Capitolo sedici
Dopo due ore di pianti disperati e un bicchiere e mezzo dello scotch più costoso di Blake, la rabbia si era calmata lasciando il posto a un senso di impotenza. Blake mi aveva tenuta stretta e promesso che l’avremmo superata. Ma più cercavo di credergli, più mi sembrava impossibile. Camminava nel salotto, guardando di continuo il suo telefono come se si stesse trattenendo dall’agire da un momento all’altro.
«Lo rovino», mormorò.
In circostanze diverse avrei provato pietà per la persona che voleva annientare, ma non quel giorno. Fa’ pure. Ma dentro di me, sentivo che non c’era niente da fare. Anche se ero stanca, sapevo che Isaac non avrebbe mai investito tutti quei soldi permettendo ai suoi avvocati di lasciarmi un appiglio per riprendermi una parte della mia attività. No, avrebbe tenuto conto di tutti i dettagli. Proprio come fanno gli uomini come Blake.
«A che serve? Ha già sprecato a sufficienza il nostro tempo». Mi strinsi nelle spalle in modo impercettibile data la mia posizione accasciata sul divano.
«Perché se lo merita».
«Sono affari», dissi sottovoce, ripetendo le parole di Alex, ma non c’era nulla di divertente o carino nella posizione in cui mi aveva lasciata. E lo odiavo per questo. Portai il bicchiere alle labbra, pur sapendo che il mio odio diminuiva mentre continuavo a bere.
Blake si abbassò e mi prese il bicchiere. «Hai bevuto abbastanza».
Colpii il divano con l’altra mano. «Ho una lunga lista nera adesso, non costringermi ad aggiungere anche te».
«Sarai sulla tua lista nera domani se non rallenti. Ti porto dell’acqua».
Sprofondai sul divano, completamente sconfitta. Volevo continuare a bere finché avessi smesso di pensare a quella giornata. Dato che non potevo cancellare per sempre il viso di Sophia dalla mia mente, lo avrei voluto almeno oscurare per qualche ora.
Blake tornò con un bicchiere d’acqua. Io arricciai il naso, ma lo presi, ubbidendo. Lui si sedette sul tavolino di fronte a me, bloccandomi le gambe con le sue.
«Posso ricomprarla», affermò.
Lo guardai, confusa. «Perché?»
«Perché l’attività dovrebbe essere tua».
«Ma l’ho venduta».
«E noi la ricompreremo. Farò un’offerta che Isaac non potrà rifiutare».
Spalancai gli occhi. «Non mi piace».
Quelle parole alleggerirono la smorfia che aveva avuto sul viso per gran parte della serata. Mi accarezzò il ginocchio con il pollice e disse: «Tranquilla, non uso i metodi di Daniel».
Scossi il capo, non volevo pensare anche a quello, dopo tutto ciò che era andato storto fino a quel momento. «Non ne vale la pena, Blake. L’ho venduta. Ha detto che era davvero interessato. Ecco… ora ce l’ha». Sospirai, travolta dal pensiero che essere la proprietaria dell’attività fosse ufficialmente una cosa che apparteneva al passato. «Almeno ho riscosso dei soldi e posso ripagarti. Volevo avere la libertà di fare nuove cose e ora dovrò capire cosa farci con tutta questa libertà. Ironico, eh?».
Blake ringhiò, frustrato. «Per la centesima volta, non devi ripagarmi. Ne abbiamo già parlato. Presto condivideremo tutto. Non si tratta di soldi e lo sai».
«L’attività è sempre stata più dei soldi, ma…». Mi morsi il labbro, chiudendo gli occhi. Era tutto finito adesso. «Devo imparare a lasciar perdere. Devo capire come ricominciare».
Aprii gli occhi che mi bruciavano e vidi il mio stesso rancore nei suoi. Mi attraversò, le sue emozioni rafforzavano le mie. Sembrava un tradimento, come ritrovarsi per terra perché troppo accecati per prevederlo.
