Il cappello a otto triangoli e il coltello a scatto.


In Transnistria febbraio è il mese più freddo dell'anno. Tira un vento forte e l'aria diventa pungente, pizzica sulla faccia; tutti quelli che escono per strada si coprono come mummie, i bambini sembrano bambolotti, impacchettati in mille vestiti, con le sciarpe fin sugli occhi.

Di solito nevica tanto, le giornate sono corte e il buio comincia a scendere sulla terra molto presto. E in quel mese che sono nato io. Ero Così malmesso che nell'antica Sparta senza dubbio mi avrebbero eliminato per via del mio stato fisico. Invece mi hanno messo in un'incubatrice.

Sono nato di otto mesi, uscendo con i piedi, e avevo un sacco di altre irregolarità. Un'infermiera gentile ha detto a mia mamma che doveva abituarsi all'idea che mi restava poco da vivere. Mia mamma piangeva, scaricando in una macchinetta il suo latte per me, da portarmi nell'incubatrice. Per lei non dev'essere stato un momento allegro.

Beh, a partire dalla mia nascita, io forse per abitudine ho continuato a procurare vari dispiaceri e togliere parecchie possibilità di vita allegra ai miei genitori (anzi, a mia mamma, perché mio padre in realtà se ne fregava di tutto, faceva la sua vita da criminale, rapinava banche e stava tanto tempo in galera). Non mi ricordo nemmeno quante ne ho combinate, da piccolo. Ma è naturale, sono cresciuto in un quartiere malfamato, proprio nel posto dove negli anni Trenta si sono sistemati i criminali espulsi dalla Siberia. La mia vita era li, a Bender, con i criminali, e il nostro criminalissimo quartiere era come una grande famiglia.

Da bambino non m'interessavano i giocattoli. A quattrocinque anni per divertirmi giravo per casa cercando di beccare il momento in cui mio nonno o mio zio si mettevano a smontare e pulire le armi. Le pulivano spesso, con cura e amore, perché ne avevano veramente tante. Mio zio diceva che le armi sono come le donne, se non le accarezzi abbastanza diventano troppo rigide e ti tradiscono.

Le armi a casa nostra, come in tutte le case siberiane, erano tenute in posti ben precisi. Le pistole chiamate «proprie», cioè quelle che i criminali siberiani portano sempre con sé, quelle che usano ogni giorno, vengono posate nell'«angolo rosso», dove sono appese le icone di famiglia, le foto dei parenti morti e di tutti coloro che stanno scontando una condanna in prigione. Sotto le icone e le foto c'è una specie di mensola, coperta con un pezzo di stoffa rosso, sulla quale di solito ci sono una decina di crocefissi siberiani. Quando un criminale entra in casa va subito nell'angolo rosso, si toglie la pistola e la posa sulla mensola, dopo si fa il segno della croce e mette un crocefisso sopra la pistola. Questa è un'antica tradizione che assicura che nelle case siberiane le armi non vengano utilizzate: se questo avvenisse, in quella casa non si potrebbe più vivere. Il crocefisso è una specie di sigillo, che si rimuove solo quando il criminale esce di casa.

Le pistole proprie, chiamate «amante», «zia», «tronco», «corda», di solito non hanno un significato profondo e importante, vengono trattate come un'arma semplice e basta. Non sono oggetti di culto, come invece può esserlo la «picca», il coltello tradizionale. La pistola insomma è un ferro del mestiere.

Oltre alle pistole proprie, in casa vengono tenute altre armi. Le armi dei criminali siberiani sono divise in due grandi categorie: quelle «oneste» e quelle «di peccato». «Oneste» sono le armi utilizzate solamente per la caccia nel bosco. Secondo la morale siberiana, la caccia è un processo depurativo che aiuta una persona a tornare al livello in cui si trovava l'uomo quando Dio lo ha creato. I siberiani non cacciano mai per piacere, solamente per sfamarsi, e soltanto quando vanno nel bosco profondo, nella loro patria, in Taiga. Mai in posti dove ci si può procurare il cibo senza ammazzare gli animali selvatici. Di solito in una settimana di permanenza nel bosco i siberiani uccidono solo un cinghiale, il resto del tempo camminano. Nella caccia non c'è posto per nessun interesse, solo per la sopravvivenza. Questa dottrina influenza l'intera legge criminale siberiana, formando una base morale che prevede umiltà e semplicità nelle azioni di ogni singolo criminale, e rispetto per la libertà di qualunque essere vivente.

Le armi oneste usate per la caccia vengono tenute in una zona speciale della casa, chiamata «altare», dove ci sono le cinture istoriate dei padroni di casa e dei loro antenati. Alle cinture sono sempre appesi coltelli da caccia e borse con vari talismani, oggetti della magia pagana siberiana.

Le armi di peccato invece sono quelle utilizzate per scopi criminali. Queste armi di solito si tengono in cantina e in vari nascondigli sparsi per il cortile. Ogni arma di peccato ha incisa da qualche parte l'immagine di una croce o di un santo protettore, ed è stata «battezzata» in una chiesa siberiana.

I fucili d'assalto Kalasnikov sono i più amati dai siberiani. Nel gergo criminale ogni modello ha un nome, nessuno usa abbreviazioni o sigle per indicare modello, calibro o tipologia delle munizioni. Ad esempio, il vecchio ak 47 calibro 7,62 si chiama «sega», e le sue munizioni «testine». Il più moderno aks calibro 5,45 con calcio pieghevole si chiama «telescopio», e le sue cariche «schegge». I proiettili possono essere diversi: quelli con la testa nera, che hanno il centro squilibrato, in gergo si chiamano «le cicce»; quelli con la testa bianca, che bucano la blindatura, «chiodi»; quelli con la testa bianca e rossa, esplosivi, «scintille».

Lo stesso per il resto delle armi: i fucili di precisione vengono chiamati «canna da pesca», o «falce». Se hanno un silenziatore integrato sulla canna, «frusta». I silenziatori vengono chiamati «scarpone», «terminale» o «gallo del bosco».

Secondo la tradizione, un'arma onesta e una di peccato non possono stare nella stessa stanza, altrimenti l'arma onesta sarà per sempre contaminata, e non si potrà più utilizzare, perché porterà sfortuna a tutta la famiglia, e sarà necessario distruggerla attraverso un rituale particolare. Verrà sepolta sottoterra avvolta nel lenzuolo su cui è avvenuto un parto. Secondo le credenze siberiane, tutto quello che è legato al parto ha in sé un'energia positiva, perché ogni bambino che nasce è puro, non conosce il peccato. Quindi i poteri della purezza sono una specie di sigillo contro le disgrazie. Dove è stata sepolta un'arma contaminata di solito si pianta un albero, Così se la «maledizione» si attiva distruggerà l'albero e non si allargherà su nient'altro.

In casa dei miei le armi erano dappertutto, mio nonno aveva una stanza piena di armi oneste: fucili di vari calibri e marche, tanti coltelli e diverse munizioni. Potevo entrare in quella stanza solo accompagnato da un adulto, e quando capitava cercavo di restarci il più a lungo possibile. Tenevo le armi tra le mani, ne studiavo i particolari, facevo mille domande, finché non mi fermavano dicendo:

«E basta con 'ste domande! Aspetta un pochino, diventerai grande e allora potrai provarle tutte da solo…»

Ovviamente io non vedevo l'ora di diventare grande.

Guardavo incantato mio nonno e mio zio maneggiare le armi, e quando le toccavo mi sembravano creature vive. Nonno spesso mi chiamava e mi faceva sedere di fronte a lui, poi metteva sul tavolo una vecchia Tokarev, pistola bella e potente, che mi sembrava più affascinante di tutte le armi esistenti.

«Allora, la vedi questa? – mi diceva. – Non è una pistola normale, è magica. Se c'è uno sbirro vicino lei gli spara da sola, senza che tu prema il grilletto…»

Io credevo veramente nei poteri di quella pistola e una volta, quando sono arrivati i poliziotti a casa nostra per fare un blitz, ho combinato un casino.


Quel giorno mio padre era tornato da una lunga permanenza in Russia centrale, dove aveva svaligiato una serie di furgoni portavalori. Dopo una cena che aveva riunito tutta la famiglia e qualche amico stretto, gli uomini stavano seduti al tavolo, a parlare e discutere di vari affari e questioni criminali, mentre le donne erano in cucina a lavare i piatti, cantare canzoni siberiane e ridere insieme, ricordando qualche storia passata. Io ero vicino a mio nonno, sulla panca, con una tazza di tè caldo in mano, e ascoltavo quello che dicevano gli adulti. A differenza delle altre comunità, i siberiani rispettano i bambini e discutono davanti a loro di qualunque cosa, senza creare un'aria di mistero o di proibizione.

A un certo punto ho sentito le urla delle donne, e subito dopo tante voci nervose: in pochi secondi la casa si è riempita di uomini armati, con i volti coperti e i Kalasnikov puntati su di noi. Uno di loro si è avvicinato a mio nonno, gli ha premuto il fucile in faccia e ha gridato come un pazzo, con la voce evidentemente squilibrata:

– Dove stai guardando, vecchio bastardo? Ti ho detto di guardare il pavimento!

Io non ero per niente spaventato, non mi faceva paura nessuno di quegli uomini, il fatto di essere con la mia famiglia al completo mi faceva sentire più forte di qualsiasi altro essere vivente. Però i modi che quell'uomo aveva usato con mio nonno mi avevano fatto arrabbiare. Il tavolo intorno a cui eravamo seduti era circondato da poliziotti che tenevano le armi puntate su di noi. Dopo una corta pausa, mio nonno, senza guardare il poliziotto in faccia ma con la testa ben alzata, ha chiamato mia nonna:

– Svetlana! Svetlana! Vieni qui, tesoro, che devi passare qualche mia parola a questo pezzo d'immondizia!

Secondo le regole del comportamento criminale, i siberiani non possono comunicare con i poliziotti. E vietato rivolgergli la parola, rispondere alle loro domande o avere qualsiasi rapporto con loro. Il criminale deve comportarsi come se i poliziotti non ci fossero, e usare la mediazione di una donna di famiglia o vicina alla famiglia, purché di origine siberiana. Il criminale comunica alla donna nella lingua criminale quello che vuole dire al poliziotto, e lei ripete le sue parole in russo, anche se il poliziotto sente perfettamente tutto, perché è là davanti. Dopo, quando il poliziotto risponde, la donna si gira e traduce tutto nella lingua criminale. Il criminale non deve guardare il poliziotto in faccia, e se lo cita nel suo discorso lo deve nominare con parole dispregiative come «immondizia», «cane», «coniglio», «infame», «bastardo», «aborto» eccetera.

Quella sera la persona più anziana nella stanza era mio nonno, quindi secondo le regole del comportamento criminale il diritto di comunicare era suo, gli altri dovevano stare zitti e se volevano dire qualcosa dovevano chiedere permesso a lui. Mio nonno era famoso per il suo talento nel risolvere le situazioni calde.

Dalla cucina nel frattempo era arrivata mia nonna, con uno strofinaccio colorato in mano. Dietro di lei mia mamma, agitatissima, continuava a guardare mio padre con un'aria triste, come se stesse per morire.

– Cara moglie mia, che Dio ti benedica, di' a questo pezzo d'immondizia che in casa mia, finché io sono vivo, nessuno punta i ferri sulla mia faccia o su quella dei miei amici… Chiedigli cosa vogliono, e per amore di Cristo che mettano giù le sputafuoco, altrimenti qualcuno rimarrà bucato.

Mia nonna ha cominciato a ripetere al poliziotto le parole di mio nonno, e anche se quello annuiva col capo per far capire che aveva già sentito tutto, lei non si è fermata, per seguire fino in fondo la tradizione. Questa cosa sapeva tanto di finto, di recita, però si trattava di una recita che andava recitata, era una questione di dignità criminale.

– Mettetevi tutti con la faccia a terra, abbiamo un ordine di arresto per… – Il poliziotto non è riuscito a finire la frase, perché mio nonno con un sorriso largo e un po' cattivo, cioè con il suo sorriso di sempre, lo ha interrotto, rivolgendo la parola a mia nonna:

– Per la passione del Nostro Signore Gesù Cristo, che è morto e risorto per noi peccatori! Svetlana, amore mio, chiedi a questo stupido sbirro se lei e le sue amiche sono venute per caso dal Giappone.

Mio nonno ha usato il modo con cui di solito i criminali umiliano i poliziotti: parlare di loro come di femmine. Tutti i criminali hanno fatto una risata. Intanto nonno continuava:

– Non mi sembrano giapponesi, quindi non hanno la stoffa dei kamikaze… Perché pensano di poter entrare nel cuore di Fiume Basso armati, in casa di un criminale onesto, mentre lui condivide momenti di felicità con altra buona gente?

Il discorso di mio nonno si stava trasformando in quella che i criminali chiamano «canzone», cioè in quell'estrema forma di comunicazione con i poliziotti che si verifica quando un criminale si mette a parlare come se stesse facendo un ragionamento da solo, tra sé e sé. Insomma, nonno esprimeva quello che aveva dentro, senza preoccuparsi di rispondere alle possibili domande o di stabilire qualsiasi contatto. Il che capita quando si vuole far credere ai poliziotti che quello che si sta dicendo è la sola verità, che non esistono scappatoie.

– Perché vedo gente disonesta con le facce coperte? Perché questa presenza oscura viene qui a disonorare la mia casa e la buona fede dei miei famigliari e dei miei ospiti? Qui, nella nostra terra di gente semplice e umile, di servitori del Nostro Signore e della Madre Chiesa ortodossa siberiana, perché vengono questi sputi di Satana, a ferire i cuori delle nostre amate donne e dei nostri cari bambini?

Nella stanza intanto era entrato correndo un altro poliziotto, che si era rivolto al suo superiore:

– Compagno capitano, permettetemi di dichiarare!

– Dichiara, – ha risposto un uomo basso e tarchiato, con una voce che sembrava venire dall'aldilà. Teneva il fucile puntato sulla nuca di mio padre, che con un cinico sorriso continuava tranquillamente a sorbire il suo tè e a masticare con un rumore discreto le caramelle di noci fatte in casa da mia madre.

– Fuori è pieno di gente armata, hanno bloccato tutte le vie d'accesso alle macchine e hanno preso in ostaggio la pattuglia che sorvegliava i mezzi!

Nella stanza è calato il silenzio, un silenzio lungo e pesante. Si sentivano solo due rumori sordi: quello delle caramelle masticate da mio padre e il leggero fischio dei polmoni marci di zio Vitalij.

Ho guardato gli occhi di un poliziotto che stava vicino a me, attraverso i fori del cappuccio lo vedevo sudare e impallidire. Mi ha ricordato la faccia di un cadavere che avevo visto qualche mese prima, ripescato dai miei amici al fiume: aveva tutta la pelle bianca con le vene nere, e occhi che sembravano due fossi profondi e sporchi. Aveva anche un buco in fronte, qualcuno gli aveva sparato in testa. Beh, il poliziotto non aveva nessun buco, però credo che in quel momento noi due, io e lui, pensavamo proprio la stessa cosa: a come ci sarebbe stato sulla sua fronte un bel buco, e anche se devo dire che a me personalmente questo pensiero non faceva nessun effetto, il mio incappucciato vicino invece era visibilmente molto preoccupato.

All'improvviso la porta di casa si è aperta e, spostando di peso il poliziotto che aveva appena pronunciato il rapporto fatale, hanno fatto il loro ingresso l'uno dopo l'altro sei uomini armati, amici di mio padre e di mio nonno. Il primo era zio Trave, che era anche il Guardiano della nostra zona, gli altri erano i suoi aiutanti più stretti. Mio nonno, ignorando ormai completamente la presenza dei poliziotti, si è alzato ed è andato incontro a Trave.

– Cristo Santo e tutti i parenti benedetti! – ha detto Trave abbracciando mio nonno e stringendogli con affetto la mano. – Nonno Boris, grazie al cielo nessuno si è fatto male!

– Ma tu guarda, Trave, che tempi! Non possiamo stare tranquilli nemmeno nelle nostre case!

Trave ha cominciato a parlare a mio nonno come se stesse facendo un riassunto dell'accaduto, e invece le sue parole erano destinate alle orecchie dei poliziotti:

– Ma non c'è da disperare, nonno Boris! Siamo tutti qui con te, come sempre nei momenti di felicità e di difficoltà… Lo sai, caro mio, senza il nostro permesso nessuno entra o esce da casa nostra, soprattutto se ha intenzioni disoneste…

Trave si è avvicinato al tavolo e uno a uno ha abbracciato tutti i criminali presenti. Mentre li abbracciava e li baciava sulle guance, li salutava con il tipico augurio siberiano:

– Pace e salute a tutti i fratelli e agli uomini onesti!

Quelli gli rispondevano come vuole la tradizione:

– Morte e maledizioni agli sbirri e agli infami!

I poliziotti non potevano fare nient'altro che assistere a quella toccante cerimonia di saluto. Ormai i loro fucili erano bassi come le loro teste.

Gli assistenti di Trave, comunicando attraverso le donne presenti, hanno intimato ai poliziotti di abbandonare la casa.

– Adesso io mi auguro che gli sbirri qui presenti lascino questa casa e non tornino mai più. Noi teniamo i loro amici, quelli che abbiamo preso per primi, e quando loro se ne andranno dal quartiere li lasceremo andare via in pace… – Trave parlava con voce molto calma e pacifica, e se non fosse stato per il contenuto, dal tono si poteva pensare che stesse raccontando una cosa dolce e tranquillizzante, come una fiaba ai bambini prima del sonno.

