Una Beretta calibro 9 per l’agente Miele
Sull’Aurelia, una ventina di chilometri a sud di Ischiano Scalo, c’è una lunga discesa a due corsie che termina con una curva ampia e larga. Intorno si stende la campagna. Non c’è nessun incrocio pericoloso. Su quel tratto di strada anche le vecchie Panda e le Ritmo diesel ringiovaniscono e tirano fuori dai motori spompati insospettabili potenze.
I viaggiatori, anche i più prudenti, che percorrono per la prima volta l’Aurelia sono invogliati da quella bella china a spingere un po’ sull’acceleratore e a provare il brivido della velocità. Chi invece conosce bene la strada evita di farlo perché sa che dopo, al novanta per cento, c’è appostata una volante della polizia pronta a spegnere gli ardori automobilistici a colpi di multe e ritiri di patente.
Qui i poliziotti non sono teneri come in città, assomigliano per certi versi a quelli che popolano le free-way americane. Gente dura, che fa il suo mestiere e con cui non ci si può mettere a discutere né tanto meno a contrattare.
Ti bastonano.
Viaggi senza cintura? Trecentomila lire. Uno stop non funziona? Duecentomila. Non hai fatto la revisione? Ti portano via la macchina.
Max (Massimiliano) Franzini tutto questo lo sapeva bene, faceva quella strada con i suoi genitori almeno dieci volte all’anno per andare al mare a San Folco (i Franzini possedevano una villa nel complesso Le Agavi proprio davanti all’Isola Rossa) e suo padre, il professor Mariano Franzini, primario di ortopedia al Gemelli di Roma e proprietario di un paio di cliniche ai bordi del raccordo anulare, era stato fermato un paio di volte e si era beccato una maximulta per eccesso di velocità.
Solo che Max Franzini quella notte di pioggia aveva ventanni compiuti da due settimane, la patente da appena tre mesi ed era al volante di una Mercedes che in un chilometro raggiungeva i duecentoventi e aveva accanto Martina Trevisan, una ragazza che gli piaceva molto e si era fatto tre canne di marocchino e...
Sotto un diluvio del genere la polizia non si mette a fare i fermi. È risaputo.
... la strada era deserta, non era un week-end, i romani non partivano per le vacanze, non c’era nessuna ragione per non correre e Max voleva arrivare il più presto possibile alla villa e la macchina di suo padre certo non gli impediva di realizzare questo desiderio.
Rifletteva su come organizzarsi quella notte con Martina.
Io mi piazzo nella camera di papà e mamma e poi le domando se preferisce dormire da sola nella camera degli ospiti oppure con me nel lettone. Se mi dice che va bene, è fatta. Significa che ci sta. Praticamente non devo fare nulla. Ci mettiamo dentro il letto e... Se invece dovesse dire che preferisce stare nella camera degli ospiti, è peggio. Anche se non vuol dire necessariamente che non ci sta, semplicemente potrebbe essere timida. Sennò potrei chiederle se ha voglia di spararsi un video in salotto e così ci mettiamo sul divanone con la coperta e poi là si vede un po’ come butta...
Max aveva dei problemi a provarci con le ragazze.
Sul corteggiamento, le chiacchiere, le risate, il cinema, le telefonate e le altre stronzate andava alla grande, ma quando arrivava il terribile momento di provarci, in pratica la prova del bacio, perdeva tutta la baldanza, e l’ansia di essere rifiutato lo travolgeva inchiodandolo come un moccioso alle prime armi. (A tennis gli capitava qualcosa del genere. Rispondeva con dritti e rovesci potenti per ore, ma quando doveva chiudere e portarsi a casa il punto si faceva prendere dal panico e regolarmente sbatteva la palla in rete o fuori campo. Per vincere doveva contare sugli errori dell’avversario.)
Per Max, provarci era uguale a un tuffo da uno scoglio alto. Ti affacci, guardi di sotto, torni indietro e dici chi me lo fa fare, ci riprovi, esiti, scuoti la testa e, quando tutti si sono buttati e si sono rotti di aspettarti, ti fai il segno della croce, chiudi gli occhi e ti lanci giù urlando.
Che disastro.
E le canne non lo aiutavano certo a riordinare le idee.
E Martina ne stava rollando un’altra.
Bella tossica, la ragazza.
Max si rese conto che non parlavano più da Civitavecchia. Tutto quel fumo lo aveva un tantino appesantito. E questo non è bene. Martina avrebbe potuto pensare che non aveva niente da dire e non era vero. Però c’è la musica. Stavano ascoltando l’ultimo cd dei REM.
Vabbe’, ora le faccio una domanda.
Si concentrò, abbassò lo stereo e parlò con la voce impastata. «A te piace più la letteratura russa o quella francese?»
Martina fece un tiro e trattenne il fumo. «In che senso?» rantolò.
Era così magra da sfiorare l’anoressia, con i capelli a spazzola tinti di blu elettrico, il piercing al labbro e a un sopracciglio e lo smalto nero sulle unghie. Indossava un vestitino di Benetton a righe blu e arancioni, un golf nero aperto davanti, la giacca di renna e gli anfibi dipinti di verde con lo spray, che teneva appoggiati contro il parabrezza.
«Quale preferisci? Preferisci di più gli scrittori russi o quelli francesi?»
Martina sbuffò. «È una domanda, scusami se te lo dico, un po’ cogliona. È troppo generale. Se mi chiedi se è meglio quel libro o quel libro ti posso rispondere. Se mi chiedi se è meglio Schwarzenegger o Stallone ti posso rispondere. Ma. se mi chiedi se mi piace di più la letteratura francese o quella russa, non lo so... È troppo generale.»
«E chi è meglio?»
«In che senso?»
«Tra Schwarzenegger e Stallone?»
«Secondo me, Stallone. Nettamente meglio. Un film come Rambo o Rocky Schwarzenegger non lo ha mai fatto.»
Max rifletté un po’. «È vero. Però Schwarzenegger ha fatto Predator, un capolavoro.»
«Anche questo è vero.»
«Hai ragione. Ti ho fatto proprio la classica domanda del cazzo. Come quando ti chiedono se ti piace di più il mare o la montagna. Dipende. Se per mare consideri Ladispoli e per montagna il Nepal, preferisco la montagna, ma se per mare consideri la Grecia e per montagna l’Abetone, preferisco il mare. Giusto?»
«Giusto.»
Max alzò il volume dello stereo.
Max e Martina si erano conosciuti quella mattina all’università, davanti alla bacheca di Storia moderna. Avevano attaccato a parlare dell’esame imminente e dei mattoni da studiare e avevano capito che, se non si mettevano sotto di brutto, non ce l’avrebbero mai fatta per il prossimo appello. Max era rimasto piuttosto sorpreso dalla disponibilità di Martina. Finora, in un anno di università, non era riuscito a parlare con nessuna ragazza. E poi quelle del suo corso erano tutte cozze, con la pelle grassa e secchione. Invece questa qui era carina da morire e sembrava pure simpatica.
«Che casino... Non ce la farò mai» le aveva detto Max esageratamente affranto. In realtà era già da un po’ di settimane che aveva deciso di saltare l’appello.
«Non dirlo a me,, io mi sa tanto che lascio perdere e mi presento tra due mesi.»
«L’unico modo per riuscirci è andarmene al mare a studiare. Chiudermi in un posto tranquillo.» Dopo una pausa tecnica aveva ripreso il discorso. «Certo che al mare da soli è una gran palla. C’è da spararsi.»
Una cazzata grossa come una casa.
Piuttosto che andare al mare da solo si sarebbe fatto tagliare il mignolo e l’anulare. Ma l’aveva buttata là come un pescatore, tanto per provare, getta un’esca di pane e formaggino ai tonni
Nella vita non si sa mai.
E infatti il tonno aveva abboccato. «Posso venire anch’io? Ti scoccia? Ho litigato con i miei, non li reggo più...» gli aveva chiesto Martina senza farsi problemi.
Max era rimasto senza parole e poi, trattenendo a fatica l’entusiasmo, aveva dato il colpo di grazia. «Certo, non c’è problema. Se per te va bene, partiamo stasera.»