Non riuscivo a non pensare che Sophia avesse vinto e io non potevo fare niente per cambiare ciò che era accaduto.
I giorni successivi passarono senza imprevisti. Blake si era preso del tempo libero per starmi accanto, per assicurarsi che non diventassi catatonica, anche se ogni parte di me lo avrebbe voluto. Ma alla fine, dovette tornare al lavoro. Aveva delle responsabilità, degli obiettivi, cose che ora mi mancavano.
Alli mi chiamò. Molte persone lo avevano fatto. Persino Marie, ma avevo risposto solo alle chiamate di Alli. Non avevo voglia di ripetere cos’era successo e ascoltare le loro reazioni addolorate o le loro domande su cosa avrei fatto adesso. Alli era l’unica che capiva cosa stavo passando.
«Hai saputo niente?», domandai.
«Ho parlato con James ieri sera. Credo che Sid se ne sia andato».
«Bene», mormorai, giocherellando con lo strappo sui jeans.
«James è rimasto perché ha bisogno di un lavoro adesso, quindi aspetta il momento giusto per poter andar via».
Annuii. «Non posso fargliene una colpa, è un casino».
«Infatti. Non credo che si aspettassero che te ne andassi, Erica».
Nessuno era più sorpreso di me.
«Hai parlato con Heath?», le chiesi con esitazione.
«Sì».
Aspettai che mi dicesse di più. Non volevo insistere se non se la fosse sentita di parlare. Erano affari loro.
«State bene?»
«Sì. Abbiamo parlato, molto. Ti racconto più tardi. Non importa adesso».
«Okay», dissi, felice di chiudere l’argomento.
«Mi ha chiamata Marie. Era preoccupata perché non rispondevi alle sue chiamate, le hanno detto che non eri più in ufficio».
Chiusi gli occhi, non volendo affrontare Marie e aggiungere un’altra cosa dolorosa al mucchio di cenere che era diventata la mia vita. Non mi andava di pensare alla barriera invisibile che si era innalzata tra di noi. Lei sapeva che ero arrabbiata e io non volevo lasciar perdere. Non avevo idea di come avremmo fatto a superarlo. Per quanto volessi tenere stretto il mio rancore, doveva ammettere che Richard la stava usando e che stava facendo del male a entrambe. Forse lo avrebbe fatto, forse era passato abbastanza tempo.
«Le manderò un messaggio», dissi alla fine.
«Dovresti chiamarla, Erica. È molto preoccupata».
«Le hai detto dell’attività?»
«Sì, non pensavo che sarebbe stato un problema».
«Preferisco che gliel’abbia detto qualcun altro. Avrei potuto dirlo a uno di quei giornalisti che continuano a chiamare, così possono dare la notizia a tutto il mondo. Non voglio più parlarne».
«Erica…».
Inghiottii le lacrime. Non odiavo molta gente, non avevo spazio per l’odio nel mio cuore, ma avevo creato un posto speciale per Sophia, Isaac e Alex, un posto in cui non arrivavano il perdono e la pietà. Un posto che non avrei potuto cancellare con il tempo. Non li avrei mai perdonati. Mai.
«Devo andare».
Alli rimase in silenzio. «Okay, chiamami se hai bisogno».
«Lo farò, grazie».
Riattaccai e scoppiai a piangere finché non mi addormentai.
Il quinto giorno, mi resi conto che dovevo uscire di casa. Ero un rottame e avevo bisogno di ritornare nel mondo reale, anche se solo in parte.
Feci una passeggiata, mi sedetti su una panchina e osservai le persone che passavano per circa un’ora. Dall’altra parte della strada, la gente entrava e usciva dal mercato. Entrava a mani vuote e usciva con sacchetti pieni di provviste e vino.
Eravamo sopravvissuti grazie al cibo da asporto e ai progetti culinari a volte riusciti di Blake. Stavo morendo dalla voglia di mangiare qualcosa di preparato in casa. Mi sentivo vuota per diversi motivi e mi domandai se la pasta avrebbe potuto colmare quello spazio. Almeno per un’ora o due.