I poliziotti erano terrorizzati, dalla finestra della stanza vedevano il cortile pieno di gente armata fino ai denti.

I nostri amici hanno creato con i loro corpi un corridoio attraverso il quale uno a uno i poliziotti hanno iniziato a passare a testa bassa.

Io mi sentivo pieno di sentimenti positivi, mi veniva voglia di ballare, gridare, cantare ed esprimere qualcosa di grande che non riuscivo ancora a capire. Sentivo di far parte, di appartenere a un mondo forte, e mi sembrava che tutta la forza di quel mondo si trovasse dentro di me.

Non so come e perché, ma a un certo punto sono saltato giù dalla panca correndo come un pazzo verso la stanza principale, dove c'era l'angolo rosso. Sulla mensola, sopra un fazzoletto rosso con ricami dorati, c'erano le pistole di mio padre, di mio zio, di mio nonno e dei nostri ospiti. Senza pensare ho preso la mitica Tokarev di mio nonno e sono corso dietro ai poliziotti, puntandogliela contro. Non so che cosa di preciso passava nella mia testa in quell'istante, l'unica cosa che sentivo era una specie di euforia, di gioia di esistere. I poliziotti stavano lentamente muovendosi verso l'uscita. Mi sono fermato davanti a uno di loro e l'ho fissato: i suoi occhi erano stanchi e sembravano infiammati, lo sguardo era triste, desolato. Ricordo che per un momento ho sentito su di me tutto il suo odio. Ho mirato alla faccia, ho cercato di premere il grilletto con tutte le mie forze, ma non riuscivo a muoverlo di un millimetro. La mia mano diventava sempre più pesante e non ero in grado di tenere la pistola abbastanza in alto. Mio padre ha cominciato a ridere, chiamandomi:

– Vieni subito qui, piede scalzo! Non va bene sparare in casa, non lo sai?

I poliziotti se ne sono andati via, e un gruppo di criminali li ha seguiti scortandoli fino ai confini del quartiere, poi, quando la scorta è tornata, anche la macchina con i poliziotti tenuti in ostaggio è ripartita verso la città. Ma preceduta da una macchina degli amici di Trave che andava piano per non consentire ai poliziotti di aumentare la velocità, e permettere invece alla gente d'insultarli con tutta calma, di accompagnarli fuori dal quartiere con una specie di cerimonia per festeggiare la vittoria. Prima della partenza qualcuno aveva agganciato dietro la macchina una corda con varia biancheria appesa: mutande, reggiseni, piccoli asciugamani, stracci e anche una mia maglietta, contributo di mio padre all'opera denigratoria. Così un sacco di gente era uscita dalle case per guardare quello spettacolo di biancheria serpeggiante. I bambini correvano dietro la macchina, cercando di colpirla con i sassi.

– Guardate questi sbirri schifosi! Vengono a Fiume Basso per rubare le nostre mutande! – gridava qualcuno dalla folla, accompagnando i commenti con fischi e ingiurie.

– Ma a che gli servono? Si vede che i padroni del governo hanno smesso di dare l'osso ai loro cani! Sono rimasti pure senza mutande!

– E che male c'è, fratelli, a essere poveri e non potersi permettere neppure le mutande? Basta che vengono da noi con onestà e da uomini veri, con le facce scoperte, e noi regaleremo a ognuno un bel paio di mutande siberiane!

– Eccome se gliele regaliamo, solo devono avvisare un po' prima, per darci il tempo di riempirgliele, 'ste mutande!

Così gridava la gente, una folla di persone che ridevano. Nonno Castagna aveva persino portato da casa una fisarmonica e aveva cominciato a suonare e cantare camminando dietro la macchina. Alcune donne si erano messe a ballare, lui urlava una vecchia canzone siberiana con tutta la sua forza, alzando la testa con il cappello a otto triangoli e chiudendo gli occhi come un cieco:


Parlami sorella Lena, parla anche tu, fratello Amur*!

Ho attraversato la mia terra da una parte all'altra,

fermando i treni e facendo cantare il mio fucile,

e solo la vecchia Taiga sa quanti sbirri ho ammazzato!

E adesso che sono nei guai, Gesù Cristo aiutami,

aiutami a stringere la mia pistola!

E adesso che gli sbirri sono dappertutto, mamma Siberia,

mamma Siberia, risparmiami la vita!


[ * Lena e Amur sono i nomi di due grandi fiumi siberiani. La tradizione vuole che a questi fiumi sia legata la fortuna criminale: vengono adorati come divinità, a cui fare offerte e chiedere aiuto nell'esercizio delle attività criminali. Sono ricordati in numerosi detti, fiabe, canzoni e poesie. Di un criminale fortunato si usa dire che «il suo destino viene portato sulla corrente di Lena»]


Anch'io correvo e cantavo, sistemandomi in continuazione la visiera del cappello a otto triangoli, che era troppo grande e mi cadeva sempre sugli occhi.

Il giorno dopo, però, la voglia di cantare mi è andata via del tutto, quando mio padre mi ha dato una ripassata seria con la sua mano pesante. Avevo violato tre regole sacre: avevo preso in mano un'arma senza il permesso di un adulto; l'avevo presa dall'angolo rosso, togliendo la croce che ci aveva posato sopra mio nonno (solo colui che posa la croce su un'arma può rimuoverla); e infine, avevo tentato di sparare in casa.

Dopo la ripassata di mio padre avevo il sedere e la schiena che bruciavano, e quindi, come sempre, sono andato a farmi consolare dal nonno. Mio nonno era serio, però il leggero sorriso che ogni tanto passava sulla sua faccia aveva un significato: i miei problemi, forse, non erano Così gravi come potevano sembrare. Mi ha fatto un lungo discorso, il cui succo era che avevo fatto una cosa molto stupida. E quando io gli ho chiesto perché la pistola magica non aveva sparato ai poliziotti da sola, mi ha detto che la magia funziona solo quando la pistola viene usata per una cosa intelligente, e con il permesso degli adulti. A quel punto ho cominciato a sospettare che mio nonno mi raccontava le cose un po' diverse dalla realtà, perché non mi piaceva l'idea della magia che funziona solamente con il permesso degli adulti…

Da quella volta ho smesso di pensare alla magia e ho cominciato a seguire più attentamente i movimenti delle mani di mio zio e di mio nonno mentre manipolavano le pistole, e presto ho scoperto la funzione di quella parte importantissima del meccanismo di ogni arma che viene chiamata «sicura».


Nella comunità siberiana s'impara a uccidere da piccoli. La nostra filosofia di vita ha un rapporto stretto con la morte, ai bambini viene insegnato che il rischio e la morte sono cose legate all'esistenza, e quindi togliere la vita a qualcuno o morire è una cosa normale, se c'è un motivo valido. Insegnare a morire è impossibile, perché una volta fatto l'affare non c'è ritorno, e dall'aldilà non ha ancora telefonato nessuno per raccontare come si sta. Però insegnare a convivere con la minaccia della morte, a «tentare» il destino, non è difficile. Molte fiabe siberiane parlano dello scontro mortale tra criminali e rappresentanti del governo, dei rischi che si corrono ogni giorno con dignità e onestà, della fortuna di quelli che alla fine hanno preso il bottino e sono rimasti vivi, e della «buona memoria» per quelli che sono morti senza mollare gli amici in difficoltà. Attraverso queste fiabe i bambini percepiscono i valori che danno senso alla vita dei criminali siberiani: rispetto, coraggio, amicizia, dedizione. Verso i cinque-sei anni i bambini siberiani dimostrano una determinazione e una serietà invidiabili anche per gli adulti di altre comunità. E su basi Così solide che si costruisce l'educazione a uccidere, ad agire fisicamente contro un essere vivente.

Di solito il padre si porta dietro il bambino fin da piccolo per fargli vedere come si uccidono gli animali da cortile: galline, oche, maiali. Così il bambino si abitua al sangue, ai particolari dell'uccisione. Dopo, verso i sei-sette anni, al bambino viene offerta la possibilità di ammazzare da solo un piccolo animale. In questo processo educativo non c'è spazio per i sentimenti sbagliati, come il sadismo o la vigliaccheria. Il bambino va educato e gestito in maniera tale da fargli raggiungere una piena consapevolezza delle proprie azioni, e soprattutto dei motivi e dei significati profondi che stanno dietro quelle azioni.

Quando si uccide un animale più grande, come un maiale, un bue o una mucca, di solito al bambino viene permesso di esercitarsi sulla carcassa, per trovare la maniera giusta di colpire con il coltello. Mio padre spesso portava me e mio fratello in una grande macelleria, ci insegnava come agire con il coltello usando i corpi dei maiali appesi sui ganci. Una mano diventa decisa ed esperta, dopo tanti esercizi.

Verso i dieci anni il bambino è a tutti gli effetti inserito nel clan dei minori, che collabora attivamente con i criminali della comunità siberiana. Li ha la possibilità di affrontare per la prima volta tante diverse situazioni della vita criminale. I più grandi insegnano ai più piccoli come comportarsi; tra le risse e i conflitti e la gestione dei rapporti con i minori delle altre comunità, ogni ragazzo si fa le ossa.

Spesso a tredici-quattordici anni i minori siberiani hanno già precedenti penali e quindi esperienza del carcere minorile: un'esperienza che è molto importante, anzi fondamentale, per la formazione del carattere e della visione del mondo individuale. A quest'età molti siberiani hanno già alle spalle traffici criminali, un omicidio o almeno un tentato omicidio. E tutti sono capaci di comunicare all'interno della comunità criminale, di seguire, trasmettere e salvaguardare le basi e i principi della legge criminale siberiana.


Una volta, mio padre mi ha chiamato in giardino:

– Vieni qua, piede scalzo! E porta con te un coltello!

Ho preso un coltello da cucina, quello che di solito usavo per ammazzare le oche e le galline, e sono corso in giardino. Sotto un grande e vecchio albero di noce erano seduti mio padre, il suo amico zio Aleksandr, che tutti chiamavano «Osso», e mio zio Vitalij. Stavano parlando di colombi, la passione di ogni criminale siberiano. Zio Vitalij stringeva fra le mani un colombo, gli apriva l'ala e la mostrava a mio padre e a Osso, spiegando qualcosa.

– Nicolai [Si è scelto di mantenere in tutto il libro la grafia «Nicolai», anziché la corretta trasliterazione dal russo «Nikolaj», poiché è questo il nome che l'autore usa quotidianamente e che compare anche nei suoi documenti (N.d.R.)], figliolo, ammazza una gallina e portala a tua madre. Dille di pulirla e fare una zuppa per stasera, che zio Osso rimane da noi a parlare un po'.

«Parlare un po'» significa che i maschi della famiglia stanno insieme a bere e mangiare tutta la notte fino all'esaurimento fisico, finché non crollano esausti uno dopo l'altro. Quando i maschi parlano un po' nessuno li disturba, tutti fanno le loro cose fingendo che il posto dove si svolge la riunione non esista.

Io sono corso nel pollaio in fondo al giardino e ho preso il primo pollo che ho trovato. Era un pollo normale, rossiccio, abbastanza robusto e molto tranquillo. L'ho stretto tra le mani e mi sono diretto verso un ceppo di legno poco lontano, che usavamo per tagliare la testa ai polli come lui. Non tentava di fuggire e non aveva l'aria preoccupata, anzi si guardava intorno come se stesse facendo una gita turistica. L'ho preso per il collo posandolo sul ceppo, e quando ho alzato il coltello in aria, per eseguire il mio movimento mortale, il pollo ha cominciato a fare una violenta serie di movimenti vitali, fino a quando è riuscito a liberarsi dalla mia presa dandomi pure una forte beccata in testa. Ho perso l'equilibrio e sono caduto sul sedere: ero stato sconfitto da un pollo. Subito dopo ho notato che mio padre e gli altri stavano guardando lo spettacolo. Zio Vitalij rideva, anche Osso aveva sulla faccia una specie di sorriso, mio padre invece era più serio che mai, si era alzato e ora stava venendo verso di me.

– Alzati, assassino! Dammi 'sto coltello, te lo faccio vedere io come si fa! – È andato verso il pollo, che nel frattempo stava scavando un buco in terra a pochi metri dal punto in cui era avvenuta la commedia. Arrivato vicino al pollo, mio padre si è inarcato tutto, come una tigre che sta per acchiappare la preda; il pollo se ne stava tranquillo, continuava a scavare la terra per ragioni che sapeva solo lui. A un certo punto, mio padre ha fatto una mossa veloce per prenderlo, ma il pollo ha ripetuto l'azione di prima, e con un movimento rapidissimo ha evitato la presa di mio padre e lo ha colpito in faccia, proprio sotto l'occhio.

– Madonna Santissima! Mi ha centrato l'occhio! – ha urlato mio padre, e a quel punto mio zio e Osso si sono alzati dalla panchina sotto il noce e sono corsi verso di lui. Zio Vitalij' prima ha rimesso in gabbia il colombo e poi ha appeso la gabbia a qualche metro da terra, per tenerla lontana dalla nostra gatta Murca che amava molto ammazzare i colombi, ragion per cui stava sempre vicina a zio Vitalij che trafficava con loro tutto il giorno. 

Gli adulti hanno cominciato a fare attentati al pollo, il quale mantenendo sempre la calma e in maniera decisamente efficace riusciva ogni volta a sfuggire. Dopo un quarto d'ora d'inutili tentativi, i tre uomini erano senza fiato, e guardavano il pollo che con la stessa determinazione di prima continuava a scavare la terra e a farsi i suoi affari da pollo. Mio padre mi ha sorriso, dicendo:

– Lasciamolo vivere, questo pollo. Non ammazziamolo mai: che stia qui, in giardino, libero di fare quello che vuole.

La sera ho raccontato a mio nonno quello che era successo. Lui ha riso tanto, e poi mi ha chiesto se io ero d'accordo con la decisione di mio padre. Gli ho risposto con una domanda:

– Perché liberare quel pollo e non gli altri?

Nonno mi ha guardato con un sorriso e ha detto: Solo chi apprezza veramente la vita e la libertà, e combatte fino in fondo, merita di vivere libero… Anche se è un semplice pollo.

Io ci ho pensato un po' su e gli ho chiesto:

– E se tutti i polli un giorno diventano come lui?

Dopo una lunga pausa nonno ha detto: Allora bisognerà abituarsi a cenare senza zuppa di pollo…

Il concetto della libertà è sacro per i siberiani.


Quando avevo sei anni, mio zio Vitalij mi ha portato a trovare un suo amico che io non avevo mai visto, perché

quand'ero nato stava già in prigione, a scontare una lunga condanna. Si chiamava Aleksandr, ma mio zio lo chiamava «Riccio».

Riccio era stato liberato proprio quel giorno, dopo quindici anni di galera. Si usava da noi siberiani che i primi ad andare a trovare un galeotto appena rilasciato si portassero dietro i bambini: era una forma di buon augurio, un portafortuna per la vita futura, libera e criminale. La presenza dei bambini serve per far capire alle persone che sono state a lungo escluse dalla società che il loro mondo ha comunque un futuro, e che quello che loro hanno fatto, i loro ideali e l'educazione criminale, non sono stati e mai saranno dimenticati. Io, ovviamente, non capivo niente di tutto questo e sentivo solo la curiosità di conoscere 'sto personaggio.

Nel nostro quartiere ogni giorno qualcuno finiva in prigione o ne usciva, e quindi a noi ragazzini non faceva strano vedere un uomo che era stato in prigione, eravamo cresciuti per essere pronti a finirci anche noi, ed eravamo abituati a parlare di galera come di una cosa assolutamente normale, come altri ragazzini parlano del servizio militare o di cosa faranno da grandi. Però in alcuni casi le figure di certi galeotti prendevano nei nostri racconti una forma eroica, diventavano i modelli a cui volevamo somigliare a tutti i costi: volevamo vivere le loro vite avventurose che brillavano di fascino criminale, quelle vite che noi sentivamo raccontare dagli adulti e poi ci raccontavamo tra di noi, spesso e volentieri modificando i particolari, rendendo quelle storie simili a fiabe e a racconti fantastici. Riccio era questo: un mito, una di quelle figure di cui si nutriva la nostra giovane immaginazione. Di lui si diceva che era ancora minorenne quand'era stato accolto come rapinatore in una delle bande più famose della nostra comunità, composta da criminali siberiani anziani e autorevoli e gestita da un altro personaggio leggendario, conosciuto da tutti noi come «Taiga».

Taiga era un esempio perfetto di criminale siberiano puro: figlio di genitori criminali, da piccolo aveva partecipato a rapine di treni blindati portavalori e aveva ucciso molti agenti di polizia. Sul suo conto esistevano un sacco di storie favolose in cui lui appariva come un saggio e potente criminale in grado di svolgere in maniera perfetta le attività fuorilegge, e al tempo stesso, essendo molto umile e umano, di aiutare i più deboli e punire ogni tipo d'ingiustizia. Taiga era già vecchio quando aveva incontrato Riccio, che allora era un ragazzo orfano. Lo aveva aiutato alla sua maniera, insegnandogli la legge e la morale criminale, e molto presto Riccio era diventato per lui come un nipote. Del resto Riccio aveva saputo guadagnarsi la sua stima.

