33. Wilma
Abbiamo apparecchiato sotto al loggiato, il tavolone rustico è stato abbellito con una tovaglia a tulipani con qualche chiazza rossa a testimonianza di precedenti bevute. Prisco ha predisposto una caraffa di acqua del rubinetto accanto a una boccia del suo lambrusco. Ci sediamo con gli occhi soddisfatti di chi sa che sta per riempirsi meritatamente la pancia. Lui si muove con disinvoltura: copre il centro del tavolo con un tagliere in noce dove fa scivolare un salame lungo e grosso, che celebra tagliandogli via quello che insiste a nominare “culetto”: la parte posteriore. Poi, tenendo fermo l’insaccato con la sua mano rovinata, ne spella una metà. Lo depone di nuovo sul tagliere. Impugna un coltello affilato e lo affonda nel salume. Taglia una quindicina di fette, ripete la stessa operazione con una formella di primosale, mentre Nunzia si alza e si dirige al lavello del magazzino, dove ha poco prima mondato le verdure per il pinzimonio. Torna con un vassoio che tracima di ravanelli, sedani, carote e altri colori dell’orto che urlano freschezza e che – a breve – al contatto coi nostri denti o con le nostre dentiere si riveleranno croccanti.
Con un brindisi cominciamo a pasteggiare e a spezzare le rosette di pane, mentre nugoli di moscerini danzano in aria ogni volta che qualcuno tocca, anche inavvertitamente, il cesto d’uva viola. Questo è il momento preferito da Prisco: facciamo i conti del rifornimento con cui rincaseremo. Io compro sei bottiglie di vino, una gallina, due dozzine di uova, un coniglio, due verze, del radicchio, una cassa di mele, due chili di salsiccia e una coppa. Nunzia come me, ma raddoppia uova e mele, queste ultime le serviranno per la confettura. Aggiunge anche un fagiano e ordina un’oca per il mese successivo, quando tornerò da sola. Mafalda è la più griccia, solo uova e un po’ di verdura, in modo da non spendere più di dieci euro. Tanto lo sa come andrà a finire: una bottiglia di lambrusco gliela regalerò io. Nel frattempo ci godiamo un lauto rinfresco, soddisfatte del nostro mezzodì di ottobre. Concludiamo con caffè e dolce alla ricotta e ribes. Proprio mentre lo stiamo assaporando, suona il mio telefono. Lo prendo e mi allontano per rispondere. Non riesco a controllare bene il display, non ho gli occhiali per vedere da vicino. Anche se riuscissi a leggere, troverei solo la dicitura di un numero privato. Ma, in compenso, quando sento la voce la riconosco.
La mia Melania.
«Sono io».
«Ciao Melania». Mi alzo bruscamente e il pastore tedesco, sempre legato alla catena a una distanza ragionevole, comincia ad abbaiare.
«Sei contenta che ti ho chiamata?».
«Ma certo. Come stai?».
«Così. Senti, non posso stare tanto al telefono… volevo chiederti…».
«Dimmi».
«Va bene se passo stasera?».
«Ma…».
Fraintende la mia esitazione, pensa che io non la voglia e sento uno sbuffare nervoso. «Che cazzo di problema hai con me, mamma?».
Dannazione.
Vorrei polverizzare Bubi.
«Mi prendi stasera o no? Volevi essere avvisata e ti ho chiamata».
«Melania, io stasera non posso…». I miei occhi si bagnano in un secondo.
Vorrei mordermi la lingua e mangiarmi le dita. Quando mai mia figlia si è azzardata a chiamarmi? Se insiste così, per farmi visita, è perché ha bisogno di me, magari soltanto di vedermi… Anch’io muoio dalla voglia di accoglierla in casa, mi sento straripare di spirito materno, come se correndole dietro la indennizzassi per non averla accudita il giusto, forse, quando avrei dovuto. Se non provvedi abbastanza ai figli da piccoli, dovrai pensarci quando saranno grandi: prima o poi l’essere madre si paga.
«Dai, mamma, ci vediamo dopo».
«No, Melania, davvero. Stasera non posso».
«Perché, cazzo?».
Il mio pensiero corre al poveretto imbavagliato nella stanza che, fino a qualche anno prima, era abitata da mia figlia. Mi asciugo gli occhi trascinando le lacrime sulle guance. «Perché non posso. Mi dispiace tanto».
«Mi vuoi fare un dispetto? Mi vuoi punire per qualcosa? Per colpa di Zebidù? Non lo porto, ti prometto che non lo porto, non è nemmeno il mio cane!».
Ha proprio bisogno di me, mia figlia. Non si è mai lanciata in queste garanzie, né ha mai parlato con una voce così accomodante. Per un istante ricordo la sua soavità di bambina, quando, a quattro anni, mi cercava alla sera: assonnata, anulare e medio ciucciati in bocca, gli occhi che imploravano un cuscino e il sussurro di una filastrocca. Dov’è finita quella dolcezza della buonanotte?
«Non ti voglio fare un dispetto, giuro…». Mi escono altre due lacrime, eppure la voce non tentenna: «Ma stasera non posso».
Sto per aggiungere “Chiamami presto, rimedieremo”, ma Melania tronca la comunicazione. Io già piango a dirotto, trafitta da quel caratteristico dolorino al torace, l’angina pectoris: come se fosse piombato da dietro l’aia un rapace invisibile e mi avesse strappato con brutalità un pezzetto di cuore.
* * *
Quando salutiamo Prisco, Mafalda ha la sensazione che in qualche modo lui diffidi di lei. Le altre le abbraccia, a lei stringe la mano. Non importa, il fine giustifica i mezzi, non potevamo permettere che lo stupido inghippo di un veterinario mandasse a monte i nostri piani. Immagino la faccia del buon uomo, una volta ricevuta la visita della polizia: “Signor Prisco, venga con noi. Quella che ha fatto esaminare non è carne bovina. È carne umana”. Tiriamo un sospiro di sollievo e saltiamo in macchina. Anche questa è andata.