Fui trafitta dalla tristezza quando pensai a mia madre. Forse era lei ciò che stavo cercando, ma decisi di ricreare uno dei suoi piatti deliziosi. Attraversai la strada ed entrai ad acquistare tutto ciò che serviva per preparare le mie pietanze preferite che mi aveva insegnato a cucinare. Avevo più sacchetti di quanti ne potessi portare. Quando squillò il telefono, imprecai.
Salii sul marciapiede e posai i sacchetti per terra mentre rovistavo nella borsa. Il numero era locale, ma non lo conoscevo.
«Pronto?»
«Erica?». La voce familiare di un uomo mi salutò, ma non la riconobbi subito.
«Chi parla?»
«Richard».
Serrai la mascella e mi venne una fitta allo stomaco.
«Richard Craven?»
«So chi sei. È colpa tua se nelle ultime settimane devo difendermi dai giornalisti».
«Esatto. Mi dispiace».
«Ah davvero?».
Lui sospirò. «Ascolta, speravo che potessimo parlare».
«No», risposi con tono acido.
«Ascoltami».
«Non ti darò un’esclusiva se è quello che vuoi. Né a te, né a nessuno. Trova qualcun altro che ti dia la storia che stai cercando».
«L’ho fatto».
Il nodo nello stomaco crebbe e pesava quanto una roccia.
«Ma davvero». La mia voce era tranquilla, non volevo che notasse la mia preoccupazione.
«Voglio parlare con te di tuo padre».
«Non ho niente da dirti su Daniel», risposi piano, ma con decisione.
«Ho delle informazioni che potrebbero essere interessanti. Potresti cambiare idea».
Scossi il capo. Come se qualsiasi notizia su Daniel potesse ancora sconvolgermi.
«Possiamo incontrarci?».
Se avesse avuto uno scoop, lo avrei letto sui giornali e io non volevo essere menzionata. Forse ero già destinata a esserlo, però.
«Solo dieci minuti», insistette.
Imprecai in silenzio. «Va bene, dieci minuti. È tutto quello che avrai».
«È tutto ciò che mi serve. Possiamo vederci oggi?»
«La mia agenda è vuotissima», dissi, compiacendomi per la battuta sarcastica che solo io potevo capire.
«Bene. C’è un piccolo ristorante di fronte all’ufficio del giornale. Si chiama Famiglia».
«Bene, sarò lì tra un’ora».
Puntuale, arrivai alla fermata del treno più vicina alla mia destinazione. Blake aveva concesso a Clay del meritato tempo libero. Non stavo uscendo molto, quindi non m’importava. Ora che ne ero fuori, apprezzavo quel momento di libertà. Non potevo essere più libera di così. Nessuno che mi seguiva, nessuno che aveva bisogno di me.
Nessuno mi aveva mai detto che la libertà potesse farmi sentire così vuota.
Ignorando quella sensazione, mi diressi a passi rapidi verso il ristorante quando il mio telefono squillò, facendo apparire il volto di Blake. Risposi.
«Ehi, vuoi che prenda qualcosa mentre torno a casa?»
«No, ho comprato da mangiare».
Un clacson suonò dietro di me.
«Dove sei?»
«Sto per incontrare Richard. Mi ha chiamata, dice che vuole parlare».
«Sei sicura che sia una buona idea?»
«Non lo so. Sono sicura che voglia cercare di ottenere qualche informazione, ma ho qualcosa da dire anche a lui».
«Stai attenta, è un giornalista. Userà ciò che dici e lo stravolgerà. Sei già abbastanza sotto i riflettori».
«Lo so. Non ho intenzione di dirgli altro, oltre a una parolina di dieci lettere».
«Okay. Dove vi vedete?».
Il ristorante era davanti a me. «In un posto italiano davanti al suo ufficio».
«È sicuro?».
Mi guardai attorno. La gente attraversava la strada spensierata come facevamo noi dall’altra parte della città. «Sì, Blake. È un’area trafficata e siamo in pieno giorno».
