DOMANDA 6
Cosa replica a chi
l’accusa di “professionismo
dell’antimafia”?

Dopo la strage di Capaci, il successivo 25 giugno in un incontro pubblico, l’ultimo prima di essere dilaniato dall’autobomba di via D’Amelio, organizzato presso la biblioteca comunale di Palermo sullo stato della lotta alla mafia, Borsellino, già consapevole di un destino che si avvicinava, in un accorato intervento tra l’elogio funebre e la commemorazione ricostruì le difficoltà e le inimicizie che avevano segnato la vita e l’attività di Falcone, e che ne avevano giorno dopo giorno determinato la morte, affermando con tono lapidario che Falcone cominciò a morire “con quell’articolo sui professionisti dell’antimafia”. Ma ricostruiamo i fatti e i protagonisti della polemica.

Leonardo Sciascia è stato uno dei più importanti intellettuali italiani, uno scrittore che ha saputo raccontare, in modo lucido e approfondito, moltissimi aspetti della Sicilia e del nostro Paese, e ha esercitato un fascino particolare per me come per molti ragazzi della mia generazione. Il suo romanzo più noto, Il giorno della civetta, è stato pubblicato nel 1961 ma già raccontava fin nel profondo la complessità del sistema mafioso, in un periodo in cui c’era chi ne negava l’esistenza.

Era il 10 gennaio 1987 quando Leonardo Sciascia pubblicò sul “Corriere della Sera” un articolo che venne intitolato: I professionisti dell’antimafia. In quell’articolo Sciascia sosteneva che l’antimafia poteva diventare uno “strumento di potere. Che può benissimo accadere anche in un sistema democratico, retorica aiutando e spirito critico mancando”. Per spiegare il suo ragionamento faceva due esempi: il sindaco di Palermo, Leoluca Orlando, e il magistrato Paolo Borsellino che, per avere svolto indagini sulla mafia, era stato nominato procuratore a Marsala vincendo su un collega più anziano. La conclusione di Sciascia era tranciante: “I lettori prendano atto che nulla vale più in Sicilia, per far carriera nella magistratura, del prender parte a processi di stampo mafioso”. Un attacco davvero violento, da cui nacque una polemica ferocissima. Paolo Borsellino si ritrasse dalla disputa manifestando apprezzamento per Sciascia: “Quelli della mia generazione hanno conosciuto la mafia grazie ai libri di Sciascia, in un periodo in cui di mafia non si parlava. E la mia generazione, proprio per questo, gli è sinceramente grata”. Come può spiegarsi dunque questa dura presa di posizione dello scrittore? Sono sicuro che qualcuno, che non amava non solo Borsellino ma anche la rivoluzione che nel sistema mafioso Falcone e il pool antimafia stavano compiendo, avesse fornito a Sciascia informazioni tendenziose per strumentalizzare la sua ansia di garantismo e di legalità.

Successivamente alla pubblicazione dell’articolo ci fu un incontro tra Sciascia e Borsellino, in cui ci sarebbe stato un “chiarimento”. Sciascia ammise di essere stato “mal consigliato”, ma va sottolineato che un fine intellettuale come lui non poteva ignorare gli effetti che le sue parole avrebbero avuto.

L’articolo di Sciascia fu infatti usato strumentalmente dai componenti del Consiglio superiore della magistratura per stravolgere nuovamente i criteri, bocciando la candidatura di Giovanni Falcone, imbattibile sul piano della competenza nell’azione antimafia, a capo dell’Ufficio istruzione del Tribunale di Palermo, ruolo che era stato prima di Chinnici poi di Caponnetto.