«Benissimo. Studiamo, però.»
«Chiaro che studiamo.»
Si sarebbero incontrati alle sette alla fermata del metrò di Rebibbia, vicino a casa di Martina.
Max era nervoso come se fosse stato il primo appuntamento della sua vita. E in fondo era un po’ così. Martina aveva pochissimo in comune con le ragazze che lui frequentava di solito. Due razze diverse. Quelle che lui frequentava non sarebbero andate al mare con uno sconosciuto neanche per due milioni di dollari. Abitavano tra i Parioli, il centro storico e il Fleming, e non sapevano neanche cosa fosse Rebibbia. E perfino Max, nonostante avesse la coda di cavallo, cinque orecchini all’orecchio sinistro, vestisse con pantaloni tre taglie più grandi della sua e fosse un frequentatore di centri sociali, aveva dovuto cercare Rebibbia sul Tuttocittà.
Tavola 12 C2. Una vera periferica. Fantastico!
Max era convinto di potersi fare una storia con Martina. Anche se era ricco sfondato e abitava ai Parioli ed era andato a prenderla con una Mercedes che costava un paio di centinaia di milioni e la portava in una villa a due piani con sauna, palestra e un frigo che sembrava un caveau di una banca svizzera, di tutte queste stronzate non gliene fregava niente. Sarebbe diventato un batterista e non si sarebbe massacrato a fare un lavoro di merda come quel rincoglionito di suo padre.
Lui e Martina viaggiavano sulle stesse frequenze e lui si vestiva rozzo come lei e si assomigliavano anche se venivano da due mondi diversi, lo dimostrava il fatto che tutti e due amavano gli XTC, i Jesus & Mary Chain e gli Husker Du.
Non era colpa sua se era nato ai Parioli.
E quindi eccoli qua, Max e Martina, giù per il discesone a centottanta sulla Mercedes del professor Mariano Franzini che in quel momento dormiva accanto alla moglie all’Hilton di Istanbul per un convegno internazionale sull’impianto della protesi dell’anca, convinto che la sua macchina nuova fosse nel garage di via Monti Parioli e non nelle mani di quello sciagurato di suo figlio.
Le lampare che rischiarano la notte. Il caldo. I pescatori che ti preparano le grigliate sulla barca. Calamari a mezzanotte. Passeggiate nella foresta tropicale. L’albergo a quattro stelle. La piscina. La sosta di due giorni a Colombo, la città più colorata d’Oriente. Il sole. L’abbronzatura...
Tutte queste immagini scorrevano come un film nella mente dell’agente di polizia Antonio Bacci mentre, sotto la pioggia gelida, se ne stava intirizzito sul bordo della strada, con la divisa umida, la paletta in mano e le palle che gli giravano.
Guardò l’orologio.
In quel momento doveva essere alle Maldive già da un paio d’ore.
Ancora non poteva capacitarsene. Se ne stava sotto la pioggia e non riusciva a realizzare che il suo viaggio ai Tropici era andato a farsi benedire per colpa di quegli scansafatiche.
Ero riuscito a organizzare tutto.
Si era fatto dare le ferie. E anche Antonella, sua moglie, si era presa dieci giorni. Andrea, suo figlio, sarebbe andato a stare dalla nonna. Si era perfino comprato la maschera subacquea di silicone, le pinne e il boccaglio. Centottantamila lire buttate al vento.
Se non se ne faceva una ragione, rischiava d’impazzirci. La vacanza sognata da cinque anni era svanita in cinque minuti, il tempo di una telefonata.
«Signor Bacci, buongiorno, sono Cristiana Piccino della Francorosso. La chiamo per dirle che siamo mortificati ma il suo viaggio alle Maldive è stato annullato per cause di forza maggiore.»
Cause di forza maggiore?
Se lo era dovuto far ripetere tre volte prima di capire che non si partiva più.
Cause di forza maggiore = sciopero dei piloti e degli assistenti di volo.
«Maledetti, vi odio!» ululò disperato nella notte.
Era la categoria umana che odiava di più. Più degli arabi integralisti. Più dei leghisti. Più degli antiproibizionisti. Li odiava con tenacia e determinazione fin da ragazzino, quando aveva cominciato a guardare il telegiornale e a capire che al mondo i peggiori la fanno sempre da padroni.
Uno sciopero alla settimana. Ma che ci avrete mai da scioperare?
Avevano tutto, dalla vita. Uno stipendio che lui ci avrebbe messo tre firme e pure la possibilità di viaggiare e di farsi le hostess e di guidare un aereo. Avevano tutto e scioperavano.
E allora che dovrei dire io, eh?
Cos’avrebbe dovuto dire l’agente Antonio Bacci, che passava metà della sua vita in una piazzola della statale a gelarsi le chiappe e ad appioppare multe ai camionisti e l’altra metà a litigare con sua moglie? Doveva fare lo sciopero della fame? Doveva lasciarsi morire d’inedia? No, meglio spararsi un colpo in bocca e farla finita una volta per tutte.
«‘Ffanculo!»
E poi non era per lui. Lui, in qualche modo, sarebbe sopravvissuto anche senza le maledette Maldive. Con il cuore a pezzi, ma avrebbe tirato avanti. Sua moglie no. Antonella non avrebbe fatto passare la storia così. Con quel carattere che si ritrovava gliel’avrebbe fatta pagare per il prossimo millennio. Gli stava rendendo la vita un inferno come fosse colpa sua se i piloti facevano sciopero. Non gli parlava più, lo trattava peggio di un estraneo, gli sbatteva davanti il piatto e se ne stava davanti alla tv tutta la sera.
Perché era così sfortunato? Cos’aveva fatto di male per meritarsi questo?
Smettila. Lascia perdere. Non ci pensare.
Si stava torturando inutilmente.
Si chiuse meglio l’impermeabile e si posizionò più vicino alla strada. Due abbaglianti sbucarono dalla curva, Antonio Bacci alzò la paletta e pregò che in quella Mercedes ci fosse un pilota o un assistente di volo o, meglio, tutti e due insieme.
«Se non te ne sei accorto, la polizia ti ha fermato» gli annunciò Martina facendosi un tiro di canna.
«Dove!» Max pestò con violenza sul freno.
La macchina cominciò a sbandare e a scivolare sulla strada bagnata. Max tentava invano di governarla. Alla fine tirò il freno a mano (mai tirare il freno a mano in corsa!) e la Mercedes fece due piroette e finalmente si fermò col muso a mezzo metro dal fossato di fianco alla strada.
«Fiuh, che culo...» sbuffò Max con il fiato che gli rimaneva. «Per un pelo non siamo finiti di sotto.» Era bianco come un lenzuolo.
«Non li hai visti?» Martina era tranquilla. Come se avessero fatto il testacoda sulle macchinine del luna park e non a centosessanta all’ora su una statale dove avevano rischiato di rompersi l’osso del collo.
«Sì... Non tanto.» Aveva visto un bagliore blu, ma pensava che fosse l’insegna di una pizzeria. «Che faccio?» Nel lunotto posteriore, rigato dalla pioggia, la luce della volante sembrava un faro nella tempesta. «Torno indietro?» Non riusciva a parlare. Gli si erano seccate le fauci.
«Che ne so... Se non lo sai tu.»
«Io me ne andrei. Con questa pioggia non avranno potuto leggere la targa. Io me ne andrei. Che dici?»
«Dico che è una cazzata allucinante. Quelli t’inseguono e t’inculano a sangue.»
«Torno indietro, allora?» spense lo stereo e ingranò la retromarcia. «Tanto siamo in regola. Allaccia la cintura. E butta via quella canna.»
Non ha neanche rallentato.
Era uscito dalla curva come minimo a centosessanta e aveva proseguito sereno.
L’agente Antonio Bacci non aveva avuto neppure il tempo di segnarsi la targa.
CRF 3... Boh? Non se la ricordava.
Di mettersi a inseguirla non se ne parlava. Era l’ultima cosa di cui avesse voglia in quel momento.
