2.3. Dialogo e pensiero riflessivo
Una volta che c’è comunicazione linguistica, c’è dialogo. E nel dialogo accade spesso che il ricevente risponda a un enunciato segnalando di non avere capito qualcosa, sollecitando chiarimenti e così via. Per parte sua, il comunicatore fa il possibile per esplicitare nel seguito del dialogo le informazioni richieste. Il punto decisivo per il pensiero umano è che il fatto stesso di esplicitare un contenuto concettuale in un modello linguistico convenzionale (un contenuto che era solo implicito nell’atto comunicativo originario) rende questo contenuto accessibile all’(auto)riflessione. Altrimenti detto (facciamo qui nuovamente riferimento all’analisi di Mead [1934] e, in qualche misura, di Karmiloff-Smith [1992]), la natura collaborativa della comunicazione umana comporta che il comunicatore possa percepire e comprendere il suo stesso atto comunicativo come se fosse il ricevente, e questo gli consente di pensare il proprio pensiero, per così dire, dall’esterno [Bermudez 2003]. Sebbene gli atti di indicare e mimare permettessero ai primi Homo di riflettere entro certi limiti sui loro stessi pensieri una volta espressi esplicitamente, con gli esseri umani moderni e con la comunicazione linguistica convenzionale si potevano adesso esprimere nuovi tipi di pensiero. Inoltre, ora il processo di automonitoraggio dipendeva non solo dalla prospettiva del ricevente, ma dalla prospettiva normativa di tutti gli utilizzatori delle convenzioni linguistiche. Qui di seguito tre esempi particolarmente importanti.
1. Una parte di informazione che spesso richiede una spiegazione è quella che riguarda gli stati intenzionali (o atteggiamenti proposizionali) del comunicatore. Per esempio, supponiamo che al ritorno da una battuta di caccia io veda alcune gazzelle abbeverarsi alla seconda pozza, e che questo mi porti a inferire che la prima pozza, quella che le gazzelle frequentano di solito, è asciutta (infatti non piove da un bel po’). Tornato al campo, vengo a sapere che mio fratello ha intenzione di andare ad attingere acqua alla prima pozza. Vorrei fargli sapere che è molto probabile che non ci sia acqua, ma non voglio semplicemente asserire come un dato di fatto «Lì non c’è acqua», perché non ne sono certo. Presumibilmente il primo marcatore usato in queste situazioni per indicare l’incertezza del parlante fu un’espressione facciale involontaria (vedi sopra). Ma poi gli esseri umani convenzionalizzarono dei modi per esprimere il proprio dubbio, e iniziarono a usare enunciati come «Forse non c’è acqua», o «Penso che non ci sia acqua». Passando al mondo contemporaneo, i bambini di lingua inglese all’inizio usano verbi come think («pensare») e simili non per designare uno specifico atto mentale di pensiero ma per esprimere la propria incertezza, cioè allo stesso modo in cui userebbero maybe («forse») (I think it does not have water, «Penso che non ci sia acqua», significa che forse non ce n’è [Diessel e Tomasello 2001]). Solo successivamente fanno riferimento esplicito a eventi mentali in terza persona. Un’ipotesi plausibile è che siano state le esigenze del dialogo a far sì che gli esseri umani cominciassero a parlare esplicitamente di stati mentali, e che in principio non lo facessero in modo generalizzato, ma solo in relazione ai propri atteggiamenti epistemici verso i contenuti proposizionali. In seguito, essi giunsero a fare riferimento agli stati mentali di chiunque, compresi gli interlocutori e se stessi, usando il medesimo repertorio di convenzioni comunicative. Una volta che furono in grado di fare riferimento esplicito agli stati intenzionali, poterono sviluppare nuovi tipi di pensiero riflessivo su di essi.
2. Un secondo insieme di processi cognitivi che richiedono spesso una spiegazione è quello dei processi di inferenza logica del comunicatore. Si tratta in primo luogo dei processi inferenziali associati ai connettivi e e o, a vari tipi di negazione (per esempio, non) e all’implicazione (se… allora). Per esempio, nel dialogo argomentativo, il parlante ha bisogno di questo tipo di termini per rendere esplicito il proprio processo di ragionamento in risposta alle richieste dell’interlocutore. In analogia con le richieste comunicative del dialogo normale, le «richieste logiche» del dialogo argomentativo costringono le parti a esplicitare linguisticamente delle operazioni logiche che fino a quel momento erano state solo procedurali e non rappresentazionali. Si può immaginare un primo passaggio gestuale/iconico nel quale, per esempio, o sia espresso in forma mimica, con A che offre a B o questo oggetto (tenuto in una mano) o quell’oggetto (tenuto nell’altra mano). Un’implicazione se… allora potrebbe essere rappresentata mimando interazioni sociali della vita quotidiana, dalle minacce agli avvertimenti («se X, allora Y»). Ancora una volta, la rappresentazione simbolica di questi operatori logici per mezzo di convenzioni linguistiche li rende più astratti e più potenti, e molto più facilmente accessibili all’automonitoraggio e all’autoriflessione.