Una volta era stato circondato dalla polizia insieme ad altri cinque criminali; non c'era via di scampo, tutti quelli della sua banda erano di vecchia fede siberiana e quindi non si sarebbero lasciati prendere vivi, avrebbero resistito fino alla vittoria o alla morte. Per pietà verso di lui, Così giovane, i suoi compagni gli avevano proposto di scappare, offrendogli una sicura via di fuga, ma lui per rispetto verso di loro aveva rifiutato. Erano certi che sarebbero morti tutti, i poliziotti non mollavano l'assedio, ma a un certo punto Riccio aveva fatto una cosa furba: aveva nascosto dietro la schiena il mitra, e con urla di spavento era uscito verso i poliziotti chiedendo aiuto, come se lui fosse stato una semplice vittima estranea alla faccenda tra criminali e polizia. Gli sbirri lo avevano fatto passare dietro le loro schiene e lui, appena finito li, aveva tirato fuori il mitra e li aveva seccati tutti. Grazie al suo gesto i vecchi si erano salvati, e Riccio era diventato membro fisso della loro banda, con tutti i diritti di un criminale adulto. Per noi ragazzini era un esempio: un minorenne che riesce a far valere la sua parola come quella di un adulto è merce rara.

Riccio poi era finito in galera più tardi, verso i trent'anni, per tentato omicidio di poliziotto. Mancavano le prove e i testimoni, però era stato incastrato sfruttando l'articolo della «partecipazione a gruppo criminale», per dimostrare il quale bastavano un paio di pistole sequestrate dall'abitazione e un po' di precedenti penali: facendo un accordo con gli sbirri, il giudice poteva tirare la condanna fino a venticinque anni con vari regimi punitivi. La giustizia in Urss non era affatto cieca, anzi a volte sembrava che ci guardasse tutti attraverso un microscopio.

Mio zio era amico di Riccio, in galera stavano nella stessa «famiglia»: visto che mio zio era uscito prima di lui, un giorno era andato a casa del vecchio Taiga, ormai moribondo, per portargli i saluti di suo nipote adottivo. Prima di morire Taiga aveva benedetto mio zio e aveva detto che il primo figlio maschio che sarebbe nato nella nostra famiglia avrebbe dovuto portare il nome di mio bisnonno Nikolaj, che da giovane era suo amico, e poi era stato fucilato dalla polizia all'età di ventisette anni. Il primo a nascere, dopo cinque anni, sono stato io.


Io e zio Vitalij siamo andati a piedi, la strada non era lunga, una mezz'ora di cammino. Riccio non aveva una casa, era ospite di un vecchio criminale di nome «Bollito» che abitava ai margini del nostro quartiere, vicino ai campi dove il fiume faceva una curva larga e si perdeva nei boschi.

Il cancello era aperto. Era estate, e faceva parecchio caldo; nel cortile, sotto un pergolato d'uva che faceva una bella ombra, erano seduti Bollito e Riccio. Stavano bevendo «kvas», una bevanda dissetante a base di pane nero e di lievito. L'odore di kvas era fortissimo, e si sentiva subito, nell'aria ferma e calda.

Non appena siamo entrati, Riccio si è alzato dalla sedia ed è corso verso mio zio: si sono abbracciati e baciati tre volte sulle guance, come si usa da noi.

– Allora, vecchio lupo, sei ancora capace di mordere? Gli sbirri non ti hanno rotto tutti i denti? – ha chiesto Riccio, come se a essere appena uscito di galera fosse stato mio zio e non lui.

Ma io sapevo perché lo diceva. Mio zio nell'ultimo anno di carcere aveva passato un brutto guaio. Aveva aggredito una guardia per questioni di onore, per difendere un vecchio criminale che era stato pestato da uno sbirro, e le guardie si erano vendicate con torture disumane, lo avevano picchiato forte e a lungo, e dopo lo avevano bagnato e lasciato per una notte all'aperto in pieno inverno. Lui si era ammalato e per fortuna era sopravvissuto, ma la sua salute ne aveva risentito, aveva un'asma cronica e gli stava marcendo un polmone, tanto che mio nonno scherzava sempre dicendo che aveva ritirato dalla galera la metà di suo figlio, mentre l'altra metà era rimasta li a marcire per sempre.

– E tu non sei più giovane, sei diventato un brutto vecchio! Dove hai lasciato i tuoi anni migliori? – gli aveva risposto mio zio guardandolo con affetto. Era evidente che quei due erano buoni amici.

– Ma chi è questo piede scalzo, sarà mica figlio di Jurij? – Riccio mi fissava con un sorriso sghembo.

– Si, è mio nipote. Lo abbiamo chiamato Nicolai come ha chiesto il vecchio Taiga, che la terra gli sia morbida come piuma…

Riccio intanto si era chinato su di me, la sua faccia era davanti alla mia, mi guardava con attenzione negli occhi, e io guardavo lui. Aveva occhi molto chiari, quasi bianchi, con una leggera traccia di azzurro; non sembravano umani, m'incuriosivano molto e continuavo a fissarli come se da un momento all'altro dovessero cambiare colore.

Poi Riccio mi ha messo una mano sulla testa e mi ha agitato i capelli, e io gli ho sorriso come a uno di famiglia. Sarà un assassino, questo, è della nostra razza, che il Signore lo aiuti.

– È sveglio… – ha detto mio zio con una forte nota di orgoglio nella voce, – … Kolima, ragazzo, recita a zio Riccio e zio Bollito la poesia dell'annegato!

Era la poesia preferita di zio Vitalij'. Ogni volta che era ubriaco e voleva partire per ammazzare qualche sbirro, i miei nonni per fermarlo mi mandavano da lui come una specie di terapia a recitare quella poesia. Io la recitavo e lui si calmava subito, cominciava a parlarmi, mettendo via la pistola:

«Va bene, non fa niente, li ammazzerò domani quegli infami schifosi, dimmela un'altra volta…», e Così io ricominciavo da capo ancora e ancora, finché non si addormentava. Solo a quel punto entravano nella stanza i miei nonni e gli portavano via la pistola.

Si trattava della poesia scritta dal mitico Puskin. Racconta di un povero pescatore nelle cui reti è finito il corpo di un annegato. Per paura delle conseguenze il pescatore ributta in acqua il corpo, ma il fantasma dell'annegato comincia a fargli visita ogni notte: finché il suo corpo non sarà sepolto in terra sotto una croce, lo spirito non potrà riposare in pace.

Era una storia molto bella e insieme terrificante, non so proprio perché piacesse Così tanto a mio zio.

Comunque io non mi vergognavo a recitare le poesie davanti agli altri, anzi mi piaceva, mi sentivo importante e protagonista.

Così ho preso un po' d'aria nei polmoni e ho cominciato a declamare, cercando di farlo nel modo più impressionante possibile, cambiando tonalità e aiutandomi anche con i gesti:

– «Sono entrati i bambini in casa, in fretta hanno chiamato il loro padre: "Padre, padre! Le nostre reti hanno pescato un morto! " "Cosa dite, diavolacci, – ha risposto il padre. – Ah, questi ragazzi! Ve lo do io il morto… Moglie, dammi il cappotto, vado a vedere. Ebbene, dove sarebbe questo morto?" "Eccolo li, padre! " E difatti, lungo il fiume, dov'era stesa ad asciugare la rete, sulla sabbia c'era un cadavere: il corpo orribile e sformato, bluastro e tutto gonfio…»

Quando ho finito, mi hanno applaudito. Mio zio era più contento di tutti, mi accarezzava la testa dicendo:

– Che vi dicevo? E un genio.

Il vecchio Bollito ci ha chiesto di accomodarci al tavolo sotto il pergolato ed è andato a prendere due bicchieri per noi. Riccio mi ha chiesto:

– Di' un po', Kolima, hai per caso una picca?

Alla parola «picca» i miei occhi hanno cominciato a brillare e sono diventato attento come una tigre a caccia: io non avevo ancora una picca, nessuno dei miei amici ce l'aveva, di solito la si ha più tardi, verso i dieci-dodici anni.

La picca, Così viene chiamata la storica arma dei criminali siberiani, è un coltello a scatto con una lama lunga e sottile, ed è legato a molte usanze e cerimonie tradizionali della nostra comunità criminale.

Una picca non si può comprare o avere per propria volontà, si deve meritare.

Ogni criminale giovane può ricevere in regalo una picca da un criminale adulto, purché non sia un parente. 

Una volta regalata, la picca diventa una specie di personale simbolo di culto, come la croce nella comunità cristiana.

La picca ha anche poteri magici: moltissimi.

Quando qualcuno è malato e soprattutto soffre, gli mettono sotto il materasso una picca aperta, con la lama di fuori, Così secondo le credenze la lama taglia il dolore e lo assorbe come una spugna. Inoltre, quando un nemico viene colpito da quella lama, il dolore raccolto sgorga dentro la ferita, facendolo soffrire ancora di più. Il cordone ombelicale dei neonati viene tagliato con una picca, che prima però è stata lasciata aperta per una notte nel posto dove dormono i gatti.

A suggellare patti importanti fra due persone – tregue, amicizie o fratellanze – i criminali s'incidono la mano con la stessa picca, che poi viene conservata da una terza persona, una specie di testimone del loro patto: chi tradirà la tregua verrà ammazzato con quella picca.

Quando un criminale muore, la sua picca viene rotta da qualcuno dei suoi amici: una parte, la lama, si mette nella tomba, di solito sotto la testa del morto, il manico invece lo conservano i parenti stretti. Quando è necessario comunicare con il morto, chiedergli un consiglio o un miracolo, i parenti tirano fuori il manico e lo mettono nell'angolo rosso, sotto le icone. Così il morto diventa una specie di ponte diretto tra i vivi e Dio in persona.

Una picca conserva i suoi poteri solo se si trova nelle mani di un criminale siberiano che la usa rispettando le regole della comunità criminale; se una persona indegna si appropria di una picca non sua, quella gli porterà sfortuna: da qui il nostro modo di dire «rovinare qualcosa come la picca rovina un cattivo padrone».

Quando un criminale è in pericolo, la sua picca lo può avvertire in molti modi: la lama scatta improvvisamente da sola, o diventa calda, o vibra; qualcuno ritiene che sia persino in grado di emettere un fischio.

Se una picca si rompe, significa che da qualche parte c'è un morto che non trova pace e allora si fanno offerte alle icone o si ricordano nelle preghiere parenti e amici morti, si visitano i cimiteri, si ricordano i morti parlando di loro in famiglia, raccontando di loro soprattutto ai bambini.

Per tutte queste ragioni, alla parola «picca» mi si sono accesi gli occhi. Possederne una significa essere premiati dagli adulti, avere qualcosa che ti lega per sempre al loro mondo.

La domanda che mi aveva fatto Riccio era un chiaro segnale che stava per succedermi una cosa pazzesca, a me, un bambino di sei anni. Un mitico criminale stava per regalarmi una picca, la mia prima picca. Non speravo, non potevo neanche immaginare una cosa del genere, e invece Così, all'improvviso, avevo davanti a me la possibilità di possedere quel simbolo sacro, che per la gente che ha ricevuto l'educazione criminale siberiana è una parte dell'anima.

Cercando di nascondere l'agitazione, ho fatto una faccia indifferente, però non credo che mi è riuscita bene, perché tutti e tre mi guardavano sorridendo. Pensavano di sicuro alla loro prima volta, alla loro prima picca. 

– Non ce l'ho, – ho detto con la voce durissima.

– Allora aspetta un momento che arrivo… – con queste parole Riccio è entrato in casa. Io stavo esplodendo dalla felicità, dentro di me suonava un'orchestra, sparavano fuochi d'artificio e si sentivano miliardi di voci d'euforia. Ero come ubriaco, stavo per scoppiare.

Riccio è tornato subito, si è avvicinato, mi ha preso la mano e ci ha messo dentro una picca. La picca.

– Questa è tua, che il Signore ti aiuti e la tua mano diventi forte e decisa…

Da come mi guardava, era evidente che era contento anche lui.

Io invece guardavo la mia picca e non credevo fosse vera. Era più pesante e più grande di quanto avessi immaginato.

Ho tolto la sicura, abbassando una specie di piccola leva, e poi ho schiacciato il bottone. Il rumore del meccanismo era musica per le mie orecchie, era come se il metallo prendesse voce. La lama scattava secca, in un attimo, con una forza immensa, e rimaneva subito ferma e dritta, stabile e fissa. Era scioccante il momento in cui quell'oggetto strano, che da chiuso sembrava un attrezzo di cancelleria dell'inizio del secolo, aprendosi prendeva una chiara, semplice e definitiva forma di arma bellissima e graziosa, sottile, con una certa nobiltà e fascino. Il manico era di osso nero – Così da noi chiamano le corna del cervo reale, marroni scure, quasi nere – con al centro un intarsio di osso bianco a forma di croce ortodossa.

Il manico era Così lungo che dovevo prenderlo con due mani, come la spada dei cavalieri medievali. Anche la lama era lunghissima, affilata da un lato e tutta lucidata a specchio. Era un'arma fantastica e io mi sentivo in paradiso.


Da quel giorno la mia autorità tra i miei amici è cresciuta a dismisura. Per una settimana ho dovuto accogliere frotte di bambini che venivano da tutto il quartiere per vedere la mia picca, casa mia era diventata una specie di luogo sacro e loro erano i pellegrini. Mio nonno li faceva entrare in cortile, offriva a tutti delle bevande fresche. Mia nonna non faceva in tempo a preparare il kvas che già era finito, allora io ho sparso la voce che erano gradite offerte in forma liquida e preferibilmente fresche, Così chiunque voleva venire a vedere il primo ragazzo di sei anni felice proprietario di una vera picca si doveva portare dietro da bere.

Io mi sentivo veramente orgoglioso e fiero di me stesso, ma dopo un po' mi ha preso una strana forma di depressione, mi ero stancato di raccontare la stessa storia cento volte al giorno e mostrare la picca a tutti quanti. Così sono andato a trovare nonno Kuzja, come ogni volta che avevo un problema o un dolore.

Nonno Kuzja era un criminale anziano che abitava nel nostro quartiere in una piccola casa davanti al fiume. Era un vecchio molto forte, aveva ancora tutti i capelli neri ed era pieno di tatuaggi ovunque, persino sul viso. Di solito mi portava in giardino per farmi vedere il fiume, e mi raccontava fiabe e varie storie della comunità criminale. Aveva una voce forte, ma parlava piano, tranquillo, Così che sembrava che la sua voce arrivava da lontano, e non da dentro di lui. La cosa più impressionante erano i suoi occhi. Di colore blu, però sporco, paludoso, con un leggero accento di verde, sembravano non appartenere al suo corpo, come non farne parte. Erano profondi, e quando con calma, senza nervosismo, te li puntava addosso, sembrava che ti stesse facendo i raggi x: nel suo sguardo c'era davvero qualcosa d'ipnotico. La faccia piena di rughe era attraversata a sinistra da una lunga cicatrice, ricordo di gioventù criminale.

Insomma, sono andato a trovarlo e gli ho raccontato tutto, mettendo in chiaro che mi piaceva avere la picca, che però i miei amici mi trattavano diversamente da prima. Anche il mio caro amico Mei, con cui eravamo, come dicono da noi, «tagliati con la stessa ascia», si comportava come se fossi un'icona religiosa davanti alla quale bisognava sempre essere buoni e gentili.

Nonno Kuzja si è messo a ridere, ma senza cattiveria, e mi ha detto che non ero della taglia giusta per essere una celebrità.

Poi mi ha fatto un lungo discorso dei suoi. Mi ha consigliato di comportarmi come mi veniva. Mi ha detto che il fatto di aver avuto una picca non mi rendeva diverso dagli altri, che ero stato semplicemente fortunato a trovarmi nel momento giusto al posto giusto, e se Così aveva voluto Nostro Signore io dovevo essere pronto per la responsabilità che mi aveva dato. Dopo il suo discorso, come sempre, mi sono sentito meglio.

Nonno Kuzja mi ha insegnato le vecchie regole di comportamento criminale, che nei tempi moderni aveva visto cambiare sotto i suoi occhi. Era preoccupato, perché diceva che tutto comincia sempre dalle piccole cose che sembrano poco importanti, e alla fine si arriva alla totale perdita della propria identità.

Per farmelo entrare nella zucca mi raccontava spesso una fiaba siberiana, una specie di metafora, il cui senso era proprio la perdita di dignità degli uomini che seguono una via sbagliata, attirati da falsi benefici.

Quella fiaba parlava di un branco di lupi che erano messi un po' male perché non mangiavano da parecchio tempo, insomma attraversavano un brutto periodo. Il vecchio lupo capo branco però tranquillizzava tutti, chiedeva ai suoi compagni di avere pazienza e aspettare, tanto prima o poi sarebbero passati branchi di cinghiali o di cervi, e loro avrebbero fatto una caccia ricca e si sarebbero finalmente riempiti la pancia. Un lupo giovane, però, che non aveva nessuna voglia di aspettare, si mise a cercare una soluzione rapida al problema. Decise di uscire dal bosco e di andare a chiedere il cibo agli uomini. Il vecchio lupo provò a fermarlo, disse che se lui fosse andato a prendere il cibo dagli uomini sarebbe cambiato e non sarebbe più stato un lupo. Il giovane lupo non lo prese sul serio, rispose con cattiveria che per riempire lo stomaco non serviva a niente seguire regole precise, l'importante era riempirlo. Detto questo, se ne andò verso il villaggio.

Gli uomini lo nutrirono coi loro avanzi, e ogni volta che il giovane lupo si riempiva lo stomaco pensava di tornare nel bosco per unirsi agli altri, però poi lo prendeva il sonno e lui rimandava ogni volta il ritorno, finché non dimenticò completamente la vita di branco, il piacere della caccia, l'emozione di dividere la preda con i compagni.