Monti in macchina, fai spostare il sedere a quell’idiota di Miele dal posto di guida, ci devi litigare perché lui non vuole, finalmente parti, ti lanci come un disperato all’inseguimento, prima che lo riacchiappi come minimo sei arrivato a Orbano, rischi pure di appiccicarti su un albero. E tutto questo perché? Perché un deficiente non ha visto un posto di blocco.
«Naa. Non è nottata.»
Tra un’ora stacco, me ne torno a casa, mi faccio una bella doccia, mi preparo una zuppa del casale e me ne vado a letto e se quella rompiballe di mia moglie non mi parla è ancora meglio. Se sta zitta almeno non si lamenta.
Guardò l’orologio. Era il turno di Miele di stare fuori. Si avvicinò alla volante e con la mano asciugò il finestrino e guardò cosa stava facendo il suo collega.
Dorme. Come dorme!
Lui stava da mezz’ora sotto la pioggia e quel pezzo di merda se la ronfava felice e contento. Secondo la regola, chi stava in macchina doveva sentire la radio. Se c’era un’emergenza e non rispondeva, erano guai seri. Per colpa di quel coglione ci andava di mezzo pure lui. Era un irresponsabile. Stava da un anno nella polizia e credeva di potersi mettere a dormire mentre lui faceva tutto il lavoro.
Non era la prima cazzata che combinava. E poi gli stava troppo antipatico. Una roba di pelle. Quando gli aveva raccontato che non era partito per colpa dello sciopero dei piloti e che sua moglie era fuori dalla grazia di Dio, quello non aveva avuto neanche una parola gentile, un gesto amico, gli aveva detto che lui non si sarebbe mai fatto fottere dalle agenzie di viaggi e che in vacanza ci andava in macchina. Bravo! E che faccia da ritardato che aveva! Con quel nasone a patata e quegli occhi da rospo. Con quei ricci biondastri impiastrati di gel. E sorrideva mentre dormiva.
Io sto sotto la pioggia come uno stronzo e lui dorme...
La rabbia repressa con tanta fatica fino a quel momento cominciò a premergli come un gas tossico sulle pareti dell’esofago. Iniziò a contare per calmarsi. «Uno, due, tre, quattro... Vaffanculo!»
Un ghigno da pazzo gli deformò il volto. Cominciò a tempestare di pugni il parabrezza.
Bruno Miele, l’agente che stava in macchina, in realtà non dormiva.
Teneva la nuca sul poggiatesta e gli occhi chiusi e ragionava sul fatto che Graziano Biglia non aveva fatto male a scoparsi la Delia, ma avrebbe fatto mille volte meglio a scoparsi una soubrette.
Le soubrette sono mille volte meglio delle attrici.
E le soubrette che presentano i programmi sportivi lo arrapavano, se possibile, ancora di più. Era strano, ma il fatto che quelle troie parlassero di calcio e azzardassero previsioni (sempre sbagliate) sul campionato e valutazioni sulle tattiche di gioco (sempre idiote) glielo faceva venire duro.
Lui aveva capito a cosa servivano quelle trasmissioni. Per far chiavare le presentatrici con i calciatori. Era tutto organizzato per quello, il resto era messinscena. E lo dimostrava il fatto che poi si sposavano tra loro.
I presidenti delle società di calcio facevano questi programmi per far scopare i giocatori, così, poi, i calciatori si trovavano in debito e andavano a giocare nelle loro squadre.
Se non avesse scelto la carriera nella polizia, gli sarebbe piaciuto essere un calciatore. Aveva fatto male a smettere di giocare così presto. Chissà, se si fosse impegnato di più...
Sì, mi piacerebbe proprio fare il calciatore.
Non uno qualsiasi però, se sei uno qualsiasi le soubrette non ti cagano di striscio, no, doveva essere un bomber come Del Franco, per intenderci. Sarebbe stato ospite alle trasmissioni e se le sarebbe chiavate tutte: Simona Reggi, Antonella Cavalieri, Miriana...? Miriana, Luisa Somaini quando ancora lavorava a TMC e Michela Guadagni. Sì, tutte quante, senza fare inutili distinzioni.
Si stava eccitando.
Chissà chi era la più porca di tutte?
La Guadagni. Quanto mi tira la Guadagni. Sotto quell’aria da brava ragazza si nasconde una maialona. Solo che devi essere un atleta, cazzo, per poterla avvicinare.
Cominciò a immaginarsi impegnato in un’orgia con Michela, Simona e Andrea Mantovani, il presentatore.
Sorrise. A occhi chiusi. Felice come un bambino.
Toc toc toc toc.
Una violenta scarica di colpi lo fece letteralmente saltare in aria.
«Che succede?» Sgranò gli occhi e urlò. «Ahhhhh!»
Dietro il vetro una faccia mostruosa lo guardava.
Poi lo riconobbe.
Quel testadicazzo di Bacci!
Abbassò un paio di centimetri di finestrino ringhiando. «Ma sei fuoriditesta?! Per poco non mi è venuto un infarto! Che vuoi?»
«Esci!»
«Perché?»
«Perché sì. Stavi dormendo.»
«Non stavo dormendo.»
«Esci!»
Miele guardò l’orologio. «Non tocca ancora a me.»
«Esci fuori.»
«Non tocca ancora a me. Mezz’ora a testa.»
«Mezz’ora è passata da un pezzo.»
Miele controllò l’orologio e fece segno di no. «Non è vero, mancano ancora quattro minuti. Tra quattro minuti esco.»
«Vaffanculo, sono passati più di quaranta minuti. Esci.»
Bacci si avventò contro la maniglia ma Miele fu più lesto, abbassò la sicura prima che quel malato di mente riuscisse ad aprire lo sportello.
«Brutto figlio di puttana, esci fuori» sbraitò Bacci e ricominciò a mollare cazzottoni contro il finestrino.
«Ma che hai?! Che ti è preso, eh, sei impazzito?! Rilassati. Stai tranquillo. Ho capito che non sei andato a fare il viaggio ai Tropici, ma rilassati. È solo un viaggio, non è la fine del mondo.» Miele cercò di non mettersi a ridere, ma quello là era uno sfigato puro, per due mesi gli aveva tatto due palle così con atolli, pesci napoleone e palme e non era partito. Da pisciarsi dalle risate.
«Ah, ridi, pezzo di merda! Apri! Guarda che sfondo il finestrino e ti faccio ingoiare i denti, per la Madonna.»
Miele stava per rincarare la dose e dirgli che non si doveva incazzare così, se non era andato alle Mauritius non importava, tanto il bagno se lo stava facendo lo stesso, ma si trattenne. Qualcosa gli diceva che quello era capace di sfondarlo davvero, il vetro.
«Apri!»
«No, non apro. Se non ti calmi, non apro.»
«Sono calmo. Adesso apri.»
«Non sei calmo, lo vedo.»
«Sono calmo, te lo giuro. Sono calmissimo. Apri, forza.» Bacci si allontanò dalla macchina e alzò le mani. Ormai era fradicio.
«Non ci credo.» Miele guardò di nuovo l’orologio. «E poi mancano ancora un paio di minuti.»
«Non ci credi, eh? Allora guarda.» Bacci estrasse la pistola e gliela puntò contro. «Lo vedi che sono calmo? Lo vedi, eh?»
Miele non ci credeva, come poteva credere che quell’idiota gli stesse puntando la Beretta contro? Doveva essersi fuso il cervello, come quelli che vengono licenziati e ammazzano il loro datore di lavoro. Ma Miele non era disposto a farsi ammazzare da uno psicopatico. Estrasse la pistola anche lui. «Anch’io sono calmo» disse con un sorrisetto strafottente. «Siamo tutti e due calmi. Strafatti di camomilla.»
«Guarda il poliziotto che fa» disse Martina.
Una leggerissima traccia di stupore le venava la voce.
«Che fa? Non vedo.» Max era piegato dalla parte della ragazza ma non riusciva a distinguere niente, la cintura di sicurezza lo bloccava e fuori era buio.
La luce blu illuminava una sagoma umana.
«Ha la pistola in mano.»
Max per poco non si strozzò. «Come, ha la pistola in mano?»
«La sta puntando contro la macchina.»
