Il giorno del mio compleanno.


Noi ragazzi di Fiume Basso vivevamo davvero seguendo le leggi criminali siberiane, avevamo un robusto sentimento religioso ortodosso, con un'influenza pagana molto forte, e venivamo chiamati da tutto il resto della città «Educazione siberiana» per i nostri modi di fare. Non dicevamo parolacce, non offendevamo mai il nome di Dio o della madre, non parlavamo senza rispetto di una persona anziana, di una donna incinta, di un bambino piccolo, di un orfano o di un disabile. Eravamo abbastanza inquadrati e a dire la verità non avevamo bisogno delle parolacce per sentirci adulti come i nostri coetanei di altri quartieri, perché eravamo trattati come se facessimo veramente parte della comunità criminale, eravamo una vera banda, composta da minorenni, con la gerarchia del modello criminale e con le responsabilità che i criminali adulti ci avevano dato.

Il compito che avevamo era fare le sentinelle. Andavamo in giro per la nostra zona, passavamo tanto tempo ai confini con gli altri quartieri e comunicavamo agli adulti ogni movimento anomalo. Se nel quartiere passava un tipo sospetto, un poliziotto, un infame, un criminale di un altro quartiere, le nostre autorità adulte lo sapevano in pochi minuti.

Quando arrivavano i poliziotti, di solito gli bloccavamo la strada, ci mettevamo seduti o sdraiati davanti alle loro macchine costringendoli a fermarsi. Quelli uscivano e ci spostavano a calci nel sedere o tirandoci per le orecchie, noi facevamo la lotta con loro. Di solito sceglievamo il più giovane e ci buttavamo addosso a lui in tanti, qualcuno lo picchiava, qualcuno si attaccava a un braccio mordendolo, un altro si aggrappava alla schiena e gli portava via il cappello, un altro ancora gli strappava i bottoni della divisa o gli tirava fuori la pistola dalla custodia. Andavamo avanti Così finché lo sbirro non andava in esaurimento, o finché i suoi colleghi non cominciavano a picchiare sul serio.

I più sfortunati di noi si beccavano delle manganellate in testa, perdevano un po' di sangue e via.

Una volta un mio amico ha tentato di rubare la pistola dalla custodia di un poliziotto, quello gli ha bloccato la mano in tempo, solo che l'ha stretta Così forte che il mio amico ha premuto il grilletto e involontariamente gli ha sparato nella gamba. Appena abbiamo sentito lo sparo ci siamo messi a correre da tutte le parti, e mentre correvamo quegli imbecilli hanno iniziato a spararci dietro. Per fortuna non hanno colpito nessuno di noi, ma correndo sentivo le pallottole passarci vicine. Una è finita contro il marciapiede, staccando un pezzo di cemento che mi ha colpito in faccia. La ferita era piccola e per niente profonda, dopo non mi hanno dato neanche un punto, però per qualche strana ragione da quel buco usciva un casino di sangue e quando siamo arrivati davanti a casa del mio amico Mei, sua mamma, zia Irina, mi ha preso in braccio e ha cominciato a correre verso casa dei miei, gridando per tutto il quartiere che i poliziotti mi avevano sparato in testa. Inutilmente cercavo di calmarla, era troppo presa dalla corsa, e alla fine, a qualche metro da casa, attraverso il sangue che mi copriva gli occhi, ho visto mia mamma diventare pallida come la morte, con un aspetto già da funerale. Quando zia Irina si è fermata davanti a lei, io mi sono girato come un serpente per liberarmene e ho fatto un salto dalle sue braccia, atterrando in piedi.

Mia mamma mi ha guardato la ferita e mi ha detto di entrare in casa e poi ha dato a zia Irina un calmante, per toglierle l'agitazione.

Si sono sedute vicine sulla panchina nel cortile, bevendo valeriana e piangendo tutte e due. Io allora avevo nove anni.


Un'altra volta i poliziotti sono usciti tutti dalle macchine, per sbarazzarsi di noi in fretta. Ci hanno preso per le gambe o per le braccia e ci hanno lanciato sul bordo della strada; noi ci alzavamo e tornavamo al centro, e gli sbirri ricominciavano uguale. Per noi era un gioco infinito.

Uno dei miei amici ha approfittato di un attimo di distrazione di uno sbirro e ha tirato giù il freno a mano della sua macchina. Eravamo in cima a una piccola collina, su una strada che portava al fiume, Così la macchina è partita come un missile e i poliziotti l'hanno guardata impietriti ma con le facce arrabbiatissime fare tutto il percorso, entrare in acqua e – glug – sparire come un sottomarino. A quel punto siamo spariti anche noi più in fretta del solito, per non beccarci troppe botte.


Oltre alle sentinelle facevamo anche i messaggeri.

Siccome nella comunità siberiana non si usa comunicare attraverso il telefono, che è considerato un mezzo insicuro e soprattutto un simbolo disprezzabile, è molto sviluppata la cosiddetta «strada»: cioè la comunicazione attraverso un misto di messaggi passati a voce, scritti nelle lettere o codificati nelle forme di alcuni oggetti.

Un messaggio a voce si chiama «soffietto». Quando un criminale adulto vuole fare un soffietto chiama un minorenne qualsiasi, anche suo figlio, e gli dice il contenuto del messaggio in lingua criminale fenja, che proviene dall'antica lingua degli antenati dei criminali siberiani, il popolo degli Efei. I messaggi detti a voce sono sempre corti e hanno un significato concreto, vengono usati nei rapporti quotidiani, per questioni poco complicate.

Quando mio padre mi chiamava per affidarmi un messaggio vocale da portare a qualcuno, mi diceva: «Vieni qua, che devo fare un soffietto». Poi mi diceva il contenuto, tipo: «Vai da zio Venja e digli che qua la polvere sta come un palo», il che equivaleva a un invito immediato per discutere di una cosa importante. Io dovevo partire subito in bicicletta, salutare per bene zio Venja, dire due parole di circostanza che non c'entravano niente con il messaggio, come voleva la tradizione siberiana, ad esempio chiedergli della sua salute, e solo dopo potevo arrivare al dunque: «Porto per voi un soffietto da mio padre». Quindi dovevo aspettare che lui mi desse il permesso di riferirglielo; lui me lo dava, ma senza parlare in maniera diretta. Umilmente, per non gettare alcuna ombra di prepotenza, mi rispondeva: «Allora che Dio ti benedica, figliolo» o «Che lo Spirito di Gesù Cristo sia con te», facendomi capire che era pronto ad ascoltare. Io riferivo il messaggio e aspettavo la sua risposta. Il fatto è che non potevo andare via senza una risposta, anche se zio Venja o chi per lui non aveva niente da dire doveva comunque inventarsi qualcosa. «Di' a tuo padre che affilerò i tacchi, vai con Dio», mi diceva lasciando intendere che accettava l'invito e sarebbe passato al più presto. Se non voleva dire niente, diceva: «Come la musica per l'anima, Così è per me una buona soffiata, torna a casa con Dio, che Lui dia a tutta la vostra famiglia salute e vita lunga». A quel punto facevo anch'io gli auguri di rito e me ne tornavo a casa il più in fretta possibile. Più eri veloce, più venivi apprezzato come messaggero, meglio eri ricompensato. A volte riuscivo a rimediare una banconota da venticinque rubli (a quei tempi una bici ne costava cinquanta), altre volte un dolce o una bottiglia di acqua gasata con lo sciroppo.

Anche nella consegna delle lettere avevamo una nostra piccola parte.

Le lettere potevano essere di tre tipi: la ksiva (che nella lingua criminale significa documento), la maljava (piccolina) e la rospica (firma).

La ksiva era una lettera lunga e importante in lingua criminale. Veniva scritta molto di rado, da criminali autorevoli e vecchi, soprattutto per far arrivare gli ordini dentro il carcere, influenzare la politica di gestione delle galere, fomentare le rivolte o convincere a risolvere in un certo modo una situazione calda. Una lettera simile veniva passata di mano in mano, di galera in galera, e per l'importanza del suo contenuto non veniva mai affidata a un messaggero qualunque, solo a persone molto vicine alle autorità criminali. Noi minorenni non abbiamo mai portato lettere del genere.

La maljava, invece, era la tipica lettera che noi portavamo quasi sempre, avanti e indietro. Di solito veniva mandata dalla galera per comunicare con il mondo criminale fuori, senza essere controllati dal sistema carcerario. Era una lettera piccola, sintetica, sempre in lingua criminale. In un giorno ben preciso, ogni secondo martedì del mese, noi andavamo fuori dalla prigione di Tiraspol'. I prigionieri quel giorno «sparavano i fuochi», cioè, usando gli elastici delle mutande, lanciavano come con la fionda le loro lettere oltre il muro della prigione e noi le raccoglievamo. Ogni lettera aveva un indirizzo in codice, una parola o un numero.

Queste lettere venivano scritte da un po' tutti i prigionieri e usavano la «strada» della prigione, quel sistema di comunicazione da cella a cella di cui ho già parlato: attraverso delle corde montate di notte da una finestra all'altra venivano «mandati i cavalli», cioè vari pacchi, messaggi, lettere eccetera. Tutte le lettere venivano poi raccolte da una squadra di prigionieri che si trovava nei blocchi più vicini al muro, dove le finestre non avevano lamiere spesse ma solo le classiche sbarre di ferro. Da li, delle persone chiamate «missilisti» lanciavano le lettere una dopo l'altra oltre il muro. Venivano pagati per questo dalla comunità criminale e non avevano nessun altro compito in prigione, si esercitavano tutti i giorni sparando oltre il muro pezzi di stracci con cui si lavano i pavimenti.

Per lanciare una maljava si faceva il «missile», un piccolo tubo di carta che aveva una lunga coda morbida, di solito fatta con i fazzoletti di carta (molto difficili da procurarsi in prigione): questo tubo si piegava da una parte, formando una specie di gancio che si fissava a un'estremità dell'elastico; poi si stringeva con le dita e si tirava, nel frattempo un'altra persona accendeva la coda di carta morbida e quando quella prendeva fuoco il tubicino veniva sparato.

La coda in fiamme ci permetteva d'individuare la lettera quando cadeva per terra. Bisognava correre il più in fretta possibile, per spegnere il fuoco e non far bruciare il tubicino con dentro la preziosa lettera. Eravamo quasi sempre almeno in dieci, e in mezz'ora riuscivamo a raccogliere anche più di cento lettere. Tornando a casa, le distribuivamo alle famiglie e agli amici dei prigionieri. Eravamo pagati per questo lavoro.

Ogni comunità criminale aveva il suo giorno preciso in cui lanciare le lettere, una volta al mese. In alcuni casi, se c'era una lettera molto urgente, tra criminali si usava aiutarsi l'un l'altro, anche se si apparteneva a comunità diverse. Così a volte le lettere di membri di altre comunità finivano insieme alle lettere dei nostri criminali, e noi le portavamo comunque al destinatario. O meglio, valeva la regola che a consegnarla doveva essere quello che l'aveva raccolta da terra: era una regola che serviva per evitare i litigi tra di noi. In casi come questi non eravamo pagati, ma di solito ci davano qualcosa. Portavamo le lettere a casa del Guardiano di zona, uno dei suoi aiutanti le prendeva e le metteva in cassaforte: dopo passava la gente, diceva una parola o un numero in codice, e lui, se trovava una lettera segnata con lo stesso codice, la consegnava al destinatario. Questo servizio non era pagato e rientrava nelle responsabilità del Guardiano; se succedevano casini con la posta, spariva qualche lettera o nessuno di noi andava a raccoglierla sotto la prigione, il Guardiano poteva essere punito severamente, anche finire ammazzato.

La rospica, cioè «la firma», era un tipo di lettera che girava sia in prigione che fuori. Poteva essere una specie di lasciapassare fornito da un'autorità criminale, che assicurava la permanenza tranquilla e l'accoglienza fraterna di un criminale nei posti dove non conosceva nessuno, ad esempio nelle galere lontane dalla sua regione o in città dove si recava per viaggi d'affari. Come ho già detto, la firma veniva anche tatuata direttamente sulla pelle.

In altri casi la rospica si usava per diffondere informazioni importanti, ad esempio per convocare a una grande riunione di autorità criminali tutti quelli che avevano un qualche potere, o per far arrivare apertamente e senza rischi un ordine destinato a più persone; grazie al linguaggio cifrato, infatti, anche se la firma finiva nelle mani della polizia non succedeva niente.

Lettere Così io le ho consegnate un paio di volte: erano normali, sempre aperte. Le autorità criminali non chiudono mai le loro lettere, e non solo perché sono in codice, ma anche e soprattutto perché il contenuto non deve mai gettare un'ombra su di loro, di solito ha un carattere dimostrativo, per esibire i poteri delle leggi e spargere una specie di carisma criminale.

Una volta ho consegnato una firma con un ordine che proveniva dalle galere della Siberia, ed era indirizzato alle galere dell'Ucraina. Ai criminali ucraini veniva ordinato di rispettare in carcere alcune regole, ad esempio venivano proibite le relazioni omosessuali e le punizioni di singoli detenuti tramite umiliazioni fisiche o di carattere sessuale. In calce a quella lettera avevano messo le loro firme trentasei autorità criminali siberiane. La firma capitata nelle mie mani era una delle tante copie di quel documento, destinato a essere riprodotto e diffuso tra tutti i criminali in prigione e in libertà nel territorio dell'Urss.

Un'altra forma di comunicazione, chiamata «lancio», avveniva attraverso la consegna di certi oggetti.

In pratica veniva dato a un messaggero qualsiasi, anche minorenne, un oggetto che nella comunità criminale aveva un significato particolare. Il compito del messaggero era portarlo al destinatario dicendo chi lo mandava, non c'era bisogno di aspettare una risposta.

