4.

L’ultima volta che avevo sentito Ancora tu ero in macchina con la mamma. Stavamo fermi in fila su corso Vittorio. Una manifestazione aveva bloccato piazza Venezia, e come calore l’ingorgo si era irraggiato, paralizzando il traffico del centro storico.

Avevo passato la mattina nella galleria d’arte di mia madre ad aiutarla a sistemare i quadri di un artista francese che avrebbe inaugurato la settimana successiva. Mi piacevano quelle enormi fotografie di gente che mangiava sola in ristoranti affollati.

I motorini facevano slalom tra le macchine ferme. Sopra i gradini di una chiesa dormiva un barbone imbustato dentro un sacco a pelo lercio. Sacchi della spazzatura gli fasciavano la testa. Sembrava una mummia egizia.

– Uffa! Ma che sta succedendo? – Mia madre si è attaccata al clacson. – Non si sopporta piú questa città... Ti piacerebbe vivere in campagna?

– Dove?

– Non lo so... in Toscana, per esempio.

– Noi due?

– Papà verrebbe i week-end.

– E se la comprassimo a Komodo?

– Dov’è Komodo?

– È un’isola molto lontana.

– E perché dovremmo andare a vivere lí?

– Ci sono i draghi di Komodo. Sono delle lucertole enormi che possono mangiarsi pure una capra viva o un uomo con problemi articolari. E vanno velocissimi. Potremmo addomesticarli. E usarli per difenderci.

– Da chi?

– Da tutti.

Mia madre ha sorriso e ha aumentato il volume dell’autoradio e si è messa a cantare insieme a Lucio Battisti: – Ancora tu. Non mi sorprende lo sai...

Anche io mi sono messo a cantare e quando è arrivata la strofa: – Amore mio, hai già mangiato o no? Ho fame anch’io e non soltanto di te, – le ho preso la mano come un amante disperato.

Mia madre rideva e scuoteva la testa. – Che scemo... Che scemo...

Mi sono accorto di essere felice. Il mondo oltre i finestrini e io e mamma in una bolla nel traffico. La scuola non c’era piú, i compiti nemmeno e tutti i miliardi di cose che avrei dovuto fare per diventare grande.

Ma a un tratto mia madre ha abbassato la radio. – Guarda quel vestito in quella vetrina. Che ne dici?

– Bello. Forse è un po’ discinto?

Mi ha guardato sorpresa. – Discinto?! Da quando usi questa parola?

– L’ho sentita in un film. C’era una che dicevano che aveva un vestito discinto.

– Ma sai che vuol dire?

– Certo, – ho detto io. – Che fa vedere troppo.

– Non mi pare che quel vestito fa vedere troppo.

– Forse no.

– Lo provo?

– Va bene.

E come per magia, davanti a noi un fuoristrada ha liberato un parcheggio. Con una sterzata d’istinto mia madre ha fatto per infilarsi nel posto libero.

Un colpo secco contro la carrozzeria. Mamma ha schiacciato il pedale del freno e mollato la frizione. Io sono schizzato in avanti, ma la cintura di sicurezza mi ha trattenuto alla poltrona. La macchina si è spenta singhiozzando.

Ho girato la testa. Una Smart gialla era appiccicata alla portiera posteriore della Bmw.

Ci era venuta addosso.

– Nooo. Che palle! – ha sbuffato mia madre abbassando il finestrino per vedere i danni.

Anch’io mi sono sporto. Sulla fiancata della Bmw neanche un graffio e nemmeno sul muso da bulldog della Smart. Dietro il vetro della macchinetta era appoggiato un millepiedi di peluche bianco e azzurro con scritto LAZIO. Poi mi sono accorto che alla Smart mancava lo specchietto sinistro. Dal buco dove una volta era attaccato pendevano fili elettrici colorati. – Lí, mamma.

Lo sportello si è spalancato e ha estroflesso il tronco di un uomo che doveva essere alto un metro e novanta e largo ottanta centimetri.