Cominciò ad andare a caccia con gli uomini, ad aiutare loro anziché i lupi con cui era nato e cresciuto. Un giorno, durante la caccia, un uomo sparò a un vecchio lupo che cadde a terra ferito. Il giovane lupo corse verso di lui per portarlo al suo padrone, e mentre cercava di prenderlo con i denti si accorse che era il vecchio capo branco. Si vergognò, non sapeva cosa dirgli. Fu il vecchio lupo a riempire quel silenzio con le sue ultime parole:

«Ho vissuto la mia vita come un lupo degno, ho cacciato molto e ho diviso con i miei fratelli tante prede, Così adesso sto morendo felice. Invece tu vivrai la tua vita nella vergogna, da solo, in un mondo a cui non appartieni, perché hai rifiutato la dignità di lupo libero per avere la pancia piena. Sei diventato indegno. Ovunque andrai, tutti ti tratteranno con disprezzo, non appartieni né al mondo dei lupi né a quello degli uomini… Così capirai che la fame viene e passa, ma la dignità una volta persa non torna più».

Questa parte finale era la mia preferita, perché quelle parole del vecchio lupo erano un autentico distillato di filosofia criminale, e mentre nonno Kuzja le pronunciava ci rispecchiava dentro la sua vita vissuta, il suo modo di vedere e capire il mondo.

Mi sono tornate in mente qualche anno dopo, mentre con un treno mi stavano portando in un carcere minorile. Una guardia aveva deciso di sua volontà di distribuire dei pezzi di salame. Avevamo fame, e tanti si erano buttati avidamente su quel salame per divorarlo. Io l'avevo rifiutato, un ragazzo mi avevo chiesto perché e io gli avevo raccontato la storia del lupo indegno. Lui non mi aveva capito, ma quando siamo arrivati a destinazione la guardia che aveva distribuito il salame ha annunciato sul piazzale principale, davanti a tutti, che prima di darcelo lo aveva messo nel cesso.

Per questo motivo, secondo la regola criminale, tutti quelli che lo avevano mangiato erano stati «contagiati», e quindi erano passati nella casta più bassa della comunità criminale, automaticamente disprezzati da tutti ancora prima di entrare in carcere. Questo era uno dei giochetti che gli sbirri facevano spesso per sfruttare le regole criminali come un'arma contro i criminali stessi; gli riuscivano meglio con i minori, che spesso non sapevano che dalle mani di uno sbirro un criminale onesto non può prendere niente. Come diceva mio zio buonanima:

«Un criminale degno prende dagli sbirri solamente le botte, e pure quelle le rida indietro, quando arriva il momento giusto».


Dunque, grazie all'improvviso aumento della mia autorità tra i miei amici, avevo iniziato a fare una specie di propaganda dell'educazione che ricevevo da nonno Kuzja. Lui era contentissimo, perché Così riusciva a inquadrare tutti noi, attraverso uno solo dava a tanti la giusta base educativa per sviluppare il rapporto siberiano con la vita, per poter tramandare idee e ideali. Non a caso noi ragazzi del quartiere Fiume Basso venivamo chiamati da tutti gli altri «Educazione siberiana». Questo era il nome che era stato dato ai siberiani in esilio per via della loro fedeltà alle tradizioni criminali, per il loro spirito estremamente conservatore, a differenza di quello di altre comunità.

Nella nostra città ogni comunità criminale, soprattutto se composta da gente giovane, si distingueva dalle altre per qualche capo di abbigliamento particolare o per un modo diverso di portarlo. Si usavano anche dei simboli, che subito ti identificavano come appartenente a quella banda, quel quartiere o quel gruppo di connazionali. Molte comunità usavano marchiare il proprio territorio con disegni o scritte, ma questo mezzo di comunicazione sociale era parecchio malvisto dalle comunità potenti e antiche. Ad esempio i nostri vecchi ci avevano sempre vietato di scrivere o disegnare sui muri qualsiasi cosa, perché dicevano che era vergognoso e maleducato. Nonno Kuzja una volta mi aveva spiegato che la nostra comunità criminale non ha bisogno di affermare in nessuna maniera la sua presenza: esiste e basta, e la gente lo sa non perché vede ogni giorno delle scritte sui muri di casa sua, ma perché sente la nostra presenza, ed è certa di poter contare sempre sull'aiuto e la comprensione di noi criminali. Lo stesso discorso vale per un criminale singolo: anche se è un personaggio leggendario, si comporta come il più umile di tutti.

In altri quartieri era tutto diverso. I membri delle bande del Centro portavano dei ciondoli d'oro con una forma ben precisa, da cui si sentivano rappresentati. Ad esempio la banda gestita da un giovane criminale soprannominato «Pirata», che aveva costruito intorno a sé una specie di culto della personalità, si distingueva dalle altre per i ciondoli con il teschio e due ossa, come nella bandiera dei pirati. Un'altra banda del quartiere Ferrovia obbligava tutti i suoi membri a portare vestiti neri, per sottolineare la loro volontà di far parte della casta Seme nero. Gli ucraini del quartiere Balka invece si vestivano all'americana, o più spesso come gli afroamericani. Cantavano canzoni che sembravano senza senso, perché le parole venivano pronunciate Così veloci che non si capiva un accidenti. E disegnavano dappertutto cose strane con bombolette spray; uno di loro una volta nel quartiere Riva aveva disegnato qualcosa sul muro di casa di una persona anziana, un vecchio galeotto, e per questo un criminale giovane, suo vicino, gli aveva sparato. Mi ricordo di aver commentato la cosa con nonno Kuzja: gli ho detto che secondo me ammazzare per un simile reato è ingiusto, si può chiedere un risarcimento per l'offesa e il dispetto, e poi si può sempre picchiare, dopo le botte una persona di solito capisce qualcosa. Lui non era d'accordo con me e mi ha detto che ero troppo umano, troppo umano e troppo giovane. Mi ha spiegato che quando i ragazzi prendono una strada sbagliata e non vogliono ascoltare i loro vecchi, nella maggior parte dei casi danneggiano se stessi e quelli che gli stanno intorno. I ragazzini ucraini stavano mettendo a rischio molti giovani di altri quartieri, che li avrebbero imitati, perché fare i maleducati è sempre più facile e più affascinante che seguire la strada della buona educazione: quindi gli ucraini, comportandosi Così, avevano messo in dubbio il potere criminale e l'ordine nella nostra città. Per questo era necessario trattarli con crudeltà e severità totale, per far capire a tutti dove può portare la via della disobbedienza alle tradizioni. E aggiungeva:

– E poi, perché fanno finta di essere neri americani e non, per dire, coreani del Nord o palestinesi? Te lo dico io perché: questa è sporcizia che arriva dal diavolo, attraverso la televisione, il cinema, i giornali e tutte le porcherie che una persona degna e onesta non tocca mai… L'America è un Paese maledetto dimenticato da Dio, e ogni cosa che esce da li dev'essere ignorata, invece questi stupidi si divertono a giocare agli americani, tra un po' cominceranno pure a parlare urlando come scimmie…

Nonno Kuzja odiava tutto ciò che era americano perché, come tutti i criminali siberiani, si opponeva a quello che rappresentava il potere nel mondo. Quando sentiva parlare di gente fuggita in America, di tanti ebrei che negli anni Ottanta avevano fatto una grandiosa fuga dall'Urss, diceva stupito:

– Ma come mai vanno tutti in America dicendo che cercano la libertà? I nostri antenati si sono rifugiati nel bosco, in Siberia, mica sono andati in America. E poi perché fuggire dal regime sovietico per finire in quello americano? Sarebbe come se un uccello scappato dalla gabbia andasse volontariamente a vivere in un'altra gabbia…

Per questi motivi, a Fiume Basso era vietato usare qualsiasi cosa americana. Le macchine americane, che circolavano liberamente per tutta la città, non potevano entrare nel nostro quartiere, e Così erano banditi i capi di abbigliamento, gli elettrodomestici o qualsiasi altro oggetto «made in Usa». Per me personalmente quest'aspetto era abbastanza doloroso, dato che io avevo un debole per i jeans: mi piacevano, ma non li potevo mettere. Ascoltavo di nascosto la musica americana, mi piaceva il blues, il rock e il metal, ma rischiavo di grosso a tenere in casa i dischi e le cassette; quando mio padre faceva ispezione nei miei nascondigli e li trovava scatenava un inferno, mi picchiava e mi obbligava a rompere tutte le registrazioni con le mie mani davanti a lui e al nonno, e poi per una settimana di seguito ogni sera dovevo suonare con la fisarmonica per un'ora a lui e agli altri membri della famiglia le melodie russe, e cantare le canzoni popolari o criminali russe.

Io non ero affascinato dalla politica americana, solo dalla musica e dai libri di qualche scrittore. Una volta, scegliendo il momento giusto, ho provato a spiegarlo a nonno Kuzja: speravo che lui con i suoi poteri potesse intercedere per me e ottenere il permesso di farmi ascoltare la musica e leggere i libri americani senza dovermi nascondere dai miei famigliari. Mi ha guardato come se l'avessi tradito e ha detto:

– Figliolo, lo sai perché quando c'è la peste la gente brucia tutto ciò che apparteneva ai malati?

Io ho fatto un gesto negativo con la testa. Ma già immaginavo dove voleva andare a parare. Lui ha fatto un triste sospiro e ha concluso:

– Il contagio, Nicolai, il contagio.


E Così, dato che tutto ciò che era americano era vietato, com'era vietato esibire la ricchezza e il potere attraverso le cose materiali, la gente del nostro quartiere si vestiva molto umilmente. Noi ragazzi eravamo messi proprio male con l'abbigliamento, ma ne eravamo anche orgogliosi, portavamo come trofei le scarpe vecchie di nostro padre o dei nostri fratelli più grandi, i loro vestiti fuori moda, che dovevano sottolineare l'umiltà e la semplicità siberiana.

Era impressionante come i nostri vecchi gestivano il denaro. Eravamo una comunità antica e molto ricca, le case nella nostra zona erano enormi, la gente avrebbe potuto vivere «alla grande», come si dice da noi e da voi, godersi fino in fondo la vita, invece il denaro veniva usato in maniera strana: niente vestiti, gioielli, macchine costose, giochi d'azzardo; i siberiani spendevano volentieri i loro soldi solo per due cose: armi e icone ortodosse. Eravamo tutti pieni di armi, e anche di icone, che costavano tantissimo.

Per il resto eravamo umili, umili e in divisa. D'inverno portavamo tutti pantaloni imbottiti, neri o blu scuro, molto caldi e comodi. Le giacche erano di due tipi: o la classica fufajka imbottita con cui ai tempi dell'Urss si vestiva metà della popolazione, perché era la giacca che davano ai lavoratori, o la tulup, con un enorme collo di pelliccia che si poteva alzare fino agli occhi per proteggersi dal freddo più forte. Io portavo la fufajka, perché era più leggera e mi permetteva di muovermi abbastanza bene. Le scarpe erano pesanti, imbottite di pelliccia, e si usavano anche lunghe calze di lana per non rischiare il congelamento. In testa si portava il cappello di pelliccia: io ne avevo uno bellissimo, di ermellino bianco, molto caldo, leggero e comodo.

D'estate mettevamo normali pantaloni di stoffa, sempre con la cintura, secondo la regola siberiana. La cintura è legata alla tradizione dei cacciatori, per i quali era ben più di un portafortuna: era una richiesta d'aiuto. Se un cacciatore si perdeva nel bosco, o gli succedeva qualcosa, legava la cintura al collo del suo cane e lo mandava a casa; Così, quando gli altri vedevano tornare il cane capivano che era nei guai.

Insieme ai pantaloni si portava una camicia, di solito bianca o grigia, con il collo dritto e i bottoni sulla destra, che si chiama kosovorotka, «colletto storto». Sopra la camicia giacche leggere, grigie o nere, molto grezze, all'uso militare. E sulla testa infine il mitico cappello dei criminali siberiani, una specie di bandiera, chiamato «otto triangoli». E fatto da otto pezzi di stoffa cuciti insieme in modo da formare una specie di cupola con un bottone in cima; ha anche una piccola visiera. Il colore non può che essere chiaro, se non bianco. In Russia questo tipo di cappello si chiama kepka, e ne esistono molte varietà. Otto triangoli è solo la variante siberiana. Il vero otto triangoli di un criminale audace e scaltro deve avere la visiera piegata bene, arrotondata, mai rotta, che fa uno spigolo a metà. In segno di disprezzo la si spacca al nemico, piegandola finché non si deforma.

Il mio otto triangoli me l'aveva regalato mio zio, era un cappello vecchio e mi piaceva proprio per questo. Ma avevo la testa piccola, e per farlo stare su dovevo mettermelo dietro le orecchie: la cosa mi preoccupava molto perché credevo che a furia di portarlo le mie orecchie si sarebbero allargate per sempre, però non avevo scelta: o dietro le orecchie o quello mi copriva metà della faccia. Un giorno mia mamma lo ha preso e lo ha adattato alla mia testa, e quello è stato proprio un bel giorno.

L'otto triangoli era un cappello Così importante che raccontava storie e generava modi di dire. In gergo criminale la frase «portare otto triangoli» vuol dire compiere un crimine o partecipare alla gestione di affari criminali. La frase «tenere otto triangoli dritti» significa stare all'erta, essere preoccupati per qualche pericolo. «Mettere otto triangoli sulla nuca», invece, significa avere un comportamento aggressivo, prepararsi a un'aggressione. «Otto triangoli messo storto» vuol dire mostrare un comportamento tranquillo, rilassato. «Mettere otto triangoli sugli occhi» significa annunciare la necessità di sparire, nascondersi. «Riempire otto triangoli» significa prendere qualcosa in abbondanza.

Spesso io riempivo davvero il mio cappello, ad esempio quando noi ragazzi andavamo a trovare zia Marta, una donna che abitava da sola in riva al fiume ed era famosa per le sue marmellate. Le portavamo le mele che avevamo rubato dai giardini delle fattorie collettive dall'altra parte del fiume, e l'aiutavamo a pulirle, per fare la marmellata. Preparava i pirozki, piccoli biscotti che riempiva di marmellata. Ci mettevamo tutti in cerchio seduti su piccoli sgabelli nel cortile davanti a casa sua, con la porta della cucina spalancata, dove bolliva sempre qualcosa sul fuoco; pescavamo le mele dai sacchi, le sbucciavamo con i nostri coltelli e poi le buttavamo in un grosso pentolone con l'acqua dentro. Quando quello era pieno, lo portavamo in casa tutti quanti, usando due lunghe assi di legno che agganciavamo al pentolone come maniglie. Zia Marta ci voleva bene, ci dava da mangiare in abbondanza, tornavamo sempre a casa con le pance piene e con i pirozki tra le mani. Io i miei li mettevo nel cappello e li mangiavo mentre camminavo.

Al cappello a otto triangoli sono dedicate molte opere della tradizione criminale: proverbi, poesie, canzoni. Siccome io passavo tanto tempo con i vecchi criminali, ad ascoltarli cantare o recitare poesie, ne sapevo molte a memoria. Una canzone, la mia preferita, diceva cosi:


Ricordo, portavo un cappello a otto triangoli,

bevevo vodka e fumavo un tabacco un po' forte,

ero innamorato della mia vicina Nina

e con lei andavo al ristorante.

Portavo uno scaber1 dentro i miei scricchiolanti chromacij2,

sotto la camicia una tel'njaska3, regalo di ladri di Odessa…


[1: Coltello-baionetta usato per andare all'arrembaggio delle navi sui fiumi]

[2: Cioè «lucidati»: così vengono chiamati gli stivali]

[3: Maglia da marinaio a righe bianche e blu, con maniche lunghe]


L'otto triangoli era al centro di tutto: lo si nominava di continuo, si scommetteva su di lui in varie situazioni. Spesso nei discorsi tra criminali, sia minorenni che adulti, capitava di sentire la frase: «Che il mio cappello a otto triangoli prenda fuoco sulla mia testa se non è vero quel che dico», o «Che il mio cappello voli via dalla mia testa», oppure la variante più macabra: «Che il mio cappello mi soffochi a morte».

Nella nostra società era vietato giurare, era considerata una specie di debolezza, un'offesa verso se stessi, perché chi giura insinua che quel che sta dicendo non è vero. Ma tra ragazzi, parlando, tante volte i giuramenti scappavano, e si giurava sul proprio cappello. Non si doveva mai giurare sulla madre, sui genitori e parenti in genere, su Dio e sui santi. Né sulla propria salute o ancor peggio sulla propria anima, perché veniva considerato come un «danneggiamento alla proprietà di Dio». Non restava che sfogarsi sul proprio cappello.


Una volta il mio amico Mel ha giurato sul suo cappello di fronte a tre ragazzi della nostra banda, me compreso, che avrebbe «infilato il suo otto triangoli nel culo di Amur», (Così si chiamava il cane di zio Peste, un nostro vicino), se non riusciva a saltare il cancello della scuola da fermo, in un balzo.

Anche a ripensarci adesso non ho la più pallida idea di come Mel credesse di poter saltare 'sto cancello, e perché fosse Così convinto di superare con un solo balzo un ostacolo di quattro metri d'altezza. Ma quello che mi preoccupava di più, allora, era come avrebbe eseguito l'operazione con il cappello nel caso avesse perso la scommessa, dato che Amur era il cane più grosso e cattivo del nostro quartiere: aveva una fama terribile, era un incrocio tra un pastore tedesco e la razza di cani che da noi in Siberia viene chiamata Alabaj, «schiaccia lupi». Di solito Amur gironzolava tranquillo nel cortile del suo padrone, ma a volte diventava incontrollabile, soprattutto se sentiva il rumore di un fischietto. Gli avevano già sparato due volte, dopo che aveva aggredito qualcuno, ma lui era sopravvissuto perché, come diceva mio padre, «più spari a quella bestia, più diventa forte». Personalmente a me quel mostro di cane faceva un casino di paura, una volta l'avevo visto attraversare il fiume e uccidere una capra sbranandola come se fosse fatta di stracci.

