò più volte «detective Fuhrman», finché lui non le disse che con OJ. Simpson non aveva mai avuto a che fare e che la piantasse.
La Dos Santos portava un vestito nero molto corto, stivali neri e bracciali di cuoio, oltre a una decina di orecchini e anelli vari in punti strategici del corpo. Aveva i capelli crespi e neri raccolti in alto sulla testa, con qualche ciocca che le ricadeva sulle spalle. Di statura non arrivava a un metro e sessanta. Aveva un viso duro, gli occhi truccati di viola e le ciglia coperte di mascara. Sembrava in buona forma fisica, come la maggior parte delle vittime che avevo visto fino a quel momento.
Fissò prima Kim, poi me e per ultima Jamilla. Scosse la testa e fece una risatina. Non le eravamo simpatici. Niente di grave: nemmeno lei mi piaceva particolarmente.
Con un ghigno beffardo chiese: «Si può fumare in questo buco? Tanto io lo faccio lo stesso. Se avete qualcosa in contrario, mi levo dai coglioni».
«Allora fuma», le rispose l'ispettore. «Ma di qui non te ne vai, mettitelo bene in testa.» Tirò fuori dei semi di girasole e cominciò a sgranocchiare. Anche Kim era parecchio strano.
La Dos Santos si accese una Camel e gli soffiò in faccia una gran nuvola di fumo.
«Il detective Fuhrman sa le stesse cose che so io. Perché non vi fate raccontare tutto da lui? È intelligente, sapete. Chiedeteglielo. Si è laureato con lode alla UCLA.»
«Ci sono alcune cose che non ci risultano chiare», le dissi. «Per questo siamo venuti fin qui da San Francisco. Anzi, per la verità io vengo da Washington.»
«Allora ha fatto un sacco di strada per niente», ribatté Gloria, che evidentemente aveva sempre la risposta pronta. Si sfregò gli occhi come se stesse cercando di svegliarsi.
«E chiaro che sei strafatta», intervenne Jamilla. «Ma a noi non interessa. Rilassati. Gli uomini che ti hanno aggredito erano violenti, vero?»
La Dos Santos sbuffò. «Violenti? Mi hanno rotto due costole e un braccio. Mi hanno sbattuto per terra cinque o sei volte. Fortuna che a un certo punto sono rotolata giù per un dirupo. Quando mi sono fermata, ho alzato il culo e me ne sono andata.»
«Nella prima deposizione dichiari di non averli visti bene, nessuno dei due. Poi sostieni che erano sui quaranta-cinquant'anni.»
La ragazza alzò le spalle. «Non lo so. C'era la nebbia. È soltanto un'impressione. Quella sera ero stata al Fang Club di West Pico, che è l'unico posto dove si possono conoscere dei veri vampiri senza lasciarci la pelle. Almeno così dicono. All'epoca frequentavo un sacco di club gotici: lo Stigmata, il Coven 13, il Vampiricus a Long Beach. Lavoravo alla Necromane. Che cos'è la Necromane?» chiese, dando per scontato che non lo sapessimo e stessimo per domandarglielo. E in effetti era così. «È una boutique per necrofili che vende autentici teschi umani, dita, o anche interi scheletri, se vi interessano.»
«Non credo, grazie», rispose Jamilla. «Ma sono stata in un negozio del genere a San Francisco. Si chiama Coroner.»
La ragazza la guardò dall'alto in basso. «Vuoi che ti dica che sei grande? Sei proprio una gran figa, eh? All'avanguardia.»
Intervenni io. «Senti, Gloria, noi vogliamo soltanto aiutarti. Siamo qui per...»
Mi interruppe. «Balle: volete che io aiuti voi. State indagando su un altro caso, giusto? Quegli strani omicidi di San Francisco, no? Guardate che so leggere. Di Gloria Dos Santos e dei suoi problemi non potrebbe fregarvene di meno. Eppure ne ho un sacco. Più di quanti credete. E a voi non ve ne fotte un cazzo!»
«Sono state uccise due persone nel Golden Gate Park. Massacrate. L'hai letto? Pensiamo che possano essere stati gli stessi che hanno aggredito te», le dissi.
«Be', allora cercate di mettervi in testa una cosa: quelli che hanno assalito me erano vampiri! Capito? So che per i vostri cervellini è difficile arrivarci, ma i vampiri esistono. Soltanto che se ne stanno ben lontani dal resto dell'umanità, voi compresi! Quelli che mi volevano far fuori erano due vampiri. Erano a caccia di prede a Beverly Hills. A Los Angeles succede tutti i giorni! Ammazzano la gente per bersi il sangue... dicono che si nutrono così. Sgranocchiano le ossa come se fossero polpette di pollo. Okay, vedo che non ci credete. Be', peggio per voi.»
La porta della saletta si aprì senza fare rumore ed entrò un agente in divisa che bisbigliò qualcosa all'orecchio di Kim.
L'uomo si rabbuiò e guardò prima noi e poi la Dos Santos. «C'è stato un omicidio in Sunset Boulevard, poco fa, in un albergo di lusso. La vittima è stata morsa e appesa.»
Gloria Dos Santos fece una smorfia spaventosa, strinse gli occhi e, arrabbiatissima, si mise a urlare con tutto il fiato che aveva: «Vi hanno seguito fin qui! Non capite? Vi hanno seguito! Oddio, adesso sanno che vi ho parlato. Oh, Gesù, adesso vengono qui e mi ammazzano. E la colpa è soltanto vostra!»
PARTE SECONDA
SETE DI SANGUE
22
Siccome risolvere i casi più difficili con Kyle Craig mi è sempre piaciuto, fui ben contento quando mi disse che intendeva raggiungere, quel giorno stesso, me e Jamilla Hughes a Los Angeles. Tuttavia rimasi un po' sorpreso nel trovarlo già sulla scena del delitto a Beverly Hills. Il cadavere era stato trovato allo Chateau Marmont, l'albergo in cui era morto di overdose John Belushi.
