19. Wilma

La Certosa di Bologna è il posto ideale per perdersi, quando si vuole restare soli con le proprie rovine. Ero abituata, da piccola, al campo santo contadino del mio paese d’origine, quattro lati che incoronavano un fazzoletto di terra stipato di loculi, erbacce e stele di marmo, mica troppe sciccherie: allora bastava una fossa e solo i più benestanti venivano inumati con corredo di foto e madonnina di marmo. I privilegiati che potevano fregiarsi di una tomba di famiglia si contavano sulle dita di una mano. Erano cinque, infatti, ricordo i cognomi di tutti, gli stessi che alla domenica, anche in tempo di guerra, potevano permettersi tortelli di zucca, salama da sugo e dolcetto. Essendo infossato leggermente a valle, di sera il cimitero si vedeva da ogni punto della città e rendeva più inquietanti le nebbie con le sue fiammelle fluorescenti. La Certosa no, non si vede dall’esterno: nove ettari segnano la contrada dei morti. Delle volte mi perdo apposta nel suo bianco labirinto e finisco in posti sconosciuti, che subito diventano familiari. La necropoli etrusca, le zone dei caduti di guerra, le tombe dei big, di Marco Minghetti, di Giorgio Morandi o dei grandi fondatori: Maserati, Zanichelli, Ducati.

Già agli inizi facevo fatica a trovare la strada verso Juri. Parcheggiavo al solito posto, lato ovest, compravo i fiori – solo rose rosse – e m’incamminavo per la via principale. Poi quando giungeva il momento di svoltare mi sbagliavo sempre: era la seconda, la terza o la quarta strada? E dopo: dovevo girare a destra o a sinistra? Le file con le tombe erano tutte uguali, a ogni angolo la stessa fontana, le stesse vedove di nero vestite, ovunque il medesimo odore dolciastro di gambi macerati nell’acqua e petali sfusi. Mentre camminavo stordita dalle mille identità sepolte e dalle date, ogni tanto mi lasciavo sfuggire il suo nome. Juri, cantavo ai cespugli spessi, Juri, trascinava il vento tra le lastre, Juri, perveniva all’orecchio del becchino, che ormai mi aveva battezzata per pazza.

Poi aveva avuto compassione di me e mi aveva accompagnata alla tomba, mi aveva anche fornito una mappa mentale per ricordare il tragitto: all’ingresso dovevo prendere la strada principale fino alla fine del primo blocco di fosse – quante! –, poi dovevo svoltare a destra, proprio all’altezza della tomba di una bambina di dieci anni – nella foto ha le trecce nere e manca la data di nascita perché era una povera orfanella morta, prima della guerra, di fame e di freddo – e andare dritto fino alla seconda fontana. Lì dovevo superare un altro plesso, sfilare sotto un portone con l’arco, proseguire e girare a sinistra alla terza fila. Tutto chiaro, l’avevo ringraziato e lui non mi aveva più rivolto la parola. Eppure ci incontravamo ogni tanto, lui procedeva a testa bassa come si conviene ai guardiani dei morti.

Come d’abitudine anche ora, tornavo con regolarità martedì, venerdì e ogni domenica prima di pranzo, il vaso del mio ragazzo splendeva sempre di fiori freschi, boccioli amaranto che si schiudevano durante la settimana. Lo chiamavo per nome, qualcuno mi sentiva e mi guardava con diffidenza, ma del resto questo tic mi aggredisce anche in casa ed è uno dei motivi per cui Melania si sente sollevata a non vivere più sotto il mio stesso tetto.

Ho scelto per Juri una tomba di marmo granuloso, anche se poi me ne sono pentita. Tra le scanalature della lastra s’insedia spesso della polvere di terra, che provvedo a cacciare annaffiando la pietra con un caraffone di acqua, scortando lo spruzzo con la mano: a quello che non fa il getto, rimedia il mio indice laborioso. Ma che fatica: ora, col senno di poi, vi garantisco che è mille volte meglio una lapide liscia.

Oggi stranamente non ho ancora pronunciato il suo nome. Mi metto china col naso quasi incollato alla sua foto e ricambio il sorriso limpido di lui, denti splendenti da ragazzo, lo stesso sorriso di chi non assapora appieno l’estate, perché tanto pensa che ne arriveranno altre. Sfioro l’immagine con le dita appena passate sulle labbra per lasciarvi sopra un bacio.