Beh, l'idea di Mel mi sembrava più che sciocca per i motivi che ho appena spiegato. Ma una volta detta, la parola non poteva essere rimangiata, e non rimaneva che assistere a quel folle spettacolo di cui Mei, per sua pura idiozia, era sia regista che attore.

Così ci siamo diretti verso il cancello della scuola.

Mel ha fatto un tentativo, ha saltato mezzo metro, battendo il naso contro il cancello. Dopo, seduto in terra, ha tratto le sue conclusioni:

«Accidenti, è veramente alto, non riuscirò mai…»

Io lo guardavo e non riuscivo a credere che una persona fatta di carne e ossa come tutti noi potesse essere Così ingenua. Tentando di salvare la situazione, ho detto che era stato tutto molto divertente e che adesso potevamo anche tornarcene a casa. Ma lui mi ha ammazzato con la sua stupidità, dicendo che per una questione d'onore ora doveva tenere fede al giuramento.

Mi veniva da ridere e piangere contemporaneamente. Gli altri due miei amici, Besa e Gigit, invece erano entusiasti e già si figuravano tutti i modi in cui Mel avrebbe potuto avvicinarsi al cane ed eseguire il suo piano maledetto con la massima efficienza: camminavano davanti a me, spiegando a Mel tutti i dettagli della cosa, e io come un fantasma mi trascinavo dietro.

Una volta arrivati di fronte alla casa di Peste, Mel ha scavalcato il recinto e si è buttato nel cortile. Peste non era in casa, era andato a pescare: mancava la rete che di solito veniva stesa lungo il recinto.

Amur stava accucciato vicino alla porta: con una leggera ironia sulla sua faccia brutalmente orrenda ci fissava con interesse per capire come avremmo organizzato la penetrazione del suo ano con il cappello a otto triangoli.

Mel si era portato una corda per legare il cane, e aveva anche un tubetto di vaselina che degli amici avevano chiesto a zia Natalia, l'infermiera, per rendere più efficace il passaggio del cappello nella carne di cane. Mel si avvicinava a lui e quello non faceva una mossa, lo guardava con i suoi occhi indifferenti e pieni di noia, come se stesse guardando attraverso di lui. A ogni passo Mel prendeva più coraggio, se prima sembrava aver paura di fare movimenti forti e decisi e si spostava piano, come una tartaruga, gli ultimi passi invece li ha fatti quasi saltando, tutto contento che il cane non reagiva.

Quando tra Mel e Amur non c'erano che un paio di metri, Gigit si è messo due dita in bocca e ha fatto un forte fischio, provocando un rumore Così fastidioso che pure a me è venuta la cresta dritta. In pochi istanti ho visto Mel volare magicamente oltre il recinto, passare sopra la mia testa e atterrare sul marciapiede, battendo la fronte contro l'asfalto bollente, scaldato dal generoso sole d'estate. Subito dopo, il cancello si è spostato sotto il peso del corpo di Amur, che ci sbatteva forte contro, accompagnando la sua rabbia con uno strano verso che io non avevo mai sentito prima da nessun essere vivente. Era una specie di urlo umano mischiato a un disperato e rabbioso coro di voci animali. Come se un elefante, un leone, un lupo, un orso e un cavallo avessero gareggiato a chi grida di più. Se in quel momento mi avessero chiesto quale voce poteva avere il demonio, avrei detto quella di Amur.

Mel aveva i pantaloni strappati sul sedere, e sotto si vedevano strisce rosse di sangue, le tracce della zampata di Amur. Era terrorizzato e ancora non capiva cosa gli fosse successo, invece Gigit e Besa si rotolavano a terra dal ridere e continuavano a fischiare, per scatenare ancora di più il cane, che dall'altra parte del cancello continuava a sputare schiuma e lanciare i versi della sua rabbia animale.

Il cancello era chiuso, per fortuna, perché se fosse stato aperto sicuramente Amur ci avrebbe fatti a pezzi tutti quanti.

Mel alla fine ha perso la sua scommessa, ma noi, dopo uno spettacolo Così divertente, l'abbiamo perdonato.


A dodici anni finii in un casino. Fui processato per «minacce in luogo pubblico», «tentato omicidio con gravi conseguenze» e, ovviamente, per «resistenza a un rappresentante del potere nell'adempimento dei doveri di difesa dell'ordine pubblico». Era il mio primo processo penale, e date le circostanze (ero un ragazzino e la vittima era un pregiudicato più grande di me di un paio d'anni) il giudice decise di limitarsi a una condanna che da noi in gergo viene chiamata «coccola». Niente prigione, nessun obbligo di frequentare quei programmi di rieducazione e balle varie dopo i quali la gente di solito diventa ancora più incarognita e arrabbiata. Era solo necessario seguire una specie di coprifuoco personale: restare in casa dalle otto di sera fino alle otto di mattina, presentarsi ogni settimana nell'ufficio minorile e frequentare la scuola.

Dovevo vivere Così per un anno e mezzo, dopo avrei potuto tornare alla vita normale. Ma se nel frattempo commettevo qualche reato finivo dritto dritto sulle brande di un carcere minorile, o come minimo in una colonia rieducativa.

Per un anno è andato tutto liscio, cercavo di tenermi il più possibile lontano dai guai; certo, spesso uscivo di notte, perché ero sicuro di non venire scoperto. L'importante, mi dicevo, era non farsi beccare in un posto lontano da casa nell'orario sbagliato e soprattutto non farsi trovare immischiato in qualche questione seria.

Ma un pomeriggio Mel e altri tre amici sono venuti da me. Ci siamo riuniti in giardino, sulla panca sotto l'albero, per discutere di una grana capitata una settimana prima con un gruppo di ragazzi di Tiraspol'. Avevamo un amico, un ragazzo che si era trasferito nel nostro quartiere di recente; la sua famiglia era stata costretta a lasciare San Pietroburgo perché il padre aveva avuto problemi con la polizia. Erano ebrei, ma viste le circostanze particolari, e qualche affare comune, i siberiani avevano garantito la loro protezione.

Il nostro amico aveva tredici anni e si chiamava Lyéza, un vecchio nome ebraico. Era un ragazzo molto chiuso e debole: aveva problemi di salute, era quasi sordo e portava occhiali enormi, quindi nella comunità siberiana è stato subito trattato con compassione e comprensione, come tutti i disabili. Mio padre ad esempio non faceva che raccomandarmi di badare a lui e di tirare fuori la lama nel caso qualcuno lo aggredisse o lo offendesse. Lyéza era molto istruito, aveva maniere raffinate e parlava sempre con serietà, tutto quello che diceva sembrava convincente. Non a caso l'avevamo subito battezzato con un soprannome alla sua altezza: «il Banchiere».

Lyéza girava sempre con noi, non portava mai coltelli o altre armi e non era capace nemmeno di fare a pugni, però sapeva tutto, era una specie di enciclopedia vivente, raccontava in continuazione le storie che si trovano sui libri: come vivono e si moltiplicano gli insetti, come si formano i branchi degli animali, perché gli uccelli migrano, cose cosi. Mi ricordo che una volta è riuscito a fare l'impossibile, e cioè a spiegare a Mel come si riproducono i vermi ermafroditi: ci ha messo parecchio tempo, però alla fine ce l'ha fatta, Mel girava come fulminato, come se avesse visto Gesù, Dio Padre e la Madonna tutti in una volta, e diceva:

«Ma tu pensa che storia! I vermi non hanno una famiglia! Niente papà e mamma, fanno tutto da soli!» Far capire qualcosa, anche una piccolissima cosa, al mio amico Mel era segno di grandi qualità umane e intellettuali.

Mel e gli altri tre miei amici, Besa, Gigit e Tomba, mi hanno raccontato che Lyéza era andato da solo a Tiraspol', al mercatino settimanale dell'usato, per scambiare dei francobolli, visto che lui era un appassionato collezionista. Al ritorno, in pullman, era stato aggredito da un branco di coglioni che lo avevano picchiato (per fortuna non tanto forte, solo qualche schiaffo) e gli avevano fregato il suo album di francobolli. Mi era salita la carogna, Così abbiamo fissato per la sera stessa un appuntamento con gli altri minori del nostro quartiere, per fare una spedizione punitiva a Tiraspol'.

Tiraspol' era la capitale della Transnistria, si trovava a una ventina di chilometri da noi, sul lato opposto del fiume. Era una città più grande della nostra, e molto diversa. La gente di Tiraspol' stava lontana dal crimine, li c'erano tante fabbriche di armi, reparti militari e uffici vari, quindi gli abitanti erano tutti lavoratori o militari. Avevamo un pessimo rapporto con i ragazzi di quella città, li chiamavamo «mammoni», «caproni», «senza palle». A Tiraspol' non vigevano le leggi criminali di onestà e rispetto tra le persone, e i minori si comportavano da veri e propri animali. Non a caso nessuno di noi si era sorpreso di quello che era successo a Lyéza: a Tiraspol' essere aggrediti da qualche gruppetto di bastardi era la norma.

Siamo andati a casa di Lyéza per vedere come stava e chiedergli se gli andava di venire con noi per aiutarci a riconoscere gli aggressori. Abbiamo spiegato a suo padre che saremmo andati a Tiraspol' per compiere un atto di giustizia, per punire coloro che avevano aggredito suo figlio. Suo padre gli ha dato il permesso di seguirci e ha augurato fortuna a tutti quanti: era molto contento che Lyéza avesse degli amici come noi, perché rispettava profondamente la filosofia siberiana di fedeltà al gruppo.

Lyéza non ha detto niente, ha preso la giacca ed è uscito con noi. Insieme siamo tornati a casa mia, dove abbiamo progettato tutto.

Verso le otto di sera una trentina di amici si sono radunati li davanti. Mia madre ha capito subito che stavamo per combinare qualche guaio:

– Forse è meglio che stai tranquillo, non puoi rimanere a casa?

Cosa dovevo risponderle?

– Dai, non ti preoccupare, mamma, facciamo un giro veloce e poi torniamo…

Povera mamma mia, non ha mai osato opporsi alle mie decisioni, anche per questo ha sofferto tanto.

Ma noi avevamo una meta: a Tiraspol' c'era un posto, in mezzo a un parco della periferia, dove di sera si radunavano tutti i deficienti della città. Si chiamava «il Poligono». Li di solito i minorenni giravano con i motorini, cuocevano carne alla griglia, consumavano alcol e droga in libertà fino a tarda notte.

Va detto che anche se in quel posto c'erano sempre tante persone, noi ci andavamo con la certezza di ottenere giustizia e seminare caos e distruzione, perché sapevamo bene che tra la gente di quella città non si usava essere uniti nel male: facevano gruppo solo per combinare guai e per divertirsi, ma quando arrivava il momento di pagare i conti ognuno se ne andava per la sua strada.

Per non dare nell'occhio siamo arrivati in città con il pullman di linea, poi, divisi in gruppi di cinque, ci siamo incamminati verso il parco.

Il mio amico Mel mi ha mostrato una pistola a tamburo a cinque colpi, un'arma vecchia, di piccolo calibro, che io chiamavo affettuosamente «la preistorica».

– Gliela farò vedere, stasera! – ha detto con un sorriso largo, e si capiva chiaramente che non vedeva l'ora di fare qualcosa di brutto.

– Cristo Santo, Mei, mica andiamo in guerra! Nascondi 'sta merda che non la voglio neanche vedere… – Non mi piaceva proprio l'idea di tirar fuori le pistole. Un po' perché secondo la nostra educazione un'arma da fuoco si usa solo in casi estremi, ma soprattutto perché se viene fuori che alla prima occasione tu ti aggrappi alla pistola, poi la gente parla male di te. Fin da piccolo ho imparato da mio zio che la pistola è uguale al portafoglio, si tira fuori solo per usarla, tutto il resto è da imbecilli.

– Ma è pericoloso andare senza, chissà quanto ferro hanno addosso quelli, sono preparati… – Mel cercava di convincermi che il suo comportamento aveva senso.

– Immagino come sono preparati, tutti già strafatti, fumati e con i buchi nelle vene… Ma per la passione di Cristo, Mei, sono alcolizzati o tossici, si cagano sotto quando vedono la loro stessa ombra, non ti vergogni a tirar fuori il ferro davanti a loro?

– E va bene, non la uso, però la terrò pronta, e se la situazione precipita…

Io lo guardavo come fosse un malato mentale, era impossibile spiegargli qualcosa.

– Mel, te lo giuro, l'unica persona che stasera potrà far precipitare la situazione sei tu, con la tua cazzo di pistola! Se ti vedo usarla, puoi non salutarmi mai più, – ho tagliato corto.

– Va bene, Kolima, non ti arrabbiare, non la userò, se non ti va. Però sappi che ognuno è libero di fare quello che gli pare -. Il mio amico cercava d'insegnarmi la nostra legge.

– Certo, come no, ognuno è libero di fare quello che gli pare quando è da solo, però se è con gli altri deve stare in riga, quindi niente più discussioni… – Io ci tenevo ad avere sempre l'ultima parola, con Mei, solo Così potevo sperare che gli rimbalzasse in testa come una pallina di gomma.

Arrivati al parco, il gruppo s'è riunito. I «principali», cioè quelli che avevano la responsabilità dei minori, eravamo solo io e Jurij, detto «Gagarin», che aveva tre anni più di me. Dovevamo decidere come fare a individuare con esattezza gli aggressori di Lyéza, e come spingerli a venire allo scoperto.

– Prendiamone un paio, due qualsiasi, e minacciamo di ammazzarli se gli aggressori non si fanno vedere! – ha proposto Besa, che nella strategia era paragonabile a un carro armato: andava avanti piegando anche gli alberi.

– E sai che succede? In tre secondi scappano tutti e noi ci ritroviamo tra le mani due idioti strafatti che non c'entrano nulla…

Io avevo un piano da proporre, però volevo farlo con delicatezza, perché per come la vedevo io, il suo esito dipendeva tutto da Lyéza.

– … Sentite, scalzi, ho un'idea che funzionerà di sicuro, ma serve il coraggio di una persona. Il tuo, Lyéza. Serve che tiri fuori le palle -. L'ho guardato, sembrava proprio quello che era: uno che non c'entrava niente col nostro branco. Con la giacca perfettamente abbottonata, le lenti spesse che lo rendevano un mostro e i capelli tagliati alla maniera degli attori degli anni Cinquanta, era completamente fuori dalla scena. Lyéza mi si è avvicinato, per sentire meglio quello che stavo per dire. – Devi andare li da solo, Così quei bastardi ti vedono e sicuramente faranno qualcosa, si faranno riconoscere. Noi circondiamo la zona e stiamo dietro gli alberi, pronti ad agire… Tu appena li riconosci grida, fai un fischio, e noi gli saltiamo addosso in un baleno. Il resto è già nelle mani del Signore…

– Niente male, Kolima, un bel piano, se Lyéza è d'accordo, – ha commentato Gagarin guardando Lyéza in attesa della sua reazione.

Lyéza si è aggiustato gli occhiali sul naso, e con la voce decisa e determinata ha detto:

– Certo che sono d'accordo. Solo che dopo, quando ci sarà casino, non so come fare, non credo che riuscirò a picchiare qualcuno, non l'ho mai fatto in vita mia…

Mi faceva impressione la dignità con cui quel ragazzo diceva la verità su se stesso. Non aveva nessuna paura, spiegava solamente i fatti. Il mio rispetto verso di lui cresceva sempre di più.

– Quando saltiamo fuori dagli alberi tu nasconditi dietro, Besa ti starà vicino nel caso qualcuno avesse voglia di prendersela con te, – Gagarin ha fatto un gesto a Besa indicando gli occhi, poi ha puntato le due dita su Lyéza. – Dalla sua testa non deve cadere nemmeno un capello!

Ci siamo diretti verso il centro del parco. Camminando nel buio, abbiamo evitato il vialetto principale. Siamo arrivati agli alberi dietro cui si apriva lo slargo asfaltato con le panchine disposte in cerchio, sotto la luce gialla e sporca di tre lampioni. Il Poligono.

Si sentiva la musica, si vedevano i ragazzi seduti sulle panchine, per terra, sui motorini. Erano una cinquantina, tra loro c'erano anche delle ragazze. L'atmosfera era molto rilassata.

Ci siamo divisi in sei gruppi e abbiamo circondato l'area. Al momento giusto ho dato una leggera spallata a Lyéza:

– Dai, fratellino, facciamogli vedere che con quelli di Fiume Basso non si scherza…

Lui ha fatto si con la testa ed è partito in direzione del campo nemico.

Appena Lyéza è uscito allo scoperto, tra i presenti c'è stato un forte movimento. Qualcuno si è alzato dalla panchina e lo ha esaminato con curiosità, altri ridevano, indicandolo. Una ragazza ha urlato come una matta, in preda alle risa e al singhiozzo allo stesso tempo. Era visibilmente ubriaca. La sua voce mi ha fatto subito schifo, mi pareva quella di un'adulta alcolizzata, rovinata dal fumo, molto grezza e per niente femminile:

– Guarda, Pelo! C'è quel finocchio del pullman! E tornato a prendere i suoi francobolli!

La ragazza non pronunciava bene la «r», Così la sua parlata aveva pure una sfumatura comica.

Noi eravamo tutti attenti, pronti a scattare non appena avessimo individuato il tipo a cui si era rivolta. Non ci ha fatto aspettare tanto. Da una panchina vicina, strapiena di ragazzi, si è alzato uno che stava suonacchiando una chitarra, e mettendo da parte lo strumento è partito verso Lyéza con un passo leggero e teatrale, spalancando le braccia come si fa per accogliere un vecchio amico.