Con i suoi sette piani e la vista sul Sunset Strip, l'hotel sembrava un castello francese. Entrando nella hall, notai che era arredato con pezzi autentici degli anni '20, ma che l'effetto era decadente, più che antico. Raccontano che un boss della Columbia Pictures una volta disse a William Holden: «Se devi cacciarti nei guai, tanto vale tu lo faccia allo Chateau Marmont».
Kyle ci accolse sulla soglia della camera. Aveva i capelli neri lisciati all'indietro e una leggera abbronzatura. Strano. Quasi non lo riconoscevo.
«Ti presento Kyle Craig dell'FBI, Jamilla», dissi. «Prima di conoscere te, era il miglior investigatore con cui avessi mai lavorato.»
Dopo che Kyle e Jamilla si furono stretti la mano, entrammo in quella che, più che una stanza, era una suite di due camere da letto, un soggiorno con caminetto e un'entrata indipendente da una stradina in salita.
Lo spettacolo che mi trovai di fronte mi era tristemente familiare. Mi venne in mente una citazione molto pessimista di un filosofo, una considerazione cui io stesso ero giunto davanti a un sanguinoso omicidio nel North Carolina: «L'esistenza umana dev'essere un errore. Oggi è brutta e lo diventa sempre di più, finché non succede il peggio del peggio». La mia filosofia era un po' meno nera di quella di Schopenhauer, ma in certe occasioni sembrava che avesse proprio ragione lui.
Il peggio del peggio era successo al dirigente ventinovenne di una casa discografica, Jonathan Mueller, e nel modo più atroce possibile. Presentava segni di morsicature sul collo, ma nessuna ferita da taglio, ed era stato appeso al lampadario in una delle due camere. La pelle era bianca e trasparente. Non doveva essere morto da molto.
Ci avvicinammo. Il cadavere oscillava leggermente e gocciolava ancora.
«I morsi più gravi sono tutti sul collo», dissi. «Sembrerebbero di nuovo sedicenti vampiri. Appenderli deve far parte del rituale, o forse è una sorta di firma.»
«Raccapricciante. Gli hanno succhiato il sangue, poveraccio. Sembra quasi un delitto a sfondo sessuale», mormorò Jamilla.
«E forse lo è», dichiarò Kyle. «Secondo me prima di ammazzarlo lo hanno sedotto.»
In quel mentre mi squillò il cellulare nella tasca della giacca. Non poteva esserci momento peggiore.
Lanciai un'occhiata a Kyle prima di rispondere: «Potrebbe essere lui».
Mi avvicinai il telefono all'orecchio.
«Ti piace L.A., Alex?» mi chiese il Mastermind con la sua solita cantilena meccanica. «I cadaveri sono tutti uguali, ovunque tu li veda, vero?»
Feci un cenno a Kyle, che capì subito con chi stavo parlando. Il Mastermind.
Mi fece cenno di passargli il telefono. Glielo porsi e lo guardai bene in faccia mentre ascoltava in silenzio. A un certo punto corrugò la fronte, poi allontanò il cellulare dall'orecchio e disse: «Ha buttato giù. Quasi sapesse che tu non eri più in linea. Come fa, Alex? Come fa quel bastardo a sapere tante cose? Che diavolo vuole da te?»
Fissai il cadavere che oscillava lentamente senza trovare nulla da dire. Assolutamente nulla. Mi sentivo svuotato anch'io.
23
Era già venerdì e ci trovavamo nel pieno di una vicenda sordida e intricata destinata a non chiudersi tanto presto. Nel pomeriggio dovevo fare una telefonata difficile: a casa mia, a Washington. Nana rispose al secondo squillo e subito rimpiansi che non mi avesse risposto uno dei bambini.
«Sono Alex. Come stai?»
«Non torni a casa per il concerto di Damon domani, vero? O te lo sei addirittura dimenticato? Alex, Alex, perché ci hai abbandonato? Non è giusto.»
Voglio un bene dell'anima a Nana, ma a volte trovo che esageri un po'. «Perché non mi passi Damon?» ribattei. «Ne parlo con lui.»
«Damon è un bambino, ma non lo sarà ancora per molto. Tra poco diventerà come te e non darà più retta a nessuno. Allora capirai che effetto fa non essere ascoltati. E ti garantisco che non ti piacerà», replicò Nana.
«Mi sento già abbastanza in colpa. Non è il caso che tu me lo faccia pesare tanto, nonna.»
«Certo che te lo faccio pesare. È il mio mestiere e lo prendo sul serio quanto tu il tuo», ribatté.
«Nana, c'è gente che muore qui. E se sono coinvolto in questo pasticcio è perché anche a Washington qualcuno ha fatto una fine spaventosa. Gli omicidi non sono finiti. Ci dev'essere un nesso che devo far venire alla luce, o perlomeno cercare di scoprire.»
«Sì, c'è gente che muore, Alex, lo capisco. Ma altra gente cresce senza che il padre la segua quanto sarebbe necessario, tanto più che non ha nemmeno la madre. Te ne rendi conto? Non posso fare da madre e da padre a questi bambini.»
Chiusi gli occhi. «Lo so. E sono d'accordo con te, anche se non ci crederai. Adesso, per favore, mi passi Damon?» insistetti. «Appena abbiamo finito di parlare, esco e vedo se riesco a trovare una madre per i miei figli. Ora che ci penso, sto lavorando con una collega molto simpatica. Ti piacerebbe.»
«Damon non c'è. Ha lasciato detto, se chiamavi per dire che non torni, di dirti: 'Tante grazie'.»
Scossi la testa e mio malgrado sorrisi. «Imitazione perfetta, Nana. Dov'è andato?»
«A giocare a basket con i suoi amici. E bravo, sai. Credo che diventerà un ottimo centro. Te n'eri accorto?»
«E agile e svelto. Certo che me ne sono accorto. Sai con chi è uscito?»
«Sì che lo so. Tu, piuttosto, lo sai?» ribatté Nana. Era implacabile, quando ci si metteva. «E andato con Louis e Jamal. Se li sceglie bene, gli amici.»
«Ora devo andare, Nana. Saluta Damon e Jannie da parte mia, per favore. E dai un bacio al piccolo Alex.»
