Dopo la conversazione con zio Kostic ho svegliato Mel con due buffetti. Abbiamo ringraziato zia Katja e siamo andati per la nostra strada. Lei come sempre è uscita sulle scale del locale e ci ha salutato finché non siamo spariti dietro l'angolo.

Mel si è messo a rompermi i coglioni, voleva sapere a tutti i costi di che cosa avevo parlato con zio Kostic. L'idea di dovergli riassumere tutto il contenuto del discorso mi raggelava, ma la sua faccia pura ha sciolto il mio ghiaccio.

Così ho cominciato a raccontargli tutto, e quando sono arrivato a dire che zio Kostic mi aveva chiesto di Gancio, lui si è fermato sul posto come un lampione:

– E tu non gli hai detto niente, no?

Era arrabbiato ed era un brutto segno, perché quando Mel si arrabbiava finiva che ci picchiavamo, e siccome era quattro volte più grosso di me io le prendevo sempre. L'ho steso una sola volta in vita mia, ma avevamo poco più di sei anni: l'ho picchiato con un bastone aprendogli una ferita in testa, approfittando del fatto che era rimasto intrappolato con le braccia e le gambe in una rete da pesca.

Adesso Mel se ne stava li, fermo immobile sulla strada con la faccia incattivita e i pugni stretti. L'ho guardato a lungo, e proprio non arrivavo a capire che cosa potesse passargli per la mente.

– Ma come «niente», ho detto quello che pensavo… – non sono riuscito a finire la frase che mi ha buttato sulla neve e si è messo a pestarmi gridando che ero un traditore.

Mentre mi picchiava, ho fatto scivolare la mano destra nel taschino della giacca, dove tenevo un tirapugni. Ho infilato per bene le dita nei buchi, poi ho tirato fuori la mano di scatto e gli ho dato un gran colpo in testa. Mi faceva un po' d'impressione picchiarlo proprio li dov'era era già pieno di traumi e dolori, però era l'unico modo di fermarlo. Infatti mi ha mollato e si è seduto vicino a me, sulla neve.

Io ero sdraiato, ansimavo e non riuscivo ad alzarmi, mi limitavo a controllare le sue mosse, a guardarlo. Lui si toccava il punto dove l'avevo colpito e con la faccia schifata continuava a picchiarmi leggermente con il piede, più per disprezzo che per farmi male.

Quando ho ripreso fiato mi sono alzato sui gomiti:

– Ma che diavolo ti è preso? Mi volevi ammazzare? Che ho detto?

– Hai parlato di Gancio e adesso lui avrà dei problemi. Mi ha salvato la vita, è nostro fratello. Perché hai fatto la spia a zio Kostic?

A quelle parole mi è preso un crampo, non riuscivo a crederci. Mi sono tirato su, ho tolto la neve dalla giacca e dai pantaloni, e prima di riprendere la strada gli ho girato la schiena. Volevo che capisse bene la lezione.

– Ho parlato bene di Gancio, scemo, l'ho difeso, – gli ho detto. – E se Dio vuole, zio Kostic ci aiuterà a toglierlo dai guai.

Dopo sono partito, sapendo già cosa sarebbe successo. Per un'ora buona avremmo camminato come una compagnia teatrale: io davanti, come Gesù appena sceso dalla croce, con la testa alta e lo sguardo pieno di promesse che si perde cinematograficamente nell'orizzonte, e Mel dietro, con le spalle basse, tutto umile, con la faccia di uno che ha appena commesso un reato vergognoso, costretto a fare saltelli come il gobbo di Notre-Dame e a ripetere con voce piagnucolante e pietosa sempre la stessa frase, come una preghiera monotona: 

– Dai, Kolima, non ti arrabbiare. Non ci siamo capiti, succede, no?

«Ma porca puttana, – pensavo, – porca puttana!»


E Così siamo usciti dal Centro, lasciandoci alle spalle l'ultima fila delle vecchie case a tre piani. Dovevamo attraversare tutto il parco fino a un edificio orribile e triste, un palazzo costruito due secoli prima per ospitare la zarina di Russia nei suoi viaggi nelle terre di confine. Non so niente di architettura, ma era chiaro persino a me che quel palazzo era un miscuglio di stili mal assemblati: un po' di Medioevo e un po' di Rinascimento italiano, copiato malamente dai russi. Era grezzo, con decorazioni che non c'entravano un tubo, e per di più era tutto coperto di muffa. Quello schifo di posto, che secondo il mio parere poteva andar bene solamente per feste sataniche e sacrifici umani, ospitava invece i malati terminali di tubercolosi. Beh, in un certo senso, i sacrifici umani in quel posto erano all'ordine del giorno…

A Bender quell'ospedale veniva chiamato morìlka, che nella lingua antica indica qualcosa che ti fa soffocare. I medici che lavoravano li erano per lo più medici militari del sistema penitenziario, insomma erano i dottori delle carceri. Arrivavano da tutta l'Urss, si trasferivano a Bender per qualche anno con le famiglie e poi se ne andavano; venivano subito sostituiti da altri, che prima di andarsene a loro volta proponevano nuovi cambiamenti, piccole e inutili rivoluzioni. Quei poveri malati ormai erano abituati ai continui trasferimenti da un piano all'altro, da un'ala all'altra, erano costretti a veder finire i loro giorni in mezzo al casino, con intorno gente sconosciuta che va e viene come al mercato.

L'ospedale era di tipo «chiuso», cioè sorvegliato come qualsiasi prigione, perché molti dei pazienti erano ex carcerati. Intorno aveva il filo spinato, con tanto di sbarre alle finestre.

Era vietato fumare in tutto l'edificio, ma gli infermieri portavano di nascosto le sigarette e le vendevano ai fumatori incalliti al triplo del costo normale, speculando alla grande.

Tra i pazienti c'erano tanti finti malati: autorità del mondo criminale che sfruttando le loro conoscenze erano riuscite a farsi fare certificati medici falsi dove venivano dichiarati «terminali». Così se ne stavano in un bell'ospedale anziché in un carcere tutto freddo, umido e puzzolente. Quando ne avevano voglia facevano arrivare le prostitute da fuori, organizzavano festini con gli amici e persino riunioni di autorità criminali a livello nazionale. Tutto era permesso e coperto, bastava pagare.

A garantire la felice permanenza delle autorità in ospedale era una donna, un'infermiera cicciona di nazionalità russa, sempre allegra: zia Marusja. Sembrava più sana di Nostro Signore, aveva le guance rosse e parlava a voce alta, con dentro una forza tremenda. Era molto amata dai criminali, perché non c'era niente che lei non potesse fare per loro. L'ospedale era diviso in tre blocchi non comunicanti. Il primo, il più bello, era esposto al sole: aveva grandi vetrate e una piscina calda; era il blocco dei malati terminali, dove ogni paziente aveva la sua stanzetta pulita e calda ed era oggetto di continue attenzioni da parte del personale. Era li che stavano le autorità: fingevano di essere moribondi e invece erano sani e pieni di forze, passavano le giornate a giocare a carte, a guardare film americani in videocassetta, a scopare le infermiere giovani e a ricevere le visite degli amici che gli fornivano tutto il necessario per una vita bella e piena di gioie.

Nonno Kuzja parlava male di quella gente, li chiamava urody, che significa «mutilati»: diceva che erano la vergogna del mondo criminale moderno, e che se esistevano persone Così si doveva ringraziare la cultura che veniva dall'America e dall'Europa.

Il secondo blocco era destinato ai malati cronici. Stavano in sei in una stanza; niente televisione, niente frigo, solo la mensa e il letto. Dormire alle nove di sera, sveglia alle otto del mattino. Non si poteva uscire dalla stanza senza il permesso del personale autorizzato, neanche per andare al cesso. In caso di bisogno, fuori dalla fascia oraria prevista si doveva usare una vecchia latrina mobile che ogni sera veniva svuotata. Il mangiare era discreto, tre volte al giorno. In questo blocco stavano i malati veri, criminali e non, e poi molti senza tetto, vagabondi. Le cure mediche erano uguali per tutti: pastiglie e qualche iniezione, inalazioni di vapore due volte alla settimana. I locali venivano puliti dagli infermieri con un disinfettante potentissimo, la creolina, lo stesso che si usava per le stalle: puzzava Così tanto che se lo respiravi per più di mezz'ora ti veniva un mal di testa tremendo. Li dentro, pure il cibo puzzava di creolina.

Il terzo blocco era per i malati di tubercolosi in fase acuta, infettivi. Era tutto in ombra, orientato verso gli alberi del parco, con piccole finestre sempre appannate; era talmente umido che l'acqua gocciolava dal soffitto. Tre piani, per ogni piano cinquanta stanze e in ogni stanza circa trenta persone. Per dormire c'erano brande di legno come quelle del carcere, materassini e lenzuola che venivano cambiate una volta al mese, coperte grezze, di lana sintetica. Non tutti avevano i cuscini. In quelle stanze strapiene la gente moriva di continuo. Faceva schifo li dentro, molti non riuscivano nemmeno ad andare in bagno da soli, e visto che nessuno li aiutava si facevano tutto addosso; per di più molti di loro, mentre tossivano, sputavano sangue, lo sputavano di continuo, direttamente sul pavimento. Niente televisore, radio o altri divertimenti. Zero cure, tanto non servivano più a niente. Mangiare poco e male, tanto si va a morire, quindi il cibo è uno spreco.

Ai malati del terzo blocco ovviamente non arrivava il mercato degli infermieri, e quindi si erano inventati un sistema ingegnoso per procurarsi le sigarette. Usavano i ragazzini, gente come noi, di strada. I malati lanciavano dalle finestre un bullone pesante, intorno al quale era legato un doppio filo da pesca. Quando il bullone finiva dietro il muro, i ragazzini agganciavano al filo un sacchettino con le sigarette, e i malati uno con i soldi. Tirando il filo, facevi muovere i due sacchettini che cominciavano il loro viaggio in direzione opposta, i soldi verso i ragazzi e le sigarette verso i malati.

I ragazzi vendevano le sigarette più o meno al costo di mercato, ma ci guadagnavano lo stesso perché erano rubate e a loro non erano costate niente.

I malati avevano sempre fame di sigarette, sempre. L'amministrazione dell'ospedale, nel tentativo di bloccare questo tipo di traffico, era arrivata a seminare la paura tra i ragazzi di strada, facendo credere che potevano ammalarsi e morire, toccando i soldi dei malati. Ma i ragazzi come sempre avevano trovato una soluzione: passavano velocemente intorno alle banconote la fiamma di un accendino per «ammazzare» il batterio mortale. L'idea di fare una cosa vietata e pericolosa li attraeva ancora di più.

Le guardie dell'ospedale avevano l'ordine d'intervenire. Molte chiudevano un occhio, ma certi pezzi di merda si divertivano a mandare a monte lo scambio proprio all'ultimo: aspettavano il momento in cui il malato allungava la mano per prendere il pacchetto e, zac!, strappavano il filo. Le sigarette cadevano a terra, accompagnate dal grido disperato del malato. Le guardie se la ridevano a lungo: sbirri da sgozzare come maiali, secondo me.


Io e Mel avevamo ormai attraversato già tutto il parco. Mel continuava a chiedermi scusa, e io continuavo a non considerarlo e a camminare come se fossi solo.

Improvvisamente, mentre costeggiavamo il muro del terzo blocco, mi è caduto un bullone tra i piedi. Mi sono fermato e l'ho raccolto: aveva il filo da pesca legato. Ho guardato in su: a una finestra del terzo piano era affacciato un uomo di mezza età, con la barba lunga e i capelli tutti spettinati. Mi fissava con occhi spalancati e faceva il gesto di fumare, come se tenesse tra le dita una sigaretta.

Io gli ho fatto capire che mi sarei organizzato in un momento. Mi sono girato verso Mei, che non aveva neanche capito perché mi ero fermato, e gli ho chiesto di darmi tutte le sigarette che aveva. Mel mi ha guardato con sospetto, ma io gli ho detto in tono schifato:

– Dai, quella gente non ha da fumare, tu tra poco puoi ricomprarti un altro pacchetto. Ma non ho i soldi dietro!

Mi è montata una rabbia spaventosa, ma con la rabbia non si poteva ottenere niente da Mei, Così mi sono calmato e gli ho detto:

– Se me le dai ti perdono e non racconto niente agli altri. Mei, senza dire niente, ha tirato fuori dalla tasca due pacchetti di Temp, le Marlboro sovietiche.

Gli ho indicato il punto della giacca dove teneva l'accendino.

– Ma me l'hai regalato tu, non ti ricordi? – ha detto, tentando di salvare almeno quello, però nel frattempo già metteva la mano nel taschino per prenderlo.

– L'ho rubato in un chiosco a Tiraspol', te ne rubo uno più bello, con la donnina nuda sopra…

– E va bene, va bene… – Il trucco della donna nuda aveva funzionato, a Mel sembrava di aver fatto un affare. – Ma ricordalo, Kolima, con la donna nuda, l'hai promesso!

– Io mantengo sempre le mie promesse, – gli ho detto prendendo l'accendino dalla sua pesante ma ingenua mano.

Uno dei pacchetti era iniziato, mancava qualche sigaretta. Ci ho infilato dentro l'accendino e poi ho fatto passare il filo tutt'intorno, infiocchettandolo come un regalo. All'ultimo ho aggiunto la sola cosa che avevo con me, il mio fazzoletto di stoffa pulito, mettendolo tra i due pacchetti. Poi ho cominciato a tirare il filo. Quando il mio fagotto ha raggiunto la finestra, la mano dell'uomo si è allungata al di là delle sbarre e le urla di gioia sono arrivate fino a noi.

Io sono rimasto con il sacchettino dei malati tra le mani. L'ho aperto: dentro c'era una banconota tutta strappata, sporca e umida. Un rublo. Vicino, un foglio di carta con una scritta: «Scusate, non possiamo pagare di più».

Non l'ho nemmeno toccato, quel rublo, ho richiuso il sacchettino e ho mosso i due fili, per avvertire i malati. L'uomo alla finestra ha tirato il filo verso di sé, ha ripreso il suo rublo e mi ha gridato:

– Grazie di tutto!

– Che Dio vi benedica, gente! – ho risposto urlando con tutta la mia forza.

Sulla destra si è subito materializzata una guardia, che agitando il suo Kalasnikov ci ha gridato:

– Allontanarsi dal recinto, allontanatevi o sparo!

– Ma chiudi 'sta fogna di becco, fottuto sbirro di merda! – abbiamo risposto contemporaneamente io e Mei, anche se con parole un po' diverse: ma insomma, il senso era quello.

Senza agitarci abbiamo ripreso il nostro cammino. Poi ci siamo voltati. Lo sbirro stava zitto, ci fissava con una cattiveria negli occhi che sembrava sul punto di esplodere. Dalla finestra, il malato continuava a guardarci: sorrideva e si fumava una sigaretta.

– Però quel rublo potevi anche prenderlo, – ha detto dopo un po' Mei.

Non potevo ammazzarlo perché gli volevo bene, allora ho fatto come mi diceva sempre di fare nonno Kuzja con tutti quelli non possono capire le cose essenziali: gli ho augurato buona fortuna. Era un vero imbecille, il mio amico Mei, e lo è ancora: non è migliorato con gli anni, anzi forse è pure un po' peggiorato.


Ormai non mancava molto al quartiere Ferrovia, dove Mel doveva portare 'sto messaggio a un criminale. Superando l'ospedale, siamo passati vicino ai magazzini alimentari. Un posto che conoscevamo bene, perché spesso ci andavamo a rubare di notte.

Era una costruzione vecchia, d'inizio secolo, composta da tanti edifici in mattoni con i muri alti e senza finestre. Davanti passava la ferrovia, Così i treni si fermavano direttamente li e i vagoni venivano scaricati o caricati in fretta.