Un coltello rotto significava la morte di qualcuno della banda, una persona vicina, ed era un gran brutto segno. Una mela tagliata a metà era un invito a dividere il bottino. Un pezzo di pane secco dentro un fazzoletto di stoffa, invece, era un avvertimento preciso: «Attento, le forze dell'ordine sono vicine, c'è stata una svolta importante nel caso che ti riguarda». Un coltello avvolto in un fazzoletto era un invito all'azione per un assassino a pagamento. Un pezzo di corda con un nodo stretto in mezzo significava: «Non sono responsabile di quello che sai». Un po' di terra dentro un fazzoletto voleva dire: «Ti prometto che manterrò il segreto».

Esistevano significati più semplici e significati più complessi, «buoni» – ad esempio a scopo di protezione – e «brutti» – offese o minacce di morte.

Se qualcuno sospettava che una persona avesse rapporti che compromettevano la sua dignità criminale, magari con la polizia o con altre comunità criminali (senza il permesso della propria), gli recapitavano una piccola croce insieme a un chiodo, o in casi estremi un topo morto, a volte con in bocca una monetina o una banconota, segno inequivocabile della promessa di punizione estrema. Quello era il «lancio brutto», il peggiore: morte sicura.

Se invece volevi invitare un amico a far festa, per divertirsi, bere e passare il tempo in allegra compagnia, gli mandavi un bicchiere vuoto. Quello era un «lancio buono».

Io portavo spesso messaggi di questo genere, mai niente di brutto. Più che altro comunicazioni organizzative, inviti, promesse.


Tra i compiti che avevamo c'era anche quello di cercare di organizzarci in maniera decente per portare avanti il glorioso nome del nostro quartiere: in parole semplici, dovevamo essere capaci di seminare il caos tra i minorenni degli altri quartieri.

La cosa andava fatta nel modo giusto, perché la nostra tradizione vuole che la violenza sia sempre motivata, anche se poi il risultato finale non cambia, perché una testa spaccata resta una testa spaccata.

Con noi lavoravano i vecchi, i criminali anziani che si erano ritirati e vivevano grazie al sostegno dei criminali più giovani. Da eccentrici pensionati, si occupavano di noi minorenni e della nostra identità criminale.

Ce n'erano tanti nel quartiere, e tutti provenivano dalla casta degli Urea siberiani: seguivano la vecchia legge, disprezzata dalle altre comunità criminali perché obbligava a una vita umile e degna, piena di sacrifici, dove al primo posto si mettevano ideali come la moralità e il sentimento religioso, il rispetto verso la natura e verso la gente semplice, i lavoratori e tutti quelli che venivano usati o sfruttati dal governo e dalla classe dei ricchi.

I ricchi noi li chiamavamo con un'antica parola siberiana, upiri, creature della mitologia pagana che abitano nelle paludi e nei boschi profondi e si nutrono di sangue umano: veri e propri vampiri siberiani.

Per questo la nostra tradizione c'impediva di compiere crimini basati sull'accordo preso con la vittima, perché era considerato indegno comunicare con i ricchi e i rappresentanti del governo, che potevano essere solo aggrediti o uccisi, ma mai minacciati o costretti ad accettare accordi. Quindi reati come l'estorsione, il racket o il controllo di attività illecite attraverso taciti accordi con la polizia e il Kgb erano decisamente disprezzati. Si facevano solamente rapine e furti, nei traffici illeciti non si prendeva nessun accordo con nessuno, insomma erano gestiti in maniera autonoma.

Ma le altre comunità non ragionavano Così, soprattutto le nuove generazioni si comportavano alla maniera europea e americana; era gente priva di moralità che rispettava solamente i soldi e a tutti i costi cercava di creare un sistema criminale a piramide, una specie di monarchia criminale, a differenza del nostro sistema che poteva essere paragonato a una rete, dove tutti sono legati tra loro e nessuno ha potere personale, ognuno fa la sua parte nell'interesse comune.

Già quando io ero minorenne in molte comunità criminali i singoli membri dovevano meritarsi il diritto alla parola, altrimenti erano trattati come persone inesistenti. Invece nella nostra comunità il diritto alla parola ce l'avevano tutti, anche le donne, i minorenni, i disabili e i vecchi.

La differenza tra l'educazione che avevamo ricevuto noi e l'educazione (o l'assenza di educazione) dei membri di altre comunità creava un vuoto, una distanza immensa tra di noi. Per questo, anche se non ne eravamo consapevoli, sentivamo il bisogno di far valere i nostri principi e le nostre leggi, e di costringere gli altri a rispettarle, a volte anche con la violenza.

In città facevamo sempre casino, quando andavamo in un altro quartiere spesso finiva in rissa, con sangue per terra, bastonate e coltellate da tutte le parti. Avevamo una fama bestiale, tutti avevano paura di noi e molte volte eravamo aggrediti proprio per via di questa paura, perché si trova sempre qualcuno che vuole andare contro gli istinti naturali, tentare il destino, cercare di vincere la propria paura buttandosi contro il motivo che la provoca.

Non sempre finiva in rissa, certe volte grazie alla diplomazia riuscivamo a convincere qualcuno a cambiare idea, allora tutto si limitava a qualche schiaffo che volava dalle due parti, e a quel punto si cominciava a parlare. Era bello quando finiva cosi. Ma più spesso finiva nel sangue, e in una catena di relazioni rovinate con un intero quartiere, relazioni che dopo la loro morte era molto difficile rianimare.

I nostri vecchi ci avevano insegnato bene.

Come prima cosa, bisognava rispettare tutti gli esseri viventi, categoria in cui non rientravano i poliziotti, la gente legata al governo, i bancari, gli usurai e tutti coloro che avevano tra le mani il potere del denaro e sfruttavano le persone semplici.

Poi bisognava credere in Dio e in Suo Figlio Gesù, e amare e rispettare gli altri modi di credere in Dio diversi dal nostro. Ma la Chiesa e la religione non dovevano mai essere considerate una struttura. Mio nonno diceva che Dio non ha creato i preti, ma solamente uomini liberi, e che comunque esistono anche preti buoni: in quel caso non è peccato andare nei luoghi dove loro svolgono la loro attività, ma è senz'altro peccato pensare che davanti a Dio i preti abbiano più potere di altri uomini.

Infine, non dovevamo fare agli altri quello che non volevamo fosse fatto a noi: ma se un giorno eravamo obbligati a farlo, doveva esserci un buon motivo.


Uno dei vecchi con cui parlavo tanto di queste cose, voglio dire della nostra filosofia di vita e della nostra primitiva ignoranza, diceva che secondo lui il nostro mondo era pieno di persone che seguivano strade sbagliate, e che dopo aver fatto un passo falso si allontanavano sempre più dalla retta via. Lui era dell'idea che in molti casi era inutile cercare di farli ritornare sulla strada giusta, perché erano troppo lontani, e l'unica cosa che rimaneva da fare era sospendere la loro esistenza, «toglierli dalla strada».

– Uno che è ricco e potente, – diceva il vecchio, – camminando sulla sua strada sbagliata rovina tante vite, mette nei guai tante persone che in qualche maniera dipendono da lui. L'unico modo per far tornare tutto al suo posto è ucciderlo, e Così distruggere il potere che ha costruito sul denaro. 

Io ribattevo:

– E se anche l'omicidio di questa persona fosse un passo falso? Non sarebbe meglio evitare di avere contatti con lui e basta?

Il vecchio mi guardava stupito, e rispondeva con tale convinzione che mi girava la testa:

– Ragazzo, chi ti credi di essere, Gesù Cristo? Soltanto Lui può fare miracoli, noi dobbiamo solo servire Nostro Signore… E quale servizio migliore di togliere dalla faccia del mondo i figli di Satana?

Era troppo buono, quel vecchio.


Insomma, per via dei nostri vecchi eravamo sicuri di essere nel giusto. «Piangano quelli che ci vogliono male, – pensavamo, – perché Dio è con noi»: avevamo mille modi tutti particolari per giustificare le nostre violenze e i nostri comportamenti.

Il giorno del mio tredicesimo compleanno, però, mi è successa una cosa che mi ha fatto venire qualche dubbio.

Tutto è cominciato cosi: la mattina di quel freddo e gelido giorno di febbraio, il mio amico Mel si è presentato a casa mia chiedendomi di accompagnarlo dall'altra parte della città, nel quartiere Ferrovia, dove per ordine del Guardiano della nostra zona doveva portare un messaggio a un criminale.

Il Guardiano gli aveva detto che poteva farsi accompagnare da una sola persona, non di più, perché portare messaggi in gruppo è maleducato, è considerata un'esibizione di violenza, quasi una minaccia. E Mel purtroppo aveva scelto me.

Io non avevo nessuna voglia di trascinarmi fin là nel freddo, tanto più il giorno del mio compleanno: avevo già fissato l'appuntamento per quella sera con tutto il branco per fare una festa a casa di mio zio, che era vuota perché lui era in galera. Mi aveva lasciato casa sua e io potevo farci tutto il casino che volevo: bastava tenerla pulita, dare da mangiare ai suoi gatti e bagnargli i fiori.

Quella mattina volevo occuparmi dei preparativi per la festa, e quando Mel mi ha chiesto di accompagnarlo mi sono sentito proprio giù di morale. Ma non potevo rifiutare, sapevo che era troppo stordito e che da solo avrebbe combinato qualche guaio. Così mi sono vestito, abbiamo fatto colazione insieme e siamo partiti per il quartiere Ferrovia. C'era troppa neve, non si poteva usare la bicicletta, Così siamo andati a piedi. Il pullman io e i miei amici non lo prendevamo mai perché ci toccava aspettarlo troppo, si faceva più in fretta a piedi. Camminando di solito si parlava di tante cose, di quello che succedeva nel quartiere o in città. Ma con Mel era molto difficile parlare, perché Madre Natura lo aveva reso incapace di creare frasi comprensibili. Diceva cose che io non ho il coraggio di tradurre dal russo all'italiano perché non saprei come seguire il filo, anzi l'assenza di filo, del discorso.

Le nostre conversazioni avevano una forma di dialogo che era tenuto su esclusivamente da me, con corti inserimenti suoi tipo «Da», «A-ha», «M-m-m» e altre unità minime di suono che lui riusciva a emettere senza nessuna fatica.

Ogni tanto Mel si fermava improvvisamente, si bloccava, e la sua faccia diventava una specie di maschera di cera tutta colata da una parte: significava che non aveva capito di cosa stavo parlando. Allora dovevo fermarmi immediatamente anch'io e partire con le spiegazioni: solo allora Mel tornava ad avere la sua faccia di sempre e riprendeva a muoversi, a camminare.

Non che la sua faccia di sempre fosse un granché: era attraversata da una cicatrice ancora fresca e al posto dell'occhio sinistro aveva un buco. A conciarlo Così era stato un incidente: aveva fatto tutto da solo, maneggiando in modo maldestro la carica di un proiettile antiaereo che gli era esploso a pochi centimetri dal viso. Il calvario dei microinterventi chirurgici per ricostruirgli il volto non era ancora terminato, e Mel all'epoca girava ancora con quell'orrendo, enorme buco nero al posto dell'occhio mancante. L'occhio finto, di vetro, l'avrebbe messo solo tre anni più tardi.

Mel era Così in tutto, non aveva un collegamento tra il corpo e la mente, quando pensava doveva stare fermo, altrimenti non riusciva ad arrivare a una conclusione decente, e se stava facendo un qualsiasi movimento non era in grado di pensare. Per questo io, un po' per scherzo un po' sul serio, lo chiamavo «asino»: un gesto molto cattivo e indegno da parte mia, lo riconosco, ma se mi permettevo un simile comportamento era solo perché mi toccava sopportarlo dalla mattina alla sera, e spiegargli tutto come a un bambino. Lui non si offendeva, ma diventava serio di colpo, come se stesse pensando al misterioso motivo per cui gli davo del somaro. Una volta mi ha scioccato, quando dal niente, in una situazione che non c'entrava nulla con il fatto che di solito lo chiamavo «asino», improvvisamente mi ha detto:

«Ho capito perché mi chiami cosi! Perché secondo te ho le orecchie troppo lunghe!»

A quel punto si è incazzato e si è messo a difendere le dimensioni delle sue orecchie.

Io non ho risposto niente, mi sono limitato a guardarlo.

Era irrecuperabile, e aggravava la situazione fumando e bevendo come un vecchio alcolizzato.


Insomma, io e Mel quella mattina di febbraio camminavamo per le strade coperte di neve. Quando c'è poca umidità la neve è molto secca e fa un rumore ridicolo, quando ci cammini sopra è come se stessi camminando sui cracker. Il mattino era pieno di sole e il cielo vuoto prometteva una giornata buona, ma tirava un vento leggero e costante che avrebbe potuto ribaltare le previsioni.

Abbiamo deciso di attraversare il quartiere Centro e di fermarci a mangiare un boccone in un posticino – una via di mezzo tra un bar e un ristorante – gestito da zia Katja, la mamma di un nostro buon amico che era morto l'estate prima, annegato nel fiume.

Andavamo spesso a trovarla, e per non farla sentire sola le raccontavamo come stavano le cose nella nostra vita. Lei ci voleva bene, anche perché il giorno in cui suo figlio è annegato eravamo insieme e quella storia, anche se era segnata da un enorme dolore, ci aveva uniti tutti quanti.

Il corpo di Vitalic (Così si chiamava il nostro amico) non era stato trovato subito. Le ricerche erano state difficili perché due giorni prima, cento chilometri più su, era crollata una grossa diga.

Questa è un'altra storia, ma è una storia che va raccontata.


Era estate, e faceva molto caldo. La diga ha ceduto di notte, e io mi ricordo che mi sono svegliato perché ho sentito un rumore spaventoso, come di una tempesta in arrivo.

Siamo usciti dalle case e abbiamo capito che il rumore veniva dal fiume. Siamo andati a vedere e abbiamo trovato un disastro: gigantesche ondate d'acqua bianca, come di schiuma, arrivavano sempre più forti, sbattevano contro la riva e si portavano via barche e battelli.

Qualcuno aveva con sé una pila e con quella illuminava il fiume, c'erano tanti oggetti nell'acqua che giravano come dentro a una grande lavatrice: mucche, barche, tronchi d'albero, botti di ferro, stracci e pezzi di stoffa che sembravano lenzuola. Qua e là, in quel disastro d'acqua, spuntavano dei mobili. Si sentivano delle urla.