3. Terzo punto, spesso i parlanti devono esplicitare una parte delle assunzioni di base e/o del terreno comune per aiutare il ricevente nel processo di comprensione. Per esempio, supponiamo di andare assieme nella foresta alla ricerca di miele, una pratica culturale che ci è familiare sulla base del nostro terreno comune culturale. Le conoscenze che condividiamo su questa pratica - che tipo di alveari stiamo cercando, a che altezza dovremmo guardare sugli alberi, di quali strumenti abbiamo bisogno, che tipo di contenitori ci servono per il trasporto e così via - sono alla base di molte delle nostre attività. Perciò, se voi vi fermate e cominciate a raccogliere e intessere delle foglie, io aspetto pazientemente che finiate, perché entrambi sappiamo che per il trasporto avremo bisogno di un contenitore. Ma questa conoscenza condivisa è tutta implicita nel nostro terreno comune (culturale). Uno dei primi Homo avrebbe potuto esplicitare questa conoscenza con un gesto che indicasse al compagno la presenza di foglie adatte alla bisogna. Ma ora immaginiamo che io, essere umano moderno, esprima l’intenzione di farvi notare la presenza delle foglie servendomi di convenzioni comunicative condivise: «Guarda, laggiù ci sono delle foglie adatte». Questo attira la vostra attenzione sulle foglie in modo molto più esplicito, ma sono ancora possibili fraintendimenti (adatte sì, ma a cosa?). Perciò forse guardate le foglie ma non vi viene in mente nulla. Sulla base di quello che penso che voi non comprendiate, potrei dire «Sono foglie di banano», «Ci servirà un contenitore», «Ci servono delle foglie di banano per fare un contenitore» - o qualcosa del genere. Vi spiego così la ragione per cui ho richiamato la vostra attenzione sulla presenza delle foglie (ragione che, erroneamente, pensavo poteste inferire dal nostro terreno comune) e, in questo modo, rendo espliciti i pensieri alla base del mio atto comunicativo. Anche stavolta, questo mi dà la possibilità di riflettere sui miei pensieri e sulle loro connessioni in un modo che sarebbe impossibile se essi fossero solo una parte implicita del nostro terreno comune.
E dunque con gli esseri umani moderni diventa possibile rappresentare gli stati intenzionali, le operazioni logiche e le conoscenze generali nella forma di un insieme relativamente astratto e governato normativamente di convenzioni linguistiche collettivamente note. Data la natura convenzionale e normativa del linguaggio, si rendono possibili nuovi processi di riflessione, che non sono quelli delle antropomorfe che monitorano la propria incertezza decisionale, né quelli dei primi Homo che monitorano la comprensione da parte del ricevente, ma piuttosto quelli di un comunicatore capace di pensiero «oggettivo» e normativo, che valuta le proprie concettualizzazioni linguistiche come se provenissero da un altro individuo altrettanto capace di pensiero «oggettivo» e normativo. Il risultato è che gli esseri umani moderni sono capaci non solo di automonitoraggio individuale o di valutazione sociale in seconda persona, ma anche, e soprattutto, di autoriflessione pienamente normativa.
2.4. Prendere decisioni condivise e addurre ragioni
Dobbiamo considerare infine uno specialissimo contesto della comunicazione umana che ha avuto implicazioni epocali per i processi di pensiero dell’uomo: il processo decisionale condiviso. Possiamo immaginare, per esempio, dei partner collaborativi — o magari un consiglio di anziani - che devono scegliere una linea d’azione sapendo, come parte del terreno comune, che ve n’è più di una possibile. Dato che la condizione di interdipendenza conferisce a tutti uguale potere, nessuno può dire semplicemente agli altri cosa fare; essi dovranno piuttosto suggerire una possibile linea d’azione e addurre ragioni a suo sostegno.
Cominciamo dai primi Homo. Poiché i primi collaboratori fra loro avevano generalmente un ricco terreno comune, essi, indicando e mimando, potevano suggerire in modo implicito delle ragioni in favore o contro qualcosa. Per esempio, possiamo immaginare due di loro alla caccia di un’antilope. A un certo punto la perdono di vista e si fermano in una radura per decidere insieme quale direzione prendere. In questa situazione uno potrebbe indicare all’altro delle tracce sul terreno. È un’informazione pertinente per i cacciatori, perché è parte del loro terreno comune che quelle sono tracce di antilope, forse proprio dell’animale che stanno inseguendo. È pertinente anche la direzione delle tracce - altra informazione importante, perché i due cacciatori sanno, nel loro terreno comune, ciò che questo implica per la probabile direzione presa dall’antilope. Il punto è che, nel richiamare l’attenzione del compagno sulle tracce, lo scopo del comunicatore è continuare l’inseguimento con il compagno in una certa direzione. Ma il comunicatore non sta indicando in quella direzione; sta solo indicando per terra. L’atto comunicativo fornisce perciò una sorta di ragione implicita per il ricevente, che possiamo esplicitare così: ecco delle tracce, dato il nostro terreno comune riguardo a ciò che le tracce implicano per la probabile direzione presa dall’antilope, esse ci forniscono una ragione per andare in questa direzione. Il ricevente potrebbe controbattere indicando da un’altra parte, là dove si vedono dei piccoli di antilope tra i cespugli; e questa potrebbe essere un’ottima ragione per andare in quella direzione. Queste ragioni non sono esplicitate, evidentemente, e non costituiscono quello che potremmo considerare un pensiero pienamente fondato sul ragionamento. Sono però un primo passo.
Con gli esseri umani moderni e la loro capacità di comunicazione linguistica convenzionale, il ragionamento giunge a maturità, dove «ragionamento» significa non solo pensare che qualcosa è così, ma esplicitare in forma convenzionale - a beneficio tanto altrui quanto proprio - le ragioni per cui si pensa ciò che si pensa. Questa posizione contrasta con l’opinione tradizionale che il ragionamento umano sia un affare privato. Molto chiari su questo punto sono Mercier e Sperber [2011], che descrivono il processo di ragionamento in termini di comunicazione e di dialogo e, in particolare, di dialogo argomentativo, dove un individuo rende esplicite ad altri le ragioni per credere che qualcosa sia fatta in un certo modo. L’idea di fondo è questa: quando un comunicatore informa un ricevente di qualcosa, vuole essere creduto, e spesso lo è (sulla base di un’assunzione reciproca di cooperazione). A volte però il ricevente non gli accorda credito (non importa per quale ragione), e perciò il comunicatore adduce ragioni a sostegno del proprio enunciato informativo. In questo tipo di dialogo, gli individui adducono ragioni allo scopo di convincere l’altro. Che convincere gli altri sia la principale funzione del ragionamento è suggerito da numerosi dati empirici - per esempio, dalla tendenza delle persone a cercare le evidenze favorevoli piuttosto che quelle contrarie (bias della conferma). Secondo questa ipotesi, convincere gli altri ha un valore adattivo, e gli esseri umani hanno evoluto le loro capacità di ragionamento non per perseguire la verità, ma per convincere gli altri della bontà delle proprie opinioni.