Per rubare li dentro non serviva l'agilità dei ladri, ma un po' di diplomazia. Non scassinavamo mai le porte, avevamo dentro un nostro uomo, un infiltrato, una specie di talpa che ci avvertiva, segnalandoci il momento giusto. Di solito, dopo aver caricato la merce, i treni rimanevano fermi per qualche ora, i macchinisti si riposavano per poi ripartire all'alba. Così noi aprivamo i vagoni di notte e portavamo via la roba: era più facile lavorare sui treni che rompere le porte dei magazzini. Caricavamo tutto in macchina e filavamo via.

Quei treni andavano nei Paesi del blocco sovietico, tanti in Romania, Bulgaria e Jugoslavia. Portavano zucchero, conserve, prodotti alimentari a lunga conservazione. A volte erano già carichi a metà, con capi d'abbigliamento, cappotti caldi, tute da lavoro, guanti e uniformi militari. In certi vagoni potevi trovare anche elettrodomestici, trapani, flessibili, articoli da ferramenta, stufe elettriche, ventilatori. Quando capitava un'occasione Così facevamo anche tre o quattro giri, per portare via il più possibile. Ma non riuscivamo mai a caricare tutto in macchina: per fortuna il nostro uomo ci lasciava depositare temporaneamente la merce in certi nascondigli del magazzino.

La nostra talpa infatti era proprio il vecchio guardiano del magazzino, un giapponese che ormai, a forza di vivere con i russi, si chiamava Boriska.

Era molto vecchio, ed era finito nella nostra città insieme ai siberiani con la seconda ondata di deportazione alla fine degli anni Quaranta, dopo la vittoria dei russi nella Seconda guerra mondiale.

Era stato fatto prigioniero di guerra nel conflitto russogiapponese, nella battaglia di Chalchin-Gol. Aveva battuto la testa ed era svenuto, poi era rimasto vivo per pura fortuna, perché sopra i cadaveri distesi a terra erano passati i carri armati russi. Dopo i carri era passata la cavalleria: lo avevano trovato li, sbandato, che girava come un fantasma in mezzo ai morti. Per pietà l'avevano preso con loro, altrimenti sarebbe stato ammazzato dai fanti che andavano in cerca di giapponesi vivi per vendicare i compagni uccisi nella notte precedente, quando le forze giapponesi avevano attaccato le prime divisioni russe.

I cosacchi non l'avevano consegnato alle forze armate, per qualche tempo lo avevano tenuto con loro, come addetto alle scuderie. Doveva pulire e accudire i cavalli dei cosacchi di Altaj, del sud della Siberia. Lo trattavano bene e tra lui e i cosacchi era nato un rapporto d'amicizia.

Boriska veniva da Iga, terra di ninja e assassini. Fin da ragazzo era stato addestrato a combattere con le armi e con le mani. Anche i cosacchi amavano i combattimenti con le armi bianche e la lotta, e Così Boriska gli insegnava le tecniche del suo Paese e imparava le loro.

Boriska ce l'aveva con i giapponesi e soprattutto con i samurai e con l'imperatore, diceva che vivevano alle spalle del popolo, che era costretto a subire tante ingiustizie. Diceva di essersi arruolato solo per disperazione, a causa di una storia d'amore finita male. La ragazza di cui si era innamorato era stata data in sposa a un altro, ricco e potente.

L'ataman dei cosacchi, cioè il loro capo (un uomo grande e forte, un tipico siberiano del sud), gli voleva particolarmente bene. Un giorno – raccontava Boriska – lo aveva chiamato fuori dalla scuderia. Lui era uscito sul piazzale, dove i cosacchi lo aspettavano riuniti in cerchio.

«Adesso i giapponesi sono tutti morti, – aveva detto Tata-man, – il Giappone ormai ha perso la sua guerra e tu puoi tornartene a casa. Però prima voglio che fai una cosa…» L'ataman aveva fatto segno a un giovane cosacco e quello aveva portato due spade: una era di Boriska, ce l'aveva alla cintura quando i cosacchi l'avevano salvato, e l'altra, la saska, era la tipica spada dei cosacchi siberiani, ben più pesante di quella dei cosacchi di altre parti della Russia, perché i siberiani la usavano anche per spaccare la legna. Una spada Così può arrivare a pesare fino a sette chili e le persone capaci di usarla potevano, in tempi di guerra, aprire in due un uomo dalla testa alle anche.

L'ataman aveva preso quelle due spade e gli aveva detto davanti a tutti:

«Ti abbiamo trattato bene e non hai da lamentarti, ma adesso voglio sapere se tentare di occupare l'Urss ti è servito da lezione. Ecco a te le due spade. Se hai capito che fare la guerra contro di noi è stato ingiusto, spacca la tua spada giapponese con la nostra spada cosacca, e noi ti lasceremo stare con noi e sarai un cosacco anche tu. Se invece pensi che la vostra è stata una guerra giusta, spacca la nostra spada con la tua, e ti lasceremo andare libero dove vuoi e che Dio ti aiuti, non ti faremo del male».

Boriska non sapeva cosa fare. Non voleva diventare un cosacco, ma non pensava neanche che la guerra contro i russi fosse stata una cosa buona e giusta. E poi soprattutto odiava i giapponesi.

Allora aveva preso in mano la sua spada, l'aveva baciata come fanno i cosacchi con le loro spade e se l'era appesa alla cintura, al suo posto.

L'ataman lo guardava con interesse, tentando di capire cosa combinava. Molti cosacchi erano sicuri che Boriska avrebbe spaccato la loro spada.

Invece lui aveva preso la saska, aveva baciato anche quella e poi l'aveva restituita all'ataman.

Erano rimasti tutti senza parole, e l'ataman si era messo a ridere:

«Ecco, Boriska… Sei in gamba, giapponese!»

«Non sono giapponese, sono di Iga, e la mia spada è di Iga!» aveva risposto lui.

«Bene, sei davvero un brav'uomo, Boriska, non devi mai dimenticare chi sei e mai tradire la tua tradizione… Devi essere fiero, solo Così conserverai la tua dignità!»

E Così Boriska era rimasto con i cosacchi ancora per tanto tempo, però da quel giorno gli era stato concesso di portare sempre con sé la sua spada.

Quando i cosacchi erano tornati in Siberia, nell'Alta], Boriska li aveva seguiti. L'ataman l'aveva ospitato in casa sua, e li Boriska aveva incontrato la sua futura moglie, la figlia maggiore dell'ataman, Svetlana. Si erano sposati. Boriska per rispetto verso di lei si era battezzato nella fede ortodossa con il nome di Boris, per poter fare la cerimonia in chiesa. Avevano costruito la loro casa e vivevano li, in un piccolo paese sul fiume Amur.

Poi un giorno l'ataman era stato arrestato improvvisamente dai servizi segreti di Stalin, e dopo qualche tempo fucilato come traditore. Boriska l'aveva presa malissimo, aveva pensato che fosse tutta colpa sua, invece non c'entrava niente: in quegli anni molti cosacchi erano stati presi di mira dal governo sovietico perché non condividevano le idee comuniste, e conservavano da sempre una certa simpatia verso l'anarchia e l'autonomia.

Dopo la sua morte, l'ataman era stato dichiarato «nemico del popolo», e i membri della sua famiglia erano stati deportati in Transnistria con tanti altri siberiani.

Boriska se lo ricordava ancora, quel lungo viaggio. I treni – diceva – sostavano a lungo sui binari, e non si poteva uscire perché erano sorvegliati da soldati armati. A volte capitavano vicini due treni che andavano in direzioni opposte, su uno c'era la gente della parte europea dell'Urss che veniva mandata in Siberia, e sull'altro il contrario. Lui sentiva gridare da un treno:

«Oddio, ci portano in Siberia, fa troppo freddo li, moriremo tutti!»

E dall'altro treno rispondere:

«Oh Cristo, ci mandano in Europa, niente boschi, solo colline vuote, moriremo di fame!»

In quel viaggio Boriska ha conosciuto degli Urea siberiani. Si è affiancato a loro perché erano gli unici a non sembrargli disperati: in un certo senso andavano sul sicuro, in Transnistria c'era già ad attenderli una comunità abbastanza sviluppata.

Boriska ha raccontato la sua storia a uno di loro, un uomo anziano, rispettato da tutti gli altri, e quello lo ha rassicurato:

«Non aver paura, stai vicino a noi: in Transnistria ci sono i nostri fratelli. Se sei un uomo giusto, presto avrai una casa e potrai crescere i tuoi bambini assieme ai nostri figli, che il Signore ci benedica tutti…»

Gli Urea e i cosacchi erano da sempre in sintonia, andavano d'accordo: entrambi rispettavano le vecchie tradizioni, amavano la patria e la loro terra e credevano nell'indipendenza da qualsiasi forma di potere. Entrambi sono stati perseguitati da vari governi russi in epoche diverse, per la loro voglia di libertà. Solo che gli Urea erano pili estremisti, e avevano una particolare struttura gerarchica. I cosacchi invece si definivano un esercito libero e quindi avevano una struttura paramilitare; in tempo di pace si occupavano per lo più di allevamento di bestiame.

Arrivati in Transnistria, Boriska e la moglie sono stati ospitati da una famiglia di Urea, proprio come gli aveva promesso il vecchio.

Boriska si è sentito subito a casa. Per lui gli Urea avevano molto in comune con la gente della sua terra di origine, Iga. Erano uniti, estremamente anarchici e con una forte tradizione criminale.

Presto è entrato nel giro d'affari dei criminali siberiani, che lo rispettavano perché lui capiva tutto della loro legge, era un uomo di parola e giusto.

E poco alla volta è diventato uno di noi. Viveva nella nostra zona con la sua famiglia. Sua moglie, che noi tutti ormai chiamavamo nonna Svetlana, gli aveva dato due figli che seguivano la strada degli Urea.


Da vecchio, Boriska ha sfruttato un aggancio con il direttore dei magazzini alimentari che lo ha assunto come guardiano. Hanno fatto un accordo: il direttore non faceva casini quando la merce spariva e Boriska doveva dividere la sua fetta con lui. Organizzava ogni colpo alla perfezione, era molto preciso e serio, quando si trattava d'affari. Soprattutto sapeva gestire le sue emozioni molto bene, non l'ho mai visto perdere la testa.

Una volta, d'autunno, quando in ogni casa da noi la gente prepara le conserve per l'inverno e accende un gran fuoco dove mette a bollire un grosso pentolone pieno d'acqua, a casa nostra si sono riunite cinque famiglie vicine per fare insieme le conserve. Come al solito, le donne tagliavano le verdure e i legumi, e gli uomini badavano al fuoco e preparavano i barattoli di vetro. Noi bambini eravamo li vicini, giocavamo in mezzo agli adulti. C'era anche il vecchio Boriska, con suo figlio e i nipotini.

A un certo punto la staffa sotto il grosso pentolone si è spaccata in due, e il pentolone si è ribaltato e ha rovesciato fuori duecento litri di acqua bollente in un attimo. A pochi metri da li era seduto per terra un bimbo, figlio di un nostro vicino, zio Sanja. Io ero andato in giardino a cercare altri barattoli. Quando ho sentito il rumore del pentolone che si rovesciava, sono corso in casa e ho visto il vecchio Boriska prendere una grossa bacinella di lega, lanciarla a terra e saltarci dentro, scivolando come su una tavola da surf. E li, in quel vapore bianco e denso come la nebbia sul fiume di mattina, ho visto diventare piano piano sempre più visibile la figura di un uomo che stava dentro una bacinella con un bimbo in braccio, circondato dall'acqua bollente. La madre del bimbo ha perso i sensi, il padre, zio Sanja, si è messo a urlare; gli unici a essere tranquilli erano quei due, Boriska e il Piccolino.

Aveva agito d'istinto, senza pensarci su, e dopo gli era tornato il solito aspetto sereno di sempre, come se facesse cose Così quattro volte al giorno.

Era una persona molto interessante, mi piaceva parlare con lui, sentirlo raccontare le storie della sua vita. Andava spesso a pescare con una canna che si era fatto da solo, e mentre pescava stava con i piedi nell'acqua e cantava canzoni giapponesi. Quando ero piccolo me ne ha insegnata una molto bella: parlava di una montagna e di un giovane che l'attraversava per trovare la sua fidanzata.


Avevamo fatto un patto, con Boriska: quando passavamo dai magazzini dovevamo fare finta di non conoscerlo. Se lo vedevamo vicino al cancello, non dovevamo neanche salutarlo. Lui stava spesso li a fare la guardia in compagnia di un vecchio cane pastore che aveva problemi con le zampe di dietro e faceva fatica a spostarsi; tutti e due di solito erano seduti su una panchina, e mentre il cane dormiva Boriska leggeva il giornale. Di giornali Boriska ne leggeva solamente uno: la «Pravda», che significa «La verità», il giornale della propaganda comunista, che leggevano tutti quelli che volevano credere di vivere nel Paese più bello e libero del mondo. Nella «Pravda» qualsiasi notizia veniva trasformata in una fonte di pura propaganda: anche quando leggevi di disastri e guerre, alla fine ti veniva un senso di felicità e ti sentivi fortunato a essere finito in Urss. Non so come mai Boriska era Così affezionato a quel giornale, una volta ho cercato di chiederglielo, e lui mi ha risposto letteralmente cosi:

«Quando sei costretto a sentire cantare le vacche, bisogna sfruttare almeno la possibilità di scegliere quella che canta meglio».

Passando vicino al cancello io guardavo sempre da un'altra parte, per non vedere neanche se Boriska c'era o meno, tanto non potevo salutarlo. Invece il mio amico Mel non riusciva mai a ricordarsi questa semplice ma importante regola. Fissava ogni volta il cancello, e se vedeva Boriska lo salutava agitando la mano in aria e sorridendo con quella sua faccia sfigurata. Allora io gli lanciavo un'occhiataccia e lui subito si ricordava del patto che avevamo fatto con Boriska e cominciava a darsi le botte da solo, picchiandosi la fronte con il palmo della mano. Era un trionfo d'idiozia, Mei. Non per niente nonno Kuzja diceva che uno come lui rischiava di far impazzire i matti.

Boriska si arrabbiava moltissimo, quando Mel lo salutava. Tornando a casa dal lavoro, veniva a cercare me o Gagarin e diceva con la voce piena di rabbia, però bassa, cantilenante:

«E Così state bene, siete finalmente diventati ricchi!»

«Che dici? Non siamo ricchi…»

«E invece si che siete ricchi, perché vi permettete di rifiutare di lavorare con me, di guadagnare i soldi…»

A quelle parole mi venivano i capelli dritti. Rifiutare di lavorare con Boriska significava dire addio alla metà dei nostri guadagni.

«Non abbiamo fatto niente, zio Boriska».

«Niente, come no. Insegnate a quell'imbecille del vostro amico come ci si comporta. E se non ci arriva, non portatelo più davanti ai magazzini, fate il giro largo piuttosto…»

Noi parlavamo con Mei, gli rispiegavamo tutto da capo, ma era inutile. La volta dopo, appena ci avvicinavamo ai magazzini, cercava il vecchio per salutarlo. Era come una punizione per noi, la sua presenza.


Un giorno, passando vicino a casa di Boriska, nel nostro quartiere, ci siamo fermati per scambiare due parole con lui. Mentre parlavamo, ci siamo accorti che Mel stava lontano, dall'altra parte della strada, girato di schiena. Boriska ci ha guardati tutti quanti, poi ha indicato lui, e la faccia gli è diventata a un tratto molto seria.

«Per il vostro bene, sbarazzatevi del vostro amico, – ci ha detto. – Non portatevelo più dietro, farà solo guai. Anzi, sono disposto a pagarlo purché se ne stia a casa e non vada in giro».

Io gli ho detto, facendo finta di non capire:

«Ma zio Boriska… E vero, Mel è un po' stordito, però è un bravo ragazzo».