Il nostro quartiere per fortuna si trovava sulla riva alta, e l'onda di piena non ci era arrivata addosso in maniera devastante: era tutto allagato anche da noi, le case e le cantine erano piene d'acqua, ma senza grossi danni.

Il giorno dopo il fiume era sporchissimo, e noi abbiamo deciso di prenderci l'impegno di pulirlo, di togliere quello che riuscivamo usando le nostre forze. Avevamo a disposizione alcune barche a motore risparmiate dall'ondata, perché quando la diga aveva ceduto si trovavano a riva.

Anche le mie barche si erano salvate. Ne avevo due, una grossa e pesante, che usavo per trasportare grandi carichi (passavamo tutta l'estate a devastare i giardini di mele e i magazzini alimentari in territorio moldavo…), e un'altra piccola e stretta, che usavo per andare a pesca di notte. Era veloce e maneggevole, con quella barca «guidavo la rete», cioè mi spostavo in continuazione controcorrente, cercando di chiudere con la rete da pesca la parte centrale del fiume, dove passava la maggior parte del pesce.

La barca più piccola si era salvata perché si trovava a casa mia, dovevo farci dei lavoretti. L'altra invece perché era in un rimessaggio a riva: da un pezzo avevo chiesto al custode di riverniciarmela con una lacca speciale. Si chiamava Ignat, il custode, era un uomo buono e povero. Doveva verniciarmela da un mese, quella barca, ma non trovava mai il tempo: doveva sempre fare qualcosa di più urgente o ubriacarsi fino a perdere i sensi.

In tutto avevamo otto barche e ci siamo divisi in quattro squadre, due barche per squadra, quattro ragazzi per barca.

Il lavoro era organizzato in modo da tenere il fiume sempre «chiuso» da due barche, che pescavano l'immondizia: una squadra, armata di lunghi bastoni con grandi ganci di ferro sulla punta, recuperava rami e tronchi, corpi di animali e vari oggetti di grandi dimensioni. Il tutto veniva legato allo scafo con le corde, e quando non c'era più spazio per altri relitti l'equipaggio tornava verso riva, dov'era atteso da altri ragazzi che entravano in acqua e scaricavano tutto quanto. Sulla riva, già dal mattino presto avevano cominciato a bruciare tanta legna, facendo un enorme falò. Così buttavamo i relitti sulle braci: dopo mezz'ora anche i tronchi più fradici si seccavano e, bagnati con un po' di benzina, finalmente prendevano fuoco.

Verso mezzogiorno il fuoco era diventato enorme, non ti potevi più avvicinare senza morire di caldo. Faticando in tanti e con grande difficoltà abbiamo buttato tra le fiamme il corpo di una mucca, oltre a varie carcasse di pecore, cani, galline, oche.

Poi, verso le quattro di pomeriggio, abbiamo ripescato il primo corpo umano.

Era un uomo di mezza età, vestito, con la testa spaccata. Cadendo in acqua travolto dall'onda doveva aver sbattuto contro qualcosa di duro, una pietra o un tronco.

Un'altra squadra invece era armata di retini, e pescava dal fiume i piccoli oggetti che galleggiavano in superficie: barattoli di conserve, bottiglioni, frutta e verdura fresca di vario tipo, mele con pesche, angurie con patate, e poi giocattoli di bambini, palette e secchielli di plastica, fotografie, tanta carta, giornali e documenti, tutto in un'enorme ratatouille.

E poi c'erano tante, tantissime bottiglie di acqua con sciroppo, minerale e naturale, perché qualche chilometro più su c'era la fabbrica dell'acqua sciroppata con i macchinari per l'imbottigliamento e i depositi. L'onda era passata anche da li, spazzando via tutto il contenuto del magazzino.

Abbiamo deciso di recuperarle tutte quante, quelle bottiglie, di metterle da parte e di distribuirle poi tra tutti quelli che avevano partecipato alla pulizia del fiume. Ma già nella prima ora di lavoro ne avevamo ripescate talmente tante che non sapevamo più dove metterle. Allora due nostri amici le hanno portate via dalla riva con grandi carriole, per liberare il posto per le altre, e le hanno lasciate nei cortili della gente che abitava li vicino. Hanno riempito di bottiglie tutta la prima via del quartiere, circa cinquanta case, e quando ripassavano di li con le carriole piene, la gente gridava: «No, qui non ci sta più niente, ragazzi, andate nella prossima casa!»


Il fiume dalla nostra parte è molto stretto e profondo, e dunque molto pericoloso. A causa della forte corrente si formano parecchi mulinelli, che possono raggiungere grandi dimensioni, anche più di tre metri di diametro. Quando l'onda era passata da noi, la maggior parte della sporcizia che aveva portato con sé era rimasta sui bordi del fiume, radunata in grandi mucchi che galleggiavano in acqua, in attesa che li prendessimo. Abbiamo lavorato tutto il giorno senza fermarci un attimo e abbiamo smesso solo a sera, quando per via del buio non si vedeva più niente.

Avevamo incasinato per bene la riva, quasi non si poteva più passare: dove mettevi il piede, trovavi qualcosa.

Ci siamo fermati a dormire davanti al fuoco.

Prima di dormire abbiamo mangiato, qualcuno si era portato qualcosa da casa, da bere ne avevamo in abbondanza: credo di aver bevuto più acqua con lo sciroppo quella sera che in tutta la mia vita.

Alla fine eravamo tutti a terra, illuminati dal fuoco. Facevamo gare di rutti, vista tutta quell'acqua gasata che ci eravamo scolati.

A una decina di metri da noi c'era il cadavere dell'uomo che avevamo ripescato nel pomeriggio. Gli abbiamo messo tra le mani una croce e una candela, per non farlo arrabbiare. Qualcuno gli ha anche portato un bicchiere d'acqua minerale e un pezzo di pane, seguendo la tradizione siberiana di offrire sempre qualcosa ai morti.

Abbiamo deciso che il giorno dopo era meglio chiedere aiuto alla gente degli altri quartieri, dato che il fiume era ancora pieno di roba e anche di altri cadaveri. Con il caldo i corpi sarebbero andati in putrefazione, e a quel punto ci sarebbe toccato lavorare in un inferno. Credevamo che con l'aiuto di altri ragazzi saremmo riusciti a ripulire il fiume in fretta.


Il giorno dopo, verso le dieci, sono arrivati i rinforzi. Molti ragazzi del Centro, qualcuno di Caucaso e di Ferrovia: erano venuti tutti per aiutarci, e noi eravamo contenti.

Perché non rischiassero di cadere in acqua (tanti di loro non sapevano nuotare, non erano cresciuti sul fiume come noi), li abbiamo fatti lavorare a riva. Portavano via la roba con le carriole o nei sacchi.

Molte bottiglie d'acqua gasata le abbiamo vendute alla gente che veniva in macchina a caricarsele, per poi rivenderle nei negozi. Gli facevamo un prezzo basso, basandoci non sulla quantità di bottiglie che gli davamo, ma sui giri che quelli riuscivano a fare con la macchina: un giro cinquanta rubli, e caricate quanto potete. Se erano veloci guadagnavano il triplo. Era un affare per tutti, noi sgomberavamo in fretta la riva ricavandoci pure qualche soldo, loro prendevano a quasi niente merce che poi rivendevano.

A lavorare con noi c'era anche Vitalic.

Anche se era del Centro, eravamo molto amici con lui. Veniva spesso a fare il bagno con noi nel fiume, era un ottimo nuotatore. Faceva gare di canottaggio, aveva un fisico allenato e una buona resistenza, quando nuotavamo insieme non si stancava mai, poteva andare controcorrente per ore.

Visto che era Così in gamba, lo abbiamo messo a dirigere la squadra dei ragazzi che slegavano gli oggetti dalla barca vicino a riva. Bisognava saper nuotare bene, perché la barca non poteva avvicinarsi a riva pili di tanto. Una volta sganciato, l'oggetto veniva portato a riva da cinque o sei nuotatori; era un'operazione difficile perché sott'acqua non si vedeva niente, era tutto sporco di terra e foglie e altra merda, e insomma non si capiva neanche com'era fatto quello che si stava trasportando. Un ragazzo si era ferito il giorno prima, mentre trasportava un tronco gli si era conficcato nel polpaccio un ramo, aveva perso tanto sangue in acqua, e prima ancora di realizzare cosa gli era successo era svenuto. Per fortuna gli altri se n'erano accorti subito e lo avevano portato a riva immediatamente e tutto era finito bene.


A mezzogiorno sono arrivati alcuni parenti delle persone che erano scomparse nel fiume. Hanno fatto un giro intorno al corpo dell'annegato, finché una donna non l'ha riconosciuto:

«E mio marito», ha detto.

Era accompagnata dal fratello di lui e da altri due uomini, amici di famiglia. C'era anche una bambina di dieci anni, una ragazzina molto piccola, con i capelli e gli occhi neri che hanno tante moldave.

La donna ha cominciato a piangere, urlando e buttandosi sul corpo del morto. Lo abbracciava, lo baciava. Anche la sua bambina ha cominciato a piangere, ma piano, come se si vergognasse di noi.

Alla fine i moldavi si sono presentati e hanno anche detto il nome del morto, che ora non ricordo più.

Il fratello dell'annegato ha cercato di tranquillizzare la donna, l'ha portata in macchina, ma lei continuava a piangere e a urlare anche da li.

I tre uomini hanno caricato il corpo sul sedile posteriore della loro macchina. Hanno ringraziato e ci hanno offerto dei soldi, ma noi li abbiamo rifiutati. Qualcuno di noi gli ha riempito il bagagliaio di bottiglie, e loro ci hanno guardati con una domanda negli occhi.

«Così risparmierete sulle bibite il giorno del funerale», gli abbiamo detto.

A quel punto sono esplosi in mille ringraziamenti. La donna si è messa a baciarci le mani e noi, per sottrarci a tutti quei baci, siamo tornati al lavoro.

Altra gente, intanto, cercava i propri morti. Qualcuno di loro ci ha offerto il suo aiuto e noi l'abbiamo accettato: poveracci, speravano di assistere al recupero dei corpi dei loro cari. Ma non è semplice trovare un morto annegato, di solito per almeno tre giorni i corpi stanno sott'acqua, e solamente dopo, quando cominciano a putrefarsi e si riempiono di gas, risalgono in superficie. Era stato un puro caso se avevamo trovato il corpo di quel povero moldavo, doveva essere stato spinto a galla da una forte corrente, e se non lo avessimo acchiappato subito sarebbe certo tornato sott'acqua.


Vitalic con altri cinque ragazzi stava trascinando a riva un albero con tanti rami che spuntavano dall'acqua: si capiva che sotto doveva essere enorme.

Avevano deciso di girarlo al contrario, con la chioma verso riva, per dare più punti d'appiglio a quelli che dovevano afferrarlo da terra.

Mentre lo stavano girando, Vitalic è rimasto impigliato con un piede tra quei rami. E riuscito a urlare, ad avvertire gli altri che era rimasto incastrato, ma improvvisamente l'albero ha funzionato come un'elica: si è ribaltato con tutto il suo peso portando Vitalic sott'acqua.

Non riuscivamo a crederci.

Tutti si sono buttati in acqua per tirarlo fuori, ma lui non c'era già più, né attaccato all'albero né altrove, nel raggio di molti metri.

A quel punto abbiamo immediatamente chiuso con la rete la zona li intorno, per evitare che la corrente lo portasse via. Poi abbiamo cominciato a esplorare il fondale.

Ci buttavamo nell'acqua sporca, dove non si vedeva niente, rischiando di andare a sbattere contro qualcosa. Uno di noi infatti è stato colpito da un tronco, ma per fortuna non troppo forte.

Di Vitalic, però, nessuna traccia.

Dopo dieci minuti di inutili ricerche, ci siamo guardati con rabbia.


Mi ricordo che continuavo a tuffarmi in acqua: scendevo giù, fino al fondo, cinque o sette metri, e cercavo con le mani nel vuoto.

A un certo punto ho trovato qualcosa, una gamba! L'ho stretta forte, appoggiandola al mio corpo, e piegandomi ho puntato i piedi sul fondale; mi sono dato una bella spinta, come se liberassi di colpo una molla, dopo di che in un attimo mi sono ritrovato in superficie.

Soltanto li ho capito che avevo afferrato la gamba di Mei. La sua testa spuntava dall'acqua e lui mi guardava con una faccia stupita.

Mi sono arrabbiato e l'ho colpito con un pugno in testa. Lui mi ha risposto nello stesso modo, e mi ha fatto parecchio male.


Non siamo riusciti a trovarlo, il corpo di Vitalic, nella prima ora di ricerche.

Eravamo tutti stanchi e nervosi, molti si sono messi a litigare tra loro: volavano le offese, ognuno voleva scrollarsi di dosso la colpa scaricandola sugli altri. In momenti come quelli, di slealtà totale verso tutti, cominci a vedere quali sono le vere facce delle persone, e ti viene uno schifo per quello che sei e per dove ti trovi.

Io non sentivo più le braccia e le gambe, non riuscivo più a nuotare, allora sono tornato a riva e mi sono sdraiato.

Non ricordo come, ma mi sono addormentato.

Quando mi sono svegliato era sera. Qualcuno mi stava chiedendo se stavo bene. Era il mio amico Gigit, aveva una bottiglia di vino in mano.

Gli altri erano seduti davanti al fuoco e si stavano ubriacando.

Mi sono sentito di nuovo pieno di forze e ho chiesto a Gigit se il corpo di Vitalic era stato trovato. Lui ha fatto un segno negativo con la testa.

Allora sono andato dagli altri e gli ho chiesto perché si ubriacavano, quando il corpo del nostro amico stava ancora nel fiume.

Mi hanno guardato con indifferenza, qualcuno era ciucco marcio, i più erano stanchi e depressi.

«Sentite, – ho detto, – io adesso vado a mettere le reti alla Falce».