È innegabile che dopo l’umiliante bocciatura a favore di un collega più anziano di Falcone, la lotta alla mafia subì un arretramento di qualche decennio. Lo Stato si ritirava rinunziando alle posizioni conquistate grazie al metodo di lavoro vincente del pool, all’accentramento delle indagini in considerazione dell’accertata natura verticistica e unitaria di Cosa nostra. Il contributo di Sciascia fu forse inconsapevole, nel senso che egli non si curò dei possibili effetti nefasti sull’antimafia in generale che il suo articolo su Borsellino poteva avere. La sua buonafede comunque fu riconosciuta dagli stessi protagonisti che, pur rimanendo colpiti da quelle parole, non arrivarono mai allo scontro, anzi cercarono sempre una riconciliazione con lo scrittore, giungendo tutti alla medesima conclusione: giusta la denuncia, sbagliati i bersagli.

La ferita sembrava rimarginata, in realtà nel profondo rimaneva aperta e sanguinante. D’altronde l’accusa di utilizzare l’antimafia per fare carriera non può essere più lontana dalla vita e dall’impegno di Paolo Borsellino e Giovanni Falcone: bella “carriera” quella di saltare in aria dopo una vita di amarezze e delusioni professionali.

I problemi che Sciascia poneva nei suoi scritti erano reali: il rispetto delle regole, la democrazia, il diritto, la legge uguale per tutti, la bilancia della giustizia, come unica strada per contrastare la mafia. Però la sua polemica, sbagliata nel tono, nella scelta degli esempi e del tempo, provocò nei fatti l’isolamento dei magistrati più impegnati, esponendoli alle critiche e al contrattacco di quel sistema di potere parallelo e funzionale all’organizzazione criminale, che ha usato le parole, il prestigio dello scrittore, dell’intellettuale, per bloccare quella macchina da guerra giudiziaria che era il pool antimafia. Dopo il successo del maxiprocesso, che aveva colpito anche personaggi importanti dell’imprenditoria e della politica – quell’area grigia costituita da imprenditori, professionisti, centri di potere occulti, burocrati, politici, più o meno collusi – quelli che potremmo definire i “professionisti della mafia” temevano che prima o poi sarebbe toccato a loro.

Dopo tanti anni, l’accusa di Sciascia nei confronti di chi utilizza l’antimafia per ottenere vantaggi personali viene ancora citata molto spesso, specie alla luce di alcuni scandali recenti. In realtà possiamo dire che ci troviamo dinanzi a cattivi esempi che hanno usurpato l’immagine dell’antimafia, non certamente a dei professionisti. Perché, ripulendo del tono sprezzante il titolo del “Corriere della Sera”, è importante affidarsi ai competenti e ai professionisti, per l’antimafia come per qualsiasi altro tema difficile e complesso; quelli che fanno danni sono i dilettanti e gli impostori.

Dopo le polemiche del 1987 sono nati comitati, centri, associazioni e fondazioni che hanno come obiettivo la promozione di una cultura della legalità, della solidarietà e del rispetto per l’ambiente. Nonostante alcuni gravi, ma limitati, episodi emersi negli ultimi anni, è giusto rivendicare le conquiste ottenute, il cambiamento culturale, il riscatto sociale. Non bisogna dare fiato a chi cerca di cavalcare i singoli scandali nel tentativo di delegittimare una lunga storia di riscatto sociale e morale che va invece difesa con orgoglio. E allora occorre recuperare i valori di fondo di legalità e giustizia e, superando la secolare indifferenza e rassegnazione, farci prendere da quella sana indignazione che deriva dall’impotenza, dal senso di insicurezza che pervade i cittadini onesti quando si accorgono dell’impunità dei mafiosi e dei corrotti. C’è bisogno di un’antimafia che sappia guardare con spirito critico al proprio interno e abbandonare il protagonismo, il preteso primato di ogni associazione o fondazione, la corsa alla spartizione dei finanziamenti pubblici e privati. L’obiettivo, per tutti noi, non può che essere sempre lo stesso: andare avanti con coraggio, passione, impegno; essere di stimolo e controllo sociale per le istituzioni; unire tutte le componenti, sociali e istituzionali, per isolare le mafie; sostenere le forze dell’ordine e la magistratura per sconfiggerle definitivamente.