Boriska mi ha guardato come se gli avessi parlato in una lingua che non capiva.

«Un po' stordito, dici? Ma guardalo: è un disastro, quello! Neanche lui sa che cosa sta succedendo dentro la sua testa! Sentite, io vi voglio bene, per questo vi dico le cose come stanno. Voi siete ancora giovani, il vostro amico adesso vi fa ridere, ma presto combinerà tanti di quei guai che vi farà piangere».

Che parole sante erano quelle, peccato che l'ho capito troppo tardi, molti anni dopo.

Quando ce ne siamo andati ho chiesto a Mel perché se n'era stato in disparte. Lui mi ha fatto una faccia da torturato, piena di sofferenza, e ha detto quasi piangendo:

«Prima mi dite di non salutarlo, poi lo saluto e mi sgridate, dopo non lo saluto e mi sgridate lo stesso! Io non ci capisco più niente, per me può anche non esistere 'sto Boriska!»

Io ho riso, ma aveva ragione Boriska: c'era poco da ridere. E avremmo dovuto capirlo da tempo.


Quando avevamo una decina d'anni, siamo andati al cinema a vedere un film che si chiamava Lo scudo e la spada. Il protagonista, un agente segreto sovietico, si esibiva in varie scene d'azione, sparando ai nemici capitalisti con la sua silenziosa pistola e facendo un sacco d'acrobazie. Quello rischiava la vita come se stesse facendo una cosa normale, di routine, per combattere l'ingiustizia nei Paesi della Nato. Era una specie di risposta nostrana ai tanti film americani e inglesi sulla guerra fredda, dove di solito i sovietici apparivano come stupide e incapaci scimmie che giocavano con la bomba atomica e volevano distruggere il mondo. Noi, nonostante il divieto dei nostri vecchi, eravamo andati a vederlo nell'unico cinema della città (non c'era ancora il secondo cinema, destinato a durare pochissimo, distrutto nella guerra del '92: proprio li dentro si piazzeranno i militari rumeni, e i nostri padri per ucciderli faranno saltare in aria di notte tutto il complesso, insieme al ristorante e alla gelateria). Bene, in quel film a un certo punto il protagonista saltava dal tetto di un palazzo altissimo usando un grande ombrello al posto del paracadute, per poi atterrare comodamente e senza danni. In poche parole, faceva quello che ha sempre fatto Mary Poppins.

Il giorno dopo, senza dire niente a nessuno, Mel si è buttato con un ombrellone parasole dal tetto della biblioteca centrale, un palazzo alto tre piani, con sotto una bella zona verde piena di castagni e betulle. Precipitando su un albero, una betulla, è riuscito a spaccarsi una mano e una gamba, a rimediare un trauma cranico e a infilzarsi la pancia col bastone dell'ombrellone. Un mare di sangue, sua madre disperata, lui quasi per sei mesi da un ospedale all'altro.

Prenderlo in giro mi pareva un buon modo per fargli capire dove poteva portarlo la sua ingenuità. Un'altra volta, quando avevamo già quattordici o quindici anni, Mel era a casa mia, preparavamo il tè da bere nella sauna. Lui improvvisamente se n'è uscito con i Paesi tropicali, dicendo che non sarebbe stato male vivere li, secondo lui potevamo starci bene, perché non faceva mai freddo.

«C'è troppa umidità, – gli ho detto io, – piogge che durano tanto tempo. E uno sputo di terra, che cosa ci facciamo li?»

«Se piove ci ripariamo in una capanna. E pensaci, sulle isole non serve la macchina, si può girare in bici e c'è sempre una barca a disposizione. E gli indiani…»

Erano tutti indiani per lui. Indiani d'America. Pensava che gli indigeni di qualunque Paese girassero sempre a cavallo con le piume colorate in testa e le facce dipinte.

«… gli indiani, – ha continuato, – sono gente in gamba. Sarebbe bello diventare come loro».

«È impossibile, – l'ho provocato io, – portano i capelli lunghi come gli omosessuali».

«Ma che dici? Non sono omosessuali. È solo che non hanno le forbici per tagliarsi i capelli. Guarda, – mi ha detto, tirando fuori dalla tasca un soldatino di plastica dai colori sbiaditi che portava sempre con sé, un guerriero indiano in posizione di combattimento, con un coltello in mano. – Vedi? Se ha il coltello non può essere un omosessuale, altrimenti non gli avrebbero permesso di offendere un'arma!»

Era bello vedere come lui applicava le nostre regole siberiane agli indiani. Era vero, da noi un «gallo», cioè un omosessuale, è un reietto: se non lo ammazzano gli tolgono la possibilità di ogni contatto con la gente, ma soprattutto gli vietano di toccare oggetti di culto come la croce, il coltello, le icone.

Non avevo nessuna intenzione di smontargli le sue fantasie sulla favolosa vita eterosessuale degli indiani. Volevo solo divertirmi. Così sono passato a lavorarlo ai fianchi, punzecchiandolo sull'argomento che per lui era sacro: il cibo.

«Non fanno la zuppa rossa», ho detto in un fiato.

Mel si è fatto molto attento. Il suo collo si è allungato:

«Come non c'è la zuppa… E che si mangia allora?»

«Beh, in effetti non hanno tanto da mangiare, li fa caldo, non gli servono i grassi per resistere al freddo, si accontentano della frutta che cresce sugli alberi, di qualche pesce…»

«Il pesce fritto non è male», ha tentato di difendere la cucina tropicale.

«Scordati il pesce fritto, lì non fanno cuocere niente, mangiano tutto crudo».

«E i frutti?» ha chiesto sconsolato.

«Noci di cocco».

«E come sono?»

«Buone».

«E tu come fai a saperlo?»

«Mio zio ha un amico di Odessa che fa il marinaio. Una settimana fa mi ha portato un cocco con il latte dentro».

«Il latte?»

«Latte, si, solo che non viene preso dalla mucca ma dall'albero, sta dentro il frutto».

«Ma dai, fammelo vedere!» Si è acceso in cinque secondi e con tutto il suo aspetto mi faceva capire che stava ingoiando la mia esca. Dovevo solo tirare la corda.

«Purtroppo il frutto l'abbiamo già mangiato, però se vuoi provarlo mi è rimasto ancora un goccino di latte».

«Si, fammelo assaggiare!» Saltava sulla sedia, tanto voleva 'sto latte.

«E va bene, te lo do, l'ho messo in cantina, al fresco. Aspettami due secondi e te lo porto!»

Ridendo come un bastardo sono uscito di casa e sono andato nella casetta degli attrezzi dove mio nonno teneva tutto l'utile e l'inutile per la casa e l'orto. Ho preso una tazza di ferro, ci ho messo dentro un po' di stucco bianco e un goccio di gesso. Per dare al liquido la giusta densità, ho aggiunto un po' d'acqua e un po' di colla per piastrelle. Ho girato il tutto con il bastoncino di legno che mio nonno usava per pulire i nidi dei colombi dalla loro merda. Poi, con affetto, ho portato la magica pozione a Mei.

«To', ma non berlo tutto, lasciane anche per gli altri».

Come non detto: appena ha preso la tazza in mano, Mel l'ha svuotata in quattro sorsi. Poi ha fatto una smorfia e nell'occhio buono gli è apparsa una timida ombra di dubbio.

«Forse è andato un po' a male in cantina, non so, all'inizio era buonissimo», ho detto tentando di salvare la situazione.

«Già, dev'essere andato a male…»

Da quel giorno ho cominciato a chiamarlo «Cunga-Canga», e lui non ha mai capito perché.

Cunga-Canga era un cartone molto amato dai bambini in Unione Sovietica. Era disegnato abbastanza male, con una tecnica tipo quella usata nei manifesti di propaganda comunista: tutti colori forti, figure piene e senza sfumature, molto stilizzate, proporzioni non rispettate apposta, per creare un effetto da teatro di marionette.

In quel cartone si promuoveva l'amicizia tra i bambini del mondo con la storia di un bimbo sovietico che va a trovare un bimbo di colore su un'isola, che si chiamava appunto Cunga-Canga. Il bimbo sovietico aveva uno sguardo molto deciso (come tutti i comunisti e i loro parenti), una nave a vapore, un cagnolino di dimensioni ridotte ma anche lui dall'aspetto comunista, ed era vestito da marinaio. Il bimbo di colore era nero come la notte senza luna e aveva addosso solamente una specie di gonnellino di foglie, i suoi amici erano una scimmia e un pappagallo; poi apparivano anche il coccodrillo, l'ippopotamo, la zebra, la giraffa e il leone, che ballavano tutti insieme tenendosi per le zampe, formando un cerchio.

Il cartone durava in tutto un quarto d'ora, e più di dieci minuti erano riempiti da tre canzoni, con qualche cortissimo dialogo nello spazio tra l'una e l'altra. La canzone che ha fatto storia, amata da tutti i bambini dell'Urss, era l'ultima. Lì, accompagnata da una musichetta allegra e commovente, una voce femminile raccontava della vita felice e senza problemi nell'isola Cunga-Canga:


Cunga-Canga, un'isola meravigliosa

Vivere lì è facile e semplice

Vivere lì è facile e semplice

Cunga-a-a-Canga-a-a!


Cunga-Canga, il cielo è sempre azzurro

Cunga-Canga, allegria continua

Cunga-Canga, la nostra felicità è imparagonabile

Cunga-Canga, noi non conosciamo le difficoltà!


La nostra felicità è senza fine

Mastica il cocco e mangia le banane

Mastica il cocco e mangia le banane

Cunga-a-aCanga-a-a!


Dopo i magazzini alimentari cominciavano finalmente le prime case del quartiere Ferrovia. Un quartiere che apparteneva al Seme nero, dove c'erano regole diverse dalle nostre. Dovevamo comportarci bene, altrimenti potevamo anche non uscirne vivi.

I ragazzi di li erano molto crudeli, cercavano di guadagnarsi il rispetto degli altri con la violenza più estrema. Il potere tra i minorenni aveva un valore simbolico, alcuni potevano comandare su altri, ma nessuno di loro veniva considerato dai criminali adulti. Così, è chiaro, i ragazzi non vedevano l'ora di crescere, e per farlo più in fretta molti diventavano perfetti imbecilli, sadici e ingiusti. Nelle loro mani le regole criminali venivano deformate fino a diventare assurde, perdevano di senso, ridotte a puri pretesti. Ad esempio, loro non portavano niente di rosso, lo definivano il colore dei comunisti: se qualcuno si metteva qualcosa di rosso quelli di Seme nero potevano arrivare a torturarlo. Ovvio, nessuno di quelli nati li, sapendo questa regola, metteva mai qualcosa di rosso, ma se ce l'avevi con uno bastava nascondergli in tasca un fazzoletto rosso e gridare forte che era un comunista. Il malcapitato veniva subito perquisito, e se il fazzoletto saltava fuori nessuno più ascoltava le sue ragioni, per tutti era già una persona fuori dal mondo.

Questo spirito di lotta senza sosta per il potere, o come la chiamava nonno Kuzja «la gara dei bastardi», girava nell'aria del quartiere. Per essere una perfetta autorità tra i minorenni di Ferrovia bisognava saper tradire sempre i tuoi, non avere legami d'amicizia con nessuno e stare attento a non essere tradito a tua volta, saper leccare il culo ai criminali adulti e non avere nessuna educazione ricevuta da qualunque forma di contatto umano ritenuto buono.

Quei ragazzi erano cresciuti pensando di avere intorno solo nemici, Così l'unico linguaggio che conoscevano era quello della provocazione.

Se si arrivava alla rissa, però, si comportavano diversamente. Alcuni gruppi si picchiavano con dignità e con molti di loro eravamo amici. Altri invece cercavano sempre di «colpire da dietro l'angolo», come si dice da noi: attaccare alle spaile, insomma, e non rispettavano nessun patto; potevano tranquillamente spararti anche se prima si era fatto l'accordo di non usare le armi da fuoco.

Erano organizzati in gruppi che a differenza di noi non chiamavano «bande», parola che ritenevano un po' offensiva, ma kontora, che significa «forze dell'ordine». Ogni kontora aveva un suo capo, o come lo chiamavano loro un bugor, e cioè «la collina».

Io avevo una vecchia grana con un bugor di quel quartiere: aveva un anno più di me e si faceva chiamare «l'Avvoltoio». Era un buffone bugiardo, arrivato quattro anni prima nella nostra città spacciandosi come il figlio di un famoso criminale soprannominato «Bianco». Mio zio lo conosceva benissimo, Bianco, erano stati insieme in carcere e mi aveva raccontato la sua storia.

Era un criminale della casta Seme nero, ma della vecchia guardia. Rispettava tutti, non era mai prepotente, sempre umile, diceva mio zio. Negli anni Ottanta, quando un gruppo di giovani di Seme nero ha scalzato le autorità più anziane (con l'unico obiettivo di far soldi e riciclarsi come uomini d'affari nella società civile), molti vecchi hanno cercato con tutte le loro forze d'impedirlo. Così i giovani hanno cominciato ad ammazzare i loro vecchi: a quei tempi accadeva un po' dappertutto.

Bianco è finito vittima di un attentato. Stava scendendo con i suoi uomini da una macchina, quando da un'altra macchina in corsa hanno aperto il fuoco su di lui. Mentre quelli sparavano con i Kalasnikov, per strada passava tanta gente e alcune persone sono rimaste ferite. Bianco poteva rifugiarsi dietro la macchina blindata, ma ha visto nel raggio di fuoco una donna e si è buttato per coprirla con il suo corpo. E stato ferito gravemente, ed è morto in ospedale qualche giorno dopo. Prima di morire, ha chiesto ai suoi di cercare quella donna, di chiederle perdono da parte sua per quanto era accaduto e di farle avere del denaro. Questo suo gesto ha avuto una forte risonanza nella società criminale, tanto che i suoi assassini si sono pentiti e hanno chiesto scusa ai vecchi, ma poi hanno continuato ad ammazzarsi tra di loro, e come diceva mio zio «a quel punto solo Cristo sapeva che cosa c'era dentro 'sta insalata».

Insomma, nella nostra comunità parlavano proprio bene di Bianco. Così, quando ho sentito dire che suo figlio era arrivato in città e che aveva dovuto abbandonare il suo paese perché dopo la morte del padre tanta gente voleva vendicarsi su di lui, ho pensato che non vedevo l'ora d'incontrarlo. L'ho detto subito a mio zio, ma lui mi ha risposto che Bianco non aveva figli e non aveva famiglia, perché viveva secondo le regole vecchie, che impedivano ai membri di Seme nero di sposarsi e tirare su i figli. «Era solo come un palo nella steppa», mi ha giurato.

Dopo qualche tempo ho incontrato l'Avvoltoio, e senza girarci tanto intorno sono andato al dunque e l'ho smascherato. Ci siamo picchiati, e io ho avuto la meglio, ma da quel giorno l'Avvoltoio ha cominciato a odiarmi, e ha cercato di vendicarsi in tutti i modi.

Una sera d'inverno, nel '91, stavo tornando a casa tutto sbronzo da una festa. Ero con Mei, ubriaco più di me. Verso mezzanotte, al confine tra il nostro quartiere e il Centro, è spuntato l'Avvoltoio con tre suoi amici; ci hanno superato con le bici, si sono fermati davanti a noi chiudendoci la strada e l'Avvoltoio ha tirato fuori dalla giacca una doppietta calibro 16 tagliata, e mi ha sparato due colpi addosso. Mi ha centrato al petto, le cartucce erano caricate con chiodi sminuzzati. Per mia fortuna però quelle cartucce erano state caricate male: in una avevano messo troppa polvere da sparo e pochi chiodi, e avevano spinto il tappo troppo in fondo; Così è esplosa dentro, e il fuoco di ritorno ha bruciacchiato la mano e un po' la faccia di 'sto povero imbecille. Con l'altra avevano fatto l'errore opposto: avevano messo troppi chiodi e poca polvere, ed evidentemente non avevano stretto bene il tappo, Così i chiodi sono partiti a velocità ridotta e mi hanno solo strappato un po' la giacca; veramente uno è arrivato fino alla pelle, ma non mi ha fatto niente, tanto che me ne sono accorto solo un paio di giorni dopo quando ho visto una bolla un po' rossa. Mel si è buttato contro di loro a mani nude ed è riuscito a stenderne uno e a spaccargli la bici, Così quelli se ne sono andati via.

