CONCLUSIONE

 

 

Nell’evoluzione del pensiero, nella storia sia dell’umanità sia di un individuo, vi è uno stadio in cui non c’è pensiero, e subito dopo uno in cui vi sono pensieri. […] Ci manca un vocabolario soddisfacente per descrivere i passaggi intermedi.

D. Davidson, Soggettivo, intersoggettivo,

oggettivo

 

 

È almeno dai tempi di Aristotele che gli esseri umani si chiedono che cosa li distingua dalle altre specie animali. Per quasi tutto il tempo, però, mancavano le informazioni critiche per rispondere a questa domanda, e la ragione principale è che in Europa, per i primi millenni di storia della civiltà occidentale, non c’erano primati non umani. Aristotele e Cartesio potevano pacificamente affermare che «solo l’uomo è dotato di ragione», o che «solo l’uomo ha il libero arbitrio», perché il confronto era tra gli esseri umani da un lato e, dall’altro, gli uccelli, i topi e gli animali domestici, o le volpi e i lupi incontrati di tanto in tanto.

Fu solo nell’Ottocento che i primati non umani, grandi antropomorfe comprese, giunsero in Europa, grazie alla recente «invenzione» dei giardini zoologici. Lo stesso Darwin, nel 1838, rimase sbalordito quando, nello zoo di Londra, vide un orango femmina di nome Jenny (che la regina Vittoria definì «disgustosamente umana»). Dopo la pubblicazione dell’Origine delle specie, ventuno anni dopo, e dell’Origine dell’uomo, ancora dodici anni più tardi, divenne ancora più difficile definire le differenze tra gli esseri umani e gli altri animali, ora rappresentati dagli animali viventi a noi più vicini. Molti filosofi hanno reagito semplicemente liquidando il problema: il pensiero è un processo che è mediato dal linguaggio e solo da questo, e perciò le altre specie animali non sono per definizione in grado di pensare (i più illustri fautori di questa posizione negli ultimi anni sono Davidson [2001] e Brandom [1994]). Ma la tesi della «discontinuità radicale» è stata invalidata dalle recenti ricerche sulla cognizione e sul pensiero delle grandi scimmie antropomorfe, ivi comprese le ricerche illustrate in questo libro. Le grandi antropomorfe si rappresentano cognitivamente il mondo in un modello astratto, sono capaci di complesse inferenze causali e intenzionali con una struttura logica, e sembrano sapere, almeno in un qualche senso, ciò che fanno mentre lo fanno. Questo magari può non essere pensiero pienamente umano, ma di certo condivide con esso alcune componenti decisive.

Il problema, tuttavia, non è semplicemente di individuare una linea di demarcazione. Il punto è che le diverse specie di grandi antropomorfe oggi viventi sono distanti dall’uomo per effetto del caso: è accaduto semplicemente che alcune siano sopravvissute e altre no. Ma che cosa diremmo se in qualche remota foresta ci imbattessimo in membri superstiti della specie Homo heidelbergensis o Homo neanderthalensis? Come faremmo a decidere se essi posseggono un pensiero propriamente umano oppure no, dato che, con ogni probabilità, sarebbero una via di mezzo tra gli esseri umani e le grandi antropomorfe che conosciamo oggi? Un caso più estremo: che cosa diremmo se entrassimo in contatto con un ramo collaterale dell’albero evolutivo umano, un ramo ancora più distante, con modi di agire e di pensare suoi propri, sovrapponibili solo in parte al pensiero umano moderno? Forse queste creature non hanno mai sviluppato l’atto di indicare e perciò non sono capaci di inferenze ricorsive. O forse non hanno mai avuto abilità imitative sufficienti alla rappresentazione mimica, e perciò non simbolizzano le proprie esperienze per gli altri facendo uso di gesti. O forse, pur collaborando gli uni con gli altri, non si sono mai preoccupati delle valutazioni altrui, e perciò non hanno sviluppato normatività sociale. O forse non si sono mai trovati a dover prendere decisioni di gruppo, e perciò non hanno mai dovuto fornire agli altri ragioni e giustificazioni per le proprie affermazioni. Il problema che poniamo è quale tipo di pensiero svilupperebbero queste creature se mancassero di un ingrediente fondamentale (con tutto quel che ne segue) del pensiero umano moderno. Probabilmente potremmo osservare un tipo di pensiero con molte caratteristiche della versione umana moderna, ma anche con caratteristiche sue proprie. Il punto è che da una prospettiva evolutiva il pensiero umano non è un monolito ma un miscuglio - e avrebbe potuto benissimo essere diverso da come è.