Mi sono chiesto come facesse a entrare in quella scatoletta. Sembrava un paguro che allunga la testa e le chele fuori dalla conchiglia. Aveva gli occhi piccoli e azzurri, un frangettone corvino, una dentatura equina e l’abbronzatura color cacao.

– Che è successo? – gli ha domandato mia madre mortificata.

Il tipo è sceso e si è accucciato accanto allo specchietto. Lo guardava con un’espressione sofferente e dignitosa nello stesso tempo, come se lí a terra non ci fosse un pezzo di plastica e vetro, ma il corpo di sua madre trucidato. Non lo toccava nemmeno, come fosse un cadavere che aspetta la scientifica.

– Che è successo? – ha ripetuto con tono calmo mia madre, sporgendo la testa dal finestrino.

Quello non si è voltato nemmeno, ma ha risposto: – Che è successo?! Vuoi sapere che è successo? – Aveva una voce rauca e profonda, come se parlasse attraverso un tubo di plastica. – E allora scendi da quella macchina e vieni a vedere!

– Stai qua, – mi ha detto mamma guardandomi negli occhi, si è slacciata la cintura di sicurezza ed è uscita dalla macchina.

Attraverso il vetro ho visto il suo tailleur color albicocca macchiarsi di pioggia.

Alcuni pedoni, sotto gli ombrelli, si sono fermati a guardare. Le macchine intorno a noi cercavano, strombazzando, di superare l’ostacolo come formiche di fronte a una pigna. A una trentina di metri un autobus ha preso a suonare.

Io, in macchina, vedevo gli sguardi della gente su mia madre. Ho cominciato a sudare e a sentire il respiro che mi mancava.

– Forse ci dovremmo spostare, – ha suggerito mia madre a quello. – Il traffico, sa...

Ma quello non sentiva, continuava a fissare il suo specchietto come se con la forza della mente avesse potuto riunirlo all’auto.

Allora mia madre si è avvicinata e con un leggero senso di colpa e finta partecipazione gli ha domandato: – Ma com’è successo?

La pioggia mischiandosi con il gel aveva reso luccicanti le ciocche dell’uomo, rivelando un principio di calvizie proprio al centro del cranio.

Non avendo ricevuto risposta, mia madre ha aggiunto piú piano: – È grave?

Il tipo, finalmente, ha piegato la testa e per la prima volta ha realizzato che il colpevole di quell’orrore era lí, accanto a lui. Ha squadrato dall’alto in basso la mamma, poi ha dato un’occhiata alla nostra macchina e ha tirato fuori un sorrisetto.

Lo stesso sorrisetto cattivo che avevano Varaldi e Ricciardelli quando mi osservavano seduti sui motorini. Il sorrisetto del predatore che ha inquadrato la preda.

Dovevo avvertirla.

Il laziale ha sollevato lo specchietto come fosse un pettirosso con un’ala spezzata. – Forse per te non è grave. Per me sí. L’ho appena ritirata dal carrozziere. Sai quanto costa questo specchietto?

Mia madre ha fatto no con la testa. – Tanto?

Io mi passavo le mani nei capelli. Non doveva scherzare con quello. Doveva chiedergli scusa. Dargli i soldi e finirla lí.

– Il quarto dello stipendio di un cameriere. Ma tu che ne sai... Tu questi problemi non li hai.

Dovevo alzarmi, uscire dalla macchina, prenderla per una mano e scappare via, ma stavo svenendo.

Mia madre scuoteva la testa sbigottita: – Guardi che è lei che mi è venuto addosso... È colpa sua.

Ho visto il laziale vacillare leggermente, chiudere e riaprire gli occhi come per cercare di assorbire la mazzata appena ricevuta. Le narici gli fremevano come ai cani da tartufo. – È colpa mia? Chi? Io? Io ti sono venuto addosso? – Poi si è alzato in piedi, ha allargato le braccia e ha grugnito: – Che cazzo stai dicendo, troia?