«Okay, io devo terminare alcune cose. Ti vengo a prendere quando ho finito».
Il mio telefono emise un bip. «Ho un’altra chiamata in arrivo. Ci vediamo dopo».
«Ti chiamo quando sono lì».
Allontanai il telefono dall’orecchio e vidi il nome di Daniel sullo schermo.
Merda. Che tempismo impeccabile. Pensai di ignorare la chiamata, ma temevo che avrebbe potuto continuare a telefonare.
«Daniel». Deglutii, cercando di sembrare risoluta.
«Dove sei?», sbraitò lui.
Mi irrigidii, ricordandomi della sua ira l’ultima volta che avevamo parlato.
«Credo di averti detto di smettere di urlare con me».
«Non ho tempo per parlare delle buone maniere, Erica. Dove cazzo sei?».
Iniziai a perdere la calma. Ero irritata, ma avevo anche paura. Alzai lo sguardo, all’improvviso terrorizzata che potesse scoprire dov’ero.
«Non è un buon momento», risposi rapidamente.
«Erica, sei…».
Riattaccai e tolsi la suoneria, rimettendo il telefono nella borsa. Non gli avrei mai detto dov’ero. Ci mancava solo che lui e il suo braccio destro si presentassero al ristorante per affrontare Richard. Chiusi gli occhi e mi domandai perché mi importasse, perché gli permettessi di essere parte della mia vita. Stavo meglio senza di lui, proprio come voleva mia madre. Perché nessuno mi aveva avvertita quando avevo stupidamente iniziato a cercarlo?
La mia borsa continuava a vibrare. Sapevo che era Daniel. Gli importava solo della sua campagna elettorale. Mi aveva fatto del male. Mi aveva fatto passare le pene dell’inferno, fisicamente ed emotivamente. Eppure ero lì, a cercare di scoprire ciò che sapeva Richard e che poteva danneggiarlo o compromettere la sua libertà.
Afferrai la maniglia della porta del ristorante, determinata a scacciare i pensieri su Daniel dalla mia testa. Vidi il profilo di Richard davanti a me, stava parlando al telefono. Mi avvicinai, senza preoccuparmi di interromperlo. Mi sedetti alla sedia di fronte alla sua, rivolgendogli un’occhiata ostile. Impassibile, guardò oltre la vetrata, ripetendo il nome del ristorante a chiunque fosse dall’altra parte della linea.
«Ci vediamo dopo».
Riattaccò e posò il telefono tra di noi. «Ci rivediamo».
«Che cosa vuoi?», sbottai, volevo fargli capire quanto fossi delusa da lui e quanto avesse fatto male a una delle mie più care amiche per avanzare nella sua carriera.
«Non sono qui per litigare. Voglio farti qualche domanda».
Risi brevemente. «Giusto. Per la cronaca, non ho niente di cui parlare con te».
«Sapevo che lo avresti detto. Allora perché sei qui?».
Mi avvicinai. «Voglio sapere come fai a dormire la notte».
Lui socchiuse gli occhi. «Ascolta, voglio la verità».
«Quindi hai manipolato una persona a cui voglio bene per avere delle informazioni? Che diavolo di persona farebbe una cosa del genere?».
Sospirò e si prese il dorso del naso tra le dita. «Ci tengo a Marie».
«Per uno che vuole la verità, sei un gran bugiardo. Sa cos’hai fatto?».
Digrignò la mascella, evitando di guardarmi. «Ne abbiamo parlato».
«E?», aspettai. Volevo che mi dicesse che le aveva detto tutto, ma se lo avesse fatto, avrebbe distrutto anche lei. Non riuscivo a dimenticare lo sguardo ferito sul viso di Marie quando le avevo detto chi era davvero Richard. Lei lo amava.
«Come prevedevo, non ha compreso i miei motivi e i miei obblighi in quanto membro della stampa».
«Che ne dici dei tuoi obblighi in quanto persona onesta? Marie è una donna buona e gentile, e tu probabilmente le hai spezzato il cuore. Per cosa? Per un articolo?».