La Falce era un posto a una ventina di chilometri più giù, sul fiume. La chiamavano Così perché in quel punto il fiume faceva una curva larga che assomigliava a una falce. In quell'ansa l'acqua si fermava e allagava la riva, Così la corrente sembrava quasi ferma.

Tutto quello che portava via la corrente prima o poi arrivava li. Bloccando con la rete il passaggio sul fondo, si poteva recuperare il corpo di Vitalic.

L'unico problema era che con l'alluvione il fiume si era riempito di tutta quella roba, e allora bisognava cambiare la rete in continuazione, altrimenti si riempiva troppo e rischiavi di romperla, mentre la tiravi su.

Con me sono venuti anche Mei, Gigit, Besa e Muto. Siamo andati con le mie due barche, con la mia rete e con quella di Mei.

Le reti che vengono usate per pescare gli annegati dopo vanno buttate via, o conservate solo per essere usate in un'altra occasione triste.

Io avevo una decina di reti diverse per usi diversi, le migliori erano quelle da fondo, che potevano sopportare grandi pesi e stare in acqua tanto tempo. Avevano tre strati sovrapposti, per un maggior effetto di cattura, ed erano molto spesse.

Ho preso la migliore rete da fondo che avevo e siamo partiti.

Abbiamo buttato la rete tutta la notte, la pulivamo in continuazione dalla sporcizia: c'era di tutto sul fondo del fiume, tante carcasse di animali diversi. Ma il peggio erano i rami, perché quando s'infilavano nella rete era difficile toglierli e rompevano le maglie.

Fino a mattina abbiamo avuto le mani fradice, non facevamo in tempo ad asciugarle che si bagnavano di nuovo, perché appena finivi di pulire la rete da una parte era già piena dall'altra, allora correvi di là, e appena la svuotavi dovevi tornare dov'eri prima.

A un certo punto è arrivato Gagarin con gli altri, per darci il cambio. Eravamo stanchi, cascavamo dal sonno. Ci siamo buttati subito a terra, nell'erba, e ci siamo addormentati all'istante.


Verso le quattro di pomeriggio, Gagarin e gli altri hanno trovato il corpo di Vitalic.

Era tutto pieno di graffi e di tagli, il piede destro era rotto, con un pezzo d'osso che fuoriusciva. Vitalic era blu, come tutti gli annegati.

Abbiamo chiamato la gente del nostro quartiere. Lo hanno portato a casa, da sua mamma. Siamo andati anche noi, per raccontarle com'era successo. Lei era disperata, piangeva senza fermarsi e ci abbracciava tutti insieme, stringendoci forte fino a far male. Penso che lei abbia capito da sola, o forse glielo aveva detto qualcuno dei ragazzi del Centro, quanto ci eravamo sbattuti per trovare il corpo di suo figlio.

Ci ringraziava di continuo, e mi faceva effetto sentirla dire:

«Grazie, grazie che me lo avete portato a casa».

Non riuscivo a guardarla in faccia, sapendo che non avevo fatto tutto il possibile per trovare il corpo di suo figlio. Eravamo tutti scioccati, sconvolti. Non riuscivamo neanche a pensarlo, che il destino ci aveva tolto una persona come Vitalic.


E Così, quando eravamo nei paraggi del Centro, passavamo sempre da zia Katja, la mamma di Vitalic.

Non era sposata: il suo primo compagno, il padre di Vitalic, non aveva fatto in tempo a sposarla perché era stato arruolato nell'esercito e spedito in Afghanistan, dov'era stato dato per disperso quando lei era ancora incinta.

Zia Katja gestiva quel piccolo locale che dicevo, tipo un ristorante, e viveva con un nuovo compagno, un uomo buono, criminale, che si occupava di vari traffici illeciti.

Ogni volta che andavamo a trovarla portavamo sempre dei fiori in regalo perché sapevamo che li amava moltissimo.

Un giorno ci aveva detto che le sarebbe piaciuto più di ogni altra cosa al mondo avere un albero di limoni. Noi avevamo deciso di procurarcelo, l'unico problema era che non sapevamo dove, nessuno di noi aveva mai visto un albero di limoni.

Qualcuno allora ci aveva consigliato di provare nei giardini botanici, dov'erano esposte tutte 'ste piante che crescono nei Paesi caldi. Dopo un po' di tempo e di esplorazioni abbiamo individuato il giardino botanico più vicino: era a Belgorod, in Ucraina, sul Mar Nero, a tre ore di viaggio da casa nostra.

Siamo partiti con un gruppo organizzatissimo, eravamo una quindicina, tutti volevano partecipare all'affare dei limoni, perché tutti volevano bene a zia Katja e cercavano di aiutarla e farla contenta come potevano.

Arrivati a Belgorod abbiamo comprato un solo biglietto per il giardino botanico: uno di noi entrava, andava in bagno e passava dalla finestra quel biglietto a un altro del gruppo, e via Così, finché non siamo entrati tutti.

Abbiamo seguito una scolaresca in visita e ci siamo avvicinati al nostro obiettivo. Era un albero non tanto grande, un po' più alto di un cespuglio, con le foglie verdi e tre limoni gialli che dondolavano al vento.

Mel ha subito detto che i limoni erano finti, attaccati con la colla per far figura, e che quell'albero era un cespuglio qualunque. Abbiamo dovuto fermarci ed esaminare velocemente l'albero, per capire se quei dannati limoni erano veri o no. Li ho annusati tutti e tre personalmente: avevano un tipico odore di limone.

Mel si è preso una sberla da Gagarin e gli è stato impedito di parlare fino alla fine dell'operazione.

Dopo aver afferrato il vaso siamo saliti al secondo piano di un edificio ai margini del giardino. Abbiamo aperto una finestra e abbiamo buttato con cautela l'alberello sul tetto di un box auto. Da li siamo saltati giù anche noi e abbiamo fatto una corsa fino alla stazione, aggrappati a quel pesante vaso con l'albero dentro. In treno abbiamo realizzato che nonostante gli urti e gli scrolloni i limoni non si erano staccati: eravamo Così contenti di non averli persi…

Zia Katja, quando le abbiamo portato il nostro regalo, si è messa a piangere dalla gioia, o forse piangeva perché aveva visto il timbro del giardino botanico sul vaso che noi, per distrazione, non avevamo eliminato. Comunque era Così contenta che quando ha raccolto il primo limone maturo ci ha invitati tutti quanti a bere il tè col limone.


Così anche quel giorno – il giorno del mio tredicesimo compleanno, mentre io e Mel attraversavamo la città diretti al quartiere Ferrovia – abbiamo pensato di portarle una pianta, e abbiamo fatto un salto nel negozio del vecchio Bosja. Prendevamo sempre le piante e i fiori per zia Katja da lui, gli chiedevamo di scriverci i nomi di quelle creature a noi sconosciute su un foglio di carta, per non rischiare di comprare due volte la stessa cosa.

Ogni cinque piante Bosja ci faceva un piccolo sconto o ci dava in regalo dei sacchetti con vecchi semi che ormai non servivano più a niente perché erano tutti secchi. Ma noi li prendevamo lo stesso e, strada facendo, passavamo dal distretto di polizia; se trovavamo parcheggiate le macchine dei poliziotti fuori dal cancello buttavamo i semi nei loro serbatoi: quei semi erano leggeri, non andavano subito in fondo, ed erano Così piccoli che riuscivano a passare attraverso il filtro della pompa di benzina, Così quando arrivavano al carburatore il motore si fermava. In poche parole facevamo buon uso di quello che in altre circostanze veniva buttato via.

Nonno Bosja era un bravo ebreo rispettato da tutti i criminali, anche se oltre ad avere un negozio di fiori (che non vendeva), nessuno sapeva cosa faceva di preciso, talmente segreti teneva i suoi affari. Girava voce che fosse legato alla comunità ebraica di Amsterdam e che trafficasse in diamanti. Beh, questa informazione nessuno ce l'ha mai confermata, e noi lo prendevamo sempre in giro, quando andavamo nel suo negozio, cercando di scoprire cosa combinava in realtà. Era diventata una tradizione, noi cercavamo di farlo parlare e lui ogni volta riusciva a svicolare.

Noi dicevamo:

«Allora, signor Bosja, com'è il tempo ad Amsterdam?»

E lui rispondeva con indifferenza:

«E come faccio a saperlo io, povero ebreo, che non ho neanche la radio? Ma anche se avessi una radio non la ascolterei, ormai sono Così vecchio che non sento più niente, sto diventando sordo… Eh eh, quanto vorrei tornare ai tempi in cui ero giovane come voi, giocare, fare casino… Tra l'altro, cosa avete combinato in questi giorni?»

E finiva regolarmente che noi, come dei deficienti, gli raccontavamo gli affari nostri anziché sentire i suoi, e andavamo via dal suo negozio con la sensazione di essere stati presi in giro.

Aveva un vero talento da intortatore, e noi ci cascavamo sempre.

Il vecchio Bosja non aveva dei gran bei fiori nel suo negozio, secondo me alcuni stavano li da anni. Il negozio era un buco stretto e buio, con gli scaffali di legno pieni di vecchie piante che nessuno comprava mai. Quando entravi ti sembrava di essere finito in mezzo a una giungla, molte piante erano cresciute Così tanto che le foglie s'intrecciavano con quelle delle piante vicine, e tutte insieme formavano una specie di unico grandissimo cespuglio.

Bosja era un vecchio tutto storto e magro, portava occhiali spessi come la corazza di un carro armato e attraverso le lenti i suoi occhi sembravano mostruosamente grandi. Indossava sempre una giacca nera, camicia bianca con papillon nero al collo, pantaloni neri con le pieghe fatte con il ferro da stiro e scarpe nere belle lucide.

Nonostante l'età (era Così vecchio che anche mio nonno lo chiamava zio), aveva capelli nerissimi, e li teneva ben curati, tagliati alla moda degli anni Trenta, sotto un leggero strato di brillantina. Diceva sempre che la vera arma di ogni gentiluomo è la sua eleganza: con quella si poteva fare tutto – rapinare, uccidere, rubare, mentire – senza mai essere sospettati.

Quando il campanellino sulla porta del negozio suonava, Bosja si alzava dalla sedia accompagnando il movimento con un rumore che assomigliava a quello di un vecchio ingranaggio, poi usciva da dietro il bancone e partiva verso il cliente con il suo passo elegante, che con gli anni aveva perso molti colpi e adesso pareva più il trascinarsi di un uomo ferito a morte.

Andava incontro al cliente con le mani aperte come le tiene Gesù in alcune immagini sacre, in segno di accettazione e compassione. Faceva ridere come camminava, perché aveva una faccia ridicola, sorridente ma con gli occhi tristi, come quelli di un cane senza padrone.

A ogni passo lanciava un verso, uno di quei lamenti che fanno i vecchi carichi di acciacchi quando si muovono.

Nell'insieme mi faceva tristezza: un misto di malinconia, nostalgia e pena.

Quando andavamo nel suo negozio il vecchio Bosja usciva dalla sua giungla e, senza vedere chi era entrato, partiva come al solito con l'aspetto di un santo, ma non appena ai suoi occhi apparivano le nostre facce da bastardi, lui cambiava immediatamente espressione. Per prima cosa spariva il sorriso, che veniva sostituito da una smorfia di stanchezza, come se gli mancasse il fiato, poi tutto il suo corpo diventava storto, le gambe si piegavano un po', e facendo un gesto con le mani come a rifiutare qualcosa che gli avevamo offerto, ci dava le spalle e tornava al bancone dicendo con voce tremante e una leggera ombra di ironia, in un russo contaminato dal dialetto ebraico di Odessa:

«Sob 'ja tak zìi, opjat 'prilli morocit'jajca…»

Che significava:

«Che vita mi tocca fare, – un modo di dire ebraico, che loro attaccano dappertutto, – siete di nuovo qui a rompere i coglioni…»

Quello era il suo modo di darci il benvenuto, in fondo ci voleva un casino di bene a tutti quanti.

Si divertiva anche lui, a non farsi prendere in giro da noi. Ci provavamo sempre, ma Bosja, con la sua saggezza e la sua furbizia ebraica, che nel suo caso aveva qualcosa di umile e vissuto, ci faceva cadere nella sua trappola, e certe volte lo capivamo solo più tardi, dopo che eravamo usciti. Era un genio nelle relazioni, un vero genio.

Visto che si lamentava sempre di essere cieco e sordo, lo provocavamo chiedendogli l'ora, sperando che lui guardasse l'orologio che aveva al polso. Ma lui non faceva neanche una piega, e rispondeva:

«Ma come faccio a sapere che ore sono, se sono una persona felice? Lo sapete che le persone felici non contano il tempo, perché nella loro vita ogni momento scorre con piacere?»

Allora noi gli chiedevamo perché portava l'orologio, se non lo guardava mai, se non gli importava dello scorrere del tempo.

Lui faceva la faccia stupita e guardava il suo orologio come se lo vedesse per la prima volta, e poi rispondeva con tono umile:

«… Ma questo non è mica un orologio… E più vecchio di me ormai, non so neanche se funziona…»

Lo appoggiava all'orecchio, lo teneva un po' li e poi aggiungeva:

«… Beh, qualcosa si sente, ma non so se è il ticchettio delle lancette o quello del mio vecchio cuore che se ne sta andando…»


La moglie di Bosja era una vecchia e simpatica signora ebrea che si chiamava Elina. Era una donna molto intelligente, per tanti anni aveva fatto la maestra ed era stata l'insegnante di mio padre e dei suoi fratelli. Parlavano tutti di lei con affetto, e anche a molti anni di distanza rispettavano ancora la sua autorità. Quando mio padre ha ucciso per la prima volta due poliziotti lei lo ha riempito di sberle, e lui si è messo in ginocchio ai suoi piedi per chiederle perdono.

