14. Le Sultane
Mafalda è indecisa su come organizzarsi con Giorgio. Non può addormentarlo adesso, sono già le quattro, poi stanotte gli dovrebbe somministrare una dose doppia di Tavor e quello mica lo regalano, le farmacie. È vero che ora non ha più bisogno di centellinare i soldi, ma la tirchieria è marchio d’origine, lei se ne infischia delle circostanze.
I diamanti la distraggono in continuazione. Il motivo per cui si sta dilungando ed è in ritardo mostruoso è da addebitarsi a una causa molto semplice: sogna. A occhi aperti, mentre svolge le mansioni quotidiane alla sua maniera sbrigativa. Lava velocemente i panni sporchi di Giorgio nel catino in cui si impaluda dell’acqua simile a melma, poi li risciacqua, li appende in terrazzo e nel frattempo riconta mentalmente le banconote, ripete la consistenza piallata di filigrana vergine che le scorreva tra le dita, sente di nuovo il rumore della plastica che si muove, i sacchetti straripanti di oggetti, ci sguazza come un anatroccolo in uno stagno. Questo è il suo momento, l’anatroccolo si affranca dal senso di inadeguatezza e si libra in volo come un cigno, con due borse di plastica che pendono dalle zampe. Dentro ci sono centocinquantamila euro, più altri articoli senza nome. Ora immagina come investire i soldi. Ora si raffigura come una raffinata sultana coperta di gemme e broccati. Finché Giorgio la richiama con un lungo lamento.
Fino all’anno prima suo marito biascicava schegge di memoria sparse senza un filo.
La carne, lo stinco non va bene, pesa zzzbzzzb.
Gli uscivano di bocca come una sbuffata di ricordi, preoccupazioni, recriminazioni. Qualcuno, nella sua testa, aveva chiamato un fabbro, aveva scardinato il lucchetto dei pensieri, le inferriate si erano aperte stappando un colabrodo di situazioni e commozioni antiche che neppure quando era sano rammentava più.
No! Si sgolava: Il conto della signora Paletti non è stato pagato e poi zbzbzzzz…
Tornava ai tempi d’oro della macelleria, quando gli affari andavano a gonfie vele e lui, dietro la bottega, si inverdiva la bile bisticciando col fratello di scamoni, stinchi e biancostati.
Mafalda lo ignora e gli prepara la cena: purea di patate con crosta di parmigiano grattugiato. Niente uova, l’ha promesso.
«Oggi ti faccio la pappa prima del dovuto, poi ti metto a letto. Mancherò per molte ore, mi raccomando: fa’ il bravo».
Lui resta ancorato alla televisione, mentre lei prosegue invitandolo a comportarsi bene, e se ha la cacca di farla subito, ché dopo non può più cambiarlo per molte ore. Non ha mai smesso di rivolgersi a lui come se ci fosse ancora tutto, con la testa.
Si siede un secondo sul divano e pensa piccata alla tribù di Ugo, che verrà l’indomani per la festa dei piccoli. Cosa credono, quelli, di passare al ristorante? Quando è stato deciso che si dovessero festeggiare i compleanni dalla nonna? Non ricorda più quanti anni compiano, lo scarto è di ventiquattro mesi, quindi o cinque e sette o quattro e sei, comunque uno straccio di dono glielo deve pur fare. I birilli rubati saranno un regalo perfetto, li porteranno a casa e finiranno nel dimenticatoio.
Non le piace come si comportano con lei. Sua nuora Domnica pilucca appena il cibo, con faccia schifata, come se anziché delle tagliatelle le servisse degli scarafaggi. Lascia sempre il piatto a metà con la scusa della linea, poi prima di farsi versare l’acqua aspetta che lei sia voltata o piegata sul forno per prendere in mano il bicchiere e soffiarci dentro: pensa che sua suocera non le lavi bene, le stoviglie? E quell’aria di sufficienza, quella fronte con istoriata la scritta: ho girato il mondo, io, e ora sono qui, me tapina, a rimangiare per l’ennesima volta la solita minestra, anziché caviale. In fondo non è una cattiva ragazza, se non stesse così sulle sue, Mafalda la coinvolgerebbe e le insegnerebbe i segreti da casalinga – ad esempio come si tolgono le macchie dagli indumenti e come si preparano le melanzane sott’olio, quelle così sottili che paiono carta velina, e nemmeno c’è bisogno di cuocerle, basta macerarle una notte nell’aceto con la menta piperita e i ciuffetti d’origano. Ma Domnica non ha mai dimostrato la minima voglia di intrattenersi con lei oltre il necessario. Ugo trascorre il tempo a rimproverarla per presunte sue carenze verso il padre oppure si fissa davanti al telefonino, la moglie controlla ogni dieci minuti l’orologio appeso alla parete – un cimelio a cucù, regalo di nozze –, i nipoti starnazzano convinti che la confusione da loro provocata sia benvenuta.
Mafalda prepara la cena al marito e per tutto il tempo, mentre lo imbocca, pensa solo all’appartamento di Wilma e al malloppo. A un certo punto, viene pungolata da un dubbio atroce che la sprona ad azioni più veloci, tanto che, tra una cucchiaiata e un’altra, va di traverso il cibo all’infermo: e se Wilma scappasse con il tesoro?