Dopo quell'episodio, con l'aiuto di tutta la banda ho beccato l'Avvoltoio e gli ho dato tre coltellate sulla coscia, come si usava fare da noi in segno di disprezzo. Lui non si è arreso e ha continuato a dire in giro che voleva vendicarsi. Ma a quei tempi non era ancora nessuno, solo uno dei tanti minorenni malviventi di Ferrovia. Più tardi l'Avvoltoio era riuscito a fare una grandiosa carriera, e adesso era a capo di un branco d'imbecilli con cui combinava cose per le quali a noi nella nostra comunità avrebbero come minimo tagliato le palle.


Quel giorno di febbraio, entrando nel quartiere Ferrovia, pensavo solamente a fare in fretta e non beccare 'sto coglione di nemico che avevo. Per non preoccupare Mel con quella storia e non mettergli ansia, che era una cosa gravissima vederlo in ansia, cercavo di parlargli della festa di compleanno che avrei fatto quella sera, dei piatti che aveva preparato mia mamma per noi. Lui ascoltava con attenzione, e dal suo aspetto era evidente che era già li, al tavolo, a mangiarsi tutto da solo.

Anche a Ferrovia, come da noi, i minorenni facevano le sentinelle, seguivano tutti i movimenti di chi entrava e usciva e poi li segnalavano agli adulti. Così siamo stati subito individuati da un gruppetto di bambini tra i sette e i dieci anni. Stavamo attraversando il primo cortile del quartiere e lo ro erano seduti li in un angolo, una zona strategica dove si vedevano bene tutte e due le strade che dal parco portavano al quartiere. Uno di loro, il pili piccolo, ha ricevuto un ordine da un altro più grande, dopo di che si è alzato e si è messo a correre come una pallottola verso di noi. Nel nostro quartiere non si faceva cosi: se bisognava avvicinarsi a qualcuno che stava entrando si andava in gruppo, non si mandava mai uno solo, tanto meno il più piccolo. E di solito non si andava proprio incontro a nessuno, dovevi fare in modo che fossero gli altri a venire da te, Così fin dall'inizio ti mettevi in una posizione di superiorità.

Il ragazzino aveva una faccia da piccolo tossico, era magro e con due cerchi blu intorno agli occhi, chiaro segno che respirava colla: molti bambini di Ferrovia usavano sballarsi a quel modo. Noi li prendevamo per il culo, chiamandoli «fidanzati del sacchetto», perché si portavano sempre dietro un sacchetto di nylon. Ci mettevano dentro un po' di colla e poi infilavano la testa nel sacchetto. Molti morivano Così, asfissiati, perché non avevano neanche pili la forza di togliersi il sacchetto dalla testa; li trovavano in quantità pazzesca sparsi in vari buchi della città, nelle cantine o nei locali delle caldaie, che loro trasformavano in rifugi.

Insomma, 'sto ragazzino si è piazzato davanti a noi, s'è asciugato sulla manica della giacca il naso che gli colava e con la voce rovinata dai residui di colla ha detto:

– Ehi, fermatevi, dove state andando?

Per fargli capire chi eravamo gli ho fatto un corso accelerato d'educazione.

– Ma dove hai messo le buone maniere, le hai lasciate in tasca insieme al tuo fidanzato di nylon? Non ti hanno insegnato che ci sono posti dove per non aver salutato la gente si può finire come un baklan [Nome dispregiativo con cui vengono chiamati coloro che non rispettano le norme che regolano il comportamento tra criminali]? Torna dai tuoi amici, e digli che vengano tutti e si presentino come si deve, se vogliono parlare. Altrimenti andremo avanti facendo finta di non averli visti!

Alle mie ultime parole già si vedevano i suoi tacchi alzare la neve.

Presto è arrivata tutta la delegazione con il capo in testa, un ragazzetto sui dieci anni che per darsi un tocco criminale si girava in mano il cè'tki, un attrezzo fatto di pane usato dai borseggiatori per allenarsi le dita, renderle più agili e sensibili.

Ci ha guardati un po' e poi ha detto:

– Mi chiamo «Barba», buon giorno, dove state andando? -Nella sua voce si sentiva una nota spenta. Doveva essere anche lui rovinato dalla colla.

– Io sono Nicolai «Kolima», – ho risposto. – Lui è Andrej «Mei», siamo di Fiume Basso. Abbiamo una lettera da portare a uno dei vostri vecchi.

Barba si è come risvegliato.

– Conoscete di persona quello a cui dovete portarla? – ha chiesto con tono improvvisamente gentile. – Sapete la strada o avete bisogno di qualcuno che vi accompagna?

Strano, ho pensato. Mai successo che qualcuno di Ferrovia si offra di accompagnarti, sono famosi per la loro scortesia. Forse, mi sono detto, hanno ricevuto qualche ordine che gli impedisce di lasciare andare da soli quelli che entrano nel quartiere. Ma ci sarebbe da impazzire a seguire tutti, dovrebbero andare avanti e indietro giorno e notte.

Noi non conoscevamo né il destinatario né la strada.

– La lettera è per uno che si chiama Fédor «il Dito», se ci spiegate la strada lo troveremo da noi, grazie -. Cercavo di liberarmi dalla sua proposta di accompagnarci, non so perché ma sentivo qualcosa di poco buono in quell'offerta.

– Allora ve la spiego, – ha detto Barba, e ha cominciato a dire che dovevamo andare di là, svoltare di li, e poi ancora di là, e di nuovo di li. Insomma, mi sono accorto dopo pochi secondi, visto che conoscevo bene quel quartiere, che voleva farci fare un sacco di strada inutile. Però non riuscivo a capire il perché, e Così ho continuato ad ascoltarlo fino alla fine facendo finta di niente. Poi ho detto apposta, come a dargli ragione:

– Eh già, sembra proprio complicato. Non troveremo mai la strada da soli.

Lui si è illuminato come una moneta appena uscita dallo stampo:

– Ve l'ho detto, senza l'aiuto di una guida…

– Allora aggiudicato, – ho concluso io sorridendo. – Andiamo, facci strada!

L'ho chiesto proprio a lui per valutare la gravità della situazione. Ogni capo di un gruppo che sorveglia un quartiere non abbandona mai la sua postazione, nel caso manda uno dei suoi. La mia era una specie di prova: se rifiutava di accompagnarci bene, potevo stare tranquillo, se invece accettava voleva dire che aveva l'ordine di portarci da qualche parte, e che stavamo per finire in un brutto guaio.

– Perfetto, andiamo! – ha risposto lui quasi cantando. – Dico solo due parole alla mia kontora e arrivo. Mentre Barba parlava in un angolo con i suoi, ho condiviso con Mel le mie preoccupazioni. Io li gonfio, – ha tagliato corto lui.

Gli ho detto che non mi sembrava una gran buona idea. Se li gonfiavamo, poi dovevamo abbandonare subito il quartiere senza consegnare la lettera. E che figura ci facevamo davanti al nostro Guardiano?

– Una figura da imbecilli, Mei, da veri imbecilli. Che gli diciamo? «Non abbiamo consegnato la lettera perché

sospettavamo qualcosa di strano, e allora abbiamo massacrato di botte dei bimbi di nove anni che neanche stavano in piedi, storditi com'erano dalla colla»?

Gli ho proposto un piano diverso, più rischioso: farci accompagnare da Barba e al primo posto comodo «spaccarlo», che nel nostro gergo significa tirare fuori con la violenza la verità che nasconde una persona.

Dovevamo capire cosa c'era in gioco contro di noi – spiegavo a Mel – e farci dare l'indirizzo giusto di questo Dito. Se scoprivamo che c'era un rischio grosso, potevamo tornare indietro e raccontare tutto al nostro Guardiano; se invece il rischio era basso consegnavamo la lettera, e tornando a casa raccontavamo tutto lo stesso, Così diventavamo gli eroi del quartiere.

L'ultima parte del mio discorso gli è piaciuta moltissimo. L'idea di tornare a Fiume Basso con una storia gloriosa da raccontare lo attirava decisamente. Già batteva le mani, per applaudire alla mia geniale strategia. Io sorridevo e lo rassicuravo che sarebbe andato tutto bene, ma dentro di me avevo qualche dubbio in proposito.

I ragazzini di Barba intanto stavano radunati in cerchio intorno a lui, a qualcuno scappava una risata, guardandoci. Per loro eravamo già finiti in trappola e tutto era stato Così facile…

Ho detto a Mel di comportarsi come se nulla fosse, e quando Barba è tornato da noi Mel gli ha fatto un sorriso Così largo e falso che mi sono sentito sprofondare.

Siamo partiti. Barba camminava tra noi due, parlavamo del più e del meno. Abbiamo superato una decina di cortili vuoti: con il freddo che faceva la gente se ne stava in casa.

Siamo passati vicino a una vecchia scuola, chiusa e semidistrutta, dove d'estate si radunavano i ragazzi di Ferrovia per fare casino tutti insieme. Li due anni prima era stata brutalmente ammazzata una ragazza minorenne, una povera sventurata senza famiglia, costretta a prostituirsi per sopravvivere. Erano proprio i suoi amici, altri minorenni come lei, a costringerla a prostituirsi per loro, e poi le prendevano quei pochi soldi che guadagnava. L'hanno ammazzata perché voleva uscire dal giro e andare a vivere in un altro quartiere, dove aveva trovato lavoro come aiuto sarta.

La storia era sconvolgente, perché l'avevano violentata e torturata per quasi tre giorni di fila, tenendola legata a un vecchio telaio di un letto senza la rete: lei era sempre li, sospesa, i polsi e le caviglie non avevano retto il peso del suo corpo e si erano spezzati. L'hanno trovata con tagli ovunque e segni di bruciature di sigarette in faccia, nell'ano le avevano infilato una chiave idraulica di grosse dimensioni, e nella vagina un bollitore elettrico con cui l'avevano ustionata poco alla volta, per farla soffrire di più.

Nei primi tempi la gente di Ferrovia aveva cercato di nascondere quest'orribile assassinio, ma presto tutta la città aveva saputo e le autorità criminali erano intervenute. Avevano ordinato al Guardiano di Ferrovia di trovare in pochi giorni tutti i responsabili, ammazzarli di botte a bastonate e appendere i loro corpi sulla scena del delitto per una settimana, poi seppellire i cadaveri in una tomba senza croce e nessun segno di riconoscimento.

E Così era stato. Anche noi eravamo andati a guardare i corpi dei bastardi assassini appesi per le gambe sulla veranda della scuola vuota, erano gonfi come palloni e tutti neri dalle botte. Io avevo distolto lo sguardo, che poi mi era caduto sui muri: erano molto spessi; avevo pensato che mentre la ragazza veniva torturata nessuno aveva sentito le sue urla. Dev'essere difficile e terrificante morire in quel modo, sapendo che a due passi dall'inferno in cui ti trovi la gente sta rilassata in casa sua, fa le sue cose di sempre e non immagina neanche un minimo di quel dolore che stai provando. Mi veniva da piangere al pensiero di questo dettaglio: «Tutto il rumore che si può fare qui dentro rimane qui», e questo era niente di fronte a tutto quello che doveva aver subito quella povera anima.


Davanti alla scuola, ho dato una leggera gomitata a Mei, facendogli capire che toccava a lui dare inizio alle danze.

– Non ce la faccio più, ragazzi, – ha detto subito lui, – devo proprio svuotarmi il sacco. Andiamo un attimo in un posto dove posso «aspettare il treno» tranquillo.

Barba ha guardato prima Mel e poi me con la faccia un po' preoccupata, forse voleva controbattere qualcosa ma non l'ha fatto per non insospettirci, e si è limitato a dire:

– Vabbe', dai, ti faccio vedere io un posto. Qui, dentro la scuola.

Appena siamo entrati, Mel gli ha dato una spinta sulla schiena e Barba è caduto sul pavimento gelato a pancia in giù. Si è girato verso di noi con una faccia terrorizzata:

– Che fate, siete impazziti? – ha chiesto con voce tremolante.

– Il pazzo sei tu, se credi di poterci prendere come due troie… – ho detto, mentre Mel a scopo dimostrativo apriva e chiudeva il suo coltello a scatto; se lo rigirava in mano quasi con tristezza e una specie di nostalgia, Così che la lama faceva mille riflessi sui muri sporchi e pieni di scritte volgari.

Io camminavo piano verso Barba e lui indietreggiava sul pavimento alla mia stessa velocità, finché non è arrivato contro il muro. Continuavo a parlargli fingendo di sapere tutto, per farlo sentire inutile e in pericolo:

– Siamo venuti qui apposta per farla finita con tutta questa storia… Vedrai, non è bello cercare di fregare quelli di Fiume Basso. Non fatemi del male, io non c'entro niente! – Barba ha cominciato a cantare prima del previsto. 

– Non so nulla della vostra storia, eseguo solo un ordine dell'Avvoltoio…

– Che ordine? – gli ho chiesto premendogli la punta dello stivale sul fianco.

– Che se si presenta la gente di Fiume Basso, noi dobbiamo portarla subito da lui! – Era quasi al limite dell'isteria, parlava con una vocetta gracchiante.

Mel si è avvicinato e ha cominciato a sfiorarlo con il coltello, spingendo poco alla volta la lama sotto i vestiti, e a ogni sua mossa quello piangeva sempre più forte, con gli occhi chiusi, implorando di non ammazzarlo. Implorava me, a dire il vero, perché pensava che Mel volesse ucciderlo a tutti i costi.

Io ho aspettato un po', per cuocerlo a dovere, e quando ho capito che era arrivato al punto in cui non poteva rifiutarmi niente ho fatto la mia proposta:

– Dimmi dove possiamo trovare Dito, noi gli consegnarne la lettera e tu ti salvi. Ma non provare a prenderci in giro, conosciamo bene il vostro buco di merda, e se ci mandi in un posto sbagliato ce ne accorgiamo. E se per caso non troviamo Dito ti facciamo secco, ma non con il coltello: ti ammazziamo di botte, rompendoti prima tutte le ossa…

In pochi secondi le sue parole hanno disegnato nell'aria, davanti ai miei occhi, la strada giusta per la casa di Dito.

Abbiamo deciso di chiudere Barba nella scuola perché non ci giocasse brutti scherzi. Nel seminterrato abbiamo trovato una porta che si poteva bloccare da fuori, mettendo un asse di legno contro la maniglia di ferro. La stanza era fredda e buia, un vero buco. Perfetto per Barba, che attendeva con umiltà di conoscere la sua sorte.

– Ti chiudiamo qui, e nessuno se ne accorgerà prima dell'estate. Se hai mentito e noi abbiamo problemi, se per caso ci seccano o ci fanno del male, rimani a marcire qui, muori da solo. Se tutto finirà bene, diremo a qualcuno dove sei e ti verranno a liberare. Chiaro? Potrai vivere, e ricordarti questa lezione personale che ti abbiamo fatto gratis.

Mel lo ha spinto dentro il buio, poi ha chiuso e sprangato la porta. Da dietro è partito un pianto disperato:

– Non lasciatemi qui, vi prego, non lasciatemi qui!

– Sta' zitto, sii uomo. E prega il Signore per noi, altrimenti sei morto!


