Capitolo nono

Nelle settimane che seguirono, lo sceriffo venne due volte. Era un uomo alto e grasso che se ne stava in piedi con il mento in dentro, le mani intrecciate sotto la pancia, e tutto il peso sui talloni. Indossava un abito grigio con pantaloni dalle grandi pince e una giacca che era tesa come l’imbottitura di una poltrona su braccia e schiena. In entrambe le occasioni se ne rimase in piedi davanti alla porta e parlò del tempo. Tutto nei suoi modi lasciava intuire il piú profondo imbarazzo. Si mordicchiava le labbra, si guardava i pollici, oppure il soffitto, e la sua voce era a malapena percettibile. Ogni anno lo sceriffo apriva la parata del Quattro Luglio, vestito di pelle di daino con stivaloni di cuoio, in groppa a un grosso cavallo baio. Portava un’enorme bandiera che teneva appoggiata sulla staffa. Era seguito dal vecchio e fragile capo della tribú di Fingerbone, dalla figliastra mezzo irlandese, e dai figli piú grandi del primo matrimonio di lei. Poi venivano le majorette. Naturalmente sapevo benissimo che la sua funzione era piú che cerimoniale. La gente di Fingerbone e dintorni era stranamente incline a uccidere. E sembrava che ogni delitto di qualsiasi entità scatenasse spaventosi incidenti. Del resto, fra il lago e la ferrovia, fra le tormente di neve e le inondazioni, e gli incidenti nei fienili e nelle foreste e la generale disponibilità di armi da fuoco, e le trappole per orsi, i liquori fatti in casa e la dinamite, per non parlare della predominanza della solitudine e della religione con le furie e le estasi che esse inducono, e l’unione all’interno delle famiglie, la violenza era inevitabile. C’era un numero sconfinato di vecchie storie feroci, una uguale all’altra, diverse solo nei dettagli di valanghe ed esplosioni, troppo tristi per essere raccontate a qualcuno che non fosse un estraneo che si era sicuri di non incontrare una seconda volta. Per decenni questo stesso sceriffo era stato chiamato come una levatrice a presiedere ai principî di queste storie, in fossi e posti oscuri, alle loro nascite, dai sanguinosi lombi delle circostanze. C’era quindi da aspettarsi che lo sceriffo fosse un uomo incallito. Eppure, chiaramente, lo imbarazzava bussare alla nostra porta, e tanto era incapace di esprimersi a causa della confusione e della vergogna, che Sylvie poteva fingere di ignorare i motivi della sua venuta.

Non era il furto della barca il motivo per cui veniva, benché anche quello fosse stato segnalato, e nemmeno le mie assenze ingiustificate, perché ormai ero quasi abbastanza grande da lasciare la scuola se desideravo farlo. Non era perché Sylvie mi aveva tenuto fuori sul lago tutta la notte, dato che nessuno sapeva esattamente dove fossimo state. Era perché eravamo tornate a Fingerbone su un treno merci. Sylvie era una vagabonda recidiva e stava facendo anche di me una vagabonda.

Fingerbone era mossa a solenne pietà. Non c’era un’anima che non sapesse quanto fossero superficiali le radici della città. Si inondava annualmente, e una volta aveva subito un grande incendio. La segheria chiudeva piuttosto spesso, oppure bruciava. Giungeva notizia che altrove le cose andavano diversamente, e chiunque, in una serata melanconica, poteva arrivare a pensare che Fingerbone fosse un posto triste dove era difficile vivere.