Bosja aveva una figlia, la ragazza più bella che abbia mai visto: si chiamava Faja e faceva anche lei la maestra, insegnava lingue straniere, inglese e francese. Era cresciuta con l'idea di essere malata, perché Bosja ed Elina le avevano proibito di fare tutto quello che facevano i bambini normali, motivando ogni divieto con le parole «Non puoi perché non stai bene». Non si era sposata e viveva ancora con i genitori, era una persona tranquilla e molto solare. Aveva un fisico da dea, fianchi e curve che sembravano disegnati, tanto erano perfetti, una bocca favolosa, piccola e con le labbra leggermente aperte, ben definite, grandi occhi neri, capelli mossi, lunghi fino al fondoschiena. Ma la cosa più spettacolare era come si muoveva, sembrava una gatta, faceva ogni gesto con una grazia tutta sua.

Ero ossessionato da lei, e ogni volta che la vedevo al negozio cercavo un pretesto per starle vicino. Andavo a parlarle delle piante o di qualunque altra cosa, per sentire la sua presenza con la pelle.

Lei mi sorrideva, parlava volentieri con me, capivo di esserle simpatico. Solo più tardi, a sedici anni, ho trovato il coraggio di avvicinarla davvero, parlando di letteratura. Abbiamo cominciato a vederci, a scambiarci libri, e nel giro di poco tempo abbiamo sviluppato un rapporto che di solito le persone educate chiamano «intimo», ma che nel mio quartiere si definiva con ben altre parole: «sporcare le lenzuola insieme».

Ma questa è un'altra storia, che merita di essere raccontata a parte, e non qui.

Qui invece va raccontata la storia che il vecchio Bosja aveva alle spalle.


Il vecchio Bosja, ai tempi della sua gioventù, era un bander: Così a inizio secolo si chiamavano i membri della criminalità organizzata ebraica. La parola viene da «banda», che in russo e in italiano ha lo stesso significato. Negli anni Venti-Trenta, a Odessa, le bande ebraiche erano tra le più forti e meglio organizzate, gestivano tutti i traffici illeciti e gli affari del porto. I loro membri erano uniti da un grande sentimento religioso e da un codice d'onore, una specie di regolamento interno chiamato kosca, termine che nel vecchio dialetto ebraico di Odessa significa «parola», «legge», «regola». Andare contro la kosca era insomma un buon modo per suicidarsi.

A metà degli anni Trenta il governo sovietico cominciò a combattere sistematicamente il crimine su tutto il territorio, e a Odessa – considerata una delle città più impestate dalla malavita e dalla criminalità organizzata – furono mandate delle squadre speciali che inventarono una tattica di lotta chiamata podstava, che significa «fatta apposta». Attraverso degli infiltrati, innescavano dei conflitti interni alle bande stesse.

Donnie Brasco, il famoso gangster cinematografico interpretato da Johnny Depp, non poteva di certo immaginare che i suoi precursori sovietici sfruttassero l'attività di agenti sotto copertura non per ottenere informazioni, ma per creare artificialmente situazioni nelle quali i criminali entravano in guerra tra di loro e si ammazzavano in dosi industriali. No, Donnie Brasco non se lo sarebbe mai sognato.

In quel modo furono eliminate molte bande e comunità criminali di Odessa. Solo quella ebraica riusci a resistere, perché tra i poliziotti non c'erano ebrei e nessuno conosceva la cultura, la lingua e le tradizioni ebraiche al punto da poter fingere di essere uno di loro.

Quando poi a Odessa il potere della polizia crebbe e cominciò a minacciare anche gli ebrei, loro unirono le forze organizzandosi in due grandi bande composte da migliaia di membri. Una, la più famosa, era guidata dal leggendario criminale Benja Krik, detto «il Re», e si occupava principalmente di rapine e furti; l'altra era capeggiata da un vecchio criminale di nome Buba Bazic, detto «lo Strabico», e seguiva solamente i traffici finanziari illeciti.

Queste due strutture funzionavano perfettamente, tanto che la polizia non riusci a fare niente contro di loro: molto presto s'impadronirono di Odessa, e la comunità ebraica divenne tra le più potenti nel sud dell'Urss, soprattutto in Ucraina.

Nell'ottobre del 1941, quando entrarono a Odessa le forze di occupazione tedesche e rumene, la maggior parte degli ebrei furono deportati nei campi di concentramento e sterminati.

I criminali si unirono alle squadre partigiane, nascondendosi nelle gallerie sotterranee che attraversavano tutta la città e arrivavano al mare. Colpivano il nemico di notte, con azioni di sabotaggio: facevano esplodere le linee ferroviarie, deragliare i treni carichi di armi e provviste, bruciavano e affondavano le navi, rapivano e ammazzavano gli alti ufficiali tedeschi, spesso catturandoli mentre erano in tenera compagnia delle prostitute di Odessa, che per l'occasione si erano trasformate in abili spie.

Bosja era li, in quei sotterranei.


A volte, quando passavamo da lui in negozio, ci raccontava della resistenza di Odessa, diceva che per qualche anno avevano vissuto tutti nelle gallerie sotto la città senza mai vedere la luce del giorno. I tedeschi – raccontava – facevano esplodere in continuazione quelle gallerie per impedire ai partigiani di compiere i sabotaggi, ma loro ogni volta si scrollavano la polvere di dosso e scavavano nuovi passaggi.

Sua moglie l'aveva conosciuta in quei sotterranei, era con la sua famiglia ebrea liberata dai partigiani: si erano innamorati e sposati li, sotto terra. Lui diceva, forse per scherzo o forse no, che quando finalmente erano usciti dalle gallerie si erano dimenticati com'era la luce del sole, e la sua giovane moglie, dopo averlo guardato per bene in faccia, gli aveva detto:

«Non mi ero mai accorta che avevi un naso Così lungo!»

Volevano un figlio, ma per anni dopo la guerra non erano riusciti ad averlo, e stavano male per questo fatto. Avevano provato tutte le cure, ma inutilmente. Così un giorno avevano deciso di andare da una vecchia zingara che abitava con una nipote cieca. Dicevano che 'sta zingara sapeva curare le malattie con la magia e i metodi popolari, che era una specie di strega, ma bravissima. La zingara gli aveva detto che né lui né sua moglie avevano malattie, che soffrivano solamente di brutti ricordi. Gli aveva consigliato di abbandonare Odessa e di sistemarsi da un'altra parte, in un posto dove non avevano niente che li legasse al passato.

Per molto tempo non avevano preso sul serio quel consiglio della zingara, per loro era molto difficile staccarsi dalla comunità. Solo alla fine degli anni Sessanta avevano deciso di lasciare Odessa e di trasferirsi a Bender, nella nostra città, dove Bosja aveva messo in piedi la sua piccola attività commerciale e si era dato a quei suoi misteriosi affari di cui nessuno sapeva niente di preciso, che lo avevano fatto diventare presto ricco.

Quando Bosja e sua moglie erano nell'età in cui di solito si diventa nonni, era nata Faja.

Quei tre formavano una bella famiglia e, come diceva spesso nonno Kuzja, erano «gente che sa come vivere felice».


Dunque, per tornare a noi, quel freddo mattino di febbraio io e Mel siamo passati da Bosja per prendere una pianta, e lui come sempre ci ha accolti con buone parole:

– Ohi me, ma non avete altro da fare con un freddo cosi?

Era meglio se parlavo io, perché il dialogo tra Mel e il vecchio Bosja sarebbe stato piuttosto complicato.

– Siamo qui per zia Katja. Per un affare, insomma.

Bosja mi ha guardato da sopra gli occhiali e ha detto:

– Meno male che qualcuno riesce ancora a fare affari, io è una vita che sbatto contro queste pareti e non sono riuscito a concluderne neanche uno!

Mi sono arreso subito, senza cominciare lo scambio di ironie, anche perché cercare di batterlo era come fare una gara di corsa con un ghepardo.

Come sempre, spingendo con un gesto un po' indifferente un piattino verso di noi, ci ha offerto le sue schifose caramelle pietrificate. Sapeva bene che erano terribili, la sua era una specie di presa in giro rituale. Noi le prendevamo ogni volta, ci riempivamo le tasche e lui ci guardava sorridendo, ripetendo la frase:

«Mangiate, mangiate ragazzi, basta che non vi partano i denti…»

Quando sua moglie lo beccava mentre faceva quello scherzo crudele, si arrabbiava con lui e obbligava noi a svuotare le tasche e buttare nell'immondizia le caramelle. Poi Elina ci portava a casa sua e ci offriva il tè con i biscotti ripieni di crema di burro, i più buoni al mondo.

Qualche mese prima avevo rivelato a Bosja il segreto delle sue caramelle e lui era rimasto stupito, perché credeva che in tutti quegli anni noi le avevamo mangiate. «Le abbiamo usate come pietre, – gli avevo detto, – per tirare con le fionde». Contro i vetri del distretto di polizia, per la precisione: erano micidiali, soprattutto le caramelle pietrificate al gusto di lampone. Una sera avevo centrato per scherzo il ginocchio di Mel con una di quelle: era gonfiato tutto, per sei mesi erano andati avanti a scaricargli l'acqua dal ginocchio con una siringa.

Io e Mel ci siamo presi le nostre caramelle in silenzio e abbiamo scelto una piccola pianta da regalare a zia Katja. Però non posso parlare di fionde Così, senza spiegare per bene cos'erano, le nostre fionde.


Ognuno di noi si costruiva la sua fionda da solo, dall'inizio alla fine, per questo erano diverse tra loro e in qualche maniera rispecchiavano l'individualità dei loro padroni. Il telaio della fionda doveva essere esclusivamente di legno. Era considerato un lusso il telaio sottile, fatto di legno morbido, ma resistente. Ognuno aveva il suo segreto che teneva per sé, e se a qualcuno piaceva la fionda di un altro poteva comprarla o farsela regalare da lui in segno di amicizia.

La fionda doveva essere tenuta sempre in tasca, come il coltello, solo all'età di tredici-quattordici anni veniva sostituita dalla pistola. Ma io ho portato la mia fionda con me anche più tardi, fino ai diciotto anni.

Mio nonno in Siberia faceva le pipe per fumare tabacco usando le radici di alberi locali, o varie specie di cespugli. Con il suo aiuto avevo trovato un tipo di legno perfetto per le fionde: era il mio grande segreto strategico, i miei amici hanno cercato tante volte di farmi parlare ma io ho sempre resistito, come un bravo partigiano sovietico nella prigionia nazifascista.

Le mie fionde erano più sottili di tutte, e la parte in cui si montavano gli elastici era cortissima e stretta: questo serviva per fare dei lanci più lunghi e precisi, perché gli elastici lavoravano come un unico elastico.

Come elastici di solito usavamo le vecchie camere d'aria delle biciclette, ma spesso non assicuravano un lancio soddisfacente. Decisamente migliori erano i lacci emostatici che trovavamo nei pacchetti militari di primo soccorso: insomma, quelli che si usano per stringere le arterie, per fermare la perdita di sangue. Con i lacci, se venivano montati bene, riuscivamo ad avere una forza di lancio micidiale: a distanza di cento metri, una pietra rotonda o un bullone di ferro di diametro quattordici – o una caramella di nonno Bosja – facevano un bel buco in una finestra, e potevano ancora spaccare qualcosa dentro il salone. Ma l'elastico più micidiale di tutti era di mia invenzione: quello prelevato dalla maschera antigas del modello militare sovietico.

Anche fissare l'elastico era una specialità di ognuno di noi, io preferivo un montaggio un po' più complicato ma sicuro, i miei elastici non saltavano mai (per questo non mi sono mai preso un colpo di elastico sul naso o nell'occhio, che fa un casino male). Io usavo un filo sottile, girato intorno all'elastico tante volte e legato con un semplice nodo da pescatore. Per sicurezza poi ci spalmavo sopra un po' di succo di pane masticato, che creava una specie di sostanza che somigliava alla colla ma non faceva seccare il filo.

Al centro dell'elastico veniva sistemato il pezzo di cuoio dove poi si metteva l'oggetto da lanciare. Io usavo del cuoio non molto spesso ma resistente, perché se era troppo spesso faceva le crepe e poi si rompeva.

C'erano tanti piccoli trucchi per migliorare le capacità balistiche della propria fionda, ma certo dovevi avere tra le mani una buona base di partenza. Ad esempio, quando era possibile, io bagnavo sempre un po' il telaio della fionda prima di lanciare, Così si ammorbidiva ed ero sicuro di poterlo sfruttare al meglio senza romperlo. Poi ho cominciato a ungere tutti i legamenti della fionda: questo assicurava più precisione, perché eliminava quei piccoli movimenti di materiali secchi che potevano influenzare la traiettoria.

Sono stato io a inventare il modo per incendiare le macchine della polizia nel cortile del distretto, usando la fionda. Quel cortile era circondato da un muro altissimo, per riuscire a buttarci qualcosa dentro dovevi avvicinarti troppo e ti beccavano subito, appena ti vedevano arrivare. Le bottiglie molotov erano troppo pesanti da lanciare, e tutte le volte che ci provavamo finivano contro il muro, non arrivavano neanche a metà. Alla fine noi ci guardavamo sempre con le orecchie basse, pensando che tutto lo sforzo che avevamo fatto per preparare quelle bottiglie si bruciava in un istante su quel muro grigio. Avevamo cominciato a perdere la fiducia in noi stessi, finché un giorno non ho messo le mani nel mobiletto dei superalcolici di mio zio. Ho trovato tante piccole bottiglie con vari liquori, insomma quelle bottigliette per nani alcolisti. Le ho svuotate un po', tanto mio zio era in galera e in ogni caso non mi avrebbe sgridato, visto che ne stavo facendo buon uso. Ho fabbricato una mini-molotov, poi ho costruito una fionda apposta, un po' più robusta del solito, e dopo aver fatto le prime prove, superate alla grande, ho preparato una cassa piena di mini-molotov (che abbiamo chiamato «mignon») e una decina di fionde per lanciarle.