La casa di Dito era lontanuccia, a un quarto d'ora di cammino. Dovevamo cercare di non attirare l'attenzione, ma pili c'inoltravamo nel quartiere più ci allontanavamo dalla possibilità di uscire bene da quella storia.

Intanto facevo mille ipotesi su cosa poteva averci riservato 'sto imbecille dell'Avvoltoio, e stranamente diventavo sempre pili curioso. Volevo assolutamente scoprire di che morte mi volevano far morire a Ferrovia. Non ero spaventato, ma agitato, come se stessi giocando a un gioco d'azzardo. Mel camminava tutto tranquillo e non mostrava nessun segno di dialogo interno. Aveva la sua solita espressione vuota, ogni tanto mi guardava e si faceva una piccola ghignata.

– Cazzo ridi, non capisci che siamo nella merda? – dicevo io, cercando di mettergli un po' di paura. Non per cattiveria, Così, per muovere le acque.

Ma niente da fare, era imperturbabile, sorrideva ancora di pili. – Li roviniamo tutti, Kolima, – gongolava. – Faremo un macello, un mare di sangue!

A dirla tutta, il macello era esattamente ciò che volevo evitare.

– Purché il sangue non sia nostro… – gli ho risposto, ma lui non mi sentiva neanche, camminava come uno che ha deciso di sterminare mezzo mondo.

Poi siamo arrivati a casa di Dito, e siamo saliti al secondo piano, fermandoci davanti alla sua porta. Mel ha alzato la mano per suonare il campanello, ma io l'ho fermato. Prima ho guardato dal buco della serratura, che era bello largo. Si vedeva un corridoio tutto sporco, con una lampadina accesa che dondolava in basso, come se qualcuno l'avesse tirata giù apposta. In fondo al corridoio, davanti a un televisore acceso, un uomo magro, con i capelli corti, si stava tagliando le unghie dei piedi con una lametta, come si fa in carcere.

Mi sono staccato dalla serratura e ho detto a Mel:

– Controlla se la lettera è a posto, poi suona. Quando Dito apre, lo saluti e ti presenti, poi presenti me. Non dire subito della lettera…

Non sono riuscito a finire che Mel mi ha interrotto:

– Magari m'insegni anche come andare al cesso? Non è la prima lettera che porto, so come comportarmi!

Mel ha premuto il campanello. Il suono era strano, s'interrompeva in continuazione, come se i cavi non facessero bene contatto. Abbiamo sentito lo scricchiolio del pavimento di legno a ogni passo di Dito. La porta si è aperta senza nessun rumore di serratura, non era chiusa a chiave. Davanti a noi è apparso un uomo di quarantanni, tutto coperto di tatuaggi e con i denti di ferro che gli luccicavano in bocca come gioielli. Era vestito con una canottiera e dei pantaloni leggeri, aveva i piedi nudi sul pavimento gelato.

Nell'appartamento faceva tanto freddo che potevamo vedere il suo respiro condensarsi in vapore bianco. Ci guardava tranquillo, sembrava un tipo regolare. Aspettava.

Mel non smetteva di fissarlo senza dire niente, e l'uomo ha alzato la mano e si è grattato il collo, come per far capire che il nostro silenzio lo metteva a disagio.

Ho dato un leggero calcio a Mel e lui è partito subito, sputando le parole come un mitra sputa le pallottole. Ha fatto tutto secondo le regole, dopo le presentazioni ha detto che portava una lettera. Dito ha subito cambiato faccia, ha sorriso e ci ha invitati a entrare. Ci ha portati a un tavolo con una pentola piena di cifir appena fatto.

– Dai, ragazzi, servitevi. Perdonatemi ma non ho nient'altro, solo questo. Sono appena uscito, l'altro ieri… Che casino la libertà, Così tanto spazio, mi gira ancora la testa…

Mi piaceva la sua ironia, ho capito che potevo rilassarmi.

Ci siamo seduti, dicendogli che non doveva preoccuparsi per noi. Mentre facevamo girare la tazza di cifir tra noi tre, Dito ha aperto la lettera del nostro Guardiano. Dopo qualche istante ha detto:

– Devo tornare con voi nel vostro quartiere, qua c'è scritto che m'invitano a parlare…

Io e Mel ci siamo guardati. Dovevamo raccontargli per forza la nostra avventura, è da infami portare una persona in giro senza dire che si è nei guai.

Ho deciso di parlare io, anche perché lasciare parlare Mel significava complicare le cose. Ho riempito i polmoni d'aria e ho buttato fuori tutto: la mia guerra con l'Avvoltoio, la trappola di Barba e della sua banda di giovani tossici, la scuola…

Dito ascoltava con attenzione, seguendo ogni piccolo particolare come fanno i carcerati. Le storie sono l'unico divertimento dei criminali in galera: si raccontano a vicenda la vita un pezzo per volta, a puntate, e quando finiscono passano alla vita di qualcun altro.

Alla fine gli ho detto che se non voleva correre pericoli venendo con noi, poteva rimandare la sua visita al giorno dopo. Lui si è opposto:

– Tranquilli, se capita qualcosa sono con voi.

Non ero contento, perché sapevo che a Ferrovia i giovani non rispettavano i vecchi. Spesso gli facevano gli agguati sotto casa, quando quelli tornavano ubriachi, e li picchiavano per prendere qualsiasi cosa avevano dietro, per poi mostrarlo agli altri come un trofeo. Dito poi non era un criminale autorevole, da quello che si leggeva nei suoi tatuaggi era uno che per qualche motivo si era affiancato ai siberiani in carcere: sul collo aveva una firma siberiana, il che voleva dire che la comunità lo proteggeva, forse perché aveva fatto qualcosa d'importante per noi.

Mentre io stavo pensando a tutto questo, Dito nel frattempo s'era già bell'e che vestito, con una giacca piena di cuciture, le scarpe rovinate, e una sciarpa verde che quasi toccava terra.


Per strada ci siamo messi a parlare. Dito ha raccontato che stava in carcere da quando aveva sedici anni. Era finito dentro per un incidente stupido: era ubriaco, e senza accorgersene aveva dato una bastonata un po' troppo forte a uno sbirro, che era morto sul colpo. Nel carcere minorile si era affiancato alla famiglia siberiana, perché – diceva – erano gli unici che stavano uniti e non picchiavano la gente, facevano tutto insieme e non obbedivano a nessuno. Nel carcere per adulti era arrivato già come membro della famiglia siberiana, e gli altri lo avevano accolto. Si era fatto ventanni di prigione, e quando stava per uscire un vecchio gli aveva proposto di andare a vivere nell'appartamento che avevamo visto.

Adesso voleva avvicinarsi alla gente del nostro quartiere: era quella – diceva – la sua famiglia. Per questo aveva chiesto alle vecchie autorità siberiane in prigione di contattare il Guardiano di Fiume Basso.

Si sentiva parte della nostra comunità, e questa cosa mi faceva piacere.

Camminando, mi era venuta un'idea. Visto che avevamo bisogno di rinforzi, avevo deciso di passare da un amico che abitava non troppo lontano. Era un ragazzo di nome «Geka», diminutivo di Evgenij. Ci conoscevamo da quando eravamo piccoli, lui era figlio di una pediatra molto in gamba che si chiamava zia Lora.

Geka era un ragazzo colto, sveglio ed educato, non faceva parte di nessuna banda, preferiva una vita tranquilla. Aveva tanti interessi e mi piaceva per questo, ero stato parecchie volte a casa sua ed ero affascinato dalla collezione di modellini di aerei da guerra, che montava e dipingeva lui. Sua madre mi permetteva di prendere alcuni libri dalla sua biblioteca, è Così che ho conosciuto Dickens e Conan Doyle, e soprattutto l'unico eroe letterario, sbirro e infame, che mi sia mai stato simpatico: Sherlock Holmes.

Geka passava tutta l'estate con noi sul fiume, gli abbiamo insegnato a nuotare, a fare la lotta, a usare il coltello in una rissa. Ma aveva gli occhiali, e per questo motivo faceva una pena infinita a mio nonno: portare gli occhiali per i siberiani è come sedersi volontariamente su una sedia a rotelle, è un segno di debolezza, una sconfitta personale. Anche se non vedi bene non devi mai metterti gli occhiali, per conservare la tua dignità e il tuo aspetto sano. Così, quando Geka veniva a casa nostra, nonno Boris lo portava nell'angolo rosso, s'inginocchiava insieme a lui davanti all'icona della Madonna siberiana e a quella del Salvatore siberiano, e poi, facendo mille segni della croce, pronunciava la sua preghiera, che Geka era obbligato a ripetere parola per parola:

«Oh Madre di Dio, Santa Vergine, patrona di tutta la Siberia e protettrice di tutti noi peccatori! Assisti al miracolo del Nostro Signore! Oh Signore Nostro, Salvatore e Compagno nella vita e nella morte, Tu che benedici le nostre armi e i nostri miserabili sforzi per portare la Tua legge nel mondo del peccato, Tu che ci rendi forti davanti al fuoco dell'inferno, non abbandonarci nei momenti di debolezza! Non per mancanza di fede, ma per amore e rispetto verso le Tue creature, Ti prego, fai un miracolo! Aiuta il Tuo schiavo miserabile Evgenij a trovare la Tua strada e a vivere nella pace e in salute, per cantare la Tua gloria! Nei nomi delle Madri, dei Padri, dei Figli e dei nostri risorti tra le Tue braccia, ascoltaci e porta la Tua luce e il Tuo calore nei nostri cuori! Amen!»

Finita la preghiera, nonno Boris si alzava sulle ginocchia e si girava verso Geka. Poi, facendo gesti solenni e spettacolari come a teatro, gli toccava con le dita gli occhiali e, dicendo la frase seguente, lentamente glieli sfilava:

«Come tante volte mi hai messo la Tua forza nelle mani per stringere il coltello contro gli sbirri, e hai indirizzato la mia pistola per colpirli con pallottole da Te benedette, dammi il Tuo potere per sconfiggere la malattia del Tuo umile schiavo Evgenij!»

Tolti gli occhiali, partiva subito la domanda a Geka:

«Allora dimmi, mio angelo, adesso ci vedi bene?»

Per rispetto verso di lui Geka non aveva cuore di dirgli di no.

Nonno Boris si girava verso le icone e ringraziava il Signore con le consuete formule:

«Che sia fatta la Tua volontà, Nostro Signore! Finché siamo vivi e protetti da Te, il sangue degli sbirri, dei diavoli infami e dei servitori del male scorrerà in abbondanza! Ti siamo riconoscenti per il Tuo amore».

Poi chiamava tutta la famiglia e annunciava che era appena avvenuto un miracolo. Alla fine restituiva gli occhiali a Geka davanti a tutti, dicendo:

«E adesso, mio angelo, adesso che vedi, rompi 'sti occhiali inutili!»

Geka li metteva in tasca, bofonchiando:

«Non ti arrabbiare, nonno Boris, li romperò più tardi».

Mio nonno gli accarezzava la testa e diceva con la voce dolce e piena di gioia:

«Rompili quando vuoi, figliolo, basta che tu non li metta mai più».

La volta dopo, per non farlo arrabbiare, Geka si presentava a casa nostra senza occhiali, se li toglieva fuori dalla porta, prima di entrare. Nonno Boris, vedendolo, diventava tutto una gioia completa.


Beh, tornando a noi: Geka viveva insieme a sua madre e a uno zio che aveva alle spalle una storia incredibile, era una specie di materializzazione della rabbia divina, della condanna vivente a cui era destinata questa simpatica e buona famiglia. Si chiamava Ivan, e la gente l'aveva soprannominato «il Terribile». Il paragone con il grande tiranno era ironico, perché Ivan era buono come il pane. Era un uomo sui trentacinque anni, basso e magro, con i capelli e gli occhi neri, e le dita delle mani disumanamente lunghe. Era stato un musicista di professione, prima di cadere in disgrazia; a diciotto anni suonava il violino in un'orchestra importante, a San Pietroburgo, e la sua carriera di musicista sembrava andare in salita come un missile intercontinentale sovietico. Ma un giorno Ivan era finito nel letto di una simpatica troia di quell'orchestra, una violoncellista, moglie di un importante membro del partito comunista. Aveva perso la testa per lei, aveva reso pubblica la loro relazione ed era arrivato persino a chiederle di separarsi dal marito. Povero ingenuo musicista, non sapeva che i membri del partito non avevano il diritto di divorziare, perché loro e le loro famiglie dovevano essere un esempio di «cellula» perfetta della società sovietica. E che razza di cellula siete, se divorziate quando vi pare? Le nostre cellule devono essere dure come acciaio, o meglio dello stesso materiale con cui si fabbricano i nostri carri armati e i famosi fucili d'assalto Kalasnikov. Avete mai visto un carro armato sovietico difettoso? O un Kalasnikov che s'inceppa? Le famiglie devono essere perfette come le armi.

Quindi il nostro Ivan, appena ha provato a seguire i sentimenti del suo cuore, è rimasto schiacciato dalla manifestazione del potere del marito della sua amante, esibita attraverso il brutale intervento di alcuni agenti dei servizi segreti sovietici, che a furia di sieri lo hanno ridotto a una larva.

Ufficialmente era sparito, nessuno sapeva dove, tutti erano convinti che fosse scappato dall'Urss attraverso la Finlandia. Dopo alcuni mesi è stato trovato in una struttura per malati mentali, dove lo avevano internato raccogliendolo dalla strada in un grave stato di confusione mentale. Non ricordava neanche il suo nome. L'unica cosa che aveva con sé era il suo violino: grazie a quello i medici sono risaliti all'orchestra, e più tardi hanno potuto riconsegnarlo alla sorella.

La salute di Ivan ormai era rovinata per sempre, la sua faccia era quella di uno assalito da un lungo ed enorme dubbio. Comunicava senza problemi, però aveva i suoi tempi per riflettere sulle domande e pensare alle risposte, tempi decisamente più lunghi del normale.

Continuava a suonare il violino, era l'unica cosa che lo legava al mondo reale, una specie d'ancora grazie a cui era rimasto aggrappato alla vita. Si esibiva due volte alla settimana in un locale del Centro e poi si ubriacava fino a stordirsi del tutto, da ubriaco – diceva – riusciva ad avere momenti di assoluta lucidità mentale, che purtroppo passavano in fretta.

Il suo fedele compagno di vita, che da sempre condivideva con lui tutte le feste alcoliche, era un altro poveraccio di nome Fima, che aveva avuto una meningite a nove anni e da allora aveva perso il senno. Era molto violento, Fima, vedeva nemici dappertutto: quando entrava in un posto nuovo infilava la mano destra dentro il cappotto come per tirare fuori una pistola immaginaria. Era cattivo e piantagrane, ma nessuno gli diceva niente perché era malato. Girava sempre con un cappotto da marinaio e urlava detti da marinai, tipo «Siamo pochi, ma abbiamo le maglie a righe!», o «Motori al massimo! Cento ancore nel culo, affondate 'sto catino di merda fascista!» Fima divideva il mondo in due categorie: i «nostri», cioè la gente a cui dava confidenza e che considerava suoi amici, e i «fascisti», cioè tutti quelli che considerava nemici e quindi da picchiare e offendere. Non si sapeva come faceva a decidere chi era «nostro» e chi «fascista», lo intuiva basandosi su qualche suo sentimento nascosto profondamente.

Insieme, Ivan e Fima combinavano parecchi guai. Se Fima era scatenato, Ivan picchiava con una violenza naturale, si buttava addosso alla gente come una bestia sulla preda.

Insomma, per queste loro virtù, speravo proprio di trovarli in casa.


Quando siamo arrivati, Geka, Ivan e Fima stavano giocando in sala a battaglia navale.

Geka era rilassato e rideva, prendendo in giro i suoi compagni di gioco:

«Bul-bul-bul», ripeteva scherzando, imitando il rumore di una nave che affonda.