«Alex, vieni a salutarli e a baciarli tu», rispose. E riattaccò. Non l'aveva mai fatto. Non molto spesso, perlomeno.
Rimasi inchiodato alla sedia a ripensare a quello che ci eravamo appena detti e a chiedermi se davvero ero così colpevole. Ero sicuro di passare con i miei ragazzi più tempo della maggior parte dei padri, ma era vero, come Nana mi aveva giustamente fatto notare, che i miei figli erano orfani di madre e stavano crescendo in fretta. Dovevo fare di più, non c'erano scuse.
Richiamai casa varie volte, ma non rispose nessuno e immaginai che fosse una misura punitiva nei miei confronti. Alla fine, verso le sei, trovai Damon, appena rientrato da una prova del coro. Riconobbi la sua voce e accennai una canzoncina rap di Tupac che gli piaceva molto.
Rise e capii che era tutto a posto: mi aveva perdonato. È un bravo bambino. Non potrei desiderare di meglio. All'improvviso pensai a mia moglie, Maria, e mi rammaricai che non ci fosse più e non potesse vedere come cresceva bene nostro figlio. Damon ti piacerebbe moltissimo, Maria. Mi dispiace che tu non sia qui a godertelo.
«Ho capito. Mi dispiace, Damon. Vorrei tanto poter venire a sentirti domani. Lo sai. Ma non posso farci niente, ragazzo mio.»
Damon fece un sospiro teatrale. «Se i desideri avessero le ali...» Era uno dei detti preferiti della sua bisnonna. Erano anni che me lo sentivo ripetere, da quando avevo più o meno la sua età.
«Fustigami», dissi.
«No. Non è il caso, papà», rispose Damon con un altro sospiro. «So che hai da fare e che probabilmente è un lavoro importante. Soltanto che per noi a volte è dura. Sai com'è.»
«Ti voglio bene e so che dovrei essere lì con voi, ma ti prometto che il prossimo concerto non me lo perdo».
«Promesso?»
«Promesso.»
24
Alle sette e mezzo di quella sera ero ancora alla stazione di polizia di Brentwood. Ero stanco e non vedevo l'ora di alzare la testa dal fascio di rapporti sui sadici omicidi avvenuti in nove città della West Coast, più quello di Washington. Quei casi mi facevano accapponare la pelle, e non certo perché credessi ai vampiri.
Sapevo bene però che la gente a volte faceva cose strane e spaventose, tipo azzannare il suo prossimo, appenderlo, succhiargli il sangue o scatenargli contro una tigre inferocita. Per una volta non riuscivo nemmeno a immaginare come potessero essere gli assassini, non riuscivo a tracciarne un profilo psicologico. Né ci stava riuscendo l'unità di scienze comportamentali dell'FBI, come mi aveva confidato Kyle Craig. Uno dei motivi per cui era venuto in California era proprio quello. Lui stesso era sconcertato davanti a quegli omicidi senza precedenti.
Verso le otto meno un quarto, Jamilla si alzò dalla sua scrivania in fondo alla stanza e venne verso di me. Era una bella donna, ma quella sera aveva l'aria veramente stanca. Chi lavora nella polizia sa che durante le indagini più difficili entra in circolo l'adrenalina, l'emotività prende facilmente il sopravvento e una semplice attrazione rischia di portare a conseguenze molto problematiche. A me era già successo, e anche a Jamilla, a giudicare da come si comportava. Forse era per questo che andavamo così cauti.
Si appoggiò alla mia scrivania e sentii un lieve profumo di acqua di colonia. «Devo rientrare a San Francisco, Alex. Sto andando all'aeroporto. Ho lasciato un sacco di appunti per te e per Kyle sui dossier che sono riuscita a controllare. Ma devo dirti che a me non sembra proprio che tutti gli omicidi siano opera delle stesse persone. Il mio contributo per oggi è questo.»
«Perché dici così?» chiesi. In realtà anch'io condividevo la stessa opinione, per quanto non avessi argomenti su cui fondarla. La mia era più che altro una sensazione.
Jamilla si grattò il naso, poi lo arricciò: a volte le sue smorfie erano proprio buffe. «Il metodo è diverso. Soprattutto se si confrontano gli omicidi più recenti con quelli di un anno o due fa. Nei primi casi gli assassini erano metodici e molto prudenti, mentre le ultime volte sono stati frettolosi, sciatti. E anche più violenti.»
«Non posso darti torto. Leggerò con cura i dossier. E anche Kyle e i suoi a Quantico controlleranno tutto. C'è qualcos'altro che ti preoccupa?» chiesi.
La Hughes rifletté, prima di rispondere. «Stamattina è arrivata una strana denuncia da un'impresa di pompe funebri di Woodland Hills. Potrebbe avere la sua importanza. Qualcuno ha fatto irruzione e abusato di uno dei cadaveri. Potrebbe essere un emulatore. Ti ho lasciato il dossier. Ma adesso devo correre, se non voglio perdere l'aereo... Fatti vivo, okay?»
«Certo. Ti chiamo, stai tranquilla. Non ti libererai tanto facilmente di me.»
Mi salutò con un cenno della mano e sparì in fondo al corridoio.
Mi dispiaceva da morire vederla andare via.
Jam.
25
Dieci minuti dopo che Jamilla se ne fu andata, davanti alla mia scrivania si presentò Kyle. Sembrava un professore universitario quarantenne, con i capelli arruffati e la giacca di tweed spiegazzata, appena uscito da una biblioteca dopo giorni e giorni di ricerche per un dotto articolo da pubblicare su qualche rivista di diritto penale.
«Risolto il mistero?» gli chiesi. «Dai, che così salto sul primo aereo e me ne vado stasera... A casa ce l'hanno tutti con me perché ho rimandato il ritorno.»
«Non ho risolto un accidente», rispose in tono abbacchiato. Poi sbadigliò. «In compenso, mi è venuto un gran mal di testa... Mi sembra di scoppiare», si lamentò sfregandosi la testa con le nocche.
«Credi ai vampiri?» chiesi. «O pensi che siano semplici invasati?»