L’idea che il ragionamento umano (anche quello individuale) abbia un’origine sociale-comunicativa è quasi certamente corretta. L’analisi di Mercier e Sperber tende tuttavia a relegare i processi cooperativi sullo sfondo, perciò ecco un’analisi alternativa in cui questi processi sono in evidenza: il contesto sociale critico è il processo decisionale congiunto o collettivo, che è tipico delle attività collaborative. Per esempio, in una battuta di caccia, voi potete pensare che per trovare le antilopi ci convenga andare verso sud, secondo me invece sarebbe molto meglio andare nella direzione opposta. Per avvalorare la vostra tesi, esplicitate il ragionamento nella lingua convenzionale del nostro gruppo, facendomi notare, tra l’altro, che a sud c’è una pozza d’abbeverata. Per tutta risposta, esplicito anch’io il mio ragionamento in forma linguistica: a quest’ora del giorno è probabile che all’abbeverata ci siano i leoni e perciò non troveremo neanche un’antilope - e poi ci sono orme di antilope dirette a nord. Voi dite che quelle orme hanno l’aria di essere vecchie, io ribatto che sembrano vecchie perché sono state tutta la mattina sotto il sole e si sono seccate, ma in realtà sono state lasciate all’alba. E potremmo andare avanti a lungo. Il punto è che questo tipo di discussione presuppone un contesto cooperativo. Nelle parole di Darwall [2006, 14]: «È solo in certi contesti, per esempio quando voi e io cerchiamo di stabilire che cosa credere insieme, che ciascuno di noi è nella posizione di richiedere all’altro di ragionare logicamente».
Questo tipo di argomentazione che potremmo chiamare cooperativa può essere analizzata nella teoria dei giochi sul modello della battaglia dei sessi: il nostro scopo ultimo è collaborativo - tutti e due vogliamo andare a caccia insieme, perché altrimenti non avremmo alcuna speranza di successo - ma all’interno di questa cornice cooperativa ognuno tira l’acqua al proprio mulino. Il punto è che nessuno di noi vuole convincere l’altro a costo di sbagliare sull’ubicazione delle antilopi; ognuno preferirebbe avere la peggio nella discussione e mangiare stasera, piuttosto che avere la meglio e restare a stomaco vuoto. Un aspetto cruciale della nostra cooperatività è che entrambi, fin dal principio, siamo implicitamente d’accordo che andremo nella direzione in favore della quale ci sono le ragioni «migliori». Questo è ciò che significa essere ragionevoli.
L’appello alle ragioni «migliori» presuppone quelli che Sellars [1963] chiama «standard comuni di correttezza e pertinenza che pongano in relazione ciò che io di fatto penso con ciò che chiunque dovrebbe pensare». L’argomentazione cooperativa ai fini del processo decisionale congiunto o collettivo presuppone parametri condivisi dalle due parti per determinare quali ragioni siano in effetti le «migliori». Di qui l’esistenza di norme sociali relative all’argomentazione cooperativa, come quella che stabilisce che le ragioni fondate sull’osservazione diretta devono prevalere sull’evidenza indiretta o sul sentito dire. A un livello concettuale più profondo, partecipare a una discussione significa anzitutto accettare come infrastruttura determinate «regole del gioco», cioè le norme sociali poste dal gruppo alla base dell’argomentazione cooperativa. La differenza fra una zuffa di strada e un incontro di pugilato è tutta qui. Gli antichi greci hanno formulato esplicitamente alcune delle norme argomentative fondamentali della cultura occidentale, come il principio di non contraddizione (un enunciato non può essere considerato vero e falso nello stesso tempo) e il principio di identità (non si può cambiare l’identità di A nel corso di un’argomentazione). E si può supporre che già prima dei greci un individuo che considerasse lo stesso enunciato vero e falso nello stesso tempo fosse ignorato dagli altri o esortato ad argomentare razionalmente. L’infrastruttura cooperativa è perciò cruciale per determinare che cosa voglia dire ragionare. Il mondo naturale, in sé e per sé, può essere una questione di puro e semplice «essere» - le antilopi sono dove sono. Ma i processi discorsivi determinati culturalmente attraverso i quali stabiliamo - nello «spazio delle ragioni», per usare una suggestiva espressione di Sellars - ciò che questo «essere» di fatto è sono carichi di «dover essere».
L’argomentazione cooperativa può essere dunque la culla degli atti linguistici «assertivi». Le asserzioni vanno oltre gli atti linguistici informativi da cui pure derivano, poiché chi asserisce qualcosa si impegna sulla verità di un enunciato (cioè il suo impegno non riguarda semplicemente la sincerità, ma anche la verità oggettiva dell’enunciato) e, quel che è decisivo, si impegna a fornire ragioni e giustificazioni a suo sostegno. Ragioni e giustificazioni servono a rendere esplicito agli altri su quali basi io creda qualcosa, e gli altri, condividendo tali basi, potranno credere a loro volta quella cosa (per esempio, tutti sappiamo e accettiamo, prima ancora di constatarlo, che se vi sono leoni alla pozza d’abbeverata, allora non vi saranno antilopi). Si può anche respingere un’argomentazione perché viola le norme argomentative (come quando qualcuno contraddice ciò che ha appena detto), o perché implica qualcosa che tutti noi sappiamo non essere vero. Nel complesso, la capacità di connettere pensieri ad altri pensieri (sia a quelli di altri individui sia ai propri) per mezzo di una varietà di relazioni inferenziali (in genere adducendo ragioni e giustificazioni) è essenziale per la ragione umana in ogni suo aspetto, e rende possibile l’interconnessione di tutti i potenziali pensieri di un individuo in una sorta di «rete olistica delle credenze».