«La sta puntando contro la macchina!?» Max tirò su le mani e cominciò a urlare. «Non abbiamo fatto niente! Non abbiamo fatto niente! Non l’ho visto, il blocco, lo giuro!»
«Mongoloide, zitto, non la sta puntando contro di noi.» Martina aprì lo zainetto, tirò fuori un pacchetto di Camel light e si accese una sigaretta.
«E contro chi la punta?» domandò Max.
«Stai zitto un attimo. Fammi capire.» Abbassò il finestrino. «Contro la macchina della polizia.»
«Ah!» Max sbuffò di sollievo. «E perché?» chiese poi.
«Non lo so. Forse dentro c’è un ladro.» Martina buttò fuori una nuvola di fumo.
«Dici?»
«Potrebbe. Gli si deve essere infilato dentro mentre stava fermando le macchine. Succede spesso che rubano le volanti così. L’ho letto da qualche parte. Ma il poliziotto deve averlo beccato.» Sembrava molto soddisfatta dell’ipotesi.
«E che facciamo? Ce ne andiamo?»
«Aspetta. Aspetta un momento... Lasciami fare.» Martina si sporse fuori dal finestrino. «Agente! Agente, ha bisogno di una mano? Possiamo fare qualcosa per lei?»
Ho capito perché è venuta con me senza conoscermi, rifletté disperato Max, è tutta cretina. Altro che le mie amiche, questa qua è completamente idiota.
«Agente! Agente, ha bisogno di una mano? Possiamo fare qualcosa per lei?» Una voce in lontananza.
Bacci alzò lo sguardo e vide, sul bordo della strada, la Mercedes blu che non si era fermata. Una voce femminile lo stava chiamando.
«Cosa?» urlò. «Non ho capito.»
«Ha bisogno di una mano?» gridò la ragazza.
Ho bisogno di una mano? «No!»
Ma che domande faceva? Poi si ricordò della pistola e la infilò velocemente nella fondina. «Siete quelli che prima non si sono fermati?»
«Sì. Siamo noi.»
«Come mai siete tornati?»
La ragazza attese un istante prima di rispondere. «Non ci ha fatto segno con la paletta di fermarci?»
«Sì, ma prima...»
«Allora ce ne possiamo andare?» domandò la ragazza speranzosa.
«Sì» disse Bacci, ma poi ci ripensò. «Un momento, che lavoro fate?»
«Non lavoriamo. Studiamo.»
«Cosa?»
«Lettere.»
«Non sei un’hostess, vero?»
«No. Lo giuro.»
«E perché prima non vi siete fermati?»
«Il mio ragazzo non ha visto il posto di blocco. Pioveva troppo.»
«Certo, il tuo ragazzo correva come un incosciente. A un chilometro da qui c’è un cartello bello grosso su cui c’è scritto: 80. È la velocità massima consentita su questo tratto di strada.»
«Il mio ragazzo non l’ha visto. Siamo mortificati. Veramente. Il mio ragazzo è molto dispiaciuto.»
«Va be’, per stavolta l’avete passata liscia. Correte meno, però. Soprattutto quando piove.»
«Grazie, agente. Andremo pianissimo.»
In macchina, Max esultava per tre ragioni.
1) Perché Martina aveva detto “il mio ragazzo”. Questo probabilmente non significava niente, ma poteva anche significare qualcosa. Uno non dice tanto per dire “il mio ragazzo”. Ci dev’essere un’intenzione, lontana, forse, ma ci dev’essere.
2) Martina non era per niente idiota. Tutt’altro. Era un genio. Si era intortata il poliziotto alla grandissima. Se continuava così, finiva che quello li scortava pure a casa.
3) Non si era beccato la multa. Suo padre gliel’avrebbe fatta pagare fino all’ultima lira, oltre al fatto che gli aveva preso la macchina nuova...
Ma si sbagliava a esultare, perché in quel preciso istante cominciava il turno di Bruno Miele.
Quando aveva visto accostarsi quel gioiello di automobile, l’agente Miele era schizzato fuori come se nella volante ci fosse uno sciame di vespe.
Una 650 TX. La macchina migliore del mondo, secondo la rivista americana «Motors & Cars».
Accese la torcia elettrica e la puntò sull’automobile.
Blu cobalto. L’unico colore per una 650 TX.
«Voi nella Mercedes, accostate» intimò ai due e poi si rivolse a Bacci. «Lascia stare. Ci penso io.»
Il potente fascio della torcia faceva brillare le gocce di pioggia che scendevano fitte e regolari. Dietro, il volto di una ragazza che strizzava gli occhi abbagliata.
Miele la osservò con attenzione.
Aveva i capelli blu, un anello sulle labbra e uno su un sopracciglio.
Una punk!? Che cazzo ci fa una punk su una 650 TX?!
Miele detestava i punk su una Panda, figuriamoci sull’ammiraglia della casa tedesca.
Detestava i loro capelli tinti, i tatuaggi, gli anelli, le ascelle sudate e tutte le altre stronzate anarcoidi-comuniste.
Una volta Lorena Santini, la sua fidanzata, gli aveva detto che le sarebbe piaciuto mettersi l’anello all’ombelico come Naomi Campbell e Pietra Mura. «Fallo e ti mollo!» Le aveva risposto lui. E la stronzata, così come era apparsa era scomparsa dalla mente di Lorena. Probabilmente se fosse stata la fidanzata di uno con meno coglioni, ora li avrebbe avuti pure sulla fica.
Un pensiero inquietante lo gelò. E se la Guadagni ha gli anelli sulla fica?
A lei starebbero bene. La Guadagni non è come Lorena. Certe cose lei può permettersele.
«Il suo collega ha detto che ce ne potevamo andare» fece la punk con un braccio davanti agli occhi e una vocetta da cornacchia trasteverina.
«E io invece dico che dovete restare. Accostate.»
L’automobile parcheggiò nella piazzola.
«È vero. Gli ho detto io che potevano andare» protestò Bacci sottovoce.
Miele non abbassò il volume di un decibel. «Ho sentito. E hai fatto male. Non si sono fermati a un posto di blocco. È molto grave...»
«Lasciali andare» lo interruppe Bacci.
«No. Mai.» Miele fece un passo verso la Mercedes, ma Bacci lo afferrò per un braccio.
«Che cazzo stai facendo? Li ho fermati io. Tu che c’entri?»
«Lasciami il braccio.» Miele si divincolò.
Bacci incominciò a saltellare dalla rabbia e a inspirare ed espirare dagli angoli della bocca. Le guance si gonfiavano e si sgonfiavano come due zampogne lucane.
Miele lo guardò scuotendo la testa. Poveraccio. Che pena. Gli è partito il cocomero. Devo fare rapporto sul suo grave stato mentale. Non è più responsabile delle sue azioni. È pericoloso. Non si rende conto di stare malissimo.
Se quei due erano studenti, lui era un ballerino di merengue. E quell’imbecille che voleva lasciarli andare...
Erano due ladri.
Come poteva una puttana punk stare su una macchina così? Era chiaro. Portavano la Mercedes da qualche ricettatore. Ma se pensavano di farla a Bruno Miele, stavano commettendo un errore grosso come lo stadio Olimpico.
«Senti, vai in macchina. Asciugati, che sei tutto bagnato. Ci penso io. Ora tocca a me. Mezz’ora per uno. Dài, Antonio, vai dentro, per favore.» Cercò di usare il tono più conciliante possibile.
«Sono tornati. Li avevo fermati e sono tornati indietro. Come mai? Secondo te, se fossero ladri, sarebbero tornati?» Bacci ora sembrava sfinito. Come se gli avessero prelevato tre litri di sangue.
«Che c’entra? Vai dentro, forza.» Miele aprì lo sportello della volante. «Hai avuto una brutta giornata. Gli controllo i documenti e li lascio andare.» Lo spinse dentro.
«Fai presto, così ce ne torniamo a casa» disse Bacci completamente scaricato.
Miele chiuse lo sportello e tolse la sicura alla pistola.
E ora a noi.
Si aggiustò il cappello e si avviò con passo deciso verso la Mercedes rubata.