Pertanto incombeva continuamente la minaccia di una diaspora. E non c’è creatura vivente che, anche se i capricci dei secoli hanno posto i suoi occhi su timide antenne e l’hanno incastrata in un guscio, anche se l’hanno ridotta a una punta di spillo e le hanno impresso il gusto per il fango, o l’hanno ficcata in fondo a un pozzo o nascosta sotto un sasso, non cerchi comunque di vivere, se può. Allo stesso modo Fingerbone, che a dispetto di tutte le sue difficoltà talvolta sembrava una qualsiasi gradevole cittadina, si dava una certa importanza, e avrebbe cercato di vivere, se e come poteva. Cosí ogni viandante la cui presenza lasciava pensare che poteva andar bene vagare, o almeno che poteva non avere tanta importanza, veniva accolto con qualcosa che sulle prime sembrava una reazione morale, poiché la moralità è un controllo sulle tentazioni piú forti. E questi estranei venivano nutriti sul ballatoio d’ingresso, e a volte riscaldati vicino alla stufa, con uno spirito che sembrava sulle prime di pura pietà o carità, dato che all’origine la pietà e la carità potrebbero essere un tentativo di ingraziarsi gli oscuri poteri che non ci hanno ancora toccato. Quando una di queste vite giungeva a termine entro la giurisdizione della città, si poteva esser certi che il predicatore avrebbe detto: «Questa sfortunata creatura», come se una tomba anonima fosse piú profonda di una tomba con sopra il nome. E cosí i vagabondi si aggiravano per Fingerbone come fantasmi, spaventosi come lo sono i fantasmi perché non molto diversi da noi. Pertanto era importante per la città credere che io dovessi essere salvata, e che la salvezza fosse possibile. Se lo sceriffo per un verso pensava che non avrebbe dovuto venire a bussare a una porta dietro la quale non era stato commesso alcun delitto, per l’altro aveva visto piú di quanto ogni uomo dovrebbe vedere e pertanto era da scusare. Era a causa della sua tolleranza per i vagabondi che questi invadevano tanto la città, dormendo in case abbandonate e tra le rovine di case crollate, o costruendo le loro baracche e i loro ripari sotto il ponte e lungo la spiaggia. Essi parlavano raramente a portata delle nostre orecchie e non ci guardavano in faccia, ma noi coglievamo immagini fugaci dei loro visi. Erano come i soggetti delle vecchie fotografie: non li vedevamo attraverso il velo della conoscenza e dell’abitudine, ma in modo semplice e piano, cosí com’erano, rugosi o sfregiati, sorpresi o indifferenti. Come per i morti, potevamo considerare concluse le loro storie, e ci chiedevamo soltanto cosa li avesse portati al vagabondaggio, allo sbando, dato che le loro vite da vagabondi erano come lunghe marce e rimuginii e schermaglie tra fantasmi che non possono pagare il loro tragitto dall’altra parte dello Stige. Per quanto sia lungo il post scriptum e breve la vita che chiosa, ancora non basta a considerarlo parte della storia. Noi immaginavamo che se ci avessero parlato ci avrebbero sconcertato con racconti di disastri e disgrazie e amari dolori che sarebbero volati sulle colline per rimanervi nella terra scura e nelle grida degli uccelli. Perché nel caso di un dolore cosí puro, chi poteva distinguere il mio dal tuo? Il dolore è che ogni anima venga cacciata di casa. Fingerbone viveva sempre tra i diseredati. In periodi particolarmente duri la città ne era invasa, e quando passavano per le strade, di notte, i bambini di Fingerbone si tiravano le coperte sopra la testa e bisbigliavano la vecchia supplica che Dio provvedesse almeno alle loro anime, se fossero morti nel sonno.

Le donne del vicinato e le donne della chiesa cominciarono a portarci degli stufati e delle torte al caffè. Mi portarono calzettoni e berretti e lunghe sciarpe fatte a maglia. Si sedevano in punta al divano, con le loro offerte posate in grembo, e facevano delicate domande sulla raccolta di lattine e bottiglie di Sylvie. Una di queste signore presentò una sua amica come la moglie del giudice tutelare.