Siamo andati in un posto, una vecchia tipografia abbandonata vicino al distretto di polizia: da li si apriva un bel panorama sui nostri bersagli. Ci siamo posizionati per bene, e come una batteria di cannoni di guerra abbiamo lanciato il primo colpo. Sparavamo in dieci, uno tirava la fionda con la bottiglietta e da dietro un altro, sincronizzato con i compagni, accendeva la sua bottiglia e quella del vicino contemporaneamente, con due accendini pronti. Le nostre bottigliette partivano in una maniera spettacolare, mi sembrava di sentirle fischiare come pallottole: quando le vedevo attraversare il muro del distretto – e sentivo le piccole esplosioni seguite dalle grida degli sbirri e dai primi segni di fumo nero, che come fantastici draghi si alzavano in aria – mi veniva da piangere tanto ero contento e felice.

Quella postazione era ideale: prima che le nostre vittime riuscissero ad accorgersi di quello che era successo, noi avevamo già scaricato tutto l'arsenale e ce n'eravamo andati tranquillamente con le bici verso casa.

In città non si parlava d'altro – «C'è stato un assalto al distretto», diceva uno, «Chi è stato?», chiedeva un altro, «Una banda di sconosciuti, pare», rispondeva un terzo – e noi ci sentivamo i protagonisti, ogni volta che sentivo qualcuno parlare di questa storia volevo gridarglielo in faccia: «Siamo stati noi, noi!!!»

Ero orgoglioso, niente da dire, mi sentivo un genio e per qualche tempo con i miei amici mi sono comportato come un generale con il suo esercito.

Alla fine abbiamo bruciato ancora qualche volta il cortile del distretto, ma poi i poliziotti l'hanno ricoperto con una rete di ferro e Così le nostre molotov non passavano più: molte rimbalzavano sulla rete e poi cadevano per terra, plofl, dalla parte esterna del muro, anche senza esplodere. Non era più molto interessante.

Per qualche tempo abbiamo cercato d'inventarci qualcosa di nuovo, ma poi improvvisamente siamo cresciuti e qualcuno ha proposto semplicemente di sparare ai poliziotti con le pistole. Anche quello era interessante, ma non come bruciarli con le mini-molotov, armi che avevano qualcosa di medievale, e che ci facevano sentire come cavalieri che lottano nobilmente contro i draghi.


E dunque, andando verso il locale di zia Katja con la nostra bella pianta in mano, siamo passati sul Ponte dei morti. All'epoca era un pezzo di strada asfaltata da cui sporgevano pietre vecchie, ma un tempo era stato un ponte vero e proprio. Una volta distrutto, lo avevano prima ricoperto di terra e poi asfaltato, ma per qualche inspiegabile ragione le pietre continuavano a tornare alla superficie, bucando l'asfalto. Era impressionante vedere quelle grosse macchie nere vecchie e deformi che spuntavano dall'asfalto pieno di crepe. Un vecchio della nostra zona mi aveva detto che il mistero si spiegava facilmente come uno «sbaglio d'ingegneria». Ma io da bambino credevo di più a un'altra storia che spiegava quello strano movimento delle pietre del Ponte dei morti come un fenomeno soprannaturale.

Raccontavano che nel diciannovesimo secolo nella nostra città c'era stata una rivolta di lavoratori, stanchi di essere sfruttati da un ricco e nobile signore che aveva una fama paragonabile a quella del conte Dracula. Il pretesto della rivolta era stata la violenza sessuale che quel gentiluomo aveva fatto a una giovane contadina. Quella ragazza non era stata zitta a subire, a differenza di molte altre prima di lei, ma aveva fatto sapere a tutti la verità, a costo di venire disprezzata e di perdere la sua dignità. La gente però non l'aveva disprezzata ma sostenuta, i contadini e i lavoratori erano subito insorti. Avevano ammazzato le guardie ed erano entrati nel palazzo del padrone, lo avevano tirato fuori dal letto e portato in strada, dove l'avevano ucciso a calci e a pugni. Dopo, avevano legato il suo corpo al cancello del palazzo impedendo ai famigliari di toglierlo: doveva marcire li sopra, avevano detto.

Il giorno dopo, la rivolta era stata sedata. Ma la gente diceva che se il corpo del padrone fosse stato tirato giù dal cancello e sepolto sotto una croce, la maledizione sarebbe caduta su tutta la sua famiglia. Ovviamente nessuno aveva ascoltato quelle parole, e il padrone era stato sepolto con tutti gli onori, come un eroe caduto in guerra. Passato qualche mese sua moglie si era ammalata ed era morta. Il figlio maggiore, ormai un giovane uomo, era morto poco dopo anche lui, cadendo da cavallo. Infine, dopo qualche tempo, la figlia era morta mentre partoriva il suo primogenito, che non era sopravvissuto neanche lui.

Il palazzo era stato abbandonato e presto era caduto in rovina: nessuno voleva più andarci a vivere. La terra di quel nobile era stata occupata dai contadini. Sopra le tombe di famiglia avevano costruito un ponte, che per questo si chiamò il «Ponte dei morti».

La leggenda dice che ogni notte i fantasmi dei famigliari si riuniscono per tirare fuori dalla terra il corpo di quell'uomo crudele, per appenderlo di nuovo al cancello, perché vogliono mettere fine alla maledizione e tornare a riposare in pace. Ma non riescono mai a tirarlo fuori, perché sopra la sua tomba è stato costruito il ponte, e l'unica cosa che i fantasmi riescono a fare in una notte è tirare su qualche pietra, che poi il giorno dopo la gente, passando sul ponte, spinge di nuovo al suo posto.

Da bambini ogni tanto di notte andavamo a caccia di quei fantasmi. Per farci coraggio ci portavamo il nostro coltello. E anche vari oggetti «magici» siberiani, tipo la zampa secca di un'oca o un ciuffo d'erba preso in riva al fiume in una notte di luna piena.

Ci nascondevamo in un piccolo fosso e aspettavamo i fantasmi. Riempivamo quell'attesa con racconti di paura e di vari casi misteriosi, che dovevano servire a spaventarci e tenerci sempre in allerta, ma presto ci addormentavamo uno dopo l'altro.

Il primo diceva:

«Ragazzi, svegliatemi se si vede qualcosa», e poi tutti noi cadevamo come cadaveri sul fondo di quel fosso.

La mattina, chi aveva resistito più a lungo raccontava agli altri quello che voleva. Gli altri naturalmente si arrabbiavano:

«Bel cretino, ma perché non ci hai svegliati?»

«Non riuscivo a muovermi né ad aprire bocca, – sparava quello. – Ero come paralizzato».

Mel una volta ci ha raccontato che i fantasmi lo avevano rapito, portandolo in giro per la città, volando. Quando immaginavo Mel volare in compagnia di nobili fantasmi del secolo scorso ero davvero colpito al cuore.

E insomma, ogni volta che passavamo da li ricordavo a Mel la storia del suo volo. Lui mi guardava a bocca aperta:

«Mi prendi per il culo?» E io scoppiavo a ridere muovendo le braccia, imitando il movimento delle ali, e allora a quel punto anche Mel non resisteva più e attaccava a ridere pure lui.


Oltrepassando il Ponte dei morti agitando tutti e due le braccia, finalmente siamo arrivati nella via del ristorante di zia Katja.

L'abbiamo trovata in mezzo ai tavoli che serviva i clienti abituali, criminali anziani che vivevano da soli e andavano a mangiare da lei ogni giorno. Avevano passato tutti Così tanto tempo in prigione che si erano abituati alla vita collettiva criminale, e per questo cercavano di stare sempre insieme, anche se dimostravano il contrario, visto che sembrava che gli desse fastidio sopportarsi a vicenda. Avevano stampati sulla faccia segni di sofferenza, ma in realtà quelle erano le loro vere facce, le loro facce normali. Secondo me avevano una specie di nostalgia della prigione, e persino della sofferenza nella quale si erano abituati a vivere per tanto tempo. Continuavano a fare la vita dei carcerati, pur essendo da anni persone libere. Molti non riuscivano più ad abituarsi alle regole del mondo civile, alla libertà. Quasi tutti preferivano vivere in monolocali nei quali avevano fatto abbattere i muri del bagno e del cucinino, per ottenere una stanza unica che ricordasse la cella. Conoscevo dei vecchi che mettevano persino il filo spinato e le sbarre alle finestre, perché altrimenti si sentivano a disagio e non riuscivano a prendere sonno. Altri dormivano su brande di legno come in carcere e lasciavano sempre scorrere l'acqua dal rubinetto, proprio come nelle celle. Tutta la loro vita diventava una perfetta imitazione di quella fatta in galera. Era strano: si pensa che una persona, dopo aver trascorso tanti anni dentro, non veda l'ora di abbandonare il disastroso modo di vivere del carcere per avere le comodità di una vita libera e bella, però per questa gente era come se gli avessero tolto la loro vera identità e li avessero catapultati in un mondo estraneo.

Zia Katja permetteva a tutti quei criminali di ricreare nel suo locale una specie di finto carcere, perché erano suoi clienti da sempre ma anche perché voleva bene a ognuno di loro e, come diceva lei stessa:

«Non oso rieducare le persone anziane».

Così quando si entrava nel ristorante di zia Katja, sembrava di stare dentro una cella.

Lo si capiva già da come stavano seduti, con le teste tutte chine, come se qualcosa gli impedisse di alzarle. Questo è un buon metodo per distinguere un vecchio carcerato: tiene sempre la testa bassa, perché in prigione si passa la maggior parte del tempo seduti sulle brande e bisogna stare attenti a non battere la testa contro la branda di sopra. Anche chi ha passato pochi anni in galera, quando esce non si libera facilmente di questa abitudine. Di solito da zia Katja i vecchietti giocavano a carte, ma non con normali carte da gioco, con le kolotuski, carte fatte in carcere, dipinte a mano.

Erano tutti vestiti uguali, di grigio, e avevano tutti la fufajka, la classica giacca pesante, spessa e calda. Come in cella, fumavano passandosi la sigaretta l'un l'altro, anche se potevano permettersi di fumare ognuno la sua; da quel fumo che riempiva il locale spuntavano le loro facce distrutte, con su un'espressione che era un'eterna domanda, come se li avesse colpiti un fatto strano, che proprio non riuscivano a spiegarsi: occhi spalancati che ti guardavano e in tre secondi ti facevano una radiografia completa, e sapevano meglio di te chi eri.

Tra loro parlavano solamente in gergo e in fenja, la vecchia lingua criminale siberiana, ma parlavano piano e poco, comunicavano più a gesti, soprattutto segreti.

Chiamavano zia Katja «mamma», per sottolineare l'importanza del suo ruolo e della sua autorità.

Seguivano molte regole di comportamento del carcere, ad esempio non andavano in bagno mentre qualcuno mangiava o beveva, anche se il bagno non era nella stessa stanza ma dall'altra parte del cortile. Non discutevano di politica, religione, o differenze tra nazionalità.

Tra loro esisteva una precisa gerarchia: i più autorevoli si sedevano vicino alle finestre, e godevano dei posti migliori, gli altri stavano più vicini alle porte. I «rifiuti» e gli «abbassati» non erano ammessi: in libertà non si è costretti a condividere lo stesso spazio come in carcere. C'erano solo due o tre «sesti» [Così vengono chiamati i membri di livello più basso di alcune caste criminali: il numero deriva dalla carta da gioco di minor valore presente in un mazzo], che erano una specie di schiavi, persone che svolgevano compiti ritenuti non degni di un criminale: potevano toccare i soldi con le mani, Così pagavano le consumazioni di tutti prendendo il denaro dalla cassa comune. Quando qualcuno finiva le sigarette il «sesto» doveva correre a procurargliene altre: servizio per cui veniva retribuito ma anche trattato con leggero disprezzo, non offensivo, ma indicativo, per ricordargli il suo posto nella scala gerarchica. Faceva impressione vedere 'sti vecchi trattati come ragazzini; stavano sempre allerta, controllavano in continuazione se qualcuno in sala aveva bisogno di loro. Quando portavano le sigarette s'inchinavano con la faccia umile, aspettavano che il criminale più autorevole aprisse il pacchetto e gliene offrisse qualcuna per il servizio, poi, ringraziando, tornavano al loro posto camminando al contrario, come i gamberi, per non dare la schiena alle persone con cui avevano appena avuto a che fare.


Insomma, entrando nel locale di zia Katja bisognava seguire le regole del carcere, e comportarsi come uno si comporta quando entra in una vera cella. Poteva sembrare una sciocchezza, però per quella gente, per quegli anziani ex carcerati, era un segno di rispetto, un modo per fargli capire che eri venuto con buone intenzioni ed eri uno in gamba.

Quando entri in una cella devi saper salutare in maniera degna. Non puoi dire semplicemente «Salve» o «Buon giorno», se lo fai i criminali capiscono subito che sei uno che non sa niente della loro cultura, e se ti va bene ti definiscono «uno di passaggio», uno che non c'entra niente con loro, e di conseguenza non comunicheranno con te, faranno finta che tu non esista. Bisogna salutare cosi: aprire la porta, fare un solo passo e poi fermarsi, guai a fare un altro passo. Quindi dire «Pace alla casa vostra (o nostra)» o «Pace e salute agli onesti vagabondi» (questa è una variante sicura, da vero criminale), oppure «Buona salute alla compagnia onesta», «E l'ora delle vostre gioie»: insomma, esistono tanti modi di salutare, conosciuti e usati nel mondo criminale. Dopo aver pronunciato la formula giusta, è essenziale non muoversi e aspettare la risposta. Di solito i criminali non rispondono subito, fanno passare qualche momento, per valutare la tua reazione. Se sei in gamba starai tranquillo, fisserai un punto davanti a te e non guarderai mai nessuno in faccia, starai fermo e immobile ad aspettare. Ti risponderà la persona più autorevole, o uno dei suoi, sempre con una formula: «Benvenuto con onestà» o «Che il Signore ti guidi», oppure «Entra con l'anima».

Secondo le regole, prima di fare qualunque altra cosa, bisogna salutare personalmente il criminale più autorevole. Nel mio caso, quella volta io lo conoscevo. Si trovava vicino a una delle finestre dalla parte opposta del locale di zia Katja. Si sedeva sempre li, in compagnia dei suoi.