«Ciao bello» gli dico con il cuore in bocca. Effettivamente era un bel ragazzo. Spalle larghe da sportivo, fisico asciutto e in viso la maledizione triste che l’avrebbe accompagnato.

Ho bisogno di confidarmi e gli inoltro il pensiero compatto del mio crimine, dal primo pomeriggio del sabato, alla notte di sangue in macelleria – il passaggio è velocissimo, inevitabile, non potrei mai nascondergli una cosa del genere, lui la verrebbe a sapere comunque, sempre che non l’abbia già scoperta –, come se davvero tra me e le ossa, laggiù, ci fossero possibilità telepatiche. Non mi sento giudicata, quasi quasi percepisco da là sotto uno scampanellio, l’ombra della sua risata cristallina – rideva volentieri lui. La percepisco, la sua solidarietà, ciononostante ho bisogno di un rinforzo. «I soldi li terrò per quel progetto, lo sappiamo solo io e te…». Apro l’involucro col mazzo di rose profumate, un po’ di rugiada si dilegua giù dagli steli come una lucertolina che scappa. Agguanto le rose vecchie – che poi sarebbero ancora belle, è un peccato buttarle. Molto più decenti, ad esempio, delle margherite della tomba di fianco, con che cuore la gente trascura così i propri morti? – e le butto nel pattume all’inizio della fila. Poi torno, svuoto sull’erba il vaso di metallo infilato in quello di marmo, rovescio l’acqua stantia, lo irroro di getti nuovi versandoli a cascata dalla brocca e lo reinserisco dentro al suo buco. Accosto i fiori secondo la gradazione di rosso, li divoro con lo sguardo come se la loro essenza floreale potesse in qualche modo infrangere la barriera marmorea, la compattezza della terra nera, lo zinco della bara e portare sulle ossa di Juri un po’ di balsamo. Così sarà, senza dubbio.

Sto da cani e devo confessare solo per essere perdonata.

«Non so come sia potuto accadere, io non volevo…».

Lo so, mamma. Mi sembra di aver sentito una carezza. O forse era un refolo di vento.

«Vorrei dare una parte di soldi a Melania».

Sarebbe bello, mamma. Però lo sai.

«Sì, lo so. Lei non li prenderebbe».

Provaci lo stesso. E armati di pazienza. Tanta pazienza.

È sempre stato saggio, il mio Juri, fin da bambino capiva le situazioni, non c’era bisogno di fargli gli occhiacci per intimargli un basta, né di zittirlo o invogliarlo a parlare nei momenti giusti. Di motivi per essere orgogliosa di lui me ne forniva diversi. Le professoresse del tecnico lo adoravano, con quella sua maniera disinteressata ma capziosa di salutare e scusarsi se non aveva svolto i compiti. Ai vicini porgeva sempre un aiuto, quando gli veniva richiesto, regalava il suo tempo come se fosse eterno. Era il beniamino di vegliarde e piccini, bottegai e parrucchiere. Tutt’altra pasta rispetto a Melania. Quella era simpatica, rideva come un omaccione ubriaco, ma se la dava a gambe levate appena poteva, bigiava la scuola, sudava come un muratore, i gesti di gentilezza li scansava come la peste. Col fratello, invece, il suo cuore di silicio si scioglieva. Il fatto di avere qualche anno più di lui le consentiva di porsi come una via di mezzo tra madrina pazzoide e sorella pestifera, lei lo faceva correre come un puledro giù in cortile e lo guardava a vista. Rintracciava anche un contatto fisico. Non che lo sbaciucchiasse, non era nel suo stile. Però gli rifilava di quelle torture di solletico che lui – bocca spaccata in due dal ridere e urla allegre che rompevano i timpani – sopportava dimenandosi, e il bello era che si divertiva. Sua sorella gli aveva insegnato tutto ciò che si può trasmettere, dai primi passi sul triciclo alle marce del motorino. Se l’era tenuto stretto finché era rimasto bambino, poi alle superiori l’aveva mollato alla sua indipendenza, controllandolo sempre con discrezione.

«È così cattiva». I miei occhi si bagnano in un lampo e una nuvola borbotta sopra la mia testa. Alzo lo sguardo e trovo un cielo che sembra un campo di grano grigio, appena arato. Il mondo si è voltato a testa in giù.

Non è cattiva, è solo infelice.

«E io, io non sono infelice?».

Sì, ma tu hai te stessa, la tua forza. Lei non ha neanche se stessa. Sta facendo un braccio di ferro con la sua esistenza. E sa già che perderà.