– Ma guarda chi si rivede! Piccolo bastardo! Hai deciso di suicidarti, stasera?… – Il resto non è riuscito a sputarlo fuori, perché dal buio è apparsa la figura di Gigit che come una tigre si è scagliato su di lui e lo ha atterrato dandogli una veloce serie di calci violenti in faccia. Sono saltato fuori dagli alberi anch'io, in un attimo eravamo tutti sul piazzale e abbiamo circondato i nostri nemici.

Tra di loro si era sparso il panico, alcuni si buttavano prima da una parte e poi dall'altra tentando di scappare, ma appena si trovavano di fronte a uno di noi si ritiravano. A un certo punto fra quelli del Poligono è partito un gruppo di «decisi», ed è cominciata davvero la rissa.

Ho visto balenare molti coltelli e anch'io ho tirato fuori la mia picca. Gigit mi è venuto vicino, e spalla contro spalla siamo avanzati, colpendo in tutte le direzioni ed evitando i pochi attacchi che partivano verso di noi. 

Tanti di loro, sfruttando il momento, hanno cominciato a scappare. La ragazza che urlava era talmente ubriaca che è caduta mentre correva, e qualcuno dei suoi amici le ha calpestato la testa: l'ho sentita gridare e poi ho visto il sangue sui suoi capelli.

Alla fine siamo rimasti contro una ventina di loro, e come si dice da noi «li abbiamo pettinati» per bene, nessuno è rimasto in piedi, erano tutti in terra, molti avevano tagli sulla faccia o sulle gambe, alcuni i legamenti delle ginocchia recisi.

Di solito Mel alla fine di ogni rissa, quando capiva che non c'era più nessuno da battere ed era arrivato il momento di fermarsi, faceva una specie di esibizione della sua forza fisica (era una vera bestia, a tredici anni pesava quasi ottanta chili ed era fatto solo di muscoli, tranne quello del cervello). Per lui era un modo di finire in bellezza la battaglia: far vedere al mondo che era scatenato, aggressivo e più cattivo di tutti. In poche parole faceva una sceneggiata.

Urlando come un mostro inferocito e facendo strane mosse con la sua bruttissima faccia, ha preso un motorino che riposava pacifico sul suo cavalletto, lo ha alzato al livello del petto e dopo aver corso per cinque-sei metri lo ha buttato sopra un gruppo di nemici, che si trovavano insieme agli altri nella posizione orizzontale a cui li avevamo costretti, e cioè sdraiati sull'asfalto a massaggiarsi le ferite.

Il motorino è caduto con un gran rumore, colpendo un ragazzo sulla testa, e altri su varie parti del corpo. Quelli colpiti hanno cominciato a gridare dal dolore tutti insieme, in coro. Per qualche motivo Mel si è arrabbiato ancora di più per quelle urla, e ha iniziato a pestarli con una violenza inspiegabile: alla fine è salito sul motorino e ha fatto sopra di lui (e sopra di loro) una serie di salti crudelissimi. Quei poveracci urlavano disperatamente e lo supplicavano di smetterla con quella tortura.

– Ehi, pezzi di merda! Siamo di Fiume Basso, avete pestato un nostro fratello, e per questo non avete ancora finito di pagare! – Gagarin ha comunicato il suo solenne messaggio a tutti quelli che si trovavano stesi per terra. – La soddisfazione personale ce la siamo appena presa, picchiandovi e tagliandovi. Ma dovete ancora soddisfare la legge criminale che avete disgraziatamente violato! Entro la prossima settimana cinque di voi, brutti finocchi schifosi, si presenteranno nel nostro quartiere con cinquemila dollari, da pagare alla nostra comunità per i disturbi che avete creato. Se non lo farete, ripeteremo sistematicamente questo macello ogni settimana, finché non vi ammazzeremo tutti quanti, uno per uno, come cani rognosi! Arrivederci e buona notte!

Ci sentivamo campioni imbattibili, eravamo Così contenti di com'era andata che siamo partiti verso casa cantando a squarciagola le nostre canzoni siberiane.

Attraversavamo il parco respirando l'aria della notte, e ci sembrava che non ci sarebbe stato un momento più felice di questo nella nostra vita.

Appena usciti dal parco ci siamo trovati davanti una decina di macchine della polizia: i poliziotti stavano schierati dietro le macchine, con le armi puntate su di noi. Si è accesa una luce fortissima che ci ha accecato tutti e una voce ha urlato:

– Le armi fuori dalle tasche, se qualcuno fa il cretino lo riempiamo di buchi! Non fate i coglioni, non siete a casa vostra!

Abbiamo obbedito e ognuno ha buttato la sua arma a terra: in pochi secondi si è formato un bel mucchio di coltelli, tirapugni e pistole.

Ci hanno caricati in macchina, colpendoci con i calci dei fucili, e ci hanno portati tutti quanti al distretto di polizia. Pensavo alla mia picca, quel coltello Così amato e Così importante per me, che sicuramente non avrei più rivisto. Era questo il mio chiodo fisso. L'idea che potevo finire in carcere, vista la mia situazione, non mi sfiorava nemmeno.

In distretto siamo stati trattenuti due giorni. Ci picchiavano, ci tenevano in una stanza stretta senza cibo né acqua. Venivano in continuazione a prelevare qualcuno dalla stanza e poi lo riportavano indietro con la faccia spaccata.

Nessuno di noi ha detto il suo vero nome, anche gli indirizzi di casa erano falsi. L'unica cosa su cui non abbiamo mentito era la nostra appartenenza alla comunità siberiana. Per la nostra legge i minorenni possono comunicare con i poliziotti: noi abbiamo sfruttato questa possibilità per imbrogliarli, e rendere più difficile il loro lavoro.

Mel non si voleva calmare e ha cercato di aggredire i poliziotti, che lo hanno picchiato molto forte, colpendolo con il calcio della pistola in testa, aprendogli una brutta ferita.

Alla fine ci hanno liberati tutti, dicendo che alla prossima però ci avrebbero ammazzati. Noi, affamati, stanchi, esauriti dalle botte e dalla tensione, siamo tornati verso casa.

Solo a quel punto, mentre mi trascinavo come un moribondo tra le vie del mio quartiere, mi sono reso conto di colpo che avevo avuto una grande fortuna. Se la polizia mi avesse identificato avrei dovuto trascorrere come minimo cinque anni sulle brande di legno di qualche carcere minorile.

Mi sentivo ubriaco di gioia. Era un miracolo, mi dicevo, un vero miracolo, essere liberi dopo una storia come quella. Eppure continuavo a pensare alla mia picca: come se dentro di me si fosse formato un buco nero, come se fosse morto qualcuno dei miei cari.

Mi avvicinavo a casa guardandomi le punte dei piedi, guardando a terra, sottoterra se fosse stato possibile, perché sentivo vergogna, mi sembrava che tutto il mondo mi stesse giudicando perché non ero stato capace di conservare la mia picca.

Quando sono arrivato, ero come un fantasma, trasparente e spento. Mio zio Vitalij è uscito sulla veranda e ha detto, sorridendo:

– Ma dai! Hanno riaperto Auschwitz? E come mai non ne ho saputo niente?

– Lasciami stare, zio, ho tutto il corpo che mi fa piangere… Voglio solo dormire…

– Eh eh, mio caro giovane, purtroppo non si danno le botte senza prenderle… E la regola della vita…

Per due giorni non ho fatto altro che dormire e, nelle pause tra un sonno e l'altro, mangiare. Ero tutto rotto, e ogni volta che nel letto mi giravo su un lato stringevo i denti. Di tanto in tanto mio padre o mio zio si affacciavano alla porta di camera mia e mi prendevano in giro:

– Adesso si che si sta bene, dopo una ripassata seria… Ma non ti è ancora passata la voglia?

Io non rispondevo niente, facevo soltanto sospiri profondi, e loro ridevano a ogni mio sospiro. Al terzo giorno il desiderio di tornare alla vita regolare mi ha fatto alzare presto. Erano quasi le sei di mattina, dormivano ancora tutti tranne nonno Boris che si preparava a fare ginnastica. Sentivo fastidio, una sensazione lontana dal dolore che però blocca il corpo, e ogni movimento che fai ti viene con fatica, sei lento, come un anziano che ha paura di perdere l'equilibrio.

Mi sono lavato e ho guardato bene la mia faccia nello specchio del bagno. Il livido non era Così grande come credevo, non si vedeva quasi. Invece sulla mano destra avevo due lividi neri, uno aveva chiaramente la forma del tacco di uno stivale. Mentre mi pestavano, uno sbirro doveva avermi schiacciato la mano: lo facevano spesso a scopo preventivo, per causarti delle fratture scomposte che di solito guarivano male, Così poi tu non riuscivi più a stringere bene il pugno o a tenere un'arma. Per fortuna erano solamente lividi, non avevo fratture o strappi di legamenti. Avevo un altro grande livido in mezzo alle gambe, proprio sotto il mio orgoglio maschile: sembrava che qualcosa di nero mi si fosse appiccicato al corpo, faceva impressione e soprattutto male, quando svuotavo la vescica.

«Beh, poteva anche andare peggio…» ho concluso, e sono andato a fare colazione. Il latte caldo con il miele e un uovo fresco mi hanno rimesso al mondo.

Ho deciso di andare a controllare la mia barca al fiume e pacioccare un po' con le reti, e magari, attraversando il quartiere, chiedere in giro com'erano messi i miei amici.

Uscendo di casa ho trovato mio nonno che faceva ginnastica in cortile. Nonno Boris era una roccia, non fumava e non aveva altri vizi, era un salutista totale. Faceva la lotta, judo e sambo, e ha trasmesso queste passioni a tutto il resto della famiglia. Quando si esercitava di solito non si fermava neanche un secondo: così ci siamo salutati solo con lo sguardo. Io gli ho fatto un gesto, facendogli capire che stavo uscendo, e lui mi ha sorriso e basta.

Ho imboccato la via che portava al fiume. Passando ho visto all'angolo, vicino al portone di casa di Mei, la sua figura massiccia. Era nudo, in mutande, stava parlando con un ragazzo della nostra zona, un nostro amico soprannominato «il Polacco». Gli stava facendo vedere tutti i suoi lividi, e gli raccontava quant'era accaduto facendo un casino di gesti e picchiando nell'aria vuota nemici immaginari.

Mi sono avvicinato. Aveva una cucitura sulla testa, una decina di punti. La sua faccia orrenda era segnata da un sorriso e l'ottanta per cento del suo corpo era di colore blu, a volte verde e in alcuni punti profondamente nero. Ma nonostante lo stato fisico era di ottimo umore. La prima cosa che mi ha detto è stata:

– Ma Cristo Santo, povera madre tua! Guarda come ti sei ridotto!

Mi è venuto da ridere. Anche al Polacco: si piegava in due dalle risate, gli uscivano le lacrime dagli occhi. Dai, pagliaccio, ma ti sei visto allo specchio? E dici che sono io a essere ridotto male! Vai a vestirti, va', che andiamo al fiume… – Gli ho dato una leggera spallata e lui ha emesso un grido.

– Ma non puoi essere un po' più delicato con me? Ne ho prese per tutti voi l'altra sera! – ha detto con vanità. E corso a vestirsi e siamo andati verso il fiume. Mentre camminavamo mi ha aggiornato sugli altri: stavano tutti bene, un po' acciaccati ma bene. Gagarin già il giorno dopo la rissa era andato a Caucaso, un quartiere della nostra città, a fare i conti con qualcuno di quelle parti. Lyéza e Besa – che erano miracolosamente riusciti a nascondersi nel parco e non erano stati presi dalla polizia – stavano meglio di tutti, non avevano neanche un graffio. Arrivati alla mia barca, ho messo il motore in acqua e ho proposto a Mel di fare un giro sul fiume. Tirava un'aria fresca, una bella aria mattutina, il sole si stava alzando sopra la terra e tutto era luminoso e pacifico.

Mel è saltato in barca e si è sdraiato a prua, con la pancia in su, a guardare il cielo senza nuvole: era un si.

Ho preso un remo e con quello ho allontanato la barca dalla riva, poi ho remato piano stando in piedi: avevo il vento in faccia, era bello e rilassante. A dieci metri dalla riva ho sentito la corrente del fiume diventare sempre più forte, Così ho acceso il motore e aumentando piano la velocità sono partito controcorrente verso il ponte vecchio. Ho messo la giacca che tenevo sempre in barca. Mel era ancora sdraiato a prua, non si muoveva, aveva gli occhi chiusi, dondolava solo leggermente il piede.

Arrivati al ponte ho fatto una curva larga e sono tornato indietro con il motore spento, lasciando che la corrente portasse la barca, remando solo ogni tanto per correggere la direzione. Mentre la barca scendeva lentamente giù per il fiume, di tanto in tanto ci buttavamo in acqua e nuotavamo li intorno. In acqua mi sentivo protetto, mi lasciavo portare dalla corrente, aggrappandomi alla barca o standole un po' lontano. Era la migliore medicina del mondo, l'acqua del fiume, avrei potuto starci anche un giorno intero.

Quando abbiamo toccato riva, Mel è saltato giù dalla barca e ha detto che voleva andare a trovare una sua vecchia zia che abitava poco lontano e si lamentava sempre che nessuno andava a trovarla. Io ho deciso di andare da nonno Kuzja, per raccontargli tutto quello che ci era capitato. Insomma, tutti e due avevamo pensato ai nostri vecchi.


Nella comunità degli Urea siberiani viene data la massima importanza al rapporto tra bambini e vecchi. Per questo esistono molte usanze e tradizioni che consentono ai criminali anziani con grande esperienza di partecipare all'educazione dei bambini, anche se non hanno con loro un rapporto di sangue. Ogni criminale adulto chiede a un anziano, di solito uno che non ha famiglia e abita da solo, di aiutarlo nell'educazione dei figli. Manda spesso i bambini da lui, a portargli del cibo o a dargli una mano in casa; in cambio il vecchio racconta le storie della sua vita e insegna ai bambini la tradizione criminale, i principi e le regole del comportamento, i codici dei tatuaggi e tutto quello che in qualche modo è legato all'attività criminale. Questo tipo di rapporto in lingua siberiana viene chiamato «intagliare», per la somiglianza che c'è tra l'educazione di un giovane e la lavorazione di un ceppo di legno, che da grezzo va intagliato per diventare un'opera d'arte o qualcosa di utile.

La parola «nonno» nella società criminale siberiana ha molti significati: i nonni sono naturalmente i parenti, i genitori dei genitori, ma anche le massime autorità del mondo criminale: in questo caso alla parola nonno si aggiunge «Santo» o «Benedetto», Così si capisce subito che si sta parlando di un criminale autorevole. Anche un educatore anziano è chiamato nonno, ma mai nonno e basta: va sempre aggiunto il suo nome o il suo soprannome.

Il mio personalissimo e amatissimo educatore era, come si è capito, nonno Kuzja. Da quando mi ricordo, mio padre mi ha sempre portato da lui. Nonno Kuzja era molto rispettato all'interno della comunità criminale, e si era guadagnato questo rispetto anche grazie al suo destino, pieno di dolori e sacrifici patiti nell'interesse della comunità.

Nonno Kuzja non aveva età. Sua madre era morta quando lui era molto piccolo e suo padre era stato fucilato poco dopo, e le persone che lo avevano adottato non sapevano di preciso quanti anni avesse.

Da giovane nonno Kuzja aveva fatto parte di una banda di Urea guidata da un famoso criminale che si chiamava «Croce», un uomo di vecchia fede siberiana che si era opposto prima al potere dello zar e dopo a quello dei comunisti. In Siberia – mi spiegava nonno Kuzja – nessun criminale ha mai sostenuto una forza politica, vivevano tutti seguendo solamente le loro leggi e combattendo qualsiasi potere governativo. La Siberia ha da sempre fatto gola ai russi perché è una terra molto ricca di risorse naturali: oltre agli animali da pelliccia, che in Russia erano considerati un tesoro nazionale, la Siberia aveva tanto oro, diamanti, carbone; più tardi hanno scoperto pure petrolio e gas. Tutti i governi hanno tentato di sfruttare il più possibile la regione, naturalmente senza fare i conti con la popolazione. I russi arrivavano, diceva nonno Kuzja, costruivano le loro città in mezzo al bosco, scavavano la terra, e si portavano via i tesori con i treni e le navi.

I criminali siberiani, che erano rapinatori esperti i cui avi avevano assaltato per centinaia di anni le carovane mercantili provenienti dalla Cina e dall'India, non avevano avuto nessuna difficoltà ad assaltare anche quelle russe.

In quegli anni tra gli Urea siberiani esisteva una filosofia, un modo per intendere la realtà, che si chiamava «Grande patto». Era una specie di piano generale che permetteva a tutti i criminali di esercitare una resistenza attiva contro il governo rapinando in continuazione i treni e i vari mezzi di trasporto. Secondo la vecchia legge criminale, una banda non poteva compiere più di una rapina ogni sei mesi: Così si teneva alta la qualità dell'attività criminale, perché è chiaro che se un gruppo ha solo una possibilità per rapinare una carovana, deve prepararsi bene e andare sul sicuro, evitando mosse sbagliate. La gente ci teneva a organizzare bene il colpo, altrimenti doveva stare mezzo anno senza mangiare. Il Grande patto ha eliminato questa regola, consentendo alle bande di compiere rapine in continuazione, perché lo scopo non era quello di arricchirsi, ma di cacciare fuori dalla Siberia gli invasori russi. Vecchi criminali si sono uniti ai nuovi, formando bande molto grandi. Le più famose erano quelle di Angelo, di Tigre e di Taiga.