Come riconoscono tutti i moderni sostenitori di una concezione socioculturale del pensiero umano, la chiave di volta di tutto ciò è l’interiorizzazione nel pensiero o nel ragionamento razionale individuale di questi processi interpersonali di esplicitazione. L’esplicitazione di un contenuto per facilitarne la comprensione da parte di un ricevente ci permette di simulare, prima ancora di proferire parola, i modi in cui l’atto comunicativo che abbiamo pianificato potrebbe essere compreso — tutto ciò, forse, in una specie di dialogo interno. E l’esplicitazione di un contenuto per persuadere qualcuno in una discussione ci consente di simulare in anticipo la potenziale replica di un avversario alla nostra argomentazione e di aver così pronto, nel pensiero, un insieme interconnesso di ragioni e giustificazioni - di nuovo, forse, in una specie di dialogo interno. Brandom [1994, 590-591] descrive il processo in questi termini:
I contenuti concettuali utilizzati nel ragionamento monologico […] sono parassitari rispetto (e intelligibili solo in relazione) al tipo di contenuto espresso nel ragionamento dialogico, nel quale la questione di «che cosa segue da che cosa» implica essenzialmente le valutazioni dalle diverse prospettive sociali di interlocutori-scorekeepers, con i differenti impegni di cui sono portatori.
Le norme del ragionamento umano sono perciò, almeno implicitamente, frutto di un accordo collettivo, e tutte le ragioni e le giustificazioni che vengono usate mirano a convincere «qualunque persona razionale». Il ragionamento umano, anche quando è circoscritto al sé, è profondamente permeato da una normatività collettiva nella quale l’individuo regola le proprie azioni e i propri pensieri sulla base delle convenzioni e degli standard normativi del gruppo, in quella che è stata chiamata «autoregolazione normativa» [Korsgaard 2009].
3. Il pensiero neutrale rispetto all’agente
Il pensiero in seconda persona dei primi Homo aveva lo scopo di risolvere i problemi di coordinamento posti dalle interazioni collaborative e comunicative dirette con specifici individui. Gli esseri umani moderni dovettero affrontare problemi di coordinamento d’altro genere, quelli posti dalle interazioni con individui sconosciuti, con i quali non c’era nessun terreno comune personale o quasi. La soluzione sul piano comportamentale fu la creazione di convenzioni, norme e istituzioni neutrali rispetto all’agente; esse operavano a livello di gruppo e ogni individuo si aspettava, nel terreno comune culturale, che tutti gli altri vi si conformassero. Per permettere il coordinamento comunicativo in un mondo come questo, anche la comunicazione umana doveva essere convenzionale e poggiare, una volta di più, su un terreno comune culturale e non personale. E per partecipare con successo al gioco della comunicazione convenzionale - e soprattutto per contribuire al processo decisionale condiviso - gli esseri umani moderni avevano bisogno di esprimere linguisticamente le proprie ragioni, e poi di simulare i giudizi normativi del gruppo culturale sull’intelligibilità e la razionalità di quegli atti linguistici e di quelle ragioni. Con gli esseri umani moderni, all’intenzionalità congiunta si aggiunge anche l’intenzionalità collettiva dell’intero gruppo culturale.
3.1. L’«oggettività» delle rappresentazioni
I primi Homo rappresentavano cognitivamente a se stessi varie situazioni ed entità da più di una prospettiva simultaneamente, e poi indicavano o simbolizzavano per gli altri prospettive particolari su quelle situazioni o entità nei propri atti comunicativi deittici o iconici. In seguito, gli esseri umani moderni cominciarono a collaborare e comunicare con altri individui (che potevano essere degli sconosciuti) sulla base di convenzioni, norme e istituzioni neutrali rispetto all’agente, in modo che i modelli cognitivi che essi costruivano e le prospettive che simulavano riguardassero non semplicemente altri particolari individui, ma, piuttosto, una sorta di altro generalizzato o, forse, il gruppo nel suo insieme. Le convenzioni linguistiche in cui gli individui erano immersi fin dalla nascita incarnavano il modo in cui il gruppo, nella sua storia, aveva prospettivizzato e schematizzato l’esperienza, e apparivano perciò inevitabili. Questo nuovo tipo di funzionamento sociale diede origine a rappresentazioni cognitive con tre importanti caratteristiche.
1. Le rappresentazioni erano convenzionali. Per la prima volta nella storia della vita gli individui umani moderni «ereditavano» un sistema di rappresentazione costruito culturalmente: un linguaggio convenzionale, comprendente un repertorio strutturato di concettualizzazioni che i loro predecessori culturali avevano trovato utili per comunicare con gli altri. Le convenzioni linguistiche erano condivise all’interno del terreno comune culturale del gruppo, e di conseguenza, dato il loro orientamento al gruppo e la loro tendenza a conformarsi, esse acquistarono un fondamento normativo negli «standard sociali» che ne governavano l’uso appropriato. Perciò, specie per i bambini che acquisivano il linguaggio, era come se il modo in cui le convenzioni linguistiche rappresentavano il mondo fosse qualcosa di naturale.
Inoltre, l’arbitrarietà delle convenzioni linguistiche rendeva possibile, o almeno facilitava, l’uso di concettualizzazioni molto astratte, come giustizia o ricatto, che schematizzano non una classe tassonomica, ma piuttosto un’entità definita tematicamente o narrativamente. L’arbitrarietà dei simboli linguistici apriva inoltre la strada a concettualizzazioni più astratte di termini relativamente concreti, come aperto o rottura, che potevano così essere usati in una grande varietà di situazioni. E soprattutto, a causa della loro natura convenzionale, le convenzioni linguistiche e le loro interrelazioni rendevano possibili concettualizzazioni con forme aspettuali esplicitamente alternative - gazzella, animale, pranzo, a seconda della prospettiva - note collettivamente nel terreno comune culturale del gruppo. Queste forme aspettuali alternative creavano uno iato tra il mondo concettualizzato dall’individuo per le sue azioni strumentali e il mondo concettualizzato secondo varie relazioni di opposizione nella sua lingua convenzionale - uno iato che ha sollecitato la riflessione di molti, dagli antichi greci fino a Benjamin Lee Whorf.