Scosse il capo e guardò dietro di me. «Ascolta, c’è molto di più da sapere su Daniel Fitzgerald di quanto sembra. È riuscito ad aggirare qualsiasi controversia che gli sia capitata nell’ultimo decennio e ormai nessuno scava più a fondo su di lui. Io voglio sapere perché e lo scoprirò».
Lo fissai, con le labbra sigillate. Non avrebbe saputo niente da me.
Richard si chinò in avanti come se si stesse preparando per convincermi di qualcosa. «Tu appari all’improvviso nella sua vita, giusto? Settimane dopo, il suo figliastro muore, per un apparente suicidio. E lui porta avanti la campagna elettorale come se niente fosse».
«È un politico. Lo sai a quanta gente deve dare conto, quanti soldi si spendono per certe cose? È un lavoro di anni».
Lui scosse la testa. «No, c’è molto di più. La polizia sa qualcosa e io ho la sensazione che lo sappia anche tu».
Il mio cuore accelerò quando parlò della polizia. Le indagini di Richard erano una cosa, ma per quanto avessi rispettato la legge, avevo paura per aver mentito per coprire i crimini di Daniel.
«Erica, questa è la tua ultima occasione».
Il mio sguardo interrogatorio si posò sul suo. «Ultima occasione per cosa, esattamente?»
«Per dire la verità. Sta affondando. Devi chiederti se vuoi che ti porti a fondo con sé. Capisco che è tuo padre, ma quanto vuoi spingerti per proteggerlo?».
Feci una smorfia. «Non sai niente su di lui o su di me. È mio padre, e allora?».
Sorrise e mi venne il voltastomaco.
«So molto più di questo, tesoro».
«E allora perché non è in prigione?». Sperai che non si accorgesse del tono isterico nella mia voce. Che altro poteva sapere?
«Ho fatto delle indagini sulle sue affiliazioni, per fare dei collegamenti».
«E?», trattenni il fiato, chiedendomi quanto mi avrebbe rivelato nel tentativo di farmi parlare.
«Ho trovato qualcuno».
«Chi?», domandai, senza fiato.
«Qualcuno nella sua rete a South Boston che vuole parlare. Lo incontrerò non appena avrò finito qui. Ha delle informazioni su ciò che è accaduto la notte in cui è morto Mark MacLeod».
Il cuore mi batteva forte nelle orecchie, coprendo il mormorio nel ristorante.
«Quindi, come ho detto, questa è la tua ultima occasione».
«Io non c’entro niente». Desideravo che fosse vero, non volevo avere niente a che fare con ciò che aveva fatto Daniel. Non ero dispiaciuta che Mark fosse morto, ma non volevo sapere nient’altro, non volevo andare in giro con la consapevolezza che poteva essere morto per causa mia e che io avevo mentito per proteggere Daniel dalla giustizia.
«Tu c’entri. Faccio il giornalista da metà della mia vita ed è evidente che questa storia riguardi te. Parlami, maledizione».
Il rumore del telefono che vibrava nella borsa mi distrasse dal senso di panico che non faceva altro che aumentare.
«Devo andare. Buona fortuna, Richard», dissi, affrettandomi ad alzarmi. Lui mi chiamò, ma non volevo saperne più niente. Non lo avrei aiutato e una parte sconsiderata di me voleva avvertire Daniel.
Uscii dal ristorante e mi fermai al centro del marciapiede. Mi guardai attorno in cerca di un taxi che mi portasse via da lì, ma i miei occhi si posarono su un uomo dall’altra parte della strada.
Era alto e robusto, con una coppola color grigio sbiadito a coprirgli il volto.
I nostri sguardi si incrociarono. Lo conoscevo. Aggrottai le sopracciglia cercando di capire chi fosse.
«Erica, aspetta».
Richard era accanto a me, ma io non riuscivo a distogliere lo sguardo da quell’uomo. Non doveva essere qui, ma i suoi occhi erano fissi nei miei. Anche lui doveva conoscermi, ma come…
Prima che potessi capire, alzò le braccia davanti a sé, aveva una lucida arma metallica tra le mani.