In verità ero contenta che a Lucille fossero risparmiate queste scene. Innanzitutto né io né Sylvie avevamo mai avuto in mente di invitare in casa i vicini. Il salotto traboccava dei giornali e delle riviste che Sylvie portava a casa. Erano ammonticchiati l’uno sull’altro in modo piuttosto ordinato, se si considera che alcuni erano stati arrotolati, probabilmente per schiacciare le mosche. Cionondimeno, occupavano tutta la parete in fondo alla stanza dove una volta c’era il caminetto. Poi c’erano le lattine accatastate lungo il muro di fronte al divano. Come i giornali, arrivavano fino al soffitto. Cionondimeno, occupavano una bella porzione di pavimento. Naturalmente avremmo pensato a una sistemazione diversa, se avessimo avuto intenzione di intrattenere degli ospiti, ma non l’avevamo affatto. I visitatori guardavano le lattine e i giornali come se pensassero che Sylvie li considerasse oggetti adatti a stare in salotto. Era ridicolo. Noi avevamo semplicemente smesso di considerare quella stanza un salotto, dato che, fin quando non avevamo attirato l’attenzione di queste signore, nessuno veniva mai a farci visita. A chi sarebbe venuto in mente di spolverare o di togliere le ragnatele in una stanza usata come deposito di lattine e giornali, cose assolutamente senza valore? Penso che Sylvie le conservasse solo perché considerava l’accumulazione l’essenza stessa della cura della casa, e perché pensava che la tesaurizzazione di cose senza valore fosse una prova di scrupolosa frugalità.

La cucina era ingombra di lattine, e di sacchetti di carta marrone. Sylvie sapeva bene che collezioni del genere erano un invito per i topi. Cosí aveva portato a casa una gatta gialla con un orecchio mozzato e il ventre gonfio, che figliò due volte. La prima figliata era ormai abbastanza grande da cacciare le rondini che avevano incominciato a fare il nido al secondo piano. La cosa in sé era utile, ma i gatti spesso portavano gli uccelli in salotto, e lasciavano in giro ali e zampe e teste, persino sul divano.

Naturalmente le signore che venivano a casa nostra avevano ucciso, spennato, sventrato, smembrato, fritto e mangiato una quantità incredibile di selvaggina. Eppure, erano sconcertate da questi resti di rondini e passerotti, quanto dai gatti stessi, che ammontavano a tredici o quattordici. Finché le signore erano sedute in quella stanza, o in quella casa, sapevo che la loro attenzione non si sarebbe mai attenuata, che l’argomento non sarebbe mai cambiato. Io mi scusavo sempre e salivo di sopra nella mia stanza, mi toglievo le scarpe, e di soppiatto scendevo di nuovo, e con questo semplice espediente mi resi complice delle azioni del destino, del mio destino, almeno.

Nelle loro conversazioni con Sylvie, c’erano molti silenzi. Sylvie diceva: – Sembra che quest’anno l’inverno arriverà presto –. E una di loro rispondeva: – Manderò qui mio marito ad aggiustare quelle finestre rotte –. Un’altra aggiungeva: – Il mio piccolo Milton preparerà delle fascine per voi. Un po’ di esercizio gli fa bene comunque –. Poi cadeva il silenzio.

Sylvie diceva: – Posso prepararvi del caffè? – E una di loro rispondeva: – Non si disturbi, cara –. E un’altra: – Siamo venute solo per lasciare i guanti, i dolci e lo stufato –. E un’altra ancora: – Non vogliamo incomodarla, cara –. E ricadeva il silenzio.

Un giorno una delle signore chiese a Sylvie se non si sentiva sola a Fingerbone, o se aveva trovato qualche amico della sua età. Sylvie diceva che sí, si sentiva sola, e che sí, era difficile trovare degli amici, ma che era abituata a essere sola e non le importava.

– Ma lei e Ruthie state insieme moltissimo.

– Oh, adesso siamo sempre insieme. Per me è come una sorella. È come stare di nuovo con sua madre.

Ci fu un lungo silenzio.

Le signore che venivano a parlare con Sylvie avevano una chiara intenzione, un preciso proposito, tuttavia erano timorose di penetrare nei labirinti della nostra intimità. Avevano dei rudimenti di tatto ma non erano molto allenate a usarlo, per cui tendevano a peccare di eccessiva cautela, ad andare per vie traverse e a soccombere all’imbarazzo. Avevano soccorso il ferito, assistito il malato e consolato il dolente, obbedienti al dettato biblico, e quelli che erano troppo tristi e solitari per desiderare la loro solidarietà li avevano nutriti o vestiti, entro i magri limiti delle loro possibilità, nel silenzio del cuore che rendeva accettabile la loro carità. Anche se le loro buone azioni supplivano alla mancanza di altri diversivi, erano comunque brave donne. Erano state abituate a compiere i gesti e ad assumere gli atteggiamenti della cristiana benevolenza fin dalla prima infanzia, finché quei gesti e quegli atteggiamenti erano diventati un’abitudine, e l’abitudine si era radicata in loro con tanta forza da sembrare un impulso o un istinto. In effetti, se Fingerbone era notevole per qualcosa, oltre alla solitudine e al delitto, era per lo zelo religioso del tipo piú raro. Di fatto c’erano numerose comunità religiose la cui visione di peccato e salvezza era cosí mistica, e praticamente cosí identica, che la superiorità dell’una sull’altra poteva esser stabilita soltanto in termini di buone azioni. E l’obbligo di compiere queste buone azioni poggiava unicamente sulle spalle delle donne, dato che la salvezza veniva universalmente considerata un tratto molto piú confacente alle donne che agli uomini.