I modelli di riferimento di Bruno Miele erano il Clint Eastwood prima maniera, quello dell’ispettore Callaghan, e lo Steve McQueen di Bullit. Uomini tutti d’un pezzo. Uomini di ghiaccio che ti sparavano in bocca senza fare una piega. Poche chiacchiere, molti fatti.
Miele intendeva diventare come loro. Però aveva capito che per riuscirci bisognava avere una missione e lui se l’era trovata. Bonificare la zona dal degrado e dalla criminalità. E se doveva usare la forza, tanto meglio.
Il problema era che odiava l’uniforme che indossava. Gli faceva schifo. Era orrenda, ridicola. Tagliata di merda. Stoffa di cattiva qualità. Roba da polizia polacca. Si guardava allo specchio e gli veniva da vomitare. Con quella divisa addosso non sarebbe mai riuscito a dare il meglio di sé. Perfino Dirty Harry, con la divisa da poliziotto italiano, sarebbe stato uno qualsiasi, non per niente portava giacche di tweed e pantaloni stretti. Ancora un anno e lui poteva far richiesta per entrare nei reparti speciali. Se lo accettavano si sarebbe messo in borghese e allora sì che sarebbe stato a suo agio. La P38 nella fondina ascellare. E quel bel trench bianco che aveva comprato a Orbano ai saldi estivi.
Miele batté con la torcia sul finestrino del guidatore.
Il vetro si abbassò.
Al volante c’era un ragazzo.
Lo squadrò senza far trapelare nessuna emozione (altro segno distintivo del vecchio Clint). Era molto brutto. Doveva avere una ventina d’anni.
Entro cinque, tie’, sei anni al massimo, sarebbe diventato calvo. Lui li sgamava al volo, i calvi. Nonostante quello tenesse i capelli lunghi legati in una coda di cavallo, sopra la fronte li aveva radi come gli alberi di una foresta bruciata. E aveva due orecchie grosse come ciambelle, la sinistra più a sventola dell’altra. Come se non fosse abbastanza evidente la deformità, dal lobo gli pendevano cinque anelli d’argento. Il punk probabilmente credeva di assomigliare a Bob Marley o a qualche altra rock-star drogata del cazzo, ma pareva più Walter Chiari travestito da Mago Zurli.
La troietta dai capelli turchini guardava davanti a sé con la mascella contratta. Aveva le cuffie sulle orecchie. Non era bruttissima. Senza quella ferramenta in faccia e quella tintura in testa sarebbe stata passabile. Niente di straordinario, comunque, ma per un pompino o una sbattuta di ossa al buio poteva andare.
Miele si affacciò nell’abitacolo. «Buonasera, signore. Favorisca i documenti.»
Un aroma forte, inconfondibile come quello di merda di vacca gli eccitò i recettori creando un flusso di ioni che, attraverso i nervi cranici, gli risalì nell’encefalo dove scaricò neuromediatori sulle sinapsi del centro della memoria. E Bruno Miele ricordò.
Aveva sedici anni e si trovava sulla spiaggia di Castrone e cantava Blowing in the wind insieme ad alcuni ragazzi della sede di Comunione & Liberazione di Albano Laziale, che facevano campeggio lì vicino. A un tratto erano arrivati quattro fricchettoni che avevano cominciato a fabbricarsi sigarette. Gliene avevano offerta una e lui, per fare colpo su una brunetta di CL, aveva accettato. Un tiro e aveva cominciato a tossire e a lacrimare e quando aveva chiesto cos’era quella merda, i fricchettoni si erano messi a ridere. Poi qualcuno gli aveva spiegato che quella era una sigaretta farcita di droga. Aveva passato una settimana spaventosa, convinto di essere diventato un drogato.
In quella Mercedes c’era lo stesso odore.
Hashish.
Fumo.
Droga.
Walter Chiari e Belli Capelli ci si erano fatti un mucchio di canne. Puntò la pila sul portacenere.
Tombola. E quel coglione di Bacci voleva mandarli via...
Altro che mucchio, una catasta. I mozziconi straboccavano dal portacenere. Non si erano neanche presi la briga di farli sparire. O erano due ritardati mentali o erano troppo fatti per compiere anche un’operazione tanto semplice.
Walter Chiari aprì il cassetto del cruscotto e gli consegnò il libretto di circolazione e il foglio dell’assicurazione.
«La patente?»
Il tizio tirò fuori dalla tasca il portafoglio e gli porse la patente.
Walter Chiari in realtà si chiamava Massimiliano Franzini. Era nato il 25 luglio 1975 ed era residente a Roma in via Monti Parioli, 128.
La patente era in regola.
«Di chi è la macchina?»
«Di mio padre.»
Controllò il libretto di circolazione. L’auto era intestata a Mariano Franzini, residente in via Monti Parioli, 128.
«E tuo padre può permettersi una macchina del genere?»
«Sì.»
Miele allungò il braccio e con la punta della torcia toccò la coscia della ragazza. «Levati quelle cuffie. Documenti.»
Belli Capelli scostò un auricolare, fece una smorfia come se si fosse ingoiata la carogna di un topo e prese dal marsupio la carta d’identità, consegnandogliela con un gesto indisponente.
Si chiamava Martina Trevisan. Anche lei era romana e abitava in via Palenco, 34. Miele non era molto esperto nella toponomastica della capitale, ma gli sembrava di ricordare che via Palenco fosse vicino a piazza Euclide. Parioli.
Riconsegnò i documenti e li squadrò tutti e due.
Due pariolini di questa minchia che facevano i punk.
Peggio dei ladri. Molto peggio. Almeno i ladri rischiavano il culo. Questi no. Questi erano figlidipapà travestiti da teppisti. Nati nella bambagia e tirati su a colpi di centomila lire e con genitori che gli dicevano che erano i padroni dell’universo, che la vita è una passeggiata e che se volevano farsi le canne potevano e se gli andava di vestirsi come barboni non c’era problema.
Un sorriso beato comparve sul volto di Miele, mettendo in mostra una chiostra di denti gialli.
Quella A di anarchia disegnata con i pennarelli sui jeans era un affronto a chi si spacca la schiena sotto la pioggia gelida per mantenere l’ordine, quelle canne lasciate nel posacenere erano un oltraggio a chi una volta ha fatto un tiro per sbaglio a una canna ed è stato tutta una settimana con l’angoscia di essere un drogato, quelle lattine di cocacola buttate con disprezzo sotto i sedili di una macchina che un essere umano normale non si potrebbe permettere nemmeno se risparmiasse per tutta una vita erano un insulto a chi possiede un’Alfa 33 Twin Spark, e la domenica se la lava alla fontana e si cerca i pezzi di ricambio usati. Tutto ciò che quei due rappresentavano, in definitiva, era uno sfottò a lui e all’intero corpo di polizia.
Quei figli di puttana lo stavano prendendo per il culo.
«Lo sa tuo padre che gli hai preso la macchina?»
«Sì.»
Facendo finta di controllare il foglio dell’assicurazione, Miele proseguì in tono informale: «Vi piace fumare?». Sollevò lo sguardo e vide Walter Chiari che per poco non collassava.
Questo gli diede una scossa benefica che lo ringalluzzì tutto. Il freddo era scomparso. La pioggia non lo bagnava più. Si sentiva bene. In pace.
È mille volte meglio fare il poliziotto che il calciatore.
Li aveva in mano.
«Vi piace fumare?» ripeté con lo stesso tono.
«Come, agente, non ho capito» farfugliò Walter Chiari.
«Vi piace fumare?»
«Sì.»
«Cosa?»
«Come cosa?»
«Cosa vi piace fumare?»
«Chesterfield.»
«E gli spinelli non vi piacciono?»
«No.» La voce di Walter, invece, vibrava come una corda di violino.
«Noo? E allora perché tremi?»
«Non sto tremando.»
«Giusto. Non stai tremando, scusami.» Sorrise soddisfatto e sparò la luce in faccia a Belli Capelli.
«Il giovanotto qui dice che non vi piacciono i cannoni. È vero?»
Martina, riparandosi gli occhi con la mano, fece segno di no con la testa.
