9.

Il Cercopiteco vagava alla deriva per il cortile.

L’osservavo, dall’altra parte della strada, nascosto dietro un cassonetto dell’immondizia. Ogni tanto dava un colpo di scopa e si bloccava, come se gli avessero tolto l’elettricità.

Che idiota, non mi ero portato il cellulare e quindi non potevo fregarlo come l’altra volta. Ero stato troppo tempo da nonna, mancavano ancora due ore alla chiusura della portineria. E Olivia mi stava aspettando.

Dopo un quarto d’ora è arrivato l’ingegner Caccia, quello del quarto piano. Poi dal portone è uscito Nihal con i bassotti e si è messo a parlare, accanto alla fontana, con il Cercopiteco. I due non si amavano. Ma il Cercopiteco aveva un parente che lavorava in una agenzia di viaggi e rimediava biglietti aerei a prezzi speciali ai singalesi del quartiere.

A stare in piedi, nascosto dietro il cassonetto, le gambe cominciavano a farmi male. Mi maledicevo per non essermi portato il telefono.

E per finire è arrivato pure Giovanni, il postino. Grande amico di Nihal. Tutti e tre si sono messi a discutere e non la finivano piú. I poveri bassotti che volevano andare a pisciare li guardavano sconfortati.

Basta, dovevo fare qualcosa. Se mi beccavano, pazienza.

Mi sono allontanato e ho attraversato la strada. Poi, di corsa, sono arrivato di fronte al muro del mio palazzo. Era alto, ma una vecchia bougainvillea tutta storta si allungava fino alla sommità.

– Forza Roma allora... Che dobbiamo fa’, – ho sentito che diceva il Cercopiteco.

– Stavolta so’ cazzi. Totti s’è ripreso. Va be’ ciao... – ha detto Giovanni.

Oddio, stava uscendo. Mi sono aggrappato e una spina mi ha bucato la mano. Ho stretto i denti, mi sono issato sul muro e con un salto goffo sono atterrato nel giardino della Barattieri.

Ho corso fino al palazzo, pregando che nessuno mi vedesse e mi sono appiccicato al muro.

La finestra che dava sul seminterrato del Cercopiteco era socchiusa.

Almeno una cosa andava nel verso giusto.

L’ho aperta e reggendomi all’infisso mi sono calato nella penombra. Ho allungato le gambe cercando un appoggio e un calore terribile mi ha avvolto il piede sinistro. Trattenendo un urlo sono piombato sulla macchina del gas e da lí, di culo, a terra.

Avevo immerso la scarpa dentro una pentola di pasta e lenticchie che per fortuna era spenta e si stava raffreddando.

Massaggiandomi una chiappa mi sono alzato.

Le lenticchie erano sparse ovunque come se fosse esplosa una bomba.

E ora? Se non pulivo tutto il Cercopiteco avrebbe visto quel casino e avrebbe pensato...

Ho sorriso.

Ovvio, avrebbe pensato che gli zingari gli erano entrati di nuovo in casa.

Mi sono guardato intorno. Dovevo rubargli qualcosa.

Lo sguardo mi è finito su una statua di Padre Pio che assomigliava a un missile. Era ricoperta da una polverina luccicante che cambiava colore a seconda del tempo.

L’ho presa e stavo per uscire, ma sono tornato indietro e ho spalancato il frigo.

Frutta, una ciotola di riso bollito e una confezione di birra da sei.

Ho preso le birre. Quando sono uscito dalla guardiola il Cercopiteco era ancora in cortile, a parlare con Nihal.

Zoppicando e con una scarpa in mano ho fatto le scale che portavano in cantina. Ho girato la chiave e ho spalancato la porta. – Guarda... Ho le bi...

La statua di Padre Pio mi è scivolata di mano e si è disintegrata sul pavimento.

Olivia era stesa sul mio letto a gambe aperte. Un braccio buttato sul cuscino. Un rivolo di saliva le colava sul mento.

Mi sono messo una mano sulla bocca. – È morta.

Tutti gli armadi erano spalancati, tutti i cassetti tirati fuori, tutti i vestiti buttati ovunque, scatoloni sventrati. Sotto il letto barattoli di medicine aperti.

Continuando a fissare mia sorella mi sono trascinato sul divano.

Mi sono toccato le tempie, pulsavano, nelle orecchie un rombo mi stordiva e gli occhi mi facevano male.

Ero cosí stanco, mai in vita mia mi ero sentito cosí stanco, ogni fibra del mio corpo era stanca e m’implorava di riposare, di chiudere gli occhi.

Sí, era meglio se dormivo un po’, giusto cinque minuti.

Mi sono tolto la scarpa e mi sono steso sul divano. Sono rimasto lí, non so quanto tempo, a fissare mia sorella e a sbadigliare.

Era una macchia scura allungata sul letto azzurro. Pensavo al suo sangue fermo nelle vene. Al sangue rosso che diventa nero, duro come una crosta e poi diventa polvere.

Le dita della mano di Olivia si muovevano a scatti, come i cani quando sognano.

Ho cercato di mettere a fuoco, gli occhi mi pizzicavano.

Ma mi stavo sbagliando. Era solo la mia immaginazione.

Poi ha mosso un braccio.

Mi sono alzato, sono corso da lei e ho cominciato a scuoterla. Non ricordo cosa le dicevo, ricordo solo che l’ho sollevata dal letto, l’ho stretta tra le braccia e ho pensato che dovevo portarla fuori e che ero abbastanza forte da tenerla tra le braccia, come fosse un cane ferito, e camminare con lei tra le braccia per via Aldrovandi, via delle Tre Madonne, viale Bruno Buozzi...

Olivia ha cominciato a parlare a bassa voce.

– Sei viva! Sei viva! – ho balbettato.

Non capivo cosa diceva.

Le ho messo una mano dietro la nuca e ho avvicinato ancora di piú l’orecchio.

– Cosa? Cosa hai detto?

Ha gorgogliato: – ... dei sonniferi...

– Quanti ne hai presi?

– Due pasticche.

– Stai bene?

– Sí –. Non riusciva a tenere la testa dritta. – Molto meglio... La contessa aveva un sacco di medicine. Roba buona... Dormo ancora un po’.

La vista mi si è velata di lacrime. – Va bene –. Le ho sorriso. – Dormi. Fai bei sogni.

L’ho adagiata sul letto e le ho steso una coperta addosso.