La Escort si incanala lentissima in una diramazione della provinciale che ci condurrà in città, l’esterno dell’auto è sbiadito dai decenni di usura, l’interno straripa di effluvi di verdure e campi floridi.
«Giochiamo a carte stasera?» propone Nunzia.
«Non sei stanca?». Non ne ho per niente voglia.
«Un po’ sì, però… per allontanare la tristezza data dal funerale di ieri».
«Io non ce la faccio» taglio corto.
«E tu, Mafalda?».
«Nemmeno lei ce la fa» la anticipo, timorosa di essere abbandonata per la serata: Mafalda si deve occupare della nostra cosa. Mi correggo, «Almeno, credo… sei stanca anche tu, vero Mafalda?», e la guardo di sbieco, siamo sedute di fianco come all’andata.
«Sì, Nunzia, non ci riesco. Devo stare dietro al mio Giorgio, già oggi l’ho lasciato solo tutto il giorno».
«È vero, poverino…» si associa Nunzia, compassionevole.
Poverino lui? pensa Mafalda, e lo esterna dal viso contrariato. Nessuno dice poverina a me. Nessuno pensa a quanto sia difficoltoso per me, a quante complicazioni mi procuri. Sarebbe inutile tentare di spiegarlo. I sacrifici… Io li ho seguiti tutti, passo dopo passo, quando, all’inizio, la mia amica si confidava. Giorgio aveva perso la percezione della dimensione vitale, all’inizio era stata la scomparsa di un ricordo, così flebile che neppure se n’erano accorti. Erano sopraggiunti le pause e il tremore. Ogni malato ha il suo tremore, si erano rincuorati.
Dove si era perso, Giorgio? Nei nomi dei parenti lontani, prima. Poi aveva disimparato la genealogia di quelli vicini. La lista della spesa non sapeva più compilarla, si era tramutata in un incrocio di linee e onde, racconti di altri luoghi, balbettii. Poi il silenzio lungo ore, spaccato all’improvviso da urla gutturali, almeno finché riusciva. Ora Mafalda non rimugina più poverino quando lo assiste, quando lo cambia o lo rigira nel letto perché non si rovini di piaghe.
Povera anche la mia amica. Siamo tutte poverette, se ci mettiamo a stendere la lista dei dissapori con la vita. Le offro una sigaretta, dopo essermene accesa una. Abbassa il finestrino, mentre si rivolge a Nunzia, dietro: «Che ne dici se facciamo sabato un partitone da me?».
«Perché non da Wilma?» rilancia Nunzia. È sempre così, nessuno vuole mettere piede in quella casa malata, dall’odore poco gradevole, dove la padrona risica i tovagliolini di carta e le gocce d’acqua.
«Perché non da me, scusa? Ho Giorgio da curare, son più comoda…».
«Sentite, allora stiamo da me. Così non devo salire le scale, sapete, con la mia elefantiasi…».
Intuisco il pretesto e la assecondo: «Va bene, Nunzia: facciamo sabato alle ventuno a casa tua».
Suona il suo telefono, è la cara Betta che vuole rassicurazioni: è tornata la sua mamma a casa? E andato tutto bene? Nunzia le risponde con voce artificiosa e parte la nenia. Tu come stai? Cosa hai mangiato, quando vieni?
Mafalda ne approfitta per parlarmi sottovoce, mentre fumo placidamente, una mano al volante e una a scrollare la cenere fuori dal finestrino appena abbassato. «Ma non è meglio se giochiamo da me?».
«Cosa cambia, Mafalda?».
«Per una sera niente, ma ormai non venite più. Io devo starci dietro a mio marito, che credi?».
Effettivamente non vedo Giorgio da tempo, è un pezzo che non salgo. Lo immagino come una larva da nutrire e rigirare e fasciare, un ingombro.
«Ha bisogno di me per ogni cosa».
E allora perché lo lasci sempre solo e non gli assumi una badante almeno per qualche ora al giorno? vorrei accusarla, ma temo di offenderla e non è certo il momento giusto per metterci a litigare, dobbiamo mantenere salda l’alleanza, piuttosto. Intanto Nunzia prosegue il botta e risposta al telefono e Mafalda conclude lo sfogo: «Voi non potete immaginare. Dicono che l’Alzheimer sia un invecchiamento precoce… È regredito gradualmente, all’inizio. Poi è precipitato giù. Sembra la crescita a ritroso di un bambino, come se tornasse indietro nel tempo, con la pelle e il corpo però segnati dagli anni. Ha perso prima le capacità più complesse, come amministrare le finanze, poi quelle più semplici, come l’autonomia nel vestirsi, nel lavarsi, nel controllare vescica e sfintere. Le ha perse nello stesso ordine in cui le aveva acquisite, capisci, Wilma? È come se la sua vita fosse stata una montagna e lui, una volta raggiunto il picco, fosse ridisceso dalla stessa parte da cui è salito. Ha perso il moto, poi il linguaggio e il sorriso, poi non è stato più capace di sollevare la testa, proprio come un poppante. Lo vedi? Cammina a ritroso, ma avanzando nella vecchiaia. E lo sai quale sarà il passo successivo?».
Mi sento inondata da una tristezza primordiale, vischiosa. Non vorrei sentire il seguito, che pure arriva dalla voce spinosa della mia amica: «Giacerà a letto in posizione fetale. I dottori han detto che se gli darò il dito, lui lo succhierà di riflesso, proprio come un neonato».