No.
La mia bocca si spalancò in un urlo silenzioso, ma non riuscii a muovermi abbastanza in fretta. Lo scoppio assordante dei colpi riecheggiò nell’aria.
Fui assalita da un dolore esplosivo. Il mondo si fermò.
Non avevo idea di quanto gravemente fossi ferita perché riuscivo solo a vedere il sangue. Ero zuppa. Caddi in ginocchio.
Oddio. Non sta succedendo, non può essere vero.
Per strada regnava il caos. Vedevo volti spaventati che sfuggivano dal pericolo. Il rumore. Le urla e altri spari, lo stridio di un’auto. Altro trambusto sulla strada e voci di uomini arrabbiati.
Portai le mani tremanti sul punto del ventre da cui si irradiava il dolore. Richard era immobile accanto a me. C’era altro sangue.
Mi girava la testa e caddi di fianco sul marciapiede. Con sempre meno forza, serrai i denti, cercando di chiedere aiuto.
«Erica!».
Come un angelo, Blake mi prese tra le sue braccia. Rapidamente, ma con cautela, mi sollevò e mi portò nel ristorante. Mi fece stendere sulla moquette sul retro. La tensione che avevo trattenuto si rilassò e presi la sua mano quando me la offrì. La strinsi forte, non volevo lasciarlo andare.
«Ci sono io, piccola. Andrà tutto bene. Stanno arrivando i rinforzi».
La sua voce era strana, come se non credesse alle sue parole. Lo guardai negli occhi, fissi in quel punto, ma il dolore, che pulsava dentro di me, era quasi insopportabile. Si divincolò dalla mia presa e mi sollevò la maglietta scoprendo il reggiseno.
«Cazzo», espirò.
Si tolse la maglietta e premette il tessuto sul mio ventre. Io urlai.
Lui mi fece tacere, senza muovere le mani o diminuire la pressione. «Va tutto bene», disse.
Volevo credergli. Chiusi gli occhi, sentendomi sempre più debole. La sua mano calda mi prese il viso. Era caldo, molto caldo.
«Guardami, piccola. Tieni gli occhi aperti».
Aprii gli occhi a metà. Era il massimo che potevo fare. Tutto sembrava più lento, il fiato che riempiva i miei polmoni, il battito del mio cuore. La confusione attorno a noi si muoveva al rallentatore, una macchia di suoni e azioni. Riuscivo a vedere solo lui, era la sua l’unica voce che riuscivo a sentire.
La pesantezza del dolore era sparita e il mio corpo si sentiva più leggero nella sua debolezza. Con tutte le forze che avevo, alzai la mano per prendergli il viso.
«Blake… ti amo».
Non riconoscevo la mia voce, ma sentivo le parole nel mio cuore. Amavo quell’uomo, con ogni grammo del mio essere, anche se il mondo iniziava a sbiadire. Chiusi gli occhi di nuovo, la leggerezza mi avvolse nell’oscurità.
«No», esclamò Blake. «Non dirlo. Resta con me».
Posai la mano sulla sua. Il sangue che bagnava la sua maglietta era quasi caldo sulla mia pelle. Non potevo, non riuscivo a tenere gli occhi aperti, neanche se lo avessi voluto. Volevo andare a casa, con Blake, tra le sue braccia.
Cacciai fuori un sospiro, travolta dal sollievo e da un’improvvisa vertigine quando immaginai che fossimo lì.
«Resta sveglia, piccola. Ti prego, resta sveglia per me».
Blake stava soffrendo. L’agonia nella sua voce mi trafiggeva, un ultimo colpo nel mio corpo intorpidito dal dolore.
Blake… il suo nome era un sussurro o forse un bisbiglio nella mia mente. Ripetei la parola come un mantra finché non sparì. Non riuscivo più a sentirlo o a percepire la sua presenza. La sua voce, il suo viso, persino il nostro sogno era svanito nel nulla.