«Che hai, sei troppo fatta per parlare?»
«Ci siamo fumati qualche canna, allora?» rispose Belli Capelli con una voce stridula e acuta come un’unghiata sulla lavagna.
Ah... sei una tosta! Non sei una cacasotto come Orecchie a Sventola.
«Allora? Forse ti sfugge, ma in Italia è un reato.»
«È uso personale» ribatté la troietta con un tono da maestrina.
«Ah, è per uso personale. Allora guarda. Guarda un po’ che succede.»
Max si ritrovò nell’acqua.
A pelle di leone.
Non aveva avuto il tempo di reagire, di difendersi, di fare niente.
La portiera si era spalancata e quel bastardo gli aveva afferrato i capelli per la coda con tutte e due le mani e lo aveva tirato fuori. Per un attimo aveva temuto che glieli volesse strappare tutti, ma quel figliodiputtana lo aveva lanciato in mezzo alla piazzola, come fosse un peso legato a una corda. E Max era volato in avanti, a testa in giù, finendo di muso in una pozzanghera.
Non respirava.
Si tirò su e si mise in ginocchio. L’impatto con l’asfalto gli aveva compresso lo sterno facendogli collassare i polmoni. Spalancò la bocca ed emise dei suoni gutturali. Niente. Provava a respirare, ma non riusciva a succhiare aria. Boccheggiava prostrato sotto la pioggia e intorno a lui tutto evaporava e diventava tenebra. Nero e giallo. Fiori gialli gli sbocciavano a centinaia davanti agli occhi. Nelle orecchie sentiva un ronzio cupo e pulsante come il motore lontano di una petroliera.
Muoio. Muoio. Muoio. Cazzo, muoio.
Poi, quando ormai era sicuro di lasciarci le penne, qualcosa si sbloccò nel suo torace, una valvola forse, qualcosa si rilassò, insomma, e un filo d’aria fu risucchiato voracemente nei suoi polmoni assetati. Max respirò. E respirò e respirò ancora. La faccia gli passò dal viola al rosso cardinale. Poi cominciò a tossire e a sputare e sentì di nuovo la pioggia che gli colava sul collo e gli inzuppava i capelli.
«Alzati. Tirati su.»
Una mano lo afferrò per il bavero. Si ritrovò in piedi.
«Stai bene?»
Max fece segno di no con la testa.
«Dài che stai bene. Ti ho levato di dosso quell’abbiocco che ti aveva preso. Ora scommetto che mi capisci meglio.» Max sollevò lo sguardo.
Quel pezzo di merda stava in mezzo allo spiazzo, completamente fradicio, e allargava le braccia come un predicatore invasato o qualcosa del genere. Il volto nascosto nel buio.
E c’era anche Martina. In piedi. A gambe larghe. Le mani appoggiate contro la portiera della Mercedes.
«Se quello che avete consumato, come giustamente ci dice la giovane, era per uso personale, ora ci dobbiamo assicurare che non sia nascosta altra droga da qualche parte, perché allora sarebbe più grave, molto più grave, e volete sapere perché? Perché sarebbe detenzione abusiva di sostanze stupefacenti a fini di spaccio.»
«Max, ti senti bene? Tutto bene?» Martina, senza girarsi, lo chiamò disperata.
«Sì. E tu?»
«Sto bene...» Aveva la voce incrinata. Stava per scoppiare a piangere.
«Fantastico. Anch’io sto bene. Stiamo tutti e tre bene. Così ora ci possiamo occupare di problemi più seri» fece il poliziotto al centro del piazzale.
È pazzo. Completamente pazzo, si disse Max.
Probabilmente non era neanche un poliziotto. Doveva essere un pericoloso psicopatico travestito da poliziotto. Proprio come in Maniac Cop. Quell’altro, il poliziotto che avevano visto prima, quello con la pistola, che fine aveva fatto? Lo aveva ucciso? Dentro la volante la luce era accesa, ma la pioggia sui finestrini impediva di vedere all’interno.
Fu abbagliato dalla torcia del poliziotto.
«Dove sta la roba?»
«Quale roba? Non c’è nessuna ro... ba.» Cazzo, mi sto mettendo a piangere anch’io. Sentiva il pianto che gli avvolgeva le sue spire maledette intorno al pomo d’Adamo e alla trachea. Un tremito incontrollabile lo scuoteva da capo a piedi.
«Spogliati!» gli ordinò il poliziotto.
«Come, spogliati?»
«Spogliati. Ti devo perquisire.»
«Non ho niente addosso.»
«Dimostramelo.» Il poliziotto aveva alzato la voce. E stava perdendo la calma.
«Ma...»
«Niente ma. Tu devi ubbidire. Io rappresento l’ordine costituito e tu l’anarchia e sei stato colto in flagranza di reato e quindi se ti ordino di spogliarti tu ti devi spogliare, hai capito? Devo forse tirare fuori la pistola e infilartela tra le tonsille? Vuoi che lo faccia?» Aveva ritrovato quel tono pacato, quel tono foriero di sciagure e violenza.
Max si tolse la camicia scozzese e la posò a terra. Poi si sfilò la felpa e la maglietta. Intanto il poliziotto lo osservava a braccia incrociate. Gli fece segno di andare avanti. Si slacciò la cintura e i pantaloni di tre taglie più grandi che scivolarono giù come un sipario strappato, lasciandolo in mutande. Aveva le gambe glabre, bianche e magre come ramoscelli.
«Levati tutto. Potresti essertela nasc...»
«Ecco! Ecco qua! Non ce l’ha lui. Ce l’ho io» urlò Martina che stava ancora con le mani appoggiate sulla macchina. Max non riusciva a vederla in faccia.
«Che cos’hai tu?» Il poliziotto le si avvicinò.
«Tieni! Guarda.» Martina aprì il marsupio e prese un pezzo di fumo. Poca roba. Un paio di grammi al massimo. «Eccolo qua.»
Era tutto quello che avevano.
Solo mezz’ora prima, in un pianeta ad anni luce da lì, un pianeta con il riscaldamento a manetta, la musica dei REM e i sedili di pelle, Martina parlava. «Ho provato a comprarne un altro po’. Ho chiamato Pinocchio» (e Max aveva pensato che i pusher hanno sempre i soliti nomignoli del cazzo) «ma non l’ho trovato. È poco, ma chi se ne frega. Ce lo faremo bastare e poi se ci sfondiamo non studiamo...»
«Dai qua.» Il poliziotto prese il pezzo di hashish e se lo mise sotto il naso. «Non fatemi ridere. Queste sono le caccole, dov’è nascosto il grosso? Dentro la macchina? Oppure lo tenete addosso?»
«Giuro, giuro su Dio che è tutto quello che abbiamo. Non ce ne altro. È la verità. Vaffanculo. Figlio di puttana che non sei altro. È la ver...» Martina smise di parlare e cominciò a piangere.
Sembrava più piccola ora che finalmente piangeva. Le colava il moccio dal naso e le si era sciolto il rimmel sotto gli occhi e la spazzola blu che aveva in testa si era appassita appiccicandosi sulla fronte. Una ragazzina di quindici anni squassata dai singhiozzi.
«È nella macchina? Dimmi, l’avete nascosto in macchina?»
«Vai a vedere, stronzo. Non c’è un cazzo!» urlò Martina e poi gli si avventò addosso a pugni stretti e il poliziotto le afferrò i polsi e Martina ringhiava e piangeva e il poliziotto urlava. «Che devi fare? Che devi fare? La tua posizione si aggrava» e le piegava un braccio dietro la schiena facendola strillare di dolore e chiudendole il polso con una manetta e l’altra al finestrino.
Max, a braghe calate, guardava malmenare la sua compagna di studi e futura fidanzata senza fare niente.
Era il tono del poliziotto che gli impediva di reagire. Troppo tranquillo. Come se per lui fosse la cosa più normale del mondo prendere uno per i capelli e sbatterlo a terra e poi picchiare una ragazza.
È pazzo come un cavallo. Questa considerazione, invece che gettarlo definitivamente nel panico, lo calmò.
Era pazzo. Ecco perché lui non doveva fare assolutamente niente.