In questa nostra storia naturale abbiamo cercato di immaginare un possibile «anello mancante» nell’evoluzione del pensiero umano dalle grandi antropomorfe agli esseri umani moderni, e lo abbiamo fatto prendendo in considerazione alcuni aspetti del modo di vivere dei cacciatori-raccoglitori contemporanei e alcuni aspetti del pensiero dei bambini piccoli (con l’aggiunta di alcuni, sia pure non decisivi, fatti paleoantropologici). Ma ciò che sosteniamo non è solo che questo passaggio intermedio può essere immaginato e che è probabilmente avvenuto, ma anche che è stato necessario. È stato necessario perché non si può neppure concepire di saltare direttamente dalle interazioni competitive e dalla comunicazione imperativa delle scimmie antropomorfe alla cultura e al linguaggio degli esseri umani moderni senza nessun passaggio evolutivo intermedio. I processi culturali e linguistici umani sono semplicemente convenzionalizzazioni di interazioni sociali preesistenti, interazioni che, per fornire il materiale grezzo adeguato, dovevano essere già profondamente cooperative. Nei termini dei nostri due filoni teorici, non è possibile giungere ai processi culturali e linguistici (chiamati in causa da Vygotskij e da altri teorici della cultura) senza un’infrastruttura sociale cooperativa preesistente (qual è stata descritta da Mead, Wittgenstein e altri teorici dell’infrastruttura sociale). Per questo dobbiamo postulare un passaggio intermedio - e saremmo lieti di averne tanti, di passaggi intermedi, se il nostro potesse essere ulteriormente scomposto - che abbia preparato il terreno ai processi culturali e linguistici e al modo peculiare in cui essi strutturano in profondità il pensiero umano. Tale passaggio intermedio non risolve il problema di Davidson [1982] di un vocabolario teorico comune che spazi dal «non pensiero» al «pensiero», ma di certo riduce in misura significativa la distanza tra i singoli passaggi.

In ogni caso, quale che sia l’esatto numero di passaggi, la nostra analisi implica che per comprendere il pensiero unicamente umano sia necessario collocarlo nel suo contesto evolutivo. A proposito del linguaggio, Wittgenstein afferma che «le confusioni di cui ci occupiamo sorgono, per così dire, quando il linguaggio gira a vuoto, non quando è all’opera» [1953; trad. it. 1967, 71]. Ci sembra che molti dei problemi sollevati dai filosofi intorno al pensiero umano nascano precisamente dalla pretesa di comprenderlo in astratto, fuori del suo uso per risolvere problemi adattivi. È naturale fare così nel mondo contemporaneo, perché buona parte del pensiero odierno, in questo senso, «gira a vuoto». Vi sono tuttavia pochi dubbi che il pensiero unicamente umano sia stato selezionato evolutivamente per organizzare e regolare azioni adattive finalizzate alla soluzione di problemi, e perciò, per comprenderlo appieno, dobbiamo identificare questi problemi. Se una creatura proveniente dallo spazio si imbattesse in un prodotto umano complesso, per esempio un semaforo, senza vederlo in funzione, potrebbe smontarlo e analizzarne la struttura in eterno, senza tuttavia capire perché esso fa ciò che fa. I fili e le luci, di per sé, non potrebbero mai rivelare (neppure con l’aiuto di una fMRI) perché a un incrocio il rosso in una direzione si attiva solo quando nell’altra è acceso il verde. Per comprendere queste regolarità, dobbiamo anzitutto capire il traffico e il modo in cui i semafori sono usati per risolvere i problemi specifici che esso pone. Nel caso delle strutture biologiche - e questa, naturalmente, è un’importante lezione della psicologia evoluzionistica - vi è l’ulteriore possibilità che inizialmente esse si siano evolute per assolvere certe funzioni, e si trovino oggi ad assolverne altre. In ogni caso, la nostra ipotesi è che per comprendere il modo in cui gli esseri umani contemporanei pensano, dobbiamo comprendere come il pensiero umano si è evoluto per risolvere i problemi specifici incontrati dai primi Homo e dagli esseri umani moderni nel cammino verso modi di vivere sempre più cooperativi.

Non vi è dubbio che alcuni capitoli della nostra storia evolutiva siano incompleti. Il problema principale è che la collaborazione, la comunicazione e il pensiero non lasciano testimonianze fossili, e perciò su questi fenomeni comportamentali e sugli eventi decisivi per la loro evoluzione non si possono fare altro che ipotesi. Quel che più conta è che non sappiamo quanto le grandi antropomorfe contemporanee siano cambiate rispetto all’antenato comune con l’uomo, perché non vi sono resti fossili di quell’epoca. Inoltre, il passaggio intermedio dei primi Homo deve essere stato un’evoluzione graduale, molto più di quella qui descritta; in verità, non è neppure chiaro se Homo heidelbergensis fosse una specie a sé. E abbiamo considerato solo di sfuggita la storia umana dopo l’agricoltura e tutto l’intrico di effetti prodotto dal rimescolamento dei gruppi culturali, dallo sviluppo della scrittura e dei sistemi di notazione numerica, e da istituzioni sociali come la scienza e gli stati. Perciò il nostro non è tanto un esercizio propriamente storico, quanto il tentativo di dissezionare la natura in alcuni dei suoi snodi principali e, in particolare, nei suoi principali snodi evolutivi.