Croce aveva una banda più piccola, una cinquantina di uomini. Rapinavano i treni e le navette che dalle cave di diamanti sul fiume Lena andavano verso il sud della Siberia, nella regione chiamata Altaj. Un giorno hanno fatto l'errore di uscire dal bosco, e si sono imbattuti nelle forze dell'esercito comunista. Hanno cercato di resistere, ma alla fine i comunisti erano di più: li hanno circondati, e sono morti in battaglia quasi tutti.

Gli Urea non si arrendevano mai, era indegno per loro essere catturati, quindi se vedevano che la situazione andava precipitando si salutavano, si auguravano buona fortuna e si buttavano nella lotta, finché il nemico non li uccideva. L'unica possibilità di sopravvivere era essere catturati per via delle ferite: se eri ferito e ti prendevano non era considerata una cosa indegna.

In quella battaglia sono stati catturati tre giovani Urea: uno di loro era Kuzja, aveva una contusione ed era svenuto. I comunisti, per far vedere a tutti i siberiani come vengono trattati quelli che vanno contro il governo, in quattro e quattr'otto hanno organizzato per i prigionieri un bel processo esemplare e «popolare» nella città di Tagil, dove la popolazione si era arresa ai russi che avevano piazzato ovunque brigate militari e distretti di polizia.

In tanti sono andati ad assistere a quel processo, perché molti siberiani volevano bene agli Urea e appoggiavano la loro lotta contro i comunisti.

Il giudice e la sua «giuria», composta da «rappresentanti» del popolo, ovviamente tutti comunisti, hanno dato la pena di morte a tutti e tre. La condanna – diceva la sentenza -doveva essere eseguita il giorno successivo tramite fucilazione davanti ai muri della vecchia stazione ferroviaria.

Il giorno dopo quel luogo era pieno di gente. Tanti avevano portato le icone e messo le croci fuori dalla camicia, per sottolineare l'avversione al regime comunista. Le donne piangevano e chiedevano la grazia, gli uomini pregavano il Signore di accogliere quei suoi tre schiavi che stavano per essere uccisi ingiustamente. L'atmosfera era molto calda, tanto che dal distretto di polizia avevano mandato dei rinforzi destinati a entrare in azione nel caso la gente fosse diventata pericolosa.

Alla fine hanno portato i criminali, li hanno fatti scendere dalla macchina e li hanno costretti a mettersi in piedi, incatenati. Li hanno condotti davanti al giudice e al procuratore, che ha letto loro tutto quello di cui li incolpava il governo sovietico. Poi il giudice ha letto la condanna e ha autorizzato i poliziotti a eseguirla all'istante.

I tre sono stati messi di spalle, con la faccia rivolta al muro, ma nessuno di loro voleva stare Così, e allora si sono girati verso il plotone di esecuzione. Dalla folla la gente ha cominciato a lanciare ai piedi dei criminali i crocefissi, chiedendo al Signore la grazia.

II comandante del plotone ha dato una serie di ordini ai suoi uomini, e quelli hanno preparato i fucili, mirato i loro bersagli e alla fine sparato. Due condannati sono caduti a terra morti, ma il terzo, quello che era in mezzo, continuava a stare in piedi e a guardare la gente. Aveva tutta la camicia sporca di sangue e otto ferite in corpo, ma non cadeva, stava fermo, respirava a fondo l'aria gelida del mattino. Era Kuzja, giovane Urea siberiano.

Secondo le regole dello Stato sovietico la condanna a morte poteva essere applicata ed eseguita solo una volta, se il condannato sopravviveva doveva essere liberato. Per questo anni più tardi i comunisti avrebbero sparato ai condannati da mezzo metro di distanza e direttamente in testa: per non creare inconvenienti.

La gente era impazzita di gioia, per loro Kuzja era diventato un simbolo, la prova vivente dell'esistenza di Dio, che aveva ascoltato le loro preghiere e mostrato i Suoi poteri. Da quel giorno non c'era siberiano che non conoscesse la storia di Kuzja e non lo chiamasse «il Segnato».


Anche per questa storia miracolosa nonno Kuzja era considerato un'autorità tra i criminali. Ad ascoltare i suoi consigli erano molti criminali onesti e buoni di caste diverse, e dato che lui era saggio e intelligente e non aveva interessi personali, perché la sua vita – come amava ripetere – apparteneva totalmente alla comunità, riusciva a ottenere da tutti collaborazione e amicizia.

Era stato in tante galere della Russia, aveva sancito molte alleanze con diverse società criminali, mediato risoluzioni di conflitti tra bande. Grazie al suo intervento molti criminali avevano siglato delle tregue tra di loro, per vivere in pace e guadagnarci tutti quanti, facendo Così prosperare l'intera comunità.

Se da qualche parte della Russia due poteri criminali si scontravano su una certa questione, lui si metteva in viaggio, e usando la propria autorevolezza costringeva la gente a dialogare, a trovare le vie per una soluzione pacifica. Quando gli facevo domande su questo suo ruolo di «uomo di pace», mi rispondeva che la guerra la fa chi non segue i principi veri, chi non ha dignità. Perché non esiste niente a questo mondo che non possa essere condiviso in modo da accontentare tutti.

«Chi vuole troppo è un pazzo, perché un uomo non può possedere più di quello che il suo cuore riesce ad amare. Tutti vogliono fare affari, vedere le loro famiglie felici e far crescere i propri figli nel bene e nella pace: questo è giusto, so lo Così si può condividere il mondo che Nostro Signore ha creato per noi».

Nonno Kuzja ha passato tutta la vita a preoccuparsi della pace nella comunità criminale, per questo tutti gli volevano bene e non aveva nemici. Mio padre mi raccontava che una volta, quando nonno Kuzja stava in un carcere di massima sicurezza, un gruppo di giovani criminali di San Pietroburgo – gente di «taglio nuovo», che non rispettava le vecchie leggi – aveva rotto una tregua stabilita tempo prima da varie comunità grazie al suo aiuto. Avevano ammazzato tante persone, arrivando a controllare una buona fetta degli affari, dopo di che avevano cercato di dimostrare agli altri, alla gente che seguiva le vecchie regole criminali, che quelle regole non erano più valide e non avevano dietro nessun potere reale. Per farlo avevano bisogno di colpire qualche grande autorità, e hanno scelto la figura di nonno Kuzja perché rappresentava il massimo potere all'interno della comunità siberiana. Hanno escogitato un piano semplice e molto offensivo, mandandogli in prigione – dove lui, ormai vecchio, stava per finire di scontare la sua pena – una lettera d'invito a una riunione che si sarebbe tenuta a San Pietroburgo, avvertendolo che se non si presentava non lo avrebbero più considerato un criminale attivo.

Un ricatto simile è molto grave per un criminale, molto più grave dell'omicidio di un parente o di un'offesa personale, perché è in gioco il prestigio che viene attribuito a un individuo dall'intera comunità, quindi l'offesa si allarga anche su tutta la comunità e i suoi rappresentanti.

Ebbene, nonno Kuzja ha costretto l'amministrazione della prigione a liberare per una settimana lui e altri cinque criminali siberiani autorevoli detenuti in diverse prigioni della Russia, minacciando un suicidio di massa che nessuno di loro avrebbe esitato a compiere.

Nel bel mezzo della riunione, mentre i giovani criminali di San Pietroburgo già pianificavano nei minimi dettagli come costringere tutti i sostenitori delle vecchie autorità a cedergli il controllo della zona, dando per scontato che nessuno si sarebbe presentato, sono arrivati nonno Kuzja e gli altri cinque detenuti. Dopo quell'incontro i giovani sono spariti, letteralmente dissolti nel nulla: in tanti hanno pensato al vecchio rituale siberiano che prevede che i corpi dei nemici vengano macinati fino alla disintegrazione completa e mischiati con la terra del bosco.


Secondo la legge criminale siberiana, ogni criminale attivo può rinunciare ai suoi incarichi e ritirarsi, diventare una specie di «pensionato». A quel punto lui non ha più possibilità di usare il suo nome o dire la sua parola su questioni legate agli affari criminali o alla risoluzione dei conflitti. La comunità criminale lo sostiene dandogli da vivere, in cambio lui si assume l'incarico di educare i giovani. Diventa, come si è detto, «nonno»: un nome che si dà in segno di grande rispetto. Le persone che vengono chiamate Così sono considerate dal resto della comunità uomini saggi capaci di dare consigli fondamentali ai criminali più giovani, tanto che di solito le riunioni criminali vengono organizzate a casa loro.

Nonno Kuzja si era ritirato dagli affari – o come dicono da noi aveva «fatto il nodo» – all'inizio degli anni Ottanta, quando sono nato io. Il suo pensionamento aveva creato parecchie tensioni nella comunità criminale: molti temevano che senza di lui sarebbero state rotte tante vecchie tregue e sarebbe scoppiata una guerra. 

Nonno Kuzja diceva che con o senza di lui le cose sarebbero cambiate lo stesso, perché erano i tempi e gli individui a essere diversi. Quando ne parlava con me, me la spiegava cosi:

«I giovani vogliono i soldi facili, vogliono prendere senza dare niente in cambio, vogliono volare senza aver prima imparato a camminare. Arriveranno a uccidersi tra di loro. Poi scenderanno a patti con gli sbirri, e quando succederà, spero per te, mio caro, che sarai lontano da qui, perché questo posto diventerà un cimitero dei buoni e degli onesti».

Ovviamente, tutto quello che mi diceva nonno Kuzja io lo consideravo la massima espressione dell'intelligenza umana e dell'esperienza criminale.

Parlavamo insieme del futuro, di come sarebbe stata la nostra vita, di come sarebbero state gestite le cose. Lui era molto pessimista, ma non ha mai temuto che io potessi deluderlo, mi considerava diverso dai giovani della nostra comunità.

Dopo il 1992, quando le forze militari della Moldavia hanno cercato di occupare il territorio della Transnistria, la nostra città è stata abbandonata da tutti, siamo rimasti soli con noi stessi, come in realtà eravamo da sempre. Tutti i criminali armati hanno opposto resistenza ai militari moldavi, e dopo tre mesi di battaglie li hanno cacciati via.

Quando il pericolo dello scontro diretto era ormai passato, la Madre Russia ci ha mandato i cosiddetti «aiuti»: la quattordicesima armata, guidata dal carismatico generale Lebed'. Quelli, una volta arrivati nella nostra città che era ormai libera da qualche giorno, hanno applicato la politica della gestione militare: coprifuoco, perquisizioni in casa, arresti ed eliminazione della gente scomoda. In quel periodo molto spesso il fiume portava a riva i corpi delle persone fucilate, le mani legate dietro la schiena con il filo di ferro e sul corpo segni di torture. Io stesso ho ripescato personalmente quattro cadaveri di persone giustiziate, quindi posso confermare con tutta la mia giovane autorità che le fucilazioni da parte dei militari russi erano una realtà molto praticata in Transnistria.

I russi hanno cercato di sfruttare il momento per piazzare da noi, nella terra dei criminali, i loro rappresentanti governativi, che avrebbero dovuto gestire quello che prima era solamente in mano nostra. Molti criminali siberiani in quel periodo hanno corso un serio pericolo di morte, mio padre ad esempio ha subito tre attentati, si è salvato miracolosamente e per non aspettare il quarto ha lasciato la Transnistria e si è trasferito in Grecia, dove aveva amici per via di vecchi traffici.

I criminali della città hanno cercato di unire le loro forze per combattere i militari russi, però molti membri delle comunità avevano paura ed erano di fatto disposti a collaborare con il nuovo regime. I siberiani hanno rinunciato a qualsiasi contatto con il resto della società, e verso il 1998 erano completamente isolati, non collaboravano con nessuno e non sostenevano nessuno. Altre comunità sono scese a patti con il regime, che aveva proposto un suo uomo come presidente del Paese e garante politico di tutti gli affari. Ben presto, nuo ve forze governative hanno eliminato le persone coinvolte in quei patti, prendendo in mano la gestione degli affari. 

Nonno Kuzja condivideva con me tutto quello che sapeva:

«La nostra legge dice che non si può parlare con gli sbirri: lo sai perché? Mica per divertimento. Perché gli sbirri sono i cani del governo, sono gli strumenti che il governo usa contro di noi. Figlio mio, mi hanno fucilato che avevo ventitré anni, e dopo ho vissuto tutta la vita nell'umiltà, senza possedere niente, niente famiglia, bambini, niente casa: tutta la vita in prigione, a soffrire e condividere le sofferenze con gli altri. E questo il motivo per cui ho potere, perché tanta gente mi conosce e sa che quando io incrocio le mani sul tavolo non parlo per mio interesse, ma per il bene di tutti quanti. Per questo, ragazzo mio, nel nostro mondo tutti si fidano di me. E adesso dimmi, per quale ragione noi dovremmo fidarci di quelli che hanno passato tutta la loro vita ad ammazzare i nostri fratelli, a chiuderci in prigione, a torturarci e trattarci come se non fossimo della razza umana? Come si fa, dimmi tu, a fidarsi di chi vive grazie alla nostra morte? Gli sbirri sono diversi da tutto il resto dell'umanità, perché hanno dentro la voglia di servire, di essere sotto padrone. Non capiscono niente della libertà e hanno paura degli uomini liberi. Il loro pane è il nostro dolore, figlio mio, come si fa a venire a patti con quella gente?»

Tutto quello che mi ha raccontato nonno Kuzja mi ha aiutato a fare i conti con la realtà, a non rimanere schiavo di un'idea sbagliata o di un sogno mai realizzato. Sapevo con certezza che stavo vivendo la morte della nostra società e quindi cercavo di sopravvivere, passando attraverso questo grande vortice di anime, storie umane, da cui mi allontanavo ogni giorno sempre di più.


Ogni volta che andavo da nonno Kuzja, mia madre mi dava una borsa con dentro qualcosa che aveva appena cucinato. Mia madre era un'ottima cuoca, nel nostro quartiere erano leggendari la sua zuppa rossa, il suo pesce siluro ripieno di riso, verdure e mele, il suo pàté di caviale e burro, la sua zuppa di pesce alla povera e, specialmente, i suoi dolci. Nonno Kuzja la chiamava «mammina»: è Così che i criminali esprimono massimo rispetto e ammirazione alle donne. Ogni volta che gli portavo qualcosa fatto da'mia madre, lui diceva:

– Lilja, Lilja, mia dolce mammina! Baciarti le mani tutto il tempo, non ci resta nient'altro!

Davanti a casa di nonno Kuzja c'era una vecchia panca di legno. Lui spesso si metteva li e guardava il fiume. Io mi mettevo vicino a lui e stavamo seduti Così tutto il giorno, a volte fino a sera. Mi raccontava le vicende della sua vita, o le storie degli Urea siberiani che mi piacevano tanto. Cantavamo canzoni. Lui era molto bravo a cantare, e conosceva a memoria tante canzoni criminali. Io avevo una buona memoria, mi bastava sentire una canzone un paio di volte e la ricordavo subito. A nonno Kuzja piaceva, questa cosa, e mi chiedeva sempre prima di cantare:

– Te la ricordi, questa?

– Si che la ricordo! E la mia preferita!

– Bravo, piede scalzo! Allora canta insieme a me! – e cantavamo insieme, spesso facendo tardi per cena. Più di tutto mi piaceva quando nonno Kuzja mi raccontava della Siberia: le storie degli Urea, di come si erano opposti al regime dello zar e a quello dei comunisti. Era bello, perché in quelle storie si sentiva il filo che teneva insieme la mia famiglia, e legava le persone del passato a quelle del presente. Grazie a questo filo tutto appariva molto più credibile, reale.

Mentre lui raccontava, sottolineava quasi sempre il collegamento tra i personaggi e la gente che incontravamo ogni giorno per strada, per farmi capire che anche se i tempi erano cambiati, i valori erano rimasti gli stessi. Nonno Kuzja era stato tra i primi siberiani ad arrivare in Transnistria. Raccontava quel trasferimento con dolore, e si vedeva che dentro di lui aveva tanti sentimenti bui, legati a quel tempo.


«I militari sono arrivati al villaggio di notte. Tanti, tutti armati, con i fucili a baionetta, come se stessero andando in guerra… Io ero ancora piccolo, avevo una decina d'anni, i miei genitori erano morti da tempo, abitavo con gente buona che mi allevava come un figlio. Gli uomini erano tutti via, nella Taiga, al villaggio c'erano solo i vecchi e le donne con i bambini. Ricordo che sono entrati in casa senza bussare e senza togliersi gli stivali. C'era un uomo vestito con la giacca e i pantaloni di pelle nera. Ricordo l'odore di quella pelle, era nauseante, insopportabile. Ci ha guardato e ha chiesto a Pelagea, la padrona di casa:

"Sai qualcosa di tuo marito, sai dov'è?"

"E andato nella Taiga a cacciare, non so quando torna… "

"Lo immaginavo. Va bene, vestitevi pesante, prendete solo quello che è necessario, uscite di casa e mettetevi in fila con gli altri". Quell'uomo era un comandante, aveva l'aria di uno che sapeva di avere il potere tra le mani.

"Ma cosa succede, perché dobbiamo coprirci e uscire di casa? E notte, i bambini stanno dormendo…" Pelagea era agitata e le sue labbra tremavano mentre parlava.