Ad alcune persone è successo di morire e di essere riportate in vita. Questione di pochi secondi, durante i quali i polmoni sono fermi, l’elettrocardiogramma è piatto e qualsiasi segno di vita assente. Sono clinicamente morti. Poi gli sforzi dei medici, l’adrenalina, le scariche elettriche e i massaggi cardiaci resuscitano il cuore che lentamente ricomincia a battere e questi fortunati riprendono a vivere.
Al risveglio, se è giusto chiamarlo così, alcuni hanno raccontato di aver avuto la sensazione, mentre erano morti, di staccarsi dal corpo e di vedere se stessi sul tavolo operatorio circondati da medici e infermieri. Guardavano la scena dall’alto, come se una telecamera fosse zavorrata dentro le loro spoglie mortali (l’anima, per altri), si fosse liberata e avesse compiuto una carrellata indietro e verso l’alto.
Una sensazione simile a quella che Max stava provando in quel momento.
Vedeva la scena da lontano. Come in un film, o meglio su un set dove stavano girando. Un film di violenza. La luce blu della volante. I fari della Mercedes che facevano brillare le pozzanghere. L’oscurità frustata dalla pioggia. Le macchine che sfrecciavano sulla strada. I rintocchi lontani di una campana.
Non me n’ero accorto, finora.
E quel fìnto poliziotto e una ragazza magra in ginocchio
che ho conosciuto questa mattina
che piangeva ammanettata alla portiera. E poi c’era lui, in mutande, che tremava e batteva i denti senza essere in grado di fare niente.
Era perfetta. Da copione.
E la cosa più assurda era che era vera e stava accadendo a lui, a lui che era un appassionato di cinema d’azione, a lui che aveva visto un mucchio di volte Duel e quattro volte Un tranquillo week-end di paura e almeno un paio The Hitcher, a lui che, seduto nella seconda fila dell’Embassy con un pacchetto di pop-corn in mano, avrebbe apprezzato molto una scena così tosta. Avrebbe gioito per il suo realismo. Per la violenza inusitata che il regista era riuscito a metterci dentro. Che strano, ora c’era in mezzo, proprio lui, proprio lui che avrebbe applaudito...
Il ragazzo non s’impegna e non partecipa.
Quante volte gli avevano scritto quella stronzata sulla pagella?
«LASCIALA STARE!» Urlò a squarciagola. Roba da spezzarsi le corde vocali, «LASCIALA STARE!»
Partì caricando come una bestia ferita contro quel bastardo figlioditroiarottoinculo ma finì a terra dopo appena un passo.
Inciampò nei pantaloni.
E rimase giù nella notte fredda a piangere.
Forse ci sto andando un po’ pesante.
Fu la scena pietosa di Walter Chiari che inciampava nei pantaloni e finiva in una pozzanghera strillando come un maiale scannato che fece nascere questo interrogativo di ordine morale nella mente dell’agente di polizia Bruno Miele.
Poteva essere una cosa comicissima, alla Fantozzi per intenderci, quel poveraccio a braghe calate che tentava di aggredirlo e finiva giù e invece la scena gli aveva gelato il sorriso sulla faccia. Improvvisamente quel poveretto gli aveva fatto un po’ pena. Uno di vent’anni che si mette a frignare come un moccioso e non sa assumersi le sue responsabilità. Quando aveva visto il film L’orso, nel punto in cui i cacciatori uccidono mamma orsa e il cucciolotto capisce che la Terra è un posto di merda popolato da figli di puttana e che dovrà cavarsela da solo, aveva provato qualcosa del genere. Un groppo in gola e una contrazione involontaria dei muscoli facciali.
(Che cazzo ti sta prendendo?)
Che cazzo mi sta prendendo?! Niente!
La ragazza non gli faceva pena.
Anzi. L’avrebbe presa a schiaffi. Gli stava talmente sul cazzo, con quella sua vocetta isterica che sembrava il guaito di una sega elettrica, che non se la sarebbe nemmeno scopata. Sì, l’avrebbe presa volentieri a schiaffi. Ma quel disgraziato doveva piantarla di piagnucolare, sennò veramente si metteva a piangere pure lui.
Si accucciò accanto a Walt... Come si chiamava? Massimiliano Franzini. Gli si rivolse con un tono zuccheroso come una cassata siciliana. «Tirati su. Non piangere. Dài, che lì a terra prendi freddo.»
Niente.
Sembrava che non lo avesse sentito, ma almeno aveva smesso di piangere. Lo afferrò per un braccio e tentò di sollevarlo ma niente. «Dài, non fare così. Adesso controllo in macchina e se non trovo niente vi lascio andare. Sei contento?»
Glielo aveva detto per farlo alzare. Non era tanto sicuro che li avrebbe lasciati andare così facilmente. C’erano sempre tutte quelle canne che si erano fumati. E poi doveva chiedere un controllo sui nominativi alla centrale. 11 verbale. Un mucchio di roba da fare.
«Alzati che mi fai arrabbiare.»
Orecchione finalmente sollevò la testa. Aveva la faccia sporca di fango e una seconda bocca gli si era aperta sulla fronte e vomitava sangue. Aveva gli occhi lucidi e stanchi, ma una strana determinazione li animava. Mostrò i denti. «Perché?»
«Perché sì. Non puoi rimanere a terra.»
«Perché?»
«Ti prenderai un raffreddore.»
«Perché? Perché fai così?»
«Così come?»
«Perché ti comporti così?»
Miele fece due passi indietro.
Come se improvvisamente a terra non ci fosse più Walter Chiari ma un velenoso cobra che gonfiava il collo.
«Alzati. Le domande le faccio io. Alz...
(Spiegagli perché ti comporti così.)
... ati» balbettò.
(Diglielo.)
Che cosa?
(Digli la verità. Spiegaglielo, su. E non cacciargli balle. Così ce lo spieghi pure a noi. Che non abbiamo capito bene. Diglielo, forza, che aspetti?)
Miele si allontanò. Sembrava un manichino. I pantaloni della divisa erano bagnati fino al ginocchio, la giacca aveva un alone scuro sulle spalle e sulla schiena. «Vuoi che te lo dica? Ora te lo dico. Ora te lo dico, se vuoi.» E si avvicinò a Orecchione, gli afferrò la testa e gliela girò in direzione della Mercedes. «Vedi quella macchina là? Quella macchina viene su strada, senza optional, centosettantanove milioni iva compresa, ma se ci aggiungi il tettuccio apribile, le ruote più larghe, il climatizzatore computerizzato, l’impianto hi-fi con il cambia cd da bagagliaio e il subwoofer attivo, gli interni in pelle, l’air-bag laterale e tutto il resto arriviamo tranquillamente a duecentodieci, duecentoventi milioni. Quella macchina ha un sistema di frenata, controllato da un processore a sedici bit identico a quello che usa la McLaren in Formula uno, ha una scatola sigillata con all’interno un cip prodotto dalla Motorola che controlla l’assetto della vettura, regola la pressione dei pneumatici e l’altezza degli ammortizzatori anche se tutte queste, in definitiva, sono stronzate che potresti trovare, non così, un po’ peggio, pure su un modello di punta della Bmw o della Saab. La cosa eccezionale di quell’automobile, la cosa per cui i patiti si fanno letteralmente le seghe, è il motore. È un motore di seimilatrecentoventicinque centimetri cubici distribuiti in dodici pistoni di una lega speciale di cui solo la Mercedes conosce l’esatta composizione. Lo ha progettato Hans Peter Fenning, l’ingegnere svedese che ha realizzato il sistema di propulsione dello Space shuttle e del sottomarino atomico americano Alabama. Hai mai provato a partire in quinta? Probabilmente no, ma se lo facessi vedresti che la macchina parte anche in quinta. Ha un motore così elastico che puoi cambiare marcia senza usare la frizione. Ha una ripresa che brucia tutte queste merdose coupé che vanno tanto di moda oggi e che se la batte fieramente con macchine tipo Lamborghini o Corvette, non so se mi spiego. E vogliamo parlare della linea? Elegante. Sobria. Niente cafonate. Niente fari marziani. Niente plasticoni. Raffinata. Il classico tre volumi Mercedes. Questa macchina la usa Gianmaria Davoli, il presentatore di Grand Prix, che potrebbe usare una Ferrari 306 o una Testarossa come io uso un paio di sandali. E sai che ha detto il nostro presidente del consiglio al salone di Torino? Ha detto che questa è una macchina che è un traguardo e che quando in Italia riusciremo a fare un’automobile simile allora ci potremo dire un paese democratico. Ma io credo che non ci riusciremo mai, da noi manca la mentalità per fabbricare una macchina così. Ora, non so chi sia tuo padre, né come si guadagna i soldi. Sicuramente sarà un mafioso o un tangentista o un pappone, non me ne frega un cazzo. Io tuo padre lo stimo, è una persona degna di rispetto perché possiede una 650 TX. Tuo padre è un uomo che sa apprezzare le cose che valgono, si è comprato questa macchina, ha speso un botto di soldi e ci potrei scommettere la mano destra che non ci va vestito come un pezzente e scommetto la sinistra che non sa che tu, figlio di puttana, gliel’hai rubata per portarci in giro una troietta con i capelli blu e gli orecchini in faccia e per fumartici le canne dentro e buttare a terra tramezzini smozzicati. Vuoi sapere cosa penso? Penso che voi due siete i primi al mondo a farvi le canne in una 650 TX. Forse qualche rock-star del cazzo ci si sarà fatta qualche striscia di coca, ma nessuno e dico nessuno ci si è fumato una canna. Voi due avete compiuto un atto sacrilego, un atto a dir poco blasfemo, quando avete deciso di drogarvi in una 650 TX, avete compiuto un’azione grave come cagare sull’Altare della Patria. Ora ti è chiaro perché mi comporto così?»