2. Le rappresentazioni erano proposizionali. Gli esseri umani moderni cominciarono a usare le convenzioni linguistiche in combinazioni strutturate da cui nacquero costruzioni linguistiche astratte assimilabili a unità gestaltiche. Molte costruzioni linguistiche concettualizzano intere proposizioni, e lo fanno servendosi di costituenti interni che svolgono ruoli specifici indicati da simboli di secondo ordine. Le costruzioni linguistiche di livello proposizionale sono prospettiche (si pensi alla distinzione attivo-passivo), e uno degli elementi (il soggetto) fornisce un punto di accesso prospettico alla situazione concettualizzata. L’astrattezza delle costruzioni linguistiche rende possibili combinazioni concettuali produttive, grazie alle quali possiamo rappresentarci entità e situazioni immaginarie di ogni genere, da un sole sorridente a un volto umano sulla faccia della luna. Le costruzioni linguistiche creano così la possibilità di rappresentazioni metaforiche basate su analogie strutturali che forniscono nuovi schemi di pensiero - come quando diciamo che una nuova idea «mina» una teoria vecchia o che le attività inutili si «mangiano» tutto il nostro tempo. L’esplicitazione nelle costruzioni linguistiche di motivazioni e atteggiamenti comunicativi di vario genere può contribuire a una visione oggettivizzata dell’esperienza, poiché implica un contenuto proposizionale di tipo fattuale indipendente dai desideri o dagli atteggiamenti di ciascun individuo particolare.
Con le loro costruzioni linguistiche, gli esseri umani moderni cominciarono a fare asserzioni - di cui garantivano la verità oggettiva - che potevano riguardare particolari eventi episodici o anche, e soprattutto, eventi o fatti generici di un certo tipo. Essi vi ricorrevano specialmente per far rispettare una norma («Questa non è una cosa da farsi in pubblico») e per insegnare qualcosa («Questo funziona così»). Questa genericità discendeva presumibilmente dalla forza normativa della «voce del gruppo» sottostante all’espressione assertiva, e le conferiva un’oggettività che trascendeva l’individuo.
3. Le rappresentazioni erano oggettive. I primi Homo vivevano in un mondo di prospettive individuali differenziate. Anche gli esseri umani moderni vivevano in un mondo così, ma nelle culture orientate al gruppo prese forma anche una sorta di mondo pubblico fatto di entità create collettivamente, quali convenzioni, norme e istituzioni (dal matrimonio al denaro e agli stati). Tali entità preesistevano agli individui ed erano indipendenti dai pensieri e dai desideri di questi, il che gli conferiva quella sorta di «eternità preesistente» caratteristica del mondo fisico. Inoltre queste entità collettive erano associate a ruoli prestabiliti che, in linea di principio, potevano essere svolti da qualunque agente; e in alcuni casi questi ruoli creavano nuove entità, dai presidenti al denaro, con poteri deontici molto concreti ed evidenti. Agire in un mondo pubblico come questo richiedeva che gli individui fossero in grado di assumere una prospettiva di tipo neutrale rispetto all’agente, una prospettiva in un certo senso privilegiata, «trascendentale», che costituisse il mondo «oggettivamente» e giustificasse i giudizi personali di vero e falso, giusto e sbagliato.
Per costruire i loro modelli cognitivi del mondo, gli esseri umani moderni avevano bisogno di andare oltre le semplici relazioni causali e intenzionali. Non è possibile comprendere cose come i capi e i matrimoni, per non parlare del linguaggio e della cultura, senza una sufficiente comprensione delle entità create dall’accordo collettivo e sorrette dal giudizio normativo collettivo. In altri termini, gli esseri umani moderni avevano bisogno di nuove concettualizzazioni delle entità collettive che trascendessero i pensieri e gli atteggiamenti dei singoli individui (o anche di una pluralità di individui). La costruzione di modelli del genere conduceva naturalmente a giudizi quali reale, vero e giusto, che non nascevano dall’individuo in quanto tale, ma dalla sua appropriazione della prospettiva sovrapersonale, «oggettiva», generata dal suo mondo culturale. Le rappresentazioni linguistiche - specie le asserzioni con una distinzione tra l’atteggiamento in seconda persona del comunicatore e un contenuto proposizionale atemporale e aspecifico (per esempio, «Penso che piova») - non facevano altro che aggiungere forza a queste tendenze oggettivizzanti e reificanti. Gli esseri umani moderni «collettivizzarono» dunque i modi di vivere dei primi Homo e ne «oggettivizzarono» i modelli cognitivi del mondo.
3.2. Il ragionamento riflessivo
Le inferenze dell’antenato comune agli esseri umani e alle grandi antropomorfe erano semplici inferenze causali e intenzionali. Le inferenze dei primi Homo erano strutturate ricorsivamente, e permettevano di produrre e comprendere atti comunicativi cooperativi che non andavano oltre il puntare un dito per indicare qualcosa. Ma la comunicazione linguistica degli esseri umani moderni dischiudeva prospettive completamente nuove in fatto di inferenza e di ragionamento. Divennero possibili le inferenze formali e pragmatiche, e il comunicatore poteva riflettere sulle forme comunicative esterne da una prospettiva oggettiva e normativa. E nel dare ragioni e giustificazioni agli altri - e a se stesso, nel ragionamento interiore - un individuo poteva mettere in connessione le sue varie concettualizzazioni in una singola rete inferenziale.