Kyle mi rivolse uno dei suoi sorrisi a denti stretti. «Oh, ho sempre creduto ai vampiri, io. Fin da piccolo, in Virginia e poi nel North Carolina. Vampiri, fantasmi, zombie e altre creature diaboliche della notte. Nel Sud tutti ci credono. Fa parte della nostra tradizione gotica, immagino. Per la precisione, la nostra specialità sono i fantasmi. A quelli ci credo senz'altro. Peccato che questa non sia soltanto una storia di fantasmi.»
«Be', forse lo è. L'altra notte ne ho visto uno. Si chiamava Mary Alice Richardson. Quei bastardi l'hanno appesa e uccisa durante uno dei loro festini.»
Verso le nove, Kyle e io uscimmo dalla stazione di polizia per andare a mangiare un boccone e farci un paio di birre. Ero contento di passare un po' di tempo con lui. Avevo dei brutti pensieri che mi ronzavano per la testa: sensazioni disparate, sospetti e una generale paranoia riguardo a quel caso. Più, naturalmente, l'assillo costante del Mastermind, che poteva sempre telefonare, mandare un fax o un'e-mail.
Ci fermammo in un baretto che si chiamava Knoll sulla strada verso l'albergo. Sembrava un posto tranquillo per bere qualcosa e fare due chiacchiere. Kyle e io uscivamo spesso insieme, quando eravamo in giro per lavoro.
«Allora ti trovi bene qui in California, Alex?» mi chiese Kyle dopo il primo sorso di Anchor Steam. «Sei contento? Reggi? So che non ti piace stare lontano da Nana e dai ragazzi, e mi dispiace. Ma non potevo fare altrimenti: questo è un caso grosso.»
Ero troppo stanco per polemizzare. «Per citare Tiger Woods: 'Quella di oggi non è stata la mia partita migliore'. Sono a un punto morto, Kyle. Mi sembra tutto nuovo e tutto brutto.»
Annuì e disse: «Non mi riferivo a oggi. Dicevo in generale. Nel complesso. Facendo un bilancio. Come ti va, Alex? Mi sembri teso. Ce ne siamo accorti tutti. Dal fatto che fai meno volontariato al Saint Anthony's, piccole cose del genere».
Lo guardai negli occhi. Era un amico, ma era anche un gran calcolatore: voleva qualcosa. Che cosa? Quali pensieri gli attraversavano la mente?
«Nel complesso, sono scoppiato. No, sto bene. Sono contento dei ragazzi: il piccolo Alex è il miglior antidoto contro qualsiasi problema e Damon e Jannie crescono bene. Mi manca ancora Christine, e molto. Mi preoccupa la quantità di tempo che passo a indagare sui delitti più macabri e spaventosi che mente umana abbia mai concepito ma, a parte questo, sto bene.»
Kyle ribatté: «Sei molto richiesto perché sei in gamba. La realtà è questa. Hai un fiuto, un'intelligenza emotiva, qualcosa che ti rende decisamente superiore».
«Quasi quasi preferirei essere un po' meno in gamba. O forse non lo sono poi tanto. Questi omicidi hanno influito sulla mia vita sotto tutti i punti di vista. Ho paura che mi stiano cambiando troppo. Parlami di Betsey Cavalierre. Ci sono novità? Dev'essere saltato fuori qualcosa.»
Kyle scosse la testa con espressione preoccupata. «Non abbiamo scoperto assolutamente nulla, Alex. Né su di lei né sul Mastermind. Quello stronzo continua a chiamarti a qualsiasi ora del giorno e della notte?»
«Sì. Ma non nomina più né Betsey né l'omicidio.»
«Potremmo mettere di nuovo sotto controllo i tuoi telefoni, se vuoi.»
«Tanto è inutile.»
Kyle continuava a fissarmi. Immaginai che fosse preoccupato per me, ma con lui era sempre difficile da dire. «Credi che ti stia tenendo d'occhio? Che ti segua?»
Scossi la testa. «Chi lo sa? A volte mi sembra di sì. A proposito, volevo chiederti una cosa. Perché continui a coinvolgermi nelle indagini più incasinate, Kyle? Abbiamo indagato su Casanova a Durham, poi sul sequestro Dunne e Goldberg, sulle rapine in banca. E ora su questa merda.»
Kyle rispose senza esitare. «Sei il migliore che conosca, Alex. Ci azzecchi quasi sempre. Ti butti nelle indagini con tutte le energie che hai. A volte risolvi il caso, a volte no, ma ci vai sempre vicino. Perché non vieni a lavorare con noi al Bureau? Dico sul serio. È un'offerta di lavoro che ti sto facendo.»
Allora era lì che voleva andare a parare! Voleva che andassi a lavorare con lui a Quantico.
Scoppiai in una gran risata. Anche lui rise. «Se devo dirti la verità, questa volta non mi sento per niente vicino alla soluzione, Kyle. Non so che pesci pigliare», ammisi alla fine.
«Siamo soltanto all'inizio», obiettò lui. «L'offerta è sempre valida, a prescindere da come finisce questa storia. Voglio che tu venga a Quantico. Voglio lavorare a stretto contatto con te. Non c'è nulla che mi farebbe più felice.»
26
Quello sì, che era un colpo di fortuna. Molto meglio di quanto si fossero aspettati o augurati. William e Michael seguirono i due stronzi della polizia dalla stazione di Brentwood sul furgone, tenendosi a ragionevole distanza. Se anche li avessero persi di vista, non sarebbe stato nulla di grave, perché sapevano in che albergo stavano. Sapevano dove trovarli.
Sapevano persino come si chiamavano.
Kyle Craig, di Quantico. Un uomo per i casi più scottanti. Un pezzo grosso del Bureau.
Alex Cross, di Washington. Psichiatra e criminologo.
William avrebbe voluto suggerirgli un nuovo proverbio: Chi va a caccia di vampiri, dai vampiri vien cacciato.
Era la verità, ma suonava un po' troppo come una regola, e lui detestava le regole, perché rendono prevedibili, limitano l'individuo, e fanno diventare meno liberi, meno autentici, meno se stessi. In ultima analisi, costituiscono un rischio.