Fima, con le mani tremolanti, stringeva sconsolato il suo foglietto: la situazione della sua flotta doveva essere disperata.

Ivan stava tutto mogio in un angolo, e il suo foglietto buttato a terra significava che aveva appena perso la partita. Teneva tra le mani il suo violino e suonacchiava qualcosa di strano, molto lento e triste, che somigliava a un urlo lontano.

Ho spiegato in due parole a Geka la nostra situazione e gli ho chiesto se poteva aiutarci ad attraversare il quartiere.

Lui ha accettato subito, e Fima e Ivan l'hanno seguito come due agnelli pronti a trasformarsi in leoni.

Siamo usciti in strada, io guardavo la nostra banda e non ci credevo, che nel giorno del mio compleanno dovevo finire in una storia del genere che stava diventando sempre più incredibile: due minorenni siberiani e un adulto appena uscito di galera – accompagnati dal figlio di una dottoressa e da due pazzi furiosi – che cercano di uscire salvi dal quartiere dove gli danno la caccia.


Geka e io camminavamo avanti, gli altri ci seguivano. Mentre chiacchieravo con Geka, sentivo Mel raccontare a Dito una delle sue storie miracolose, quella del grosso pesce che aveva risalito tutto il fiume controcorrente fino al nostro quartiere, attirato dal profumo della marmellata di mele di zia Marta. Ogni volta che Mel raccontava quella storia, il momento più buffo era quando faceva vedere quant'era grande 'sto pesce. Apriva le braccia come Gesù crocefisso e con una fatica nella voce strillava: «Una bestia grossa cosi-i-i-i». Inattesa di quella frase con un orecchio, mentre con l'altro ascoltavo Geka, io mi sentivo proprio bene. Mi sembrava di fare una passeggiata con gli amici, senza pericoli.

Quando Mel ha finito la sua storia, Fima ha commentato:

– Cazzo, sapessi quante bestie del genere ho visto io dalla mia nave! Le balene mi hanno rotto i coglioni, il mare è pieno di quelle porcherie!

Mi sono girato per vedere che faccia faceva mentre diceva quelle parole, e ho visto qualcosa volare vicino al mio viso, talmente vicino da toccarmi quasi la guancia. Era un pezzo di mattone. In quel momento Geka ha urlato:

– Merda, un'imboscata! – e da due cortili opposti sono usciti una decina di ragazzi armati di bastoni e coltelli, che correvano verso di noi gridando:

– Ammazziamoli, ammazziamoli tutti!

Ho messo la mano in tasca e ho preso la mia picca. Ho premuto il pulsante e con un ciac la lama, spinta dalla molla, è saltata fuori. Ho sentito la schiena di Mel appoggiarsi alla mia e la sua voce dire:

– Adesso faccio fuori qualcuno!

– Colpisci solo le cosce, idiota, sono pieni di giornali sotto le giacche, non vedi che si sono preparati? Ci aspettavano… – non sono riuscito a finire la frase che mi sono visto davanti un ragazzone armato di un bastone di legno. Tentava di colpirmi la testa. Ho sentito sibilare il suo bastone vicino alle orecchie una volta, poi un'altra, era veloce quel bastardo. Cercavo di avvicinarmi a lui per colpirlo con la lama, ma non facevo mai in tempo, le sue bastonate diventavano sempre più precise e veloci, rischiavo di rimanere colpito. Improvvisamente un altro mi ha attaccato di schiena, mi ha spinto forte e sono finito proprio contro il gigante con il bastone. D'istinto, gli ho dato tre coltellate velocissime sulla coscia, Così veloci che subito dopo ho sentito una scossa nel braccio, una specie di corrente elettrica, per la tensione superata. La neve sotto di noi si è macchiata di sangue, il gigante mi ha dato una gomitata in faccia ma io ho continuato a colpirlo finché non è caduto a terra, stringendo la sua gamba nella neve rossa di sangue, facendo smorfie di dolore.

Da dietro, quello che prima mi aveva spinto ha cercato di accoltellarmi su un fianco, ma io ero magro e il mio giubbotto era grosso, e lui non è riuscito a raggiungere la carne. Il giubbotto però si è strappato, e la sua mano è finita dentro il buco insieme al coltello. Io mi sono girato e l'ho ferito con la picca, prima sul naso e poi sopra l'occhio: la sua faccia si è subito coperta di sangue. Quello cercava di tirar fuori la mano dal buco del mio giubbotto, ma il suo coltello era rimasto intrappolato nella stoffa, Così lo ha abbandonato li. Si è preso la faccia tra le mani e urlando si è buttato sulla neve, lontano da me.

Ho messo due dita dentro il buco del giubbotto e accuratamente ho tirato fuori la lama: era un coltello da caccia, largo e molto affilato. «Porca troia, – ho pensato, – se mi prendeva ci rimanevo secco. Quando torno a casa metto una candela davanti all'icona della Madonna».

Passando sopra il corpo del nemico e stringendo il suo coltello nella mano sinistra, sono andato incontro a Geka, che da terra cercava di evitare i colpi di un bastone impugnato da un ragazzo robusto. Geka si appoggiava sul braccio destro e con quello sinistro cercava di parare il parabile. Ho sorpreso il suo aggressore alle spalle e gli ho affondato la lama della picca nella coscia.

La lama del mio coltello era bella lunga ed entrava bene dentro la carne, era l'ideale per disattivare le persone, perché penetrava senza problemi nei muscoli fino a toccare le ossa.

Con il coltello da caccia, contemporaneamente, gli ho tagliato i legamenti dietro il ginocchio dell'altra gamba. Con un grido di dolore, il ragazzo robusto è caduto a terra.

Geka si è alzato in piedi, ha raccolto il bastone e insieme ci siamo buttati verso Mei, che aveva preso uno e urlando come un matto lo stava colpendo con il coltello nella zona dello stomaco, mentre in tre tentavano di fermarlo scaricandogli sulla testa e sulla schiena bastonate su bastonate. Se ne prendevo io Così tante morivo di sicuro, solo grazie al suo fisico Mel riusciva a tenersi in piedi.

Mi sono lanciato con il coltello contro uno che stava per dare una potente bastonata sulla testa di Mei. Sono arrivato da dietro, e gli ho tagliato un legamento.

Geka ha colpito sulla testa un altro che è subito svenuto, dal suo orecchio ha iniziato a uscire sangue. Il terzo è scappato verso uno dei cortili da dove un attimo prima erano usciti tutti loro.

Fima e Ivan, intanto, armati di bastoni, stavano massacrando vicino al marciapiede due tipi che erano caduti a terra. Uno era ridotto molto male, Fima sicuramente gli aveva spaccato il naso e la faccia era piena di sangue; alzava le mani tremolanti per istinto, per coprirsi la faccia dalle botte, ma Fima lo colpiva lo stesso, con Così tanta violenza che il bastone rimbalzava su quelle mani come se fossero di legno, tipo quelle di un burattino: era evidente che Fima gliele aveva rotte. Pieno di rabbia, furioso, Fima lo picchiava urlando:

– Chi è che vuole ammazzare un marinaio sovietico? Eh? Allora? Chi è 'sto fascista di merda?

Ivan nel frattempo cercava di bastonare la faccia dell'altro aggressore, che era bravo a scansare i colpi girandosi da una parte e dall'altra. Ce l'aveva quasi fatta, a un certo punto, ma all'ultimo ha mancato la faccia e il bastone di Ivan ha sbattuto contro l'asfalto gelato, coperto di neve rossa, rossa del sangue che appena cadeva a terra diventava duro come ghiaccio. Il bastone si è rotto in due, Ivan si è arrabbiato e ha buttato via il pezzo che gli era rimasto in mano. Poi ha fatto un salto a piedi uniti sulla testa del ragazzo e ha cominciato a pestargli la faccia con i piedi, lanciando uno strano urlo di guerra, come quelli degli indiani che attaccano i cowboy nei western americani.

Erano veramente pazzi, quei due.

In un attimo, lo scontro era già finito.

Dall'altra parte della strada c'era Dito, stringeva nelle mani un coltello e un bastone, e sotto i suoi piedi c'era un ragazzo con un taglio che partiva dalla bocca e finiva in mezzo alla fronte: troppo profondo, brutta roba. Il ragazzo era sdraiato, cosciente ma immobile, credo terrorizzato dal sangue e dal dolore.

Mel teneva stretto per il bavero il tipo che prima aveva colpito in pancia con il coltello. Guardava stupito la sua lama, spezzata in due. Mi sono avvicinato a lui e ho strappato con un gesto secco la giacca del tipo, tutta piena di buchi. Sulla neve sono caduti una ventina di giornali spessi, incollati uno all'altro: da quel pacco di carta spuntava la parte mancante della lama di Mei.

Sorpreso e incredulo, Mel guardava quella scena come se fosse uno spettacolo di magia.

Ho preso da terra il pacco di carta, l'ho tenuto un po' in mano, soppesandolo. Poi, mettendoci tutta la forza che avevo, ho dato una sberla in faccia a Mel con quel fascio di giornali, provocando un forte rumore, come quando un'ascia spacca il ceppo di legno.

La sua guancia è diventata subito rossa, Mel ha mollato il collo del ragazzo e si è portato la mano sulla zona colpita. Con voce agitata mi ha chiesto:

– Che ti è preso? Perché diavolo ce l'hai con me?

L'ho colpito una seconda volta e lui ha fatto due passi indietro, mettendo una mano davanti, per fermarmi.

Gli ho risposto:

– Cosa ti avevo detto, cretino, colpire le cosce, non il torso! Mentre tu facevi il coglione con quel tossico e ti pigliavi mazzate dai suoi tre amici, io ho beccato la lama seria. Cazzo, c'è mancato un pelo, per poco non mi seccavano! E tu dov'eri, perché non mi hai coperto le spalle?

Lui ha subito fatto una faccia tristissima – sguardo basso, testa china, la bocca leggermente aperta – e con la voce di chi chiede l'elemosina si è messo a brontolare frasi incomprensibili, come faceva ogni volta che aveva torto:

– Ha-m-m-m… Kolima… nou-ou-ou volevo solo-o-o-o… ghm-hm-hm… scusa-a-a-a…

– Scusa un bel cazzo, – l'ho interrotto io. – Voglio tornare a casa e festeggiare il mio compleanno, non il mio funerale. E allora ascoltami quando parlo. Non è il momento di fare i coglioni, ci rimettiamo la pelle in questa faccenda di merda. E non dimenticare che non siamo soli, ci sono delle persone con noi, ci danno una mano, non possiamo esporli troppo. E meno male che ci sono, perché con un amico come te sarei già morto.

Mel si è fatto ancora più piccolo e, come sempre in quelle occasioni, ha preso la forma della mia ombra personale. Ha cominciato a coprirmi le spalle, anche se con un leggero ritardo.

La strada somigliava al luogo di una strage, tutta la neve era rossa di sangue, gli aggressori si trascinavano ai bordi del marciapiede, decisamente malridotti.

Mi sono avvicinato a quello che Mel aveva tentato di accoltellare: era spaventato, anche se non aveva addosso neanche un graffio. Dovevo fare il cattivo. L'ho preso per il collo e ho tentato di tirarlo su, ma non riuscivo ad alzarlo, era più pesante di me, allora mi sono abbassato io, gli ho punzecchiato la coscia con il coltello, fino a quando ha cominciato a uscire un po' di sangue. Lui ha urlato e si è messo a piangere, chiedendomi di non ammazzarlo. Gli ho dato una sberla forte, per farlo smettere:

– Chiudi il becco, finocchietto! Lo sai contro chi ti sei messo, coglione? Lo sai che noi di Fiume Basso veniamo battezzati coi coltelli? Pensavi veramente di poterci ammazzare? Faccio risse da quando avevo sette anni, ne ho aperti Così tanti di quelli come te che non mi basterebbe una vita a contarli.

Esageravo un po' sulla quantità delle vittime, ovvio, ma dovevo spaventarlo, seminare paura, perché il nemico terrorizzato è già metà sconfitto. I prossimi (non dubitavo che presto ci saremmo battuti con gli altri) dovevano avere la cresta bassa, ecco.

– Per questa volta non ti ammazzo, dato che oggi è il mio compleanno e dato che è la prima volta che ci scontriamo, ma se ti becco ancora sulla mia strada non avrò nessuna pietà. Quando vedi l'Avvoltoio, digli che Kolima gli manda i suoi saluti, e che se lo incontro entro stasera lo apro come un maiale…

Quel povero coglione, con il sangue che gli usciva dalla coscia e la faccia terrorizzata, mi guardava come se mi stessi appropriando della sua anima.

Ci siamo rimessi per strada: Fima con un grande bastone, Ivan con un manganello rotto che aveva recuperato da terra, Geka con una spranga di ferro, Dito con un coltello e un bastone, io con due coltelli in tasca, e infine la mia seconda ombra con la faccia umile, un bastone e un coltello spezzato a metà in mano.

Mentre ci allontanavamo, dal cortile hanno cominciato a uscire i «sopravvissuti». Eravamo lontani una ventina di metri, quando uno di loro ci ha gridato dietro:

– Bastardi siberiani! Tornate nel vostro bosco di merda! Vi ammazzeremo tutti!

Mel si è girato e gli ha lanciato addosso il suo coltello spaccato. E stato un attimo. Il coltello di Mel ha fatto una strana traiettoria e ha colpito in piena faccia uno che stava vicino a quello che aveva gridato. Ancora sangue, quindi, e tutti che scappavano di nuovo, lasciando sulla neve un altro compagno ferito.

– Cristo Santo, che macello… – ha detto Geka.


Camminavamo veloci. E quando uscivamo in spazi larghi, aperti, quasi correvamo. Cercavamo di evitare i cortili e le strettoie.

Abbiamo superato l'ultima fila di case davanti ai magazzini alimentari e ci siamo nascosti tra i garage e i box auto abusivi. Io ho proposto di esplorare per bene la zona, prima di attraversare la strada in gruppo: sentivo che ci aspettavano delle sorprese.

– Sentite, – ho detto. – Io mi tolgo il giubbotto Così corro più veloce. Attraverso la strada più in giù, dove fa la curva e si perde tra gli alberi, poi vado fino ai magazzini e guardo com'è la situazione. Se ci aspettano in tanti, passiamo da un'altra parte. Se sono in pochi li prendiamo da dietro, e li mischiamo con la merda… Ci metterò un quarto d'ora, non di più, voi intanto guardate nei garage, magari c'è qualcosa di utile da usare come arma, però attenti a non attirare l'attenzione…

Erano tutti d'accordo, solo Mel non voleva lasciarmi andare da solo, era preoccupato.

– Kolima, vengo con te, può succedere di tutto…

Non potevo dirgli che era un peso, dovevo trovare una maniera più morbida.

– Mi servi qui. Se scoprono dove siete tocca a te difendere il gruppo. Io da solo riesco a scappare da qualsiasi merda, ma loro?

A quelle parole Mel è diventato serio, e sulla faccia gli è apparsa la stessa espressione che potevano avere i kamikaze giapponesi prima di salire sui loro aerei.

Mi sono tolto il giubbotto e stavo già per andare, ma Mel mi ha fermato mettendomi in mano la spranga di ferro, e con la voce tremante mi ha detto:

– Ti potrà servire…

Io lo guardavo meravigliato: ma quanto idiota era, e quanto bene mi voleva quell'essere umano!

Meno cose mi portavo nelle mani meglio era. Ma per evitare inutili spiegazioni ho preso la spranga e sono partito di corsa. L'ho buttata appena sono sparito dietro i garage. Andavo veloce, l'aria era fredda e si respirava bene.

Arrivato alla curva, ho attraversato la strada e mi sono diretto verso i magazzini. Da lontano ho visto una dozzina di ragazzi seduti intorno a un bidone di ferro, dove avevano acceso un fuoco per scaldarsi. Ho contato i bastoni e le spranghe appoggiate al muro. Ho aspettato un po', per assicurarmi che non ci fosse nessun altro, poi sono tornato indietro.