Tutte le persone presenti appartenevano alla casta degli Uomini, che nella gerarchia criminale viene chiamata anche Seme grigio. Erano criminali incalliti, alcolisti, gente semplice, ladri e assassini, che per motivi personali non avevano voluto affiancarsi alla casta di Seme nero, i cui membri rappresentavano una specie di «nobiltà» tra i criminali.

Tra le comunità criminali c'era un eterno processo di lotta per il potere, gli interessi erano diversi ma lo scopo finale di tutti era sempre lo stesso: il potere.

Il Seme nero nel mondo fuorilegge era una casta giovane ma potente, che aveva saputo far leva sulla filosofia del sacrificio personale. Apparivano come uomini puri e perfetti, che dedicavano la vita al benessere della gente in prigione. Avevano il culto della prigione: la chiamavano familiarmente «casa», «chiesa» o «madre», ed erano felici di finirci dentro anche per tutta la vita, mentre tutte le altre caste, tra cui anche quella degli Urea siberiani, disprezzavano la prigione e sopportavano la detenzione come si sopporta una disgrazia.

Grazie all'arruolamento nelle sue fila di cani e porci, il Seme nero era diventata la casta pili numerosa nel mondo fuorilegge russo: ma per una persona saggia e buona che potevi incontrare fra di loro, ti toccava conoscerne altre venti ignoranti e sadiche, che si davano arie e facevano i prepotenti in ogni situazione. Per questo molti rifiutavano di condividere le loro idee.

Poi c'era un'altra particolarissima casta: il Seme rosso, gente che collaborava con gli sbirri e che credeva nelle balle raccontate dalle amministrazioni delle prigioni, come il «recupero della personalità». Venivano chiamati «cornuti», «rossi», «compagni», sucha, padla – nomi molto dispregiativi nella comunità criminale.

Tutti quelli che si trovavano in mezzo erano detti Seme grigio: cioè, neutrali. Erano contro gli sbirri e condividevano le regole della vita criminale, ma non avevano le responsabilità e soprattutto la filosofia di Seme nero, non volevano certo stare tutta la vita in prigione.

Quelli di Seme nero erano obbligati a rinnegare i parenti, non potevano avere né casa né famiglia. Come tutti gli altri criminali avevano il culto della madre, ma molti di loro non rispettavano le loro madri, anzi le trattavano male. Quante povere donne ho conosciuto con dei figli che, mentre stavano dentro, si dicevano l'un l'altro in maniera teatrale che l'unica cosa che gli mancava davvero era la mamma, mamma di qua e mamma di là, tante belle parole, e poi quando uscivano si presentavano a casa solamente per sfruttarla, a volte derubarla, perché Così dice la loro regola: «Ogni Blatnyj – cioè ogni membro di Seme nero – deve portare via tutto dalla propria casa, solo Così dimostra di essere onesto fino in fondo…» Una pazzia, madri e padri derubati, minacciati e a volte persino uccisi. Una vita corta e violenta, come la definivano loro stessi: «Vino, carte, donne e poi caschi pure il mondo…», senza nessun impegno morale o sociale. Tutta la loro esistenza si trasforma in uno spettacolo continuo in cui devono mostrare sempre e solo i lati negativi e primitivi della loro natura.

L'equilibrio tra Seme grigio e Seme nero si regge su continue tregue; gli Uomini sono più numerosi, ma i Blatnyj sono meglio organizzati in carcere.

La casta degli Uomini non ha una gerarchia come quella di Seme nero: viene rispettata l'anzianità e la professione, si trovano più in alto quelli che rischiano di più, rapinatori e assassini di poliziotti, mentre dopo vengono i ladri, i truffatori, i bari e tutti gli altri.

Gli Uomini condividono ogni decisione e seguono regole di vita simili a quelle siberiane, ma si mantengono pili neutrali in qualsiasi situazione. Il loro motto è: «La nostra casa è fuori dal villaggio». Le loro unità criminali non si chiamano bande ma «famiglie», e anche in prigione formano famiglie dove sono tutti uguali e condividono ogni cosa; quando è necessario le famiglie si uniscono e diventano una potenza senza limiti. Quasi tutte le rivolte carcerarie sono organizzate da loro.


Il vecchio più autorevole in quel locale – che dovevo salutare personalmente prima di fare qualsiasi altra cosa – si chiamava zio Kostic, ed era soprannominato «Scaber».

Era un criminale vecchio ed esperto, conosciuto in tutto il Paese; nella nostra comunità e nella mia famiglia parlavano bene di lui, lo trattavano con molto affetto. Era un tipo tranquillo e pacifico, aveva un modo di parlare molto piace vole, si esprimeva con pazienza e umiltà ed era sempre chiaro e diretto: se doveva dirti una cosa non ci girava tanto intorno. Viveva con sua madre, una donna Così vecchia che sembrava una tartaruga, si muoveva piano ma era molto in gamba; avevano una casa e un po' di terra. Zio Kostic teneva molti colombi e io ogni tanto andavo a trovarlo per fare degli scambi: lui era onesto e mi regalava sempre qualche colombo in più, mi offriva il cifir e dopo mi raccontava varie storie interessanti della sua vita. Aveva una figlia da qualche parte della Russia ma non la vedeva da tanto tempo, e secondo me soffriva molto per questo.

Da giovane – mi raccontava – non era un criminale, lavorava in una grande segheria, tagliava i tronchi degli alberi. Ma poi un giorno aveva visto un ragazzo tagliarsi in due, cadendo sulla lama di una grande sega, spinto da un tronco. Il capo squadra non aveva permesso a nessuno di smettere di lavorare neanche per un momento, e loro erano stati obbligati a continuare a tagliare il legno, macchiandosi del sangue del loro compagno. Da allora aveva cominciato a odiare il comunismo, il lavoro collettivo e tutto ciò che proponeva il sistema sovietico.

La sua prima condanna se l'era beccata per un articolo del codice penale chiamato in Urss «Fannullone». Secondo quell'articolo, chi non aveva un lavoro ed era disoccupato poteva essere condannato come un criminale. E Così, Kostic era stato mandato per tre anni in un carcere a regime comune nella città di Tver'. In quel periodo era in corso una guerra tra caste, il Seme nero stava per avere il controllo delle prigioni; all'inizio non molti erano d'accordo con questo cambiamento e il sangue scorreva come un fiume a primavera. Kostic aveva cercato di stare staccato da tutti, di non legarsi a nessuno, ma man mano che passava il tempo si era accorto che in prigione è impossibile vivere per conto proprio. A lui stavano più simpatici gli Uomini che i Blatnyj perché, diceva, «sono semplici e non tentano di ottenere niente con la violenza e la prepotenza, preferiscono usare le parole e il buon senso». In carcere era entrato a far parte di una famiglia che cercava di vivere in maniera neutrale, senza prendere le parti di nessuno in quella guerra, ma un giorno uno dei loro criminali anziani era stato ucciso da un giovane e spregiudicato Blatnoi, che voleva indebolire la casta di Seme grigio per poi sfruttare i suoi membri asservendoli ai propri interessi.

Allora gli Uomini hanno organizzato prima una specie di resistenza pacifica, poi, quando hanno capito che questo atteggiamento non dava i risultati voluti, si sono decisi a entrare in guerra. E quella guerra l'hanno combattuta con i coltelli. Molti di loro, li in prigione, lavoravano in cucina e come parrucchieri (invece i Blatnyj non lavoravano, era contro le loro regole), quindi si sono armati senza fatica di coltelli e forbici e hanno seminato la morte tra il Seme nero.

Kostic sapeva usarlo bene, il coltello: era cresciuto in campagna, da ragazzo aveva imparato ad ammazzare i maiali grazie all'insegnamento di un vecchio reduce della Prima guerra mondiale che faceva il macellaio e finiva le bestie con un colpo di baionetta. Così, dopo i suoi primi omicidi, Kostic si è guadagnato quel soprannome: i compagni l'hanno chiamato con il nome di un coltello. Una volta uscito di prigione, sapeva già di cosa si sarebbe occupato: è cominciata allora la sua lunga carriera di rapinatore delle navi sui fiumi Volga, Don e Danubio.


Con zio Kostic io potevo parlare liberamente, senza seguire tante regole di comportamento. Certo ero rispettoso come con qualsiasi persona anziana e autorevole, ma mi permettevo anche un po' di confidenza: gli raccontavo le mie avventure e gli facevo tante domande, cosa che nella comunità criminale di solito non si fa.

Spesso mi chiedeva di recitargli le poesie di Esenin, Lermontov, Puskin che conoscevo a memoria, e quando avevo finito diceva ai suoi compagni:

«Avete sentito? Questo diventerà un giorno un uomo intelligente, uno studiato! Che Dio ti benedica, figliolo! Dai, ripetimi ancora quella dell'aquila dietro le sbarre…»

Era il suo pezzo preferito, la poesia di Puskin dove era raccontato in maniera metaforica lo stato d'animo di un carcerato, paragonato a quello di una giovane aquila allevata in prigionia e costretta a vivere in una gabbia stretta. Io la recitavo con tono potente e lui mi guardava dritto negli occhi, come se cercasse qualcosa che doveva arrivare e non arrivava mai, e le sue labbra piano piano si muovevano ripetendo le parole che avevo appena detto. Quando finivo con i versi «Su, voliamo via! Noi siamo liberi uccelli, è tempo, fratello, è tempo! Là, dove dietro le nubi biancheggia la montagna, là, dove l'azzurro del mare è più intenso, là, dove volo da solo nel vento…», lui si metteva le mani tra i capelli e diceva in maniera molto teatrale:

«E Così, è vero, è cosi! Ma anche se avessi un'altra vita, rifarei le stesse cose!»

In quei momenti mi faceva impressione capire quanto lui era semplice e com'era bella e in un certo senso pura la sua semplicità.


Un giorno Kostic aveva ammazzato di botte una coppia di giovani tossici che abitavano in Centro, colpevoli di aver provocato la morte del loro bambino di quattro mesi lasciandolo senza cibo, buttato a morire di fame in un angolo del loro appartamento, tra gli stracci sporchi e i vestiti da lavare.

Quella coppia era famosa in città per la sua arroganza. La ragazza era abbastanza bella, si vestiva in maniera molto provocante e si comportava allo stesso modo. Il marito, figlio del direttore di una fabbrica di macchine di una grossa città della Russia centrale, era un ex studente fallito, un tossicodipendente e uno spacciatore, dava fastidio a tanta gente perché seminava il suo veleno tra i giovani.

I vicini di casa, che da tempo avevano notato che il bimbo era troppo magro e piangeva sempre, una mattina li hanno visti uscire senza il piccolo e poi andare al bar, dove sono rimasti tutto il giorno. Sospettando qualcosa di brutto hanno buttato giù la porta di casa e hanno trovato quel corpicino senza vita. A quel punto hanno scatenato un inferno.

I due genitori sono stati linciati dalla folla, che li avrebbe di certo ammazzati se non fosse intervenuto il Guardiano del Centro, che li ha presi e portati a casa sua, dicendo che dovevano essere giudicati secondo le regole criminali. In verità il Guardiano voleva solamente sfruttare l'occasione per ricattare il direttore della fabbrica, e costringerlo a pagare per salvare il figlio da morte sicura. Tutti, anche se sospettavano qualcosa, hanno preferito tacere. Tutti tranne Kostic.

Kostic ha fatto un gesto spettacolare: si è presentato da solo a casa del Guardiano, a torso nudo, con un bastone tra le mani. Gli scagnozzi del Guardiano hanno tentato di fermarlo, minacciandolo con la forza, ma lui ha detto solamente una cosa:

«Volete picchiare lei?» indicando la Madonna con Bambino tatuata sul suo petto. Quelli si sono tirati indietro e l'hanno fatto entrare, e lui ha ucciso a bastonate quei due genitori snaturati buttandoli poi giù dalla finestra, in strada, dove la gente li ha pestati finché non sono diventati una specie di massa biologica.

Il Guardiano era infuriato, ma già dopo mezz'ora le persone più autorevoli in città, tra cui anche nonno Kuzja, hanno dato ragione a Kostic e hanno consigliato al Guardiano una soluzione semplice e drastica: suicidarsi.

Dopo una settimana è arrivato in città il direttore della fabbrica, con l'intenzione di vendicare il figlio. Era evidente che sapeva ben poco della nostra città, perché si è presentato con una banda di coglioni armati, composta metà da sbirri fuori servizio e metà da militari; li aveva ingaggiati per fare una spedizione punitiva contro il criminale che aveva ucciso suo figlio. Ebbene, sono spariti tutti in un vicolo, insieme ai loro tre fuoristrada. Nessuno ha visto né sentito niente, sono entrati in città e non ne sono mai usciti.

Li hanno cercati ancora per un po': appelli sui giornali, in televisione hanno persino fatto vedere la moglie del direttore che supplicava chiunque sapesse qualcosa del marito di parlare. Non è venuto fuori niente, come si dice da noi: «annegato senza lasciare neanche i cerchi nell'acqua».

Quando io chiedevo a nonno Kuzja, non in maniera diretta ovviamente ma prendendola alla larga, se secondo lui il direttore era morto per una ragione giusta, lui mi rispondeva con una frase che doveva piacergli molto, visto che la ripeteva a ogni occasione:

«Chi viene da noi con la spada, dalla spada prenderà la morte». Dicendolo mi sorrideva come faceva sempre, ma lo faceva con lo sguardo pesante di chi si tiene dentro tante storie che sono destinate a rimanere li per sempre.


Tornando a noi: ci siamo diretti verso il tavolo di zio Kostic, io camminavo spedito e Mel si trascinava dietro di me. Zio Kostic ci ha subito offerto di sederci con lui. Era un gesto generoso, ne abbiamo approfittato all'istante. A quel punto è arrivata zia Katja, che ci ha baciati a lungo.

– Come state, figlioli? – ha chiesto con la sua solita voce angelica.

– Grazie, zia, tutto bene… Passavamo di qui, abbiamo deciso di fare un salto, vedere come stavi, se avevi bisogno di qualcosa…

– Sono sempre qui con la mia compagnia, grazie al cielo… – e ha gettato a zio Kostic un'occhiata affettuosa.