Premette leggermente il pedale del freno, indeciso. Forse non conveniva tendere un agguato ai due poliziotti e ammazzarli come cani. Lui e suo fratello avevano di meglio da fare, già che erano a Los Angeles.
C'era un posto speciale in cui andavano sempre in quella città, la Church of the Vampire, riservata a coloro che cercano il «drago» dentro di sé. Era veramente una chiesa: grande, con i soffitti alti, piena di bizzarri arredi vittoriani, candelabri dorati, teschi e altre ossa umane, arazzi raffiguranti storie di famosi vampiri del passato. Era frequentata dai soliti, detestabili imitatori, ma anche da autentici vampiri. Come William e Michael.
Vi succedevano cose molto eccitanti, erotiche e sadiche, dove il dolore più straziante si trasformava in estasi. Ripensando all'ultima volta che c'era stato, William si elettrizzò. Aveva trovato un ragazzo biondo di diciassette anni. Un angelo, un principe. Vestito completamente di nero. Aveva persino le lenti a contatto nere. Era di una bellezza straordinaria, da tutti i punti di vista. Per dimostrare a William che era un vero vampiro, si era bucato la carotide e aveva bevuto il suo stesso sangue. Poi aveva invitato anche lui a berne. Quando William e Michael lo avevano appeso, per dissanguarlo completamente, lo avevano fatto in segno di amore e di adorazione per quel corpo angelico e perfetto. Dovevano farlo, era il loro sadismo innato a spingerli.
William si riscosse da quei dolci pensieri quando i due poliziotti entrarono in un bar che si chiamava Knoll, poco lontano da Sunset Boulevard. Un locale senza pretese, assolutamente anonimo. Perfetto per loro.
«Vanno a bere insieme. Cameratismo tra poliziotti», commentò William.
Michael ridacchiò e alzò gli occhi al cielo. «Sono due vecchietti. Due smidollati. E per giunta, sdentati», disse divertito.
William aspettò che Alex Cross e Kyle Craig fossero entrati, quindi disse: «No. Dobbiamo stare attenti con loro. Uno dei due è estremamente pericoloso. Lo sento».
27
Grazie a Tim, il contatto di Jamilla al San Francisco Examiner, finalmente avevo una pista da seguire. La caccia era cominciata, o almeno così speravo. L'indomani mattina presi la macchina e andai a Santa Barbara, circa centocinquanta chilometri a nord di Los Angeles, sulla Route 101.
Era impressionante, e anche un po' deprimente, vedere come il cielo diventava più azzurro a mano a mano che ci si allontanava dalla città e dalla cappa di smog grigio e rossastro che la ricopriva.
Avevo appuntamento con un certo Peter Westin alla Davidson Library della University of California, a Santa Barbara, che vantava la collezione più completa di opere su vampiri e vampirismo di tutti gli Stati Uniti. Westin era l'esperto cui Tim ci aveva consigliato di rivolgerci. Jamilla mi aveva preannunciato che era molto eccentrico, ma che era una fonte autorevolissima per l'argomento.
Mi ricevette in un piccolo salotto privato adiacente alla sala di lettura. Dimostrava poco più di quarant'anni ed era vestito di viola e nero dalla testa ai piedi. Aveva persino lo smalto viola sulle unghie. Secondo Jamilla, era proprietario di un negozio di abbigliamento e gioielli in un piccolo centro commerciale che si chiamava El Paseo, in State Street, a Santa Barbara. Aveva i capelli lunghi e neri, con qualche filo d'argento, e l'espressione cupa e truce.
«Sono il detective Alex Cross», mi presentai. Westin mi strinse la mano energicamente, smalto o non smalto sulle unghie.
«Sono Westin e discendo da Vlad Tepes. Benvenuto tra noi. L'aria della notte è fredda e avrete bisogno di mangiare e riposarvi», esordì in tono esageratamente drammatico.
Ero divertito da quel discorsetto preparato. «Un'accoglienza degna del conte Dracula in un vecchio film.»
Westin annuì e, quando sorrise, vidi che aveva una dentatura normale. Niente canini affilati.
«In più di un film. Quello che le ho ripetuto è il saluto ufficiale della Transylvania Society of Dracula di Bucarest.»
Chiesi subito: «Ne esistono sezioni anche in America?»
«In America e in Canada. Più una in Sudafrica e una a Tokyo. Ci sono varie centinaia di migliaia di persone che si interessano attivamente di vampiri. Sorpreso, detective? Pensava che la nostra fosse una setta più modesta?»
«Una settimana fa forse sì, ma ora non più», risposi. «Niente riesce a sorprendermi, ormai. Grazie per avere accettato di parlarmi.»
Ci sedemmo a un grande tavolo di quercia. Westin aveva preparato una decina di volumi sui vampiri da farmi leggere o consultare.
«Le consiglio soprattutto Bloodlust: Conversations with Real Vampires di Carol Page. È un'autrice molto seria. Lei sì che se ne intende», mi disse porgendomi uno dei libri. «Ha conosciuto di persona parecchi vampiri e ne descrive le attività in maniera accurata e obiettiva. Ha iniziato le sue ricerche da scettica. Come lei, immagino.»
«Infatti: sono molto scettico», ammisi, e gli raccontai dell'ultimo omicidio avvenuto a Los Angeles. Westin mi esortò a chiedergli tutto quello che volevo sul mondo dei vampiri e rispose con pazienza alle mie domande. Appresi così che il vampirismo è una sottocultura diffusa in quasi tutte le grandi città e in molte località minori, quali Santa Cruz in California, Austin nel Texas, Savannah in Georgia, Batavia nello Stato di New York e Des Moines nell'Iowa.
«Un vero vampiro è dotato fin dalla nascita di una capacità straordinaria», mi spiegò. «Maschio o femmina che sia, ha la facoltà di assorbire, incanalare, trasformare e manipolare l'energia del prana, ovvero la forza vitale. I vampiri seri hanno un forte senso della spiritualità.»