Inferenze linguistiche. La creazione di relazioni gerarchiche tra i referenti delle varie convenzioni linguistiche è parte del processo di convenzionalizzazione. Per esempio, è parte del nostro terreno comune che il termine gazzella si usa solo per un particolare tipo di animale, e animale per tutti i tipi di animali, uno dei quali è la gazzella; da ciò consegue la possibilità di inferenze formali: se sappiamo che una gazzella è oltre la collina, allora sappiamo che un animale è oltre la collina (ma non vale il contrario). La logica formale ha preso le mosse dallo studio di questo tipo di inferenze, ed esse hanno grande importanza anche nella moderna semantica dei ruoli concettuali. È anche decisivo che è conoscenza comune a tutti che tutti conoscano le opzioni linguistiche a disposizione di un comunicatore; ciò rende possibili le inferenze pragmatiche descritte da Grice [1975]: se parlo di qualcuno come di un «conoscente», vuol dire che quasi certamente non siamo amici - infatti, se fossimo stati amici, avrei usato la parola «amico». Queste implicature e le inferenze corrispondenti sono possibili solo perché le opzioni disponibili fanno parte del terreno comune culturale del gruppo, e di conseguenza è possibile chiedersi perché ho fatto la scelta che ho fatto. La comunicazione linguistica convenzionale rende possibili nuovi e potenti tipi di inferenze.
Inoltre, la comunicazione linguistica (e l’arbitrarietà delle convenzioni linguistiche) consentiva agli esseri umani moderni di esprimere esplicitamente nel linguaggio alcune concettualizzazioni che non trovavano una facile espressione, o un’espressione purchessia, nei gesti naturali dei primi Homo, come gli stati intenzionali e le operazioni logiche. Posto che sia possibile riflettere sul proprio pensiero solo quando questo si manifesta in un comportamento esterno rivolto a qualcun altro - giacché solo allora è possibile assumere il ruolo dell’altro e comprendere quel comportamento dalla prospettiva dell’altro -, la comunicazione linguistica offriva agli esseri umani moderni molte nuove concettualizzazioni su cui potevano pensare riflessivamente. È importante notare che quando essi assumevano riflessivamente il proprio pensiero come oggetto di pensiero, almeno in alcune situazioni, non lo facevano semplicemente dalla propria prospettiva, e neppure dalla prospettiva di qualcun altro, ma da una prospettiva più «oggettiva».
Inferenze riflessive. Uno speciale processo dialogico è l’argomentazione cooperativa, nella quale cerchiamo di giungere a una decisione di gruppo su che cosa dovremmo fare o credere. A questo scopo non solo facciamo asserzioni, che comportano un impegno sulla verità, ma portiamo anche ragioni e giustificazioni a sostegno di queste asserzioni, cioè le mettiamo in connessione con cose ritenute per comune accordo vere e attendibili. Il risultato di tale processo è che le concettualizzazioni e i pensieri strutturati in proposizioni degli esseri umani moderni così come sono espressi nel linguaggio diventano sempre più interconnessi inferenzialmente, fino a formare una «rete di credenze» nella quale ciascun elemento trae significato dalle relazioni inferenziali che ha con gli altri elementi. Questa interconnettività è una componente essenziale di una creatura pienamente razionale in grado di padroneggiare nella sua interezza un sistema concettuale nel quale i pensieri strutturati in proposizioni si sostengano e si giustifichino reciprocamente (cioè possano essere usati come premesse e conclusioni gli uni degli altri in un contesto argomentativo [Brandom 2009]).
Inoltre, quando gli esseri umani moderni cominciarono a praticare questa argomentazione cooperativa, emersero a poco a poco delle norme accettate implicitamente. Per effetto di queste norme, gli individui che si contraddicevano da un’asserzione all’altra, o cambiavano il significato dei termini da loro stessi usati all’interno di un’argomentazione, o consideravano una stessa asserzione vera e falsa nello stesso tempo, erano ignorati o tagliati fuori dal processo decisionale di gruppo. L’argomentazione cooperativa fu perciò lo speciale gioco linguistico nel quale la razionalità normativa umana giunse a regolare la condotta di chiunque volesse intervenire nelle decisioni collettive (per esempio, politiche, giudiziarie ed epistemiche).
Tutto questo può essere interiorizzato. Interiorizzazione significa semplicemente che un individuo, come comunicatore, indirizza un atto comunicativo a se stesso, come ricevente, e nel fare questo osserva norme «oggettive» di intelligibilità, partecipazione cooperativa e così via. Il dialogo interno che ne risulta è una forma di pensiero particolarmente importante [Vygotskij 1978]. Quando il contesto comunicativo è l’argomentazione cooperativa, vengono interiorizzate intere linee argomentative e giustificative. Su questa base, un individuo può dare a stesso una ragione normativamente giustificata del perché pensa ciò che pensa, e le sue concettualizzazioni vengono a essere definite, in buona misura, dalle relazioni inferenziali sancite normativamente che le legano ad altre concettualizzazioni. La rete di credenze risultante e la capacità umana di navigare facilmente in questa rete sono fondamentali per la capacità di ragionamento individuale.
A questo punto, la capacità inferenziale degli esseri umani moderni non consiste solo nell’immaginare sequenze causali e intenzionali, come nelle scimmie antropomorfe, né solo nel prospettivizzarle e ricorsivizzarle, come nei primi Homo; gli esseri umani moderni sono capaci, ora, di nuovi tipi di inferenze rese possibili dal linguaggio convenzionale e di nuove forme di riflessione sul proprio pensiero, tra cui una sorta di dialogo interno. Questi processi, nel particolare contesto dell’argomentazione cooperativa, danno origine a qualcosa che potremmo chiamare ragionamento. Gli esseri umani moderni sono dunque capaci all’occasione di operare inferenze ragionate o riflessive nel contesto degli standard normativi del gruppo culturale.