Lui le ha preso la mano e le ha baciato il palmo come si usava fare ai vecchi tempi in segno di affetto verso una donna, spesso la madre o la sorella. Poi ha detto:

– Che Gesù Cristo sia con te, madre, respiriamo grazie alle fatiche che fai. Perdonaci per tutto, Katjusa, siamo vecchi peccatori, perdonaci per tutto.

Era un vero spettacolo assistere a questi semplici e allo stesso tempo plateali gesti di rispetto e amicizia umana tra persone dai destini Così diversi, unite dalla solitudine in mezzo al caos.

Zia Katja si era seduta con noi. Il vecchio continuava a tenerle la mano e guardando lontano, sopra le nostre teste, ha detto:

– Mia figlia deve avere la tua stessa età, lo sai, Katja? Spero che stia bene, che abbia trovato la sua strada e che sia una strada buona e giusta, diversa dalla mia…

– E anche dalla mia… – gli ha risposto zia Katja con la voce un po' tremolante.

– Dio mi perdoni, povero scemo che sono. Cosa ho detto, Katjusa, che Dio ti aiuti…

Lei non ha risposto, stava quasi per piangere.

A noi toccava solo stare zitti e ascoltare, l'aria era piena di sentimenti veri e profondi.

Quello che mi piaceva di quell'ambiente, per quanto violento e brutale potesse essere, era che non c'era posto per bugie e menzogne, sceneggiate e buffonate: era assolutamente vero e involontariamente profondo. La verità, voglio dire, aveva un aspetto naturale, spontaneo, e non coltivato, fatto apposta: la gente era veramente umana.

Dopo una corta pausa io ho detto:

– Zia Katja, ti abbiamo portato una cosa…

Mel ha messo sul tavolo il sacchetto con la pianta avvolta negli stracci del vecchio Bosja, per proteggerla dal freddo.

Lei ha tolto quegli stracci e sulla faccia le è apparso un sorriso.

– Allora, com'è? Ti piace?

– Grazie, ragazzi, è bellissima. La porto subito nella serra, altrimenti con il freddo che fa… – e se n'è andata via con la pianta tra le mani.

Noi eravamo contenti, come se avessimo fatto un gesto eroico.

– Bravi, figlioli, – ci ha detto zio Kostic. – Non dimenticatela mai questa donna santa, che solo Dio lo sa come ci si sente a perdere i propri figli…

Quando zia Katja è tornata glielo si vedeva dagli occhi, che mentre era in serra aveva pianto. Ci ha abbracciati.

– Allora, con cosa vi devo sfamare oggi?

Era una domanda retorica. Tutto quello che cucinava lei era buonissimo. Senza pensarci su due volte abbiamo ordinato un'ottima zuppa rossa con la panna acida e il pane di grano duro. Un pane buono, nero come la notte.

Lei ha portato un pentolone pieno e lo ha messo al centro del tavolo, la zuppa era talmente calda che il vapore sembrava solido come un palo. Ci siamo serviti con un grande mestolo, poi abbiamo aggiunto nei piatti un cucchiaio di panna acida, che era dura e un po' gialla, tanto grasso conteneva. Prendevamo un pezzo di pane nero, ci spalmavamo sopra aglio e burro, e via Così, una cucchiaiata di zuppa e un morso di pane.

In quelle occasioni Mel era capace di svuotare da solo un intero pentolone, mangiava in fretta, io invece masticavo lentamente, mi dedicavo tutto a quel piacere e spesso, quando giravo il mestolo nel pentolone per prendere un bis, lo sentivo sbattere tristemente contro le pareti vuote. In quei momenti avevo la grande tentazione di spaccare il mestolo sulla testa del mio insaziabile compagno.

Per me, dopo aver mangiato la zuppa, è come se mi si aprisse un secondo respiro dentro il corpo, mi partono a raffica emozioni positive e mi viene voglia di stirarmi su un letto caldo e comodo e farmi una dormita di dieci ore.

Ma tempo cinque minuti per il cambio dei piatti ed è arrivato il secondo: patate cotte con la carne al forno, che galleggiavano nel grasso sciolto e avevano un profumo che arrivava direttamente al cuore. E al solito, per accompagnare quella portata, i tre piatti tipici. Cavoli tagliati lunghi e sottili, marinati nel sale, una cosa buonissima: mio nonno diceva sempre che erano una medicina naturale contro qualunque malattia, e che era grazie a loro che i russi avevano vinto tutte le guerre. Io personalmente ignoravo come i cavoli salati potessero guarire le malattie e con quali strategie militari avessero vinto le guerre, però erano molto buoni e come si dice da noi «andavano giù fischiando». L'altro piatto erano i cetrioli, sempre marinati nel sale, buoni da morire, croccanti come se li avessero appena tolti dalla pianta, profumati da tante spezie ed erbette, una favola. Il terzo erano le rape bianche grattugiate, con olio di girasole e aglio fresco. Erano tutti piatti che venivano da una cucina contadina molto povera di materie prime, ma capace di sfruttarle tutte con tante ricette diverse. Poi sul tavolo erano sempre presenti dei piattini con aglio fresco, cipolla tagliata a fettine, pomodori-ni verdi, burro, panna acida, e tanto pane nero. Per me, se esiste il paradiso, dev'esserci assolutamente una tavola imbandita come quella del locale di zia Katja.

Non osavamo bere alcol davanti a lei, per non darle un dispiacere. Così bevevamo kompot, una specie di composta di frutta, una macedonia di mele, pesche, prugne, albicocche e mirtilli rossi e neri fatta bollire a lungo in un grosso pentolone. Si preparava d'estate, e per il resto dell'anno veniva conservato in bottiglioni da tre litri con un collo largo circa dieci centimetri, chiuso ermeticamente. Si teneva in fresco nelle cantine, poi andava riscaldato prima di berlo.

Ogni volta che zia Katja si allontanava, zio Kostic aggiungeva nei nostri bicchieri un po' di vodka facendoci l'occhiolino:

– Fate bene a non farvi vedere da lei… – Noi buttavamo giù obbedienti il misto di vodka e kompot, e lui rideva delle facce che facevamo subito dopo.

Il pranzo è durato un'ora, forse un po' di più. Alla fine è arrivato tè bollente, forte e nero, con limone e zucchero. E torta al miele, una meraviglia. Mel si è buttato su quella torta come un invasore tedesco si buttava sulle galline nei pollai dei contadini russi. Ma ha subito ricevuto da me un'amichevole sberla e le sue mani sono arretrate fino a ritirarsi sotto il tavolo.

Il compito della divisione della torta spettava a me, era mio il compleanno. Il primo pezzo, per rispetto, l'ho dato a zio Kostic, il secondo all'amico di zio Kostic, un vecchio criminale chiamato «Beba», che era una specie di sua ombra silenziosa e invisibile. Poi, con calma, lentamente, ho servito Mei, che stava quasi per esplodere: guardava concentratissimo la sua fetta come quando un cane fissa il pezzettino di cibo nella mano del padrone e segue tutti i suoi movimenti. Mi faceva ridere, Così senza nessun rimorso torturavo la sua pazienza facendo ogni gesto al rallentatore. Alla fine Mel si è innervosito e le sue ginocchia hanno cominciato a tremare sotto il tavolo in uno spaventoso tic, allora io con calma assoluta gli ho detto:

– Attento che rischi di farla cadere.

Tutti si sono messi a ridere, e Mel più degli altri.

Dopo il dolce di solito si sta un quarto d'ora seduti immobili, come diceva mio nonno «per accumulare un po' di grassi». E si parla di varie cose. Mel però non poteva parlare proprio di niente, perché a giudicare da come si staccava dal tavolo e si appoggiava con la schiena alla sedia, era entrato in uno stato fisico e mentale da abuso di stupefacenti. Per questo mio zio, da quando Mel era piccolo, lo chiamava «maiale»: perché come i maiali diventava ubriaco subito dopo aver mangiato.

Così alle chiacchiere abbiamo partecipato solo io e zio Kostic, Beba ogni tanto infilava una parola.

– E allora, a casa tutto bene? Nonno, che Dio lo aiuti, come sta?

– Grazie, va avanti con le preghiere, meno male che il Signore ci ascolta sempre. E con quel povero ragazzo, Gancio, che è successo?

Kostic alludeva a una faccenda capitata qualche settimana prima: uno dei nostri, appena maggiorenne, si era scontrato in una rissa con tre georgiani e con il coltello ne aveva ferito gravemente uno. C'erano da sempre un po' di grane con Caucaso, non era una vera guerra tra quartieri, ce l'avevamo solamente con un gruppo di reazionari georgiani. Gancio non aveva torto nel casino della rissa, però aveva commesso un errore dopo: non aveva voluto presentarsi a una specie di processo che era stato organizzato dalle autorità criminali della città su iniziativa di un famigliare del georgiano ferito. Gancio era arrabbiato e fuori di sé, e Così, con assoluta leggerezza, aveva offeso il sistema di giustizia criminale. Se fosse andato davanti alle autorità e avesse detto la sua, sicuramente tutto sarebbe finito a suo favore, invece il famigliare del georgiano ferito aveva fatto credere che il suo parente era stato aggredito senza ragioni da un siberiano crudele e spietato.

Kostic era una delle autorità coinvolte nel processo, e stava cercando di ricostruire il motivo per cui Gancio si era comportato cosi.

– Com'è 'sto ragazzo, tu lo conosci bene, no?

– Si, zio, è un mio caro amico, abbiamo combinato parecchi guai insieme. Con me e con gli altri si è sempre comportato bene, da fratello -. Cercavo di salvargli la faccia almeno davanti a una delle autorità, sperando che poi zio Kostic avrebbe influenzato gli altri. Però non potevo neanche esagerare e dare la mia parola, del resto la mia parola di minorenne non contava granché.

– Sai perché si è comportato in maniera disonesta con della buona gente?

Kostic mi aveva fatto una domanda che dalle mie parti si chiama «quella che fa solletico», cioè una domanda abbastanza diretta a cui non puoi non rispondere, anche se non c'entri niente. A quel punto ho deciso di dire la mia, indipendentemente da quello che era successo:

– Gancio è una persona onesta, tre anni fa si è beccato sei coltellate nella rissa contro la gente di Parkan perché ha coperto con il suo corpo Mel e Gagarin. Mel era ancora un bambino, poteva rimanerci secco. A volte è difficile parlare con lui perché è un po' solitario, ma ha un cuore grande e non ha mai mancato di rispetto a nessuno. Non so com'è andata con i georgiani: Gancio era da solo, non c'era nessuno con lui. Forse anche per questo si è sentito tradito: tre tipi estranei, anzi gente di Caucaso, ti beccano quasi sotto casa tua, nel cuore del tuo quartiere… e nessuno dei tuoi amici è li per darti una mano ad affrontarli.

L'avevo raccontato apposta, il sacrificio di Gancio in difesa di Mei, perché sapevo che queste cose contano più di tante altre. Speravo che anche Kostic la pensasse Così, in fondo era rimasto un uomo semplice e un piantagrane unico.

– Secondo te si è comportato nel modo giusto? Non era meglio risolvere tutto a parole?

Quella domanda era una trappola tutta per me.

– Secondo me è andata com'è andata. Lo sai meglio di me, zio, che ogni volta è diverso. Prima che ti capiti non puoi sapere come reagirai.

– Se aveva ragione perché non ha voluto presentarsi davanti agli altri, per raccontare la sua versione? Allora crede di aver torto, non è sicuro di essersi comportato onestamente…

– Secondo me ha temuto di essere attaccato per la seconda volta, tutto qui. La prima sotto casa sua, con i coltelli, la seconda attraverso la giustizia della gente autorevole. Ha perso fiducia nelle autorità, si è sentito tradito: hanno accolto la richiesta dei georgiani pur sapendo che lui era stato accoltellato in quel modo, tre contro uno, e nel suo quartiere.

Finalmente ero riuscito a dire quello che pensavo.

Kostic per un momento mi ha guardato senza nessuna espressione, poi mi ha sorriso:

– Meno male che nella nostra vecchia città ci sono ancora dei giovani delinquenti… Ricordatelo sempre, Kolima, è sbagliato voler diventare un'autorità, lo diventerai se lo meriti, se sei nato per quello.


La questione di Gancio è stata risolta tre giorni dopo. Le autorità criminali hanno deciso che i georgiani avevano offeso con la loro richiesta l'onore della giustizia, e li hanno proclamati «caproni puzzolenti», un'espressione di estremo disprezzo nella comunità criminale. Quei tre sono spariti dalla Transnistria, però prima di andarsene hanno lanciato una bomba a mano in casa di Gancio, mentre lui cenava con l'anziana madre. Per fortuna quella bomba veniva da una partita di bombe a mano che servivano per le esercitazioni militari: aveva un anello rosso disegnato con l'inchiostro e non c'era carica esplosiva, in poche parole era pericolosa quanto un mattone. I georgiani non lo sapevano, l'avevano comprata pensando che fosse funzionante.

Anche se non era morto nessuno, la gente del nostro quartiere l'aveva presa come una grave offesa alla comunità. Tanto che una sera nonno Kuzja mi aveva detto:

«Guarda il notiziario, forse vedrai qualcosa d'interessante».

Tra le ultime notizie c'era un servizio da Mosca: sette uomini con precedenti penali di nazionalità georgiana erano stati trovati uccisi nell'abitazione di uno di loro, brutalmente fucilati mentre cenavano. Le immagini mostravano una tavola capovolta, mobili pieni di buchi, corpi squarciati dalle ferite. Sul lampadario, una cintura da caccia siberiana tutta istoriata a mano, e appesa a quella cintura la finta bomba a mano. Il giornalista commentava:

«… una brutale strage, senza dubbio una resa di conti eseguita da criminali siberiani».

Ricordo che quella sera, prima di andare a dormire, ho tirato fuori dall'armadio la mia cintura da caccia, l'ho guardata a lungo e ho pensato: «Com'è bello essere siberiani».