«E come si spiega la necessità di bere sangue umano?» chiesi, affrettandomi ad aggiungere: «Ammesso che la si possa chiamare necessità».
Westin rispose pacatamente: «Sembra che il sangue sia la fonte di prana più potente che si conosca. Se io adesso bevessi il suo sangue, assorbirei la sua energia».
«Il mio sangue?» esclamai.
«Sì. Lei mi sembra un buon soggetto.»
Pensai al raid notturno alle pompe funebri a nord di Los Angeles. «E il sangue dei cadaveri? Di gente morta da un giorno o due?»
«Se un vero vampiro, o uno pseudovampiro, è disperato, può accontentarsi del sangue di un cadavere. Ma lasci che le spieghi come stanno le cose, detective. Nella maggior parte dei casi sono esseri infelici, bisognosi di attenzione e manipolatori. Spesso sono affascinanti, in parte proprio a causa del fatto che sono viziosi, pieni di desideri proibiti, ribelli e dotati di una grande forza e carica erotica, oltre che convinti di essere immortali.»
«Lei continua a distinguere tra veri vampiri e imitatori. Perché?»
«Molti dei giovani che frequentano gli ambienti del vampirismo sono semplici emulatori in cerca di esperienze forti e di un gruppo che risponda alle loro esigenze del momento. Esiste persino un gioco molto diffuso, che si chiama: Vampire: The Masquerade. Lo stile di vita dei vampiri attira soprattutto gli adolescenti, perché hanno una visione del mondo assai singolare, a parte il fatto che folleggiano sino a tarda notte. Anzi, sino alle prime luci dell'alba», concluse con un sorrisetto.
Westin era decisamente disposto a parlare. Non capivo perché e mi chiesi fino a che punto prendeva sul serio il vampirismo. I clienti del suo negozio di abbigliamento in centro erano adolescenti in cerca di mise alternative. Anche lui era uno pseudovampiro? O faceva sul serio?
«Il mito del vampiro risale a migliaia di anni fa», riprese. «È presente in Cina, in Africa, nell'America del Sud e in quella Centrale. E, naturalmente, nell'Europa Centrale. Per molti, qui negli Stati Uniti, si tratta di una forma di feticismo estetico, con connotazioni sessuali, teatrali e molto romantiche. Il vampirismo non fa discriminazioni tra uomini e donne, e anche questo contribuisce a renderlo attraente, al giorno d'oggi.»
Pensai che era giunto il momento di passare dalle considerazioni generali ai recenti omicidi. «Che cosa pensa dei delitti, dei casi di violenza che si sono verificati qui in California e a Las Vegas?»
Westin assunse un'espressione addolorata. «Ho sentito usare il termine 'vampiro cannibale' a proposito di Jeffrey Dahmer. E anche di Nicolas Claux, che forse lei non conosce. Era un impresario di pompe funebri di Parigi che negli anni '90 confessò una serie di omicidi. Dopo essere stato catturato, descrisse con notevole compiacimento di aver mangiato carne di cadavere. In Europa era famoso, lo chiamavano il 'Vampiro di Parigi'.»
«Ha mai sentito parlare di Rod Ferrell?» chiesi.
«Certo. C'è chi lo considera un eroe del male. Su Internet va molto. Ha ammazzato a randellate i genitori di uno dei membri della sua setta e quindi inciso sui cadaveri una serie di simboli misteriosi. So tutto di lui. Pare che avesse la fissazione di aprire le porte dell'inferno: era convinto di dover uccidere un gran numero di persone e consumarne l'anima per diventare abbastanza forte da spalancarle. Chi lo sa? Magari c'è riuscito», disse Westin.
Mi fissò a lungo. «Lasci che le spieghi una cosa, detective Cross. È la pura verità e ritengo sia importante che lei la capisca: la percentuale di psicopatici e di assassini tra i vampiri non è più alta che tra la gente comune.»
Alzai le spalle. «Mi piacerebbe controllare le statistiche. Comunque sia, nel frattempo uno o più vampiri, veri o presunti tali, hanno assassinato più di una decina di persone», ribattei.
Westin parve rattristarsi. «Sì, detective, lo so. Per questo ho accettato di parlare con lei.»
Non mi restava che una cosa da chiedergli. «Lei è un vampiro?»
Peter Westin aspettò un attimo prima di rispondere: «Sì».
Rimasi allibito. Era serissimo.
28
Quella sera a Santa Barbara il buio mi fece un po' più paura di quanto mi fosse mai capitato. Rimasi nella mia camera d'albergo a leggere un romanzo intitolato L'attesa di Ha Jin. Anch'io ero in attesa. Telefonai due volte a casa, non saprei dire se perché mi sentivo solo o in colpa per non essere andato al concerto di Damon.
O forse Peter Westin mi aveva suggestionato con i suoi racconti, i suoi libri di vampiri e con lo sguardo allucinato di quegli occhi neri. In ogni caso, dopo avergli parlato, avevo cominciato a prendere molto più sul serio il vampirismo. Westin era un tipo bizzarro, sinistro, indimenticabile. Avevo la sensazione che ci saremmo incontrati, o almeno parlati, di nuovo.
La paura non mi passò né quella sera né l'indomani mattina, quando sorse il sole sulle montagne di Santa Ynez. Quello che stava succedendo era terribile, dietro c'erano individui malati o chissà quale setta misteriosa, probabilmente legata alla sottocultura del vampirismo. Ma non era detto e, se non era così, la situazione era ancora più preoccupante, perché significava che brancolavamo nel buio più totale.
Alle sette e mezzo mi misi in viaggio su un'auto a noleggio, nella nebbia fitta, canticchiando un piccolo blues di Muddy Waters che si adattava bene al mio umore.
Uscii da Santa Barbara e mi diressi verso Fresno, dove avevo in programma di incontrare un altro «esperto».
Dopo un paio d'ore, presi la 166 a Santa Maria e proseguii verso est, attraverso la Sierra Madre, fino alla 99, che imboccai in direzione nord. Era la prima volta che visitavo la California, e mi piaceva molto. Sia il panorama sia i colori erano molto diversi rispetto alla East Coast.