Se l’agente Antonio Bacci non fosse crollato addormentato appena messo piede nella volante, probabilmente il Bruno Miele Magic Show, in diretta dal centododicesimo chilometro della via Aurelia, non sarebbe riuscito così bene e Max Franzini e Martina Trevisan non avrebbero raccontato per tanti anni a seguire quella terribile esperienza notturna (Max, a prova di ciò, avrebbe mostrato la cicatrice sulla fronte stempiata).
Solo che Antonio Bacci, appena entrato nel tepore della macchina, si era allentato le stringhe degli anfibi, aveva incrociato le braccia e, senza accorgersene, era caduto in un sonno pesante popolato di noci di cocco, pesci palla, maschere di silicone e assistenti di volo in bikini.
Quando la radio cominciò a trasmettere, Bacci si risvegliò. «Autopattuglia 12! Autopattuglia 12! C’è un’emergenza. Dovete recarvi immediatamente alla scuola media di Ischiano Scalo, degli sconosciuti si sono introdotti nell’edificio. Autopatt...»
Cazzo, mi sono addormentato, realizzò afferrando il microfono e guardando l’orologio. Ma com’è possibile, dormo da più di mezz’ora? Che sta facendo Miele là fuori?
Ci mise qualche secondo a capire cosa voleva la centrale, ma alla fine riuscì a rispondere. «Ricevuto. Ci muoviamo subito. Tra dieci minuti al massimo siamo là.»
I ladri. Nella scuola di suo figlio.
Uscì fuori. Pioveva come prima e in più tirava un ventaccio che ti portava via. Fece due passi di corsa, ma subito rallentò.
La Mercedes era ancora là. Ammanettata alla portiera c’era la ragazza con i capelli blu. Era seduta a terra e si stringeva le gambe con un braccio. Miele invece era accucciato in mezzo al piazzale accanto al ragazzo steso in mutande in una pozzanghera, e gli parlava.
Si avvicinò al collega e con una voce stralunata gli domandò che cosa stava succedendo.
«Ah, eccoti.» Miele sollevò la testa e sorrise felice. Era completamente zuppo. «Niente. Gli stavo spiegando una cosa.»
«E perché sta in mutande?» Bacci era attonito.
Il ragazzo tremava come una foglia ed era pure ferito alla testa.
«L’ho perquisito. Li ho beccati a fumare hashish. Me ne hanno consegnato un pezzo, ma ho sospetti fondati che ne abbiano ancora, nascosto dentro la macchina. Dobbiamo controllare...»
Bacci lo prese per un braccio e lo trascinò via, dove quei due non potevano sentire. «Ti ha dato di volta il cervello? Lo hai menato? Guarda che se quelli ti denunciano finisci nei casini.»
Miele si divincolò. «Quante volte ti ho detto di non toccarmi! Non l’ho menato. È caduto da solo. È tutto sotto controllo.»
«E perché hai ammanettato la ragazza?»
«È isterica. Ha tentato di aggredirmi. Stai calmo. Non è successo niente.»
«Ascoltami. Dobbiamo correre subito alla scuola media di Ischiano. C’è un’emergenza. Sembra che qualcuno si sia introdotto nell’edificio e ci sono stati degli spari...»
«Come degli spari?» Miele aveva cominciato ad agitarsi. Muoveva freneticamente le mani. «Hanno sentito degli spari nella scuola?»
«Sì.»
«Nella scuola?»
«Ti ho detto di sì.»
«Oddioddioddioddioddioddio...» Ora quelle dita agitate come zampe di cavalletta Miele se le era messe in faccia e si pizzicava le labbra, il naso, si scompigliava i capelli.
«Che ti prende?»
«Coglione, là dentro c’è mio padre. I sardi! Papà aveva ragione. Andiamo, andiamo, di corsa, non c’è tempo da perdere...» fece Miele con una voce spiritata e si avviò verso i due.
Già. Bacci non se lo era ricordato. Il padre di Miele è il bidello della scuola...
Miele corse verso il ragazzo che intanto si era rimesso in piedi, raccolse da terra i vestiti ormai ridotti a stracci bagnati e glieli mise in mano, poi andò dalla ragazza e la liberò, tornò indietro ma a un certo punto si fermò. «Ascoltatemi, voi due, questa volta l’avete scampata, ma la prossima non sarà così. Piantatela di farvi le canne. Quella roba fa marcire il cervello. E smettetela anche di conciarvi così. Lo dico per voi. Noi ce ne dobbiamo andare. Asciugatevi che vi viene l’influenza.» Poi si rivolse solo al ragazzo. «Ah, e fai molti complimenti a tuo padre per la macchina.» Raggiunse Bacci e i due poliziotti salirono sulla volante e partirono a sirene spiegate.
Max li vide scomparire sull’Aurelia. Gettò via i vestiti, si tirò su i pantaloni e corse da Martina e l’abbracciò.
Rimasero stretti, come fratelli siamesi, per un sacco di tempo. E in silenzio piansero. S’infilarono le mani uno nei capelli dell’altro mentre la pioggia gelida, indifferente, continuava a frustarli.
Si baciarono. Prima sul collo, poi sulle guance e infine sulle labbra.
«Entriamo in macchina» gli disse Martina tirandolo dentro. Chiusero gli sportelli e accesero il climatizzatore computerizzato che in pochi secondi trasformò l’abitacolo in una fornace. Si spogliarono, si asciugarono, si misero addosso le cose più calde che avevano e si baciarono di nuovo.
In questo modo Max Franzini superò la terribile prova del bacio.
E quei baci furono i primi di una lunghissima serie. Max e Martina si misero insieme, rimasero fidanzati per tre anni (al secondo anno nacque una bambina che chiamarono Stella) e poi si sposarono a Seattle dove aprirono un ristorante italiano.
Nei giorni seguenti, nella villa a San Folco, rifletterono a lungo sull’opportunità di denunciare quel bastardo, ma alla fine lasciarono perdere. Non si sapeva come sarebbe andata a finire la cosa e poi c’erano di mezzo le canne e la macchina presa di nascosto. Meglio lasciar perdere.
Ma quella notte gli rimase per sempre impressa nella memoria. La terribile notte in cui ebbero la sciagura di imbattersi nell’agente Miele e la grande gioia di averla scampata e di essersi fidanzati.
Max mise in moto, infilò il cd dei REM nel lettore e partì uscendo per sempre da questa storia.