La lista delle questioni aperte a questo punto sarebbe piuttosto lunga. Ma ve ne sono due particolarmente importanti. La prima è la natura del senso di compartecipazione o collettività o «del noi» che caratterizza tutte le forme di intenzionalità condivisa. Molti studiosi sostengono la tesi di una sostanziale irriducibilità [per es. Gallotti 2012], secondo la quale fenomeni come l’attenzione congiunta e le convenzioni condivise sono irriducibilmente sociali, e perciò ogni tentativo di spiegarli nei termini degli individui coinvolti e dei processi che si svolgono nella loro testa è votato al fallimento. La nostra convinzione è che l’intenzionalità condivisa sia in effetti un fenomeno irriducibilmente sociale nel momento in cui si manifesta - si ha attenzione congiunta solo quando due o più individui interagiscono - ma che al tempo stesso sia possibile chiedersi sul piano evoluzionistico o ontogenetico che cosa vi sia nei singoli individui che gli consente di avere interazioni di attenzione congiunta delle quali le altre antropomorfe e i bambini più piccoli non sono capaci. Ciò significa, a nostro giudizio, che qualcosa come la capacità di inferenza o di lettura ricorsiva degli stati mentali altrui - per quanto ancora non adeguatamente caratterizzate, e in molti casi lasciate completamente nell’ombra - devono essere incluse nella storia dell’intenzionalità condivisa. Sul piano individuale, l’intenzionalità condivisa è esperita semplicemente come una forma di condivisione, ma la sua struttura sottostante, che ne riflette l’evoluzione, è definita dalla possibilità che ciascuno dei partecipanti a un’interazione (poniamo A) assuma la prospettiva di un altro (chiamiamolo B) che assume la prospettiva di A che assume la prospettiva di B, e così via, per almeno alcuni livelli di profondità. Ma questo è un punto sul quale si può ragionevolmente dissentire.

Una seconda questione aperta è come e perché gli esseri umani moderni reifichino e oggettivizzino quelle che sono entità di origine essenzialmente sociale. Il denaro non è solo un pezzo di carta ma qualcosa che ha corso legale, e Barack Obama non è solo un uomo che vive in una grande casa bianca ma il comandante in capo delle forze armate, e questo perché noi agiamo e parliamo come se essi fossero queste cose. Le persone reificano anche cose come la moralità, quando parlano non delle norme morali di questo o quel gruppo sociale (o delle norme condivise da tutti i gruppi umani), bensì di quello che è il modo «giusto» o «sbagliato» di agire, dove giusto e sbagliato appaiono come caratteristiche oggettive del mondo. E l’ambito in cui ciò emerge più chiaramente è il linguaggio, dove tutti tendiamo - una tendenza che possiamo correggere, ma solo con grande difficoltà - a reificare le concettualizzazioni codificate nelle lingue naturali. In questo siamo come il bambino che dice che, anche se in un lontano passato quel grosso felino striato laggiù era chiamato per accordo generale giommo, non sarebbe giusto fare così, perché, in realtà, «quella è una tigre». Ci sembra che queste tendenze oggettivizzanti possano derivare solo da quella prospettiva neutrale rispetto all’agente e orientata al gruppo che concepisce la realtà dalla prospettiva di ognuno di noi - la prospettiva di qualunque persona razionale - nel contesto di un mondo di realtà sociali e istituzionali preesistenti a noi stessi, e che parlano con una voce più autorevole della nostra. È la voce autorevole che sta dietro l’uso di formule linguistiche generalizzate per affermare una norma («Questo è sbagliato») e per impartire un insegnamento («Questo funziona così»), ed essa determina, in larga parte, che cosa si debba considerare reale. Ma anche questo è un punto sul quale si può ragionevolmente dissentire.

Nonostante queste (e altre) questioni ancora aperte, non possiamo concepire una teoria generale delle origini del pensiero unicamente umano che non abbia carattere essenzialmente sociale. Per chiarire fino in fondo il punto: non stiamo affermando che tutti gli aspetti del pensiero umano siano fondati socialmente, ma che lo siano tutti gli aspetti del pensiero unici della nostra specie. È un fatto empirico che l’interazione e l’organizzazione sociale delle grandi antropomorfe e quelle dell’uomo siano diversissime, e che gli esseri umani siano, sotto ogni aspetto, molto più cooperativi. È difficile credere che questo fatto sia indipendente dalle enormi differenze nella

cognizione e nel pensiero che intercorrono fra le grandi antropomorfe e l’uomo, specie se le si esaminano in dettaglio. Quale teoria non sociale potrà mai spiegare cose come le istituzioni culturali, le concettualizzazioni prospettiche e convenzionali delle lingue naturali, il ragionamento ricorsivo e razionale, le prospettive oggettive, le norme sociali e l’autoregolazione normativa - e si potrebbe continuare a lungo? Tutti questi sono fenomeni intimamente coordinativi, ed è quasi inconcepibile che essi nascano evolutivamente da una fonte non sociale. L’ipotesi di qualcosa come l’intenzionalità condivisa non può non essere vera.