Viaggiavo a velocità di crociera ascoltando un CD di Jill Scott e meditando per lunghi tratti di strada sulla piega presa dalla mia vita negli ultimi due anni. Sapevo che alcuni dei miei amici stavano cominciando a preoccuparsi per me. Uno di questi era John Sampson, che pure non poteva definirsi catastrofista. Sampson mi aveva detto più di una volta che secondo lui correvo troppi rischi e mi aveva addirittura suggerito di cambiare lavoro. Sarei potuto andare all'FBI, era vero, ma non mi sembrava un gran cambiamento. Sarei anche potuto tornare a fare lo psichiatra a tempo pieno, aprendo uno studio o mettendomi a insegnare, magari alla Johns Hopkins, dove mi ero laureato e dove avevo tuttora parecchi contatti.
Poi c'era il ritornello preferito di Nana: dovevo trovare una donna e sistemarmi, dovevo trovare qualcuno da amare.
Non che non ci avessi provato. Mia moglie, Maria, era rimasta uccisa a Washington in una sparatoria di cui non era mai stato individuato il responsabile. Era successo quando Damon e Jannie erano molto piccoli, ma io non mi ero ancora ripreso del tutto, e forse non ce l'avrei mai fatta. Ancora adesso, se non mi controllo, provo un'angoscia sconfinata al pensiero di Maria e della sua fine assurda. Una tragedia che ha lasciato orfani Damon e Jannie.
Mi sarebbe piaciuto risposarmi, ma forse non era destino che fossi fortunato due volte nella vita. Con Jezzie Flanagan non sarebbe potuta andare peggio. In seguito mi ero messo con Christine Johnson, insieme avevamo fatto il piccolo Alex, ma poi lei si era trasferita a Seattle. Stava bene, diceva, e aveva «trovato qualcuno». Continuavo a provare per lei sentimenti contraddittori: Christine aveva sofferto molto per me. La colpa era mia, non sua. Mi aveva detto chiaramente che non ce la faceva più a stare con un ispettore della Omicidi. Poi avevo cominciato a frequentare un'agente dell'FBI di nome Betsey Cavalierre. Che era stata assassinata. E il caso era ancora irrisolto. Avevo paura anche soltanto di bere un aperitivo con Jamilla Hughes. I fantasmi del passato stavano diventando troppi per me.
«Bel detective!» borbottai tra me e me quando vidi l'indicazione per Fresno. Ero arrivato fin lì per parlare con uno che si intendeva di denti.
Zanne, per la precisione.
29
Il negozio si trovava in una zona commerciale popolare nel centro di Fresno. Si chiamava Tattoo, Fang and Claws Parlor e aveva una vetrina disordinata, con una vecchia poltrona da dentista al centro. Sulla poltrona era seduta una ragazzina di quattordici o quindici anni al massimo, con il collo lungo e foruncoloso piegato in avanti, che trasaliva a ogni puntura dell'ago.
Su uno sgabello alto c'era un giovanotto con una bandana gialla e blu sulla testa, che le stava facendo un tatuaggio. Scelse una boccetta tra un grande assortimento di inchiostri colorati che aveva a portata di mano. Mi vennero in mente i laboratori di pittura delle scuole.
Per qualche minuto osservai l'operazione dalla strada, riflettendo su quanto dolore fisico doveva sopportare chi si faceva fare un tatuaggio. E su quanto dovevano aver sofferto le vittime di quei terribili omicidi.
Sapevo come si fa un tatuaggio e osservai incuriosito l'artista avvicinare una lampada dallo stelo flessibile alla nuca della ragazza. Disponeva di due macchinette a pedale, una per i contorni e l'altra per le superfici e le sfumature, e di uno shader con quattordici aghi: più aghi si usavano, più efficace risultava la sfumatura.
Un uomo di mezza età con i capelli a spazzola passando borbottò: «Pazzi loro, e pazzo anche lei che li sta a guardare».
Tutti sono pronti a criticare, oggigiorno. Alla fine entrai e vidi il risultato del lavoro del tatuatore: un piccolo simbolo celtico verde e oro. Gli chiesi dov'erano zanne e artigli. Non aprì bocca, ma con un cenno della testa, anzi, del mento, mi indicò un corridoio sulla sinistra.
Passai davanti a varie bacheche contenenti piercing per la lingua e l'ombelico, alcuni dei quali fosforescenti, grossi anelli articolati, occhiali da sole, pipe da oppio, sinistri monili, un poster che reclamizzava artigli in vari stili.
Fuochino, pensai entrando nel corridoio, dove mi trovai faccia a faccia con l'esperto che cercavo.
Mi stava aspettando e mi venne incontro non appena mi vide arrivare.
«Benvenuto a destinazione, pellegrino. Sai, quando si va nei club di vampiri più interessanti e pericolosi, a Los Angeles, New York, New Orleans o Houston, si vedono denti aguzzi dappertutto. È uno spettacolo. E che spettacolo! Travestimenti gotici, edoardiani, vittoriani, sadomaso... di tutto. Ma da queste parti il primo a fare denti su misura sono stato io. Ho cominciato a Laguna Beach e poco alla volta mi sono trasferito a nord. E ora, eccomi qui.»
Mentre parlava, mi accorsi che aveva gli incisivi molto lunghi e affilati. Denti capaci di procurare gravi danni.
Si chiamava John Barreiro ed era basso, magro da far spavento e vestito quasi completamente di nero, come Peter Westin. Probabilmente era l'individuo con l'aria più sinistra che avessi mai conosciuto.
«Lei sa perché sono qui. Per via degli omicidi del Golden Gate Park», dissi.
L'uomo annuì e fece un sorrisetto cattivo. «So perché sei qui, pellegrino. Ti ha mandato Peter Westin. Peter è un tipo convincente, vero? Vieni con me.»
Mi portò in una stanzetta piena di roba nel retro del negozio. Le pareti erano blu scuro e le luci rosse.