3.3. Automonitoraggio normativo
I primi Homo erano capaci di ciò che abbiamo chiamato «automonitoraggio cooperativo» - la regolazione delle proprie attività collaborative sulla base delle reazioni valutative di specifici partner - e di «automonitoraggio comunicativo» - la regolazione dei propri atti comunicativi sulla base delle interpretazioni attese in partner specifici. Adattare questi processi alla forma di vita culturale caratteristica degli esseri umani moderni significava che ora gli individui regolavano invece le proprie decisioni comportamentali per mezzo delle norme del gruppo culturale, note e accettate collettivamente. Nel processo decisionale gli esseri umani moderni giunsero così a sentire non solo una pressione in seconda persona ma, al di sopra di questa, anche una pressione normativa a conformarsi al gruppo. Il risultato è che io non vengo meno ai miei impegni anzitutto perché non voglio mancare di parola a un mio compagno, e poi perché «noi» membri di questo gruppo non trattiamo gli altri così. Questa normatività generalizzata si ricollega all’identità di gruppo: per essere uno dei membri del gruppo devo comportarmi come gli altri, cioè secondo le norme che tutti, me compreso, ci siamo impegnati a osservare.
Il pensiero e il ragionamento degli esseri umani moderni acquisirono gradualmente una struttura e una regolazione normativa, e ciò avvenne in diversi modi. Quando un individuo comunica con gli altri attraverso convenzioni linguistiche, deve farlo nel modo in cui lo fanno gli altri, pena l’insuccesso della comunicazione. Inoltre, nel contesto dell’argomentazione cooperativa ai fini della decisione di gruppo, è necessario che la discussione sia governata da norme condivise. Per gli altri individui coinvolti nel processo decisionale di gruppo, è importante che la mia partecipazione sia fruttuosa, perciò è interesse generale che ognuno faccia asserzioni vere, si attenga alle norme che governano le inferenze e le argomentazioni, giustifichi ciò che dice ricollegandosi a proposizioni e argomentazioni già accettate collettivamente e così via. Una volta interiorizzato, questo processo comunicativo diventa ragione individuale.
Autoregolazione normativa. L’autoregolazione normativa è il risultato dell’interiorizzazione dei processi di normatività collettiva, infatti l’individuo sottopone le proprie azioni ad automonitoraggio e autoregolazione sulla base delle norme sociali del gruppo (sia quelle cooperative sia quelle comunicative). Gli esseri umani moderni comunicano con se stessi e così riflettono sul proprio pensiero e lo valutano nei termini degli standard normativi del gruppo. Questa riflessione implica che gli individui possono sapere che cosa stanno pensando, e possono dare a se stessi giustificazioni e ragioni sancite normativamente di ciò che pensano, cosa che essi fanno mettendo in connessione i loro pensieri in un’intricata rete inferenziale che, entro certi limiti, è regolata da «standard sociali». Questo processo riflessivo permette anche di esercitare un controllo esecutivo sui propri pensieri e sui propri ragionamenti. Korsgaard [2009] ha osservato che gli esseri umani non solo adottano scopi, prendono decisioni e adducono ragioni, ma cercano anche di valutare in anticipo se perseguire quegli scopi, prendere quelle decisioni o sostenere quelle ragioni sia un bene - tutto ciò rappresenta un ulteriore livello di riflessione e valutazione. Il giudizio normativo non è semplicemente il mio giudizio personale, né quello di altri particolari individui; si tratta piuttosto di giudicare se uno scopo è desiderabile, una decisione è corretta o un ragionamento è valido per qualunque persona razionale, cioè per chiunque, nel nostro gruppo, faccia le cose come le facciamo «noi».
Gli esseri umani moderni usano dunque le norme sociali del gruppo come guide interiorizzate per l’azione e per il pensiero. Ciò significa che nelle loro interazioni collaborative essi si conformano ai modi collettivamente accettati di fare le cose - modi che sono basati sulle norme di cooperazione del gruppo - e nelle loro interazioni comunicative si conformano ai modi collettivamente accettati di usare il linguaggio e le argomentazioni espresse linguisticamente - modi che sono basati sulle norme di ragione del gruppo.
4. Oggettività: uno sguardo da nessun luogo
Diversamente dalle grandi antropomorfe, che vivono tutte nella fascia equatoriale, gli esseri umani moderni hanno colonizzato l’intero pianeta. E lo hanno fatto non in qualità di singoli individui, bensì come gruppi culturali; in quanto individui, gli esseri umani moderni non avrebbero potuto sopravvivere a lungo in nessuno dei loro habitat locali. Per adattarsi alle condizioni dei diversi ambienti, i vari gruppi culturali che essi formarono hanno sviluppato pratiche culturali specializzate e cognitivamente complesse, dalla caccia alle foche e dalla costruzione di igloo alla raccolta di tuberi e alla fabbricazione di archi e frecce - per non parlare della scienza e della matematica. Ciò che qui abbiamo tentato di fare è descrivere le abilità cognitive e di pensiero che consentono agli individui umani moderni di coordinarsi con i loro partner collaborativi e comunicativi per adattarsi collettivamente alle condizioni del loro particolare angolo di mondo.
Possiamo provare a immaginare l’avvento di questi esseri umani moderni. I primi Homo conducevano tranquillamente la loro vita collaborando e comunicando con gli altri in vari modi per una varietà di scopi cooperativi. Poi, davanti ad alcune difficili sfide demografiche, su tutti arriva una grande ondata che porta con sé l’orientamento al gruppo e la tendenza a conformarsi. Quelli che erano cacciatori-raccoglitori abituati a coordinarsi spontaneamente con i compagni per procurarsi di che vivere cominciano ora a sviluppare una varietà di pratiche culturali convenzionalizzate per la ricerca del cibo. Se prima comunicavano spontaneamente con i compagni per coordinare le attività collaborative usando gesti creati appositamente, ora cominciano a sviluppare forme di comunicazione linguistica convenzionalizzata. Se prima si esortavano o si ammonivano spontaneamente l’uno con l’altro, in seconda persona, a comportarsi in modo cooperativo, ora cominciano a seguire norme sociali di moralità e razionalità conosciute e applicate collettivamente. I primi Homo vivevano insieme e interagivano congiuntamente con gli altri; gli esseri umani moderni vivono insieme e interagiscono collettivamente con gli altri.