L'uomo si è fermato un attimo, ha guardato bene la stanza e si è avvicinato all'angolo rosso, dove c'erano le icone: ne ha presa una e l'ha tirata contro il muro. L'icona si è spaccata in due. Ha preso altre icone, le ha messe nella stufa e ha detto:

"Tra dieci minuti bruceremo tutto il villaggio, se volete rimanere ed essere bruciati vivi, fate pure…"

Pelagea aveva cinque figli, il più piccolo aveva quattro anni, il più grande tredici. E poi si occupava di me e di una ragazzina di quattordici anni, Varja, rimasta anche lei senza genitori. Era una donna buona e molto coraggiosa. Ha spiegato con calma a noi bambini che non c'era da avere paura, che era tutto nelle mani del Signore. Ci ha fatti vestire per bene, ha preso l'oro che teneva al sicuro e lo ha nascosto nei nostri vestiti. Ha preso un po' di cenere dalla stufa e ha sporcato la faccia di Varja; l'ha fatto apposta, per renderla brutta, perché temeva che i soldati la violentassero.

"Se vi chiedono qualsiasi cosa non parlate, non guardateli in faccia, lasciate che parli io. Andrà tutto bene". 

Ha preso un grande sacco pieno di pane e carne secca e siamo usciti.

Fuori c'era tanta gente, i militari stavano saccheggiando le case, rompevano porte e finestre e portavano via vari oggetti, soprattutto le cornici d'oro delle icone. Avevano fatto un fuoco in mezzo alla via, dove buttavano icone e crocefissi. Tutti stavano davanti alle loro case e assistevano impotenti a quel disastro.

Un ufficiale passava in rassegna con un soldato le persone in fila, e quando vedeva un vecchio ordinava al soldato:

"Quello, fuori!" e subito la persona indicata veniva colpita con la baionetta. Eliminavano tutti quelli che avrebbero potuto rallentare il cammino.

Una giovane donna, madre di tre figli, è stata portata da un gruppo di soldati dentro una casa dove l'hanno violentata. A un certo punto lei è scappata fuori, nuda, urlando dalla disperazione, e dalla finestra della casa un soldato le ha sparato alla schiena: è caduta sulla neve, morta. Uno dei suoi figli, il più grande, è corso verso di lei gridando; un soldato vicino lo ha colpito in testa con il calcio del fucile, e il ragazzo è caduto a terra privo di sensi.

A quel punto un ufficiale ha gridato con rabbia:

"Chi ha sparato? Chi è stato?"

Il soldato che aveva sparato dalla finestra è uscito fuori con la testa bassa:

"Sono stato io, compagno!"

"Ti sei bevuto il cervello? L'ordine era di sparare solo in caso di estrema necessità! Usa la baionetta, piuttosto: non voglio sentire rumore di spari! Se quelli nel bosco ci sentono, non arriveremo mai al treno! " Era agitato e subito dopo ha ordinato a un sottufficiale: "Sbrigarsi, dare fuoco alle case e mettere la gente in fila, dare inizio alla marcia! "

I soldati hanno spinto tutti in mezzo alla strada, formando una colonna, poi ci hanno ordinato di camminare. Andavamo via, pieni di odio e di paura, ogni tanto ci guardavamo indietro e vedevamo le nostre case bruciare nel buio come scatoline di carta.

Abbiamo camminato tutta la notte, finché non siamo arrivati alla ferrovia in mezzo al bosco: li ci aspettava un treno con i vagoni di legno, senza finestre. Ci hanno ordinato di salire, e una volta sopra ci siamo resi conto che quel treno era già pieno di persone che venivano da diversi villaggi. Hanno raccontato la loro storia, che era una copia della nostra. Qualcuno diceva di aver sentito che il treno era diretto in una regione lontana, al sud della Russia; avrebbe attraversa to la Siberia ancora per una settimana, raccogliendo la gente dei vari villaggi incendiati.

Ci hanno distribuito la legna, da bruciare nelle piccole stufe che c'erano nei vagoni, e un po' di pane e acqua gelata. Il treno è partito e dopo quasi un mese di terribile viaggio siamo arrivati a destinazione, e cioè qui, nella regione chiamata Transnistria, che alcuni chiamavano anche Bessarabia.

Quando il treno si è fermato, abbiamo realizzato che non c'erano più i soldati, solo i macchinisti e alcuni ferrovieri.

Qui non conoscevamo nessuno, avevamo solamente un po' di oro con noi, tanti erano riusciti a portarsi dietro anche le armi.

Siamo andati a vivere al fiume, eravamo cresciuti sui fiumi siberiani, sapevamo pescare e navigare bene: Così è nato il nostro quartiere Fiume Basso».


Nella Russia di adesso non si sa quasi niente dell'esilio dei siberiani in Transnistria, qualcuno ricorda i tempi della collettivizzazione comunista, quando per il Paese passavano i treni pieni di povera gente che veniva spostata da una parte all'altra per ragioni note solo al governo.

Nonno Kuzja diceva che i comunisti avevano pensato di separare gli Urea dalle loro famiglie in modo da far morire la nostra comunità, invece, per ironia del destino, forse l'avevano salvata.

Dalla Transnistria tanti giovani sono andati in Siberia, per partecipare a modo loro alla guerra contro i comunisti: rapinavano i treni, le navi, i magazzini militari e creavano tante difficoltà ai comunisti. Sistematicamente tornavano in Transnistria a leccarsi le ferite, o per stare un po' con la famiglia e gli amici. Nonostante tutto, questa terra è diventata una seconda patria a cui i criminali siberiani hanno legato le loro vite.


Nonno Kuzja non mi educava facendo lezioni, ma parlando, raccontando le sue storie e ascoltando le mie ragioni. Grazie a lui ho imparato tante cose che mi hanno permesso di sopravvivere. Il suo modo di vedere e capire il mondo era molto umile, non parlava della vita dalla posizione di uno che osserva dall'alto, ma da quella di un uomo che sta in piedi sulla terra e cerca di restarci il più a lungo possibile.

– Tanta gente cerca disperatamente quello che non è capace di trattenere e di capire, per questo è piena di odio e sta male per tutta la vita.

Mi piaceva il suo modo di pensare, perché era molto facile da comprendere. Non dovevo mettermi nei panni di un altro, bastava ascoltarlo restando me stesso per capire che tutto quello che usciva dalle sue labbra era vero. Aveva una saggezza che veniva dal profondo, non sembrava neanche umana, come se arrivasse da qualcosa di più grande e forte dell'uomo.

– Guarda come siamo messi, figliolo… Gli uomini nascono felici, però si autoconvincono che la felicità è qualcosa che devono trovare nella vita… E cosa siamo? Un branco di animali senza istinto, che seguono idee sbagliate, cercando quello che già hanno…

Una volta, mentre eravamo a pesca, parlavamo proprio di felicità. A un certo punto, lui mi ha chiesto:

– Guarda gli animali, secondo te loro ne sanno qualcosa della felicità?

– Beh, penso che anche gli animali ogni tanto si sentono tristi o felici, solo che non riescono a esprimere i loro sentimenti… – ho risposto io.

Lui mi ha guardato in silenzio e poi ha detto:

– E lo sai perché Dio ha dato all'uomo una vita più lunga di quella degli animali?

– No, non ci ho mai pensato…

– Perché gli animali vivono seguendo il loro istinto e non fanno sbagli. L'uomo vive seguendo la ragione, quindi ha bisogno di una parte della vita per fare sbagli, un'altra per poterli capire, e una terza per cercare di vivere senza sbagliare.

Io lo andavo a trovare sempre, nonno Kuzja, specialmente quando stavo un po' male o ero preoccupato per qualcosa, perché lui mi capiva al volo e riusciva a farmi passare tutti i brutti pensieri.


Quel mattino, dopo essere stato picchiato dai poliziotti, avevo un tale peso nell'anima che quasi mi faceva male respirare. Se ripensavo a quello che mi era successo mi veniva da piangere, giuro, dalla disperazione e dall'offesa che sentivo addosso. Il giro in barca con Mel mi aveva fatto bene, ma adesso avevo proprio bisogno di nonno Kuzja e delle sue calde parole. Camminavo verso casa sua come uno che cammina nel sonno, senza accorgersi di dove va: era una specie di istinto a guidarmi in quel momento.

Nonno Kuzja si svegliava sempre molto presto, quindi non appena sono arrivato al cancello della casa di sua sorella, dove lui abitava, l'ho trovato già sul tetto, che lanciava in aria i primi colombi. Mi ha visto e mi ha fatto il gesto di salire anch'io. Così ho preso una vecchia scala tutta storta a cui mancavano due pioli, l'ho appoggiata al tetto e ho cominciato a salire. Nonno Kuzja nel frattempo stava guardando come si allontanava in cielo una colomba, era già abbastanza in alto. Poi ha abbassato gli occhi verso di me e mi ha detto:

– Vuoi farlo volare tu questo? – mostrandomi un bel colombo che teneva nella mano destra.

– Si, ci provo… – ho risposto io. Sapevo bene come si lanciano i colombi, nella mia famiglia ne avevamo tanti, mio nonno Boris era famoso per i suoi colombi, girava mezza Russia per cercare nuove razze, poi le mischiava e selezionava i più forti.

Nonno Kuzja non aveva tanti colombi, una cinquantina, non di più, però erano tutti esemplari eccezionali, perché le molte persone che venivano a trovarlo da tutte le parti del Paese portavano in regalo i migliori colombi che avevano.

Il colombo che teneva in mano nonno Kuzja era di razza asiatica, veniva dal Tagikistan: un colombo molto forte e anche bello, uno dei più cari sul mercato. L'ho preso in mano e stavo già per lanciarlo, ma nonno Kuzja mi ha fermato:

– Aspetta, lascia che lei salga ancora un po'…

Aspettare significava rischiare di perderla: se salgono troppo in alto, molte colombe cadono giù, morte. Sono abituate a stare in coppia col maschio: senza il maschio che le aiuta a scendere, loro da sole non sono capaci di tornare a terra, devono essere guidate. Quindi bisogna lanciare il colombo nel momento giusto: il maschio sale e la femmina, sentendo come quello batte le ali e fa capriole in aria, comincia a scendere verso di lui. Ma la nostra colomba era già molto lontana.

– Dai, Kolima, adesso! – ha detto nonno Kuzja, e io subito ho fatto un movimento studiato, lanciando con forza il colombo.

– Bene, bravo figliolo, che Gesù Cristo ti benedica! – nonno Kuzja era contento, guardava i colombi avvicinarsi l'uno all'altro in aria. Abbiamo assistito insieme a quella spettacolare unione: il colombo si è esibito in più di venti capriole, e la colomba faceva giri sempre più stretti intorno a lui, toccandolo quasi con le ali. Erano una coppia bellissima.

Alla fine i due si sono uniti nell'aria e uno vicino all'altro hanno cominciato a scendere sempre più in basso, con giri larghi. Nonno Kuzja mi ha guardato in faccia, indicando il mio livido.

– Dai, facciamoci un cifir… – Siamo scesi dal tetto e andati in cucina. Nonno Kuzja ha messo sul fuoco l'acqua per il cifir.


Il «cifir» è un tè molto forte, si prepara e viene bevuto seguendo un antico rituale. Ha un potente effetto stimolante: berne una tazza è come bere di colpo mezzo litro di caffè. Lo si prepara in un pentolino, il cifìrbak, che non si usa per nient'altro e che non va mai lavato con i detersivi, ma solo sciacquato in acqua fredda. Se il cifìrbak è nero, sporco di residui di tè, è più apprezzato, perché il cifir viene più buono. Quando l'acqua bolle, si spegne il fuoco e si mette dentro tè nero in foglie, non sminuzzato, e rigorosamente proveniente da Irkutsk, in Siberia: li coltivano un tè particolare, il più forte e gustoso che ci sia, amato dai criminali di tutto il Paese. Ben diverso dal famoso tè di Krasnodar, che piace molto a tutte le casalinghe: un tè debole, diffuso soprattutto a Mosca e nella Russia del sud, buono per la colazione. Per un cifir come si deve si mette fino a un mezzo chilo di foglie di tè. Le foglie devono essere lasciate in infusione per non più di dieci minuti, altrimenti il cifir diventa acido e cattivo. Sul pentolino va messo un coperchio, per non far uscire il vapore; è consigliato avvolgere il tutto con un asciugamano, per mantenere la temperatura. Il cifir è pronto quando non ci so no più foglie galleggianti in superficie: non a caso si dice che il cifir è «caduto» per dire che è pronto. Si filtra tutto con un colino: le foglie di tè non si buttano, si mettono in un piatto e si lasciano li ad asciugare, serviranno per fare poi un tè normale, che si può bere con zucchero e limone, mangiando un dolce.

Il cifir va bevuto in un grande bicchiere di ferro o d'argento, che contiene più di un litro di tè. Si beve in gruppo, passandosi l'un l'altro questo bicchiere chiamato bodjaga, che nella vecchia lingua criminale siberiana significa borraccia. Va passato al compagno in senso orario e mai antiorario; ogni volta bisogna berne solamente tre sorsi, non uno di più e non uno di meno. Bevendo non si può parlare, fumare, mangiare o fare qualsiasi altra cosa. Vietato soffiare dentro il bicchiere: è un segno di maleducazione. Per primo comincia a bere quello che ha preparato il cifir, poi il bicchiere passa agli altri, e quello che lo finisce deve alzarsi, lavarlo e rimetterlo al suo posto. A quel punto si può parlare, fumarsi una sigaretta, mangiare qualcosina di dolce.

Queste regole non sono uguali in tutte le comunità: ad esempio in Russia centrale non si fanno tre sorsi ma solamente due, e soffiare dentro il bicchiere è considerato un gesto gentile nei confronti degli altri, per i quali tu stai raffreddando la bevanda bollente. In ogni caso, un cifir offerto da qualcuno è una specie di segno di rispetto, di amicizia.

Il cifir più buono è quello preparato sul fuoco vivo della legna: per questo motivo a casa di molti criminali nei camini c'è una struttura fatta apposta per preparare il cifir; altrimenti si usano le stufe, ma mai il fuoco del gas.

In Siberia, una volta preparato, il cifir va bevuto subito: se si raffredda non lo scaldano più, lo buttano via. In altri posti, soprattutto in carcere, il cifir può essere riscaldato, ma non più di una volta. E il cifir riscaldato non si chiama più cifir ma cifirok: un diminutivo, in tutti i sensi.


Abbiamo bevuto il cifir in silenzio, come vuole la tradizione, e solo quando abbiamo finito nonno Kuzja ha cominciato a parlare:

– Allora, come stai, piede scalzo?

Bene, nonno Kuzja, solo che qualche giorno fa ci siamo cacciati nei guai, a Tiraspol', e ne abbiamo prese un po' dagli sbirri… – Volevo essere sincero, ma allo stesso tempo non mi andava di esagerare. Davanti a una persona come nonno Kuzja non c'era bisogno di vantarsi o di piangere per quello che accadeva nella tua vita, perché di sicuro lui ne aveva viste di peggio.

– So tutto, Kolima… Però sei vivo, mica ti hanno ammazzato. Allora come mai sei Così di cattivo umore?

– Mi hanno preso la picca, quella che mi ha regalato zio Riccio… – quando ho pronunciato queste parole mi sono sentito come se se stessi assistendo al mio funerale. Quello che era successo diventava ancora più terribile e mi spaccava il cuore, mentre lo raccontavo.

Se penso a che faccia dovevo avere in quel momento mi viene da ridere, ed è proprio quello che ha fatto nonno Kuzja:

– Ma dimmi tu se devi stare Così male perché gli sbirri ti hanno preso la picca! Lo sai che tutto quello che succede è nelle mani di Dio e fa parte del Suo grande piano. Pensaci: le nostre picche sono potenti perché dentro di loro c'è la forza che ci mette Nostro Signore. E quando qualcuno prende la nostra picca e la usa senza onestà, quella lo porterà alla rovina, perché sarà la forza delsSignore a distruggere il nemico. Allora che hai da piangere? E successa una buona cosa, la tua picca porterà tante disgrazie a uno sbirro, finché non lo farà morire. E poi la prenderà un altro, e un altro, e la tua picca li ammazzerà tutti…

Il concetto spiegato da nonno Kuzja mi ha dato un po' di sollievo: d'accordo, la mia picca avrebbe procurato dei mali ai poliziotti, però mi mancava lo stesso.

Non volevo deluderlo e piagnucolare davanti a lui, quindi ho impennato la voce, tirandola al massimo della felicità:

– Allora sono contento… Nonno Kuzja ha sorriso:

– E bravo, Così devi fare, tieni sempre il petto come la ruota e la coda come la pistola…


Una settimana dopo, sono tornato da nonno Kuzja a portargli un barattolo di paté di caviale e burro. Lui mi ha chiamato in sala e mi ha messo davanti all'angolo rosso delle icone. Li, sulla mensola, c'era una bellissima picca aperta, con una lama molto sottile e un manico d'osso. La guardavo ipnotizzato.

– L'ho fatta arrivare direttamente dalla Siberia, i nostri fratelli l'hanno portata per un mio giovane amico… – l'ha presa e me l'ha data in mano. – Prendila, Kolima, e ricorda che le sole cose che contano sono quelle che hai dentro.

Io ero di nuovo il felice proprietario di una picca e mi sentivo come se mi avessero regalato una seconda vita. 

Di sera ho scritto a caratteri belli grossi su un foglio le parole che mi aveva detto nonno Kuzja, e ho appeso il foglio in camera mia, vicino alle icone. Mio zio, quando l'ha visto, mi ha guardato con un punto interrogativo negli occhi. Io gli ho fatto un gesto con le mani, come per dire: «E cosi». Lui mi ha sorriso e ha detto:

– Adesso abbiamo pure un filosofo in famiglia!