Barreiro era pieno di energia, irrequieto, e parlando gesticolava continuamente. «A Los Angeles c'è un Fang Club favoloso. Dicono che è l'unico posto dove si possono incontrare dei vampiri senza lasciarci la pelle. Al sabato e alla domenica ci saranno quattro o cinquecento persone, tra cui una cinquantina di veri vampiri. Ma le zanne le portano quasi tutti, anche gli emulatori.»
«I suoi denti sono veri?» domandai.
«Se vuoi provare, ti do un morso», ribatté con una risata. «Sì, sono veri. Me li sono fatti incapsulare e poi affilare. Mordo. Bevo sangue. Sono un autentico cattivo, detective.»
Annuii senza la minima esitazione. Le caratteristiche c'erano tutte.
«Prendendo una semplice impronta dei suoi canini, posso farle un paio di zanne su misura. Tanto per distinguersi dai suoi colleghi. Per distinguersi dalla massa.»
Sorrisi e lo lasciai continuare. «Produco varie centinaia di paia di zanne all'anno. Incisivi superiori e inferiori. A volte anche doppi. Di tanto in tanto ne faccio un paio in oro o in argento. D'argento a lei starebbero benissimo.»
«Ha letto degli omicidi avvenuti in California?» chiesi.
«Sì, ne ho sentito parlare. Come no. Da amici e conoscenti come Peter Westin. Alcuni vampiri sono molto eccitati, perché pensano che si tratti di un segno che annuncia l'inizio di un'era nuova e la possibile venuta di un nuovo Sire.»
Lo interruppi. Quelle ultime parole mi avevano provocato un brivido improvviso. «I vampiri hanno un capo?»
Gli occhi scuri di Barreiro si strinsero fino a diventare fessure. «No, no. Ma se lo avessero, non te lo direi.»
«Allora lo hanno», ribattei.
Mi fulminò con un'occhiata e ricominciò a muoversi irrequieto.
Chiesi: «Sarebbe in grado di confezionare delle zanne di tigre, se un cliente glielo chiedesse?»
«Sì. Mi è già capitato di farne.»
All'improvviso si avventò su di me con uno scatto fulmineo. Mi afferrò per i capelli con una mano e per un orecchio con l'altra. Sono alto uno e novanta e molto più grosso di lui, ma mi colse impreparato. Era piccolo, eppure rapidissimo ed estremamente forte. Si avvicinò con la bocca spalancata alla mia gola, poi si fermò.
«Non sottovalutarci, detective Cross», sibilò, prima di lasciarmi andare. «Allora, sicuro di non volere un bel paio di zanne? Te le faccio gratis. Magari le usi per autodifesa.»
30
William guidava il furgone bianco e impolverato nel deserto del Mojave a centosessanta chilometri all'ora, con la musica al massimo. Sfrecciava come il vento sulla Route 15 in direzione di Las Vegas, la loro tappa successiva.
Il furgone era stata un'idea geniale. Era un'unità mobile utilizzata per la raccolta di sangue e aveva persino i contrassegni della Croce Rossa. Questo significava che lui e Michael erano autorizzati a prelevare sangue da chiunque si offrisse come donatore.
«Mancano soltanto tre o quattro chilometri», disse William al fratello, che teneva una gamba nuda fuori del finestrino.
«A cosa? Alla preda, spero. Mi sto stufando, ho bisogno di alimentarmi. Ho sete. Dove andiamo?» Michael faceva i capricci, da adolescente viziato qual era. «Non mi va Eminem. Dove andiamo?»
«Fra poco lo vedrai», promise William, misterioso. «Ti piacerà. Te lo giuro.»
Pochi minuti dopo si fermarono davanti a un centro di paracadutismo. Michael si tirò su a sedere e lanciò un urletto di gioia, battendo i palmi delle mani sul cruscotto. Era proprio un bambino.
«Ho bisogno di velocità», gridò Michael, imitando Tom Cruise in Giorni di tuono.
I due fratelli si lanciavano con il paracadute da quando erano usciti dal riformatorio. Era uno dei modi migliori - legali - per sballare e distrarsi dalla voglia di uccidere. Balzarono giù dal furgone ed entrarono insieme in un hangar che decisamente doveva aver visto tempi migliori.
William diede venti dollari al pilota per fare un giro su un Twin Otter. Sulla pista ce n'erano due, ma soltanto un pilota e il centro era deserto.
Il pilota era una ragazza mora che doveva avere più o meno l'età di William, ventidue o ventitré anni al massimo. Di corpo, era molto graziosa e sexy, ma aveva la faccia da topo e le guance butterate. Era evidente che Michael e William le piacevano. Peraltro, conquistavano sempre tutti.
«Non avete tavole, quindi non siete qui per fare skysurfing. In che cosa vi volete cimentare?» chiese la ragazza con un forte accento del Sudovest. «A proposito, io mi chiamo Callie.»
«A noi piace tutto», le rispose Michael, scoppiando a ridere. «Seriamente, Callie. Non scherzo. Ci piace fare tutto quello che vale la pena di fare.»
«Non ne dubito», rispose la ragazza, sostenendo il suo sguardo per un momento. «Be', partiamo, allora», propose, apprestandosi a salire su uno dei due Otter.
Meno di novanta secondi dopo, l'aereo sussultava sulla pista sconnessa. William e Michael, ridendo e gridando, si infilarono il paracadute.
«Siete proprio esaltati, eh?» disse Callie. «Fate caduta libera? Siete matti da legare!» Parlava a voce altissima per farsi sentire e aveva una specie di raschio in gola che William trovava irritante. Le avrebbe volentieri piantato i denti nel collo, ma non era il momento giusto.
«Fra le altre cose, sì. Portaci a sedicimila piedi», rispose William, anche lui urlando.
«Dai, tredicimila bastano. Guarda che a tredicimila piedi la temperatura è poco sopra lo zero. Scende di un grado ogni mille piedi. A sedicimila si rischia l'ipossia. È troppo alto, per due ragazzini di primo pelo.»
«Te lo diciamo noi che cosa è troppo. L'abbiamo già fatto», ribatté Michael un po' arrabbiato, scoprendo i denti. Ma forse Callie lo prese per un sorriso seducente: non sarebbe stata la prima volta che le capitava.