Aveva chiamato mia madre troia.

Ho provato a slacciare la cintura ma le mani mi formicolavano come se fossero addormentate.

Mamma si sforzava di sembrare sicura di sé. Era scesa subito dalla macchina, sotto la pioggia, gentile, disposta ad assumersi le colpe, se le aveva commesse, non aveva fatto niente di male e un tipo che non aveva mai visto in vita sua l’aveva appena chiamata troia.

«Troia. Troia. Troia». Me lo sono ripetuto tre volte, assaggiando il doloroso disprezzo di quella parola. Nessuna gentilezza, cortesia, rispetto, niente.

Dovevo ucciderlo.

Ma dov’era finita la rabbia? Il fluido rosso che mi riempiva quando qualcuno mi infastidiva? La furia che mi faceva partire a testa bassa? Ero una pila scarica. Sopraffatto dalla paura, non riuscivo nemmeno a slacciare la cintura di sicurezza.

– Perché? Che ho fatto? – ha detto mia madre come se l’avessero colpita al petto, ha barcollato ed è riuscita a poggiarsi una mano sullo sterno.

– Amore? Bellezza? – Dal finestrino della Smart spuntava il volto rotondo di una ragazzotta riccia, con un paio di occhiali verdi e il rossetto viola. Io non l’avevo nemmeno vista. – Tesoro, lo sai cosa sei? Sei solo una stronza in Bmw. Ci sei venuta addosso tu. Noi avevamo visto il posto prima di te.

Il laziale intanto indicava mamma con la mano a paletta. – Solo perché sei una fighetta secca impaccata di soldi credi di poter fare come cazzo ti pare. Il mondo è tuo, eh?

La riccia dentro la Smart ha preso a battere le mani. – Grande Teodoro. Digliene quattro a ’sta troia.

Dovevo reagire, ma pensavo solo al fatto che quello si chiamava Teodoro e io non conoscevo nessuno con quel nome.

Respiravo per togliermi quel pensiero cretino dalla mente. Le orecchie e il collo mi erano diventati bollenti e mi girava la testa.

Forse Teo, il vecchio cocker di quella del primo piano, si chiamava in realtà Teodoro.

Dovevo andarmene subito. Io non c’entravo niente con tutta quella storia, le avevo detto che il vestito era discinto e se avesse ascoltato me...

Ho slacciato la cintura, ma non riuscivo a muovermi.

Ero seduto su un gigante di pietra che mi abbracciava e non mi lasciava andare.

Ho guardato verso il marciapiede sperando che qualcuno ci aiutasse. I passanti erano una schiera di sagome sfocate.

Il laziale ha afferrato il polso di mia madre e l’ha strattonata. – Vieni a vedere, bella. Vieni a vedere che hai fatto.

Mamma ha perso l’equilibrio ed è caduta.

La voce acuta della donna: – Teo! Teo! Lasciala perde’, è tardi. Tanto non capisce. ’Sta borghese di merda.

Mia madre era stesa sui sampietrini con una calza smagliata. I sampietrini sporchi di qualsiasi cosa. A Roma non puliscono le strade. La cacca infetta dei piccioni. Era stesa accanto alla ruota della macchina, il tipo sopra di lei.

Ora le sputa addosso, ho pensato.

Ma quello si è limitato a dire: – E ringrazia iddio che sei una donna. Sennò a quest’ora...

Cosa le avrebbe fatto a quest’ora se non fosse stata una donna?

Mamma ha chiuso gli occhi e io ho sentito che il gigante mi stringeva fra le sue braccia di pietra levandomi il fiato e poi con un salto sfondava il tetto della macchina e io e lui volavamo oltre quella gente, oltre il laziale, oltre mia madre stesa sui sampietrini, oltre il traffico, oltre i tetti affollati di corvi, oltre le guglie delle chiese.

E sono svenuto.