Quando li ho raggiunti, i miei amici avevano già aperto cinque garage. Mel aveva svuotato un armadietto di attrezzi per il giardinaggio e si era fatto un'arma con una piccola zappa che aveva da una parte una lama di ferro per zappare e dall'altra una piccola forca, credo per raccogliere qualcosa; non so un bel niente di giardinaggio, nel nostro quartiere i giardini servivano solo per nascondere le armi.

Mel si era anche riempito le tasche di dischi di ricambio per la sega circolare, erano rotondi e con grandi denti taglienti.

– Che vuoi fare con quella roba? Pensi di poter affettare la gente?

– No, li uso come arma da tiro, – ha risposto lui con orgoglio, e ho visto il suo occhio brillare come succedeva ogni volta che stava per combinare una cazzata.

– Mel, questo non è un gioco. Cerca di non colpire nessuno di noi, altrimenti sarò costretto a infilartele tutte nel culo, 'ste armi da tiro.

Lui ha fatto la faccia offesa ed è uscito dal garage a testa bassa.

Fima girava con un'ascia enorme, cosa che mi preoccupava molto, allora l'ho convinto ad abbandonarla per un bel pezzo di tubo d'acciaio inossidabile:

– Guarda come brilla, – gli ho detto. – Sembra una spada, no?

Lui ha afferrato il tubo senza commenti, gli occhi pieni di voglia di combattere.

Ivan invece si era procurato un'accetta lunga, di quelle che si usano per spaccare i rami. GliePho tolta dalle mani sostituendola con una spranga di ferro. Erano troppo violenti, quei due, e avrebbero fatto un vero macello, bisognava alleggerire i loro armamenti.

Dito aveva trovato un massiccio e lungo manico d'ascia, Geka un grosso cutter e un bastone di legno pesante.

Perfetto.

Io ho ispezionato uno dei garage, rimediando una cassa di bottiglie vuote. Mi era venuta un'idea: volevo fare una cosa orrenda ma molto utile nella nostra situazione. Ho dato un'occhiata agli altri garage, in uno c'era la sabbia per conservare le mele d'inverno. Ho chiamato Geka, ci siamo armati di un tubicino e abbiamo succhiato la benzina dai serbatoi delle macchine.

Abbiamo riempito tutte le bottiglie di benzina mischiata a sabbia, e con dei vecchi stracci raccolti sul posto abbiamo fabbricato i tappi.

Le molotov erano pronte.

Abbiamo fatto una riunione veloce, in cui io ho proposto il mio piano elementare:

– Attraversiamo la strada direttamente da qui e arriviamo al muro del magazzino, poi strisciamo verso di loro avvicinandoci il pili possibile. Si aspettano di vederci spuntare dall'altra parte, noi li prendiamo di sorpresa attaccandoli con le molotov, e poi giù botte. Solo Così abbiamo una possibilità di uscire dal quartiere sulle nostre gambe.

Erano tutti d'accordo.

Abbiamo attraversato la strada correndo tutti insieme, velocissimi. Una volta arrivati al muro, abbiamo rallentato. Io e Geka portavamo la cassa piena di molotov.

A un tratto abbiamo cominciato a sentire le loro voci: era no proprio dietro l'angolo. Ci siamo fermati. Io mi sono sporto un po' in avanti e ho sbirciato: la loro posizione era un bersaglio perfetto. Stavano tutti appiccicati al muro, intorno al fuoco del bidone.

Uno di loro lo conoscevo, era un coglione che aveva quattro anni più di me, un imbecille nato, si chiamava Briciolo. Aveva ammazzato tre gatti di una vecchietta sua vicina e poi si era vantato con chiunque di quest'impresa eroica per un sacco di tempo, era un vero sadico.

Un giorno eravamo tutti insieme a fare il bagno in una spiaggia sul fiume, e uno dei ragazzi del nostro quartiere, Stas, soprannominato «Bestia» – uno davvero cattivo, uno arrabbiato con tutto il mondo – l'ha sentito raccontare quella sua bravata dei gatti. Bestia non ha fatto tante storie, si è avvicinato a lui, gli ha preso le mani e gliele ha schiacciate Così forte che si è sentito il rumore delle ossa rotte. Briciolo è sbiancato ed è svenuto, le mani gli sono diventate gonfie e viola come due palloncini. I suoi lo hanno portato via. Dopo ho sentito dire che gli avevano messo a posto le mani, in ospedale, e che lui aveva ripreso a fare la sua vita da coglione, dicendo in giro che un giorno si sarebbe vendicato. Ma non ha fatto in tempo, perché Bestia è morto poco dopo, ucciso in una sparatoria con gli sbirri. Così Briciolo se l'è presa con tutto il nostro quartiere e ha fatto un patto con l'Avvoltoio, promettendo di distruggerci. Girava voce che avevano anche celebrato una messa nera nel cimitero della città, durante la quale tutti noi ragazzi di Fiume Basso eravamo stati maledetti.


Ho preso due molotov, altre due le ho date a Geka e Dito. A Mel nessuna, perché da piccolo ne aveva tirata una troppo in alto e quella si era aperta in volo, colpendoci di striscio. Da allora gli veniva affidata la parte di quello che tiene pronto il fiammifero o l'accendino.

Ho agitato per bene le bottiglie, sollevando la sabbia dal fondo, ho fatto prendere fuoco agli stracci e subito dopo sono uscito da dietro il muro, tirando contemporaneamente due molotov contro il mucchio. In un attimo ne avevo già altre due in mano, le accendevo e via, a ripetizione.

Il nemico era nel panico, i ragazzi con le facce bruciate si buttavano nella neve, c'era fuoco dappertutto, qualcuno ha cominciato a correre talmente veloce che è scomparso alla nostra vista in un baleno.

In tre abbiamo svuotato la cassa in meno di un minuto. Mel non ha avuto il tempo di spegnere il fiammifero che avevamo già finito.

Ho tirato fuori i coltelli e mi sono lanciato contro uno che si era appena alzato da terra e stava per prendere in mano un bastone. Non aveva bruciature, il fuoco gli era arrivato solo sulla giacca e aveva fatto in tempo a rotolarsi nella neve. Era parecchio incazzato, e continuava a urlare come un guerriero. Ha tentato di colpirmi un paio di volte, tenendomi sempre a distanza. A un certo punto mi sono buttato ai suoi piedi schivando una bastonata, e gli ho piantato il coltello nella gamba. Lui mi ha colpito in faccia con l'altra gamba e mi ha spaccato il labbro, ho sentito in bocca il sapore del sangue. Ma nel frattempo ero riuscito a dargli un bel po' di coltellate sulla coscia e a tagliargli il legamento dietro il ginocchio.

Dietro di me Mel ne aveva già stesi tre, uno con metà della faccia bruciata, un altro con tre buchi nella testa da dove usciva sangue serio: quello quasi nero, quello che esce quando ti beccano il fegato, solo più denso. Il terzo aveva un braccio rotto. Mel era furioso, e girava con un coltello piantato nella gamba.

Dito stava vicino al muro, sotto i suoi piedi c'erano altri tre, tutti feriti alla testa, uno aveva un osso rotto che gli spuntava dalla gamba, sotto il ginocchio.

Al muro era appoggiato anche Geka, si era preso una botta in fronte: niente di grave, ma era evidente che si era spaventato.

Quei due pazzi di Fima e Ivan invece stavano massacrando insieme un gigante, un colosso disteso per terra che, per qualche oscuro motivo, non voleva mollare la mazza di legno che stringeva nel pugno. Aveva la faccia che sembrava un pezzo di carne tritata e da un bel po' doveva aver perso i sensi, ma continuava a non mollare la mazza. Mi sono chinato su di lui e ho notato che era legata al polso con una benda elastica. Per lasciargli un saluto dalla Siberia gli ho tagliato i legamenti sotto il ginocchio: quello non ha fatto un lamento, era proprio out. Ho tirato fuori il coltello dalla gamba di Mel, poi ho recuperato la benda elastica e l'ho divisa in due, una parte gliel'ho messa sulla ferita come un tappo, con l'altra ho fatto una fasciatura stretta. Mel non voleva rimettersi i pantaloni che si era tolto per semplificare le operazioni, diceva che voleva prendere un po' d'aria, 'sto scemo.

Dito guardava Fima e Ivan con un sorriso che non si spegneva e loro si sentivano protagonisti, agitavano fieri le loro spranghe di ferro.

Ho aiutato Geka ad alzarsi. Stava bene, solo che dopo la botta si sentiva un po' rintronato e al tempo stesso agitato. Ho tirato fuori dalla tasca una caramella:

– Prendi fratello, masticala piano. Ti farà stare calmo.

Era una balla, certo, ma se uno ci crede una caramella funziona come un tranquillante. «Fattore psicologico», lo chiamava mio zio, che aveva fatto smettere di fumare un suo compagno di cella raccontandogli la balla che se si massaggiava le orecchie per mezz'ora al giorno in un mese perdeva il vizio.

Geka ha preso la caramella e si è sentito meglio. Sulla fronte aveva un livido viola, lungo, che si perdeva nell'occhio sinistro. Gli ho detto che dovevamo andarcene in fretta, lasciare Ferrovia il più presto possibile. Geka era preoccupato perché quelli sapevano dove abitava, aveva paura di tornare a casa.

– Stai sereno, fratellino, – l'ho rassicurato. – Quando arriviamo nel nostro quartiere racconterò tutto al Guardiano. Zio Trave sistemerà le cose.

Cercavo di spiegargli che con noi lui era al sicuro, protetto.

– Come fai a essere certo che abbiamo ragione e non torto? – mi ha chiesto.

La sua domanda in quel momento mi era sembrata sciocca. Solo più tardi, col tempo, ho capito quant'era profonda, invece. Perché il punto era un altro: non era in dubbio la nostra ragione in quella situazione o in altre analoghe, ma la realtà oggettiva della nostra posizione rispetto al mondo che ci circondava.

Era un filosofo, il mio amico Geka, ma io non ero abbastanza abile con le parole, e allora gli ho risposto con le prime che mi sono venute in mente:

– Perché siamo veri, non nascondiamo niente.

Sentendo la mia risposta lui mi ha sorriso in un modo strano, come se volesse dire qualcosa ma preferisse tenerselo per un'altra volta.

Intanto Mel aveva ispezionato le tasche dei nostri nemici, rimediando tre coltelli, sei pacchetti di sigarette, quattro accendini – uno dei quali era d'oro, e lui se l'è messo subito in tasca -, pili di cinquanta rubli e un sacchettino pieno di anelli e catene d'oro, che quei balordi avevano sicuramente appena fregato a qualcuno.

Vicino al bidone ci attendeva un'altra fetta di bottino. Una borsa di stoffa. Dentro c'era un thermos pieno di tè fatto male però ancora abbastanza caldo, una decina di piccoli panini al formaggio e una sorpresa: una doppietta corta, senza calcio, e un mucchio di cartucce sparse qua e là, anche in mezzo ai panini. Le ho controllate: quelle originali le ho tenute, quelle fatte in casa le ho buttate via, perché non mi fidavo delle cartucce fatte da sconosciuti, soprattutto se di Ferrovia.

Mel era sorpreso e continuava a chiedere come un disco rotto:

– Perché non ci hanno sparato? Perché non ci hanno sparato? Perché non ci hanno sparato?

– Perché non hanno le palle… – ho risposto, ma solo per farlo smettere di fare 'sta domanda, perché in verità non lo capivo neanch'io. Forse chi si era portato dietro quella doppietta era stato colto di sorpresa e non aveva avuto il tempo di tirarla fuori… Forse, o forse no. L'unica cosa certa era che se l'avessero usata, tutta la nostra storia sarebbe andata diversamente e magari io non sarei qui a raccontarla.

Mel voleva prenderla, ma per diritto d'anzianità spettava a Dito: l'ho data a lui, che l'ha nascosta bene sotto la giacca. Mel per fortuna non si è offeso, era d'accordo, si è messo solo a insegnare a Dito come si spara con quella roba.


Siamo partiti a passo veloce verso il parco. Ero sicuro che ancora non era finita, avevo uno strano presentimento. Camminavo, masticando un panino congelato, e intanto pensavo che era proprio un brutto segno che nel giorno del mio compleanno mi fosse capitato tutto quel casino.

«D'accordo, mi aspetta una vita difficile, – mi dicevo. – Spero solo che non sia troppo corta».

Quando siamo entrati nel parco stava venendo buio. D'inverno il buio scende subito, la luce del giorno se ne va senza una grande battaglia, nel giro di mezz'ora non si vede più niente. Nel parco non c'erano lampioni, si vedevano solo le deboli luci della città scintillare tra gli alberi. Camminavamo per il vialetto principale.

All'altezza del sanatorio ho esposto a Geka la mia teoria sul fatto che non era ancora finita, quella storia. Sentivo con il cuore che ci aspettava un'altra imboscata, e dato che il parco era il posto migliore per farla, isolato e buio com'era, temevo per tutti noi.

Anche Geka la pensava cosi:

– Non è un caso, no, se l'Avvoltoio non si è ancora visto?

Ha proposto di camminare tutti vicini, per essere pronti a coprirsi le spalle a vicenda se ci saltavano addosso all'improvviso.

Ci siamo uniti in un istante, camminavamo con lo stesso passo, come i militari, aspettandoci da un momento all'altro l'attacco nemico.

Abbiamo attraversato tutto il parco, ma non è successo nulla. Quando abbiamo visto le luci del Centro eravamo Così contenti che quasi saltavamo dalla gioia. Mel si è messo persino a urlare offese fantasiose in direzione di Ferrovia. Siamo entrati in Centro, passando per le strade illuminate eravamo già belli rilassati e capaci anche di scherzare. Tutto sembrava Così naturale e semplice… Mi sentivo una tale leggerezza addosso che mi dicevo: «Se ne ho voglia, posso volare».

Mel ha cominciato a fare palle di neve e a tirarcele contro, ridevamo tutti, camminando verso casa.

Abbiamo preso una scorciatoia vicino alla biblioteca, una viuzza tranquilla che attraversava le vecchie case del centro storico. Non vedevo l'ora di tornare per festeggiare il mio compleanno con gli altri che ci stavano aspettando.

– Saranno ubriachi fradici, – scherzava Mei, – avranno già mangiato tutto e quando arriveremo ci toccherà lavare i piatti sporchi.

– Se è Così, ragazzi, il mio prossimo compleanno lo festeggio da solo, andate tutti… – non ho finito la frase, qualcosa o qualcuno mi ha dato una forte botta sul fianco destro. Sono caduto sulla terra gelata battendo la testa. Ho sentito male, ma ho reagito subito, e quando mi sono tirato su con un salto avevo già i coltelli in mano.

La stradina era stretta e buia, ma da qualche parte, lontano, c'era una finestra illuminata, e grazie a quella luce qualcosa si vedeva. C'erano delle ombre che venivano verso di noi.

– Cazzo, cos'era, sei a posto? – mi ha chiesto Mei.

– Sembra di si, qualcuno mi ha spinto. Sono loro, ne sono sicuro…

– Cristo Santo, io ho già buttato via il mio bastone, – mi guardava disperato.

– Tieni una mia lama. Dove sono finiti i tuoi dischi per la sega?

Mel ha messo la mano in tasca e me li ha dati:

– Tiraglieli in faccia, bello.

Detto fatto. Ho lanciato un disco verso l'ombra più vicina, e poco dopo si è sentito un urlo pazzesco. Ho visto saltare Fima in avanti con il bastone di ferro, gridando:

– Fascisti di merda, vi strappo a pezzi!

Si è buttato su un ragazzo che ormai era vicino a noi e già si poteva vedere in faccia, quello ha cercato di schivare il colpo ma il bastone l'ha centrato dritto sulla nuca ed è caduto senza un lamento.