L’orientamento al gruppo e la tendenza a conformarsi ebbero come effetto la selezione culturale a livello di gruppo, accompagnata dall’evoluzione culturale cumulativa. Si ha selezione culturale di gruppo quando gli individui si conformano all’interno del proprio gruppo - e si differenziano da altri gruppi - al punto che il gruppo stesso diventa un’unità di selezione naturale [Richerson e Boyd 2006]. Di conseguenza, certi adattamenti culturali alle condizioni locali sopravvivono e altri scompaiono. L’evoluzione culturale cumulativa ha luogo quando le invenzioni in un gruppo culturale vengono trasmesse fedelmente in un gruppo culturale, così da rimanere stabili finché non arriva un’invenzione nuova e perfezionata (il cosiddetto effetto dente d’arresto [Tomasello, Savage-Rumbaugh e Kruger 1993]). Gli esseri umani moderni godevano di tale effetto in misura maggiore dei primi Homo e delle scimmie antropomorfe, poiché avevano - oltre a sofisticate abilità di imitazione - una spiccata inclinazione a insegnare agli altri e a conformarsi agli insegnamenti altrui. Ed è con la diffusione dell’orientamento al gruppo e della tendenza a conformarsi che per i gruppi culturali diventa possibile creare e migliorare costantemente i propri prodotti cognitivi - dalle procedure per la caccia alle balene a quelle per risolvere le equazioni differenziali — e, grazie a essi, adattarsi alle condizioni locali al tempo stesso distinguendosi dagli altri gruppi culturali.
L’effetto sotterraneo dell’orientamento al gruppo e della tendenza a conformarsi fu l’emergere, come nuovi strumenti di pensiero, di forme collettive, fondate culturalmente, di rappresentazione cognitiva, inferenza e automonitoraggio. Gli esseri umani moderni cominciarono a rappresentarsi il mondo «oggettivamente», sulla base di una prospettiva generica e neutrale rispetto all’agente - qualcosa che ogni persona razionale poteva abbracciare. Inoltre, grazie alle nuove abilità di comunicazione linguistica convenzionale, gli esseri umani moderni ebbero la possibilità di parlare di cose fuori della loro portata (dagli stati mentali alle operazioni logiche), e ciò rese possibili inferenze riflessive - pensando sul proprio pensiero - di maggiore profondità e ampiezza. Nel contesto dell’argomentazione cooperativa, gli esseri umani moderni esplicitavano le ragioni alla base delle loro asserzioni, mettendole in connessione in una rete inferenziale con le loro altre conoscenze; questa pratica sociale di addurre ragioni fu interiorizzata poi in ragione pienamente riflessiva. L’automonitoraggio degli esseri umani moderni veniva così a dipendere non solo dalle loro aspettative sulle valutazioni in seconda persona di altri specifici individui, ma piuttosto dalle loro aspettative sulle valutazioni normative del gruppo culturale. Per effetto di questi nuovi modi di agire e di pensare, la rottura dell’unità dell’esperienza umana divenne una vera e propria separazione: l’individuo non opponeva più la propria prospettiva a quella di un altro particolare individuo (lo sguardo «da qui» e lo sguardo «da lì»); esso opponeva la propria prospettiva a una sorta di prospettiva generica, di tutti e di ciascuno, su cose oggettivamente reali, vere e giuste quale che fosse il punto di vista (uno sguardo aprospettico «da nessun luogo»).
Se dunque sul piano morale la cooperazione implica sempre una rinuncia ai propri interessi in favore di quelli di altri individui o del gruppo, sul piano cognitivo il pensiero cooperativo implica sempre una rinuncia alla propria prospettiva in favore della prospettiva più «oggettiva» di altri individui o del gruppo [Piaget 1928]. Perciò nella comunicazione cooperativa dobbiamo sempre tener conto della prospettiva del ricevente, e nell’argomentazione cooperativa dobbiamo impegnarci ad accettare le ragioni e le argomentazioni degli altri, se sono migliori delle nostre - alla luce dei criteri normativi di razionalità da noi condivisi, che includono la realtà oggettiva da noi condivisa - rinunciando, se del caso, alle nostre. Nelle parole di Nagel [1986, 4]:
L’oggettività è un metodo di comprensione. […] Per acquisire una comprensione più oggettiva di un aspetto della realtà, facciamo un passo indietro rispetto alla nostra visione e formiamo una nuova concezione che ha questa visione e la sua relazione con il mondo come suo oggetto. […] Il processo può essere ripetuto, producendo una concezione ancora più oggettiva.
Così intesa, l’«oggettività» è il risultato della capacità di pensare la realtà assumendo prospettive sempre più ampie e anche, ricorsivamente, inglobando la nostra prospettiva in una prospettiva che la comprenda. Nella nostra ipotesi, ciò significa semplicemente fare riferimento alla prospettiva di un gruppo sociale o di un individuo generico, più ampio e costituito in modo più sovrapersonale: lo sguardo di chiunque.
Il secondo, grande passo verso gli esseri umani moderni è consistito perciò nella collettivizzazione e oggettivizzazione del pensiero cooperativizzato e prospettico dei primi Homo. Mentre questi ultimi interiorizzavano e facevano riferimento alla prospettiva di quello che Mead [1934] ha chiamato l’«altro significativo», gli esseri umani moderni interiorizzavano e facevano riferimento alla prospettiva del gruppo inteso come un tutto, o di un membro qualunque del gruppo, l’«altro generalizzato» di Mead. Il pensiero umano a questo punto non è più un processo solo individuale, né un processo sociale in seconda persona; esso è un dialogo interiorizzato tra «ciò che io di fatto penso» e «ciò che chiunque dovrebbe pensare» [Sellars 1963]. Il pensiero umano diviene così collettivo, oggettivo, riflessivo e normativo; vale a dire, a questo punto è diventato ragionamento umano vero e proprio.