Dal buio si sono lanciati in tre su Fima, Ivan cercava di prenderli a sprangate come poteva.

Geka era a terra, aveva una mano rotta, stava prendendosi le botte da un gigante (un altro) armato di bastone. In un attimo, Dito si è buttato sul gigante con la doppietta spianata: gli ha sparato a bruciapelo, dritto nel torace. Il gigante è crollato in maniera innaturale, come spinto da una forza invisibile.

Io mi sono messo ad aiutare Fima, ho lanciato dischi a ripetizione, colpendo due aggressori in piena faccia. Un altro l'ho accoltellato su un fianco, ho sentito la lama entrare profondamente nella carne attraverso uno strato di tessuti, e allora ho capito che erano Così sicuri di prenderci di sorpresa che non si erano nemmeno imbottiti di giornali. L'ho colpito ancora due volte nello stesso punto, nella zona del fegato. Speravo di ucciderlo. Subito dopo ho avvertito una sensazione di debolezza nella mano che stringeva il coltello. Era come se stessi perdendo il controllo del braccio, tipo una paralisi.

«Ci mancava solo questa…», ho pensato.

Ho cercato di riprendermi, di stringere il coltello più forte, ma la mia mano destra non mi ascoltava, non rispondeva più. Allora ho impugnato il coltello con la sinistra e nello stesso momento, da dietro, Mel mi ha acchiappato per il collo e mi ha trascinato via. Intanto, sentivo tanti passi nel buio: passi di gente che scappava.

Io avevo perso il fiato, facevo fatica a respirare. La botta sul fianco mi faceva male, ma non la consideravo una roba seria. Pensavo che al massimo mi avevano rotto un paio di costole, infatti il dolore aumentava quando inspiravo.

Il gigante era per terra, immobile, e rantolava. Non c'era nemmeno una goccia di sangue. Le cartucce che Dito aveva usato per sparargli dovevano essere quelle di gomma con dentro un pallino di ferro: fatte apposta per non uccidere, però sparate da vicino possono fare danni seri.


Abbiamo ripreso a camminare, anzi, senza accorgercene abbiamo cominciato a correre. Correvamo tutti, davanti c'era Dito con Geka, che teneva la sua mano rotta sul petto stringendola con l'altra. Poi Fima, che mentre correva gridava bestemmie, e dietro di lui Ivan, zitto e concentrato. Anche se avevo male correvo come un pazzo anch'io, non sapevo nemmeno il perché: forse quell'aggressione improvvisa, proprio quando ci sentivamo ormai al sicuro, ci aveva messo addosso una febbre nuova.

Mel correva piano dietro di me, poteva andare più veloce ma era preoccupato perché io non riuscivo a correre bene come al solito, mi faceva un casino male il fianco colpito.

Finalmente siamo arrivati ai confini del nostro quartiere. Ci siamo fermati, piano piano, in mezzo alla strada che portava al fiume. Sono arrivati tre amici che in quel momento stavano di guardia. Gli abbiamo raccontato in due parole cos'era successo, e uno di loro è subito andato ad avvertire il Guardiano.

Siamo arrivati a casa mia. Mia mamma era in cucina con zia Irina, la madre di Mei. Erano preoccupate, e quando ci hanno visto entrare sono rimaste inchiodate alle loro sedie.

– Che vi è successo? – ha balbettato mia mamma.

– Niente, siamo finiti un po' in un casino, una sciocchezza… – sono corso in bagno per nasconderle il giubbotto squarciato, e per lavarmi le mani sporche di sangue. – Mamma, chiama zio Vitalij, – ho detto rientrando in cucina. – Bisogna portare Geka in ospedale, si è rotto un braccio…

– Ma siete pazzi? Come, si è rotto un braccio? Vi siete picchiati con qualcuno? – mia mamma tremava.

– No, signora, sono caduto, un incidente… Dovevo stare più attento -. Povero Geka, con una voce che sembrava uscire dall'aldilà cercava di salvare la situazione.

– Se sei caduto, perché Mel ha un livido in faccia? – mia mamma aveva un modo tutto suo per dire che eravamo dei contaballe.

– Zia Lilja, – ha detto quel genio di Mel rivolto a mia madre, – il fatto è che siamo caduti tutti insieme…

Subito dopo zia Irina ha cominciato a riempirlo di schiaffi.

Sono tornato in bagno e mi sono chiuso dentro. Ho acceso la luce, e quando mi sono guardato mi è caduta l'anima nei talloni: avevo tutta la gamba destra piena di sangue. Mi sono spogliato e ho girato il fianco che mi faceva male verso lo specchio. Eccolo, era li: un sottilissimo taglio, largo appena tre centimetri, da dove sbucava un pezzo di lama rotta. Ho preso le pinzette per le sopracciglia di mia madre e in quel momento lei ha bussato.

– Fammi entrare, Nicolai.

– Un secondo ed esco, mamma, il tempo di lavarmi la faccia!

Ho afferrato il pezzo di lama che spuntava e ho tirato piano. Mentre guardavo la lama uscire e diventare sempre più lunga, ho sentito la testa pesante. Mi sono fermato a metà, ho aperto l'acqua e mi sono bagnato la fronte. Dopo ho ripreso la lama e l'ho tirata tutta fuori. Era lunga quasi dieci centimetri, non credevo ai miei occhi. Era un pezzo di lama della sega che si usa per tagliare il metallo, affilata a mano come un rasoio da tutte e due le parti, con una punta sottile e fragile. L'avevano scelta apposta quell'arma, per colpire e poi spaccarla, in modo che restasse nella ferita e facesse soffrire di più.

La ferita sanguinava. Ho aperto il mobiletto e mi sono medicato come potevo: un po' di pomata cicatrizzante sul taglio e tutt'intorno una fasciatura stretta, per fermare il sangue. I vestiti e le scarpe li ho buttati tutti dalla finestrella del bagno, e mi sono messo gli abiti sporchi presi dalla cesta vicino alla lavatrice. Ho lavato e asciugato il coltello e sono tornato di là.

Mel e zia Irina erano già andati via, era arrivato zio Vitalij, che teneva in mano le chiavi della macchina, pronto per portare Geka in ospedale.

Fima e Ivan stavano seduti al tavolo di cucina, mia mamma gli aveva dato da mangiare la zuppa con la panna acida e la carne stufata con le patate.

– Allora, casinista, cos'avete combinato ancora? – mi ha chiesto zio Vitalij, come sempre di buon umore.

Io mi sentivo privo di forze, non avevo molta voglia di scherzare.

– Ti racconterò dopo, zio, è una storiaccia.

– Ma proprio il giorno del tuo compleanno dovevi finire nei casini? Tutti i tuoi amici sono già ubriachi, ti stanno aspettando…

– Niente festa, zio, non sto in piedi, voglio solamente dormire.


Sono stato a letto due giorni, alzandomi solo per mangiare e andare in bagno. Il secondo giorno Mel è venuto a trovarmi insieme al Guardiano, zio Trave, che voleva sentire da me com'era andata la storia.

Gli ho raccontato tutto, e lui mi ha promesso di regolare la faccenda in poche ore, anche per evitare ritorsioni su Geka, Fima e Ivan a Ferrovia, visto che Dito rimaneva a vivere nel nostro quartiere.


Dopo una settimana circa Trave mi ha invitato a casa sua per farmi parlare con una persona di Ferrovia. Era un criminale adulto, un'autorità della casta Seme nero, si chiamava «Corda» ed era uno dei pochi criminali di Ferrovia rispettato dai nostri.

Li ho trovati seduti al tavolo, Corda si è alzato e mi è venuto incontro guardandomi in faccia:

– Allora sei tu il famoso «scrittore»?

Scrittore, in gergo criminale, è chi è agile con il coltello. La scrittura è una coltellata.

Io non sapevo cosa rispondere e se potevo farlo, allora ho guardato Trave. Lui ha fatto si con la testa. Scrivo quando c'è da scrivere, quando m'ispira la musa, – ho risposto.

Corda ha fatto un largo sorriso:

– Sei un piede scalzo sveglio.

Mi aveva chiamato piede scalzo, era un buon segno. La cosa forse stava per risolversi a mio favore.

Corda si è seduto e mi ha invitato a sedermi con loro.

– Te lo chiedo una volta sola, cosa ne pensi di questa faccenda, e dopo non ci torneremo più su -. Corda parlava con una grande calma e sicurezza nella voce, si sentiva che era un'autorità, uno capace di gestire le cose. – Se per te la storia finisce qui e non hai voglia di vendicarti su nessuno, ti do la mia parola che tutti quelli che hanno arrecato disturbo a te e ai tuoi amici saranno puniti severamente da noi, dalla gente di Ferrovia. Se vuoi vendicarti su qualcuno in particolare puoi farlo, però in questo caso dovrai fare tutto da solo.

Non ci ho pensato neanche un attimo, la risposta mi è venuta subito alle labbra:

– Non ho niente di personale contro nessuno di Ferrovia, quello che è stato è stato, è giusto che sia dimenticato. Spero di non avere ucciso nessuno dei vostri, però nella rissa sapete com'è, ognuno cerca di uscirne come può.

Volevo fargli capire che per me non era importante la vendetta, che venivano prima il benessere e la pace nella comunità.

Corda mi guardava serio, però con un'aria buona, amichevole:

– Bene, allora ti prometto che quello che ha organizzato questo vergognoso gesto contro di voi, mentre eravate ospiti nel nostro quartiere, sarà punito ed espulso. I tuoi amici possono vivere la loro vita degna e camminare a testa alta a Ferrovia… – ha fatto una pausa, guardando una porta dall'altra parte della stanza. – Ti voglio presentare i miei nipoti, li hai già conosciuti purtroppo, ma adesso voglio che accetti le loro scuse… – a queste parole dalla porta sono usciti due ragazzi con le facce da funerale e la testa bassa. Uno l'ho riconosciuto subito, era Barba, lo stronzetto che avevamo picchiato e chiuso nella scuola, mentre l'altro aveva una faccia che non mi sembrava nuova, ma non riuscivo a ricordarlo. Poi ho notato che zoppicava, e che sotto i pantaloni, sulla gamba sinistra, si vedeva il rigonfiamento di una fasciatura: era il tipo a cui avevo dato una coltellata mentre gli passavo il mio messaggio per l'Avvoltoio, dopo il primo scontro.

I due si sono avvicinati e si sono fermati davanti a me con lo stesso entusiasmo dei condannati a morte di fronte al plotone d'esecuzione. Mi hanno salutato all'unisono. Era molto triste e umiliante, mi dispiaceva per loro.

Corda gli ha detto con voce severa:

– Allora, cominciate!

Subito dopo l'ordine, Barba, il piccolo tossico, è partito come un mitra, con parole evidentemente studiate:

– Ti chiedo perdono come a un fratello, perché ho fatto uno sbaglio, se vuoi punirmi te lo lascio fare, però prima perdonami! – non era commovente come può sembrare, capivo benissimo che si trattava di una pura formalità.

Anch'io dovevo recitare la mia parte:

– Cogli il mio umile saluto di fratello affettuoso e compassionevole. Che il Signore ci perdoni tutti quanti.

Era la scuola di nonno Kuzja, quella. Mi avesse sentito sarebbe stato fiero di me. Tono poetico, contenuto ortodosso: da vero siberiano.

Dopo le mie parole Trave è rimasto con un sorriso soddisfatto stampato sulla faccia, Corda aveva quasi la bocca aperta.

Ora toccava all'altro disgraziato:

– Ti prego, perdonami come un fratello, perché ho commesso un'ingiustizia e…

La sua voce era meno decisa di quella di Barba, era evidente che non riusciva a ricordare bene la sua parte e l'aveva accorciata. Ha rivolto uno sguardo smarrito a Corda, ma quello non ha fatto una piega, però le sue mani involontariamente si sono strette nei pugni.

Allora ho deciso di ammazzarli tutti con la mia gentilezza, e dopo un respiro profondo ho tirato come una canzone la frase seguente:

– Come il Nostro glorioso Signore Gesù Cristo abbraccia tutti noi peccatori nel Suo dolce amore, e affettuosamente ci spinge verso la via dell'eterna salvezza, Così con la stessa umiltà e gioia vi comprendo nella fraterna grazia.

Parole da santo, i miei piedi quasi si alzavano da terra, sembrava che dovesse aprirsi un varco nel soffitto tutto per me. Trave non smetteva di sorridere, Corda ha detto:

– Perdonaci per tutto, Kolima, torna a casa tranquillo, sistemerò personalmente ogni cosa.


Dopo un mese ho saputo che l'Avvoltoio era stato picchiato a sangue, gli avevano «segnato» la faccia, facendogli un taglio che partiva dalla bocca, attraversava tutta la guancia e finiva all'orecchio. Poi lo avevano costretto ad andarsene da Ferrovia.

Qualcuno un giorno mi ha detto che si era trasferito a Odessa, dove si era affiancato a una banda di minorenni che rubavano i portafogli nei tram. Gente che non rispettava nessuna legge, né quella degli uomini né quella dei criminali. Qualche tempo dopo ho saputo che era morto, ucciso dai suoi stessi compagni, che l'avevano buttato giù dal tram in movimento.


Geka è guarito in fretta, non gli è rimasto nessun segno della frattura; più tardi si è iscritto all'università di medicina.

Fima per sua disgrazia è stato portato dalla sua famiglia in Israele. Mi hanno raccontato che quando hanno cercato di farlo salire sull'aereo s'è messo a protestare, urlando che per un marinaio è una vergogna andare in giro volando. Ha picchiato un aiuto pilota e due agenti della dogana. Alla fine hanno dovuto addormentarlo con un sedativo.

Ivan ha continuato a suonare il violino nel ristorante, e dopo un po' ha trovato il modo per consolarsi della lontananza del suo amico: ha conosciuto una ragazza, con cui è andato a convivere. Del resto tra le ragazze della città girava voce che Ivan fosse stato dotato dalla natura di un altro talento, oltre a quello musicale.

Dito ha vissuto per un po' di tempo nel nostro quartiere, poi ha rapinato banche con una banda siberiana e alla fine si è sistemato in Belgio, sposando una donna di li.


Dopo il casino a Ferrovia, ancora per un paio d'anni ogni tanto incontravo in città ragazzi che non conoscevo, e che mi salutavano dicendo:

«C'ero anch'io quel giorno».

Alcuni mi facevano vedere i tagli dietro le ginocchia, le cicatrici sulle cosce, quasi con un senso di vanità e orgoglio, dicendomi:

«Lo riconosci? E il tuo lavoro!»

Con molti siamo rimasti in buoni rapporti. Quel giorno per fortuna non era morto nessuno, anche se uno l'avevo ferito abbastanza gravemente, accoltellandolo vicino al fegato.


Nonno Kuzja, dopo aver saputo da Trave come mi ero comportato con i nipoti di Corda, si è complimentato con me a modo suo. Sorriso sghembo e una frase sola:

«Bravo Kolima, una lingua gentile taglia e colpisce meglio di ogni coltello».


Regali di compleanno quell'anno non ne ho avuti, mio padre era arrabbiato con me, ripeteva «Non sei capace di stare tranquillo neanche il giorno del tuo compleanno», mia mamma invece si era offesa perché le avevo tenuto nascosto quello che mi era capitato quel giorno, e in mezzo a tutto 'sto casino nessuno mi ha regalato niente, tranne zio Vitalij che mi ha portato un pallone da calcio tutto di pelle, molto bello, ma il mio cane lo ha fatto a pezzi la notte stessa.

Niente regali, e soprattutto una bella ferita che mi è servita per riflettere, capire meglio e inquadrare la vita che stavo facendo.

Dopo tanti pensieri e discussioni con me stesso sono arrivato alla conclusione che non si risolve niente con il coltello e le botte. Così sono passato alla pistola.