I loro motivi per venire a trovarci erano complessi e imperscrutabili, ma piú o meno si rifacevano tutti a un’unica idea generale. Queste donne erano obbligate a venire a farci visita dal loro concetto di devozione e buona creanza, e da un desiderio, una precisa determinazione, a tenermi, per cosí dire, al sicuro dentro una casa. Infatti indubbiamente nei mesi piú recenti avevano osservato in me una tendenza a non pettinarmi quasi mai, ad arrotolarmi i capelli e a masticarmeli continuamente. Non avevano modo di sapere se negli ultimi mesi avessi mai detto qualcosa, dato che parlavo soltanto con Sylvie. Per cui avevano ragione di pensare che le mie grazie sociali si stessero dissolvendo, e che ben presto mi sarei sentita a disagio in una casa pulita e con i vetri alle finestre, e non avrei avuto piú nulla a che spartire con la comune società. Sarei diventata un fantasma, e il loro cibo non avrebbe soddisfatto la mia fame, e le mie mani avrebbero toccato le loro trapunte di piuma e le loro federe ricamate senza apprezzarle né trarne conforto. Come un’anima priva di corpo, avrei trovato qui solo le immagini e i simulacri delle cose capaci di mantenermi in vita. Se la montagna che si ergeva dietro Fingerbone fosse stata il Vesuvio, e una notte avesse ricoperto tutto di lava, i pochi sopravvissuti e i curiosi venuti ad assistere alla colata, a calcolarne i danni e a rimuovere le macerie con dinamite e pale, avrebbero trovato delle torte pietrificate e dei fossili di stufati, e sarebbero stati ingannati dalle apparenze. Allo stesso modo i vagabondi, quando si toglievano il cappello ed entravano nelle cucine, come succedeva quando era brutto tempo, guardavano il salotto e bisbigliavano: «Ha proprio una bella casa», e la signora che si trovava al fianco di uno di loro sapeva che seppure avesse rinnegato suo marito e maledetto i suoi figli offrendo tutto quello che era stato loro a quest’uomo solo, senza tetto e senza dimora, prima o poi lui avrebbe detto: «Grazie» e sarebbe scomparso ancora una volta nella sera come la piú affamata delle creature umane, senza riuscire a trovare niente qui che lo tenesse in vita, lasciando tutto, come una cosa gettata in un angolo dal vento. Perché mai tutte loro avrebbero dovuto sentire il peso di un giudizio nel fatto che queste anime senza nome guardassero le loro finestre illuminate senza invidie e accettassero la migliore delle cene come niente piú di quanto era loro dovuto?

Immaginiamo Noè che abbatte la sua casa e usa le assi per costruire un’arca, mentre i suoi vicini lo osservavano, pieni di dubbi. Una casa, dovette dir loro, deve essere calafatata con la pece e costruita in modo da galleggiare alta come le nubi, se necessario. Una striscia di terra coltivata a lattuga non è di alcuna utilità, e delle buone fondamenta sono peggio che inutili. Una casa deve avere una bussola e una chiglia. I vicini dovettero ficcarsi le mani in tasca e, mordendosi le labbra, incamminarsi verso case che ora avrebbero trovato inadeguate per ragioni che non riuscivano a capire. Forse, pie com’erano, queste signore non volevano vedermi entrare in quel triste stato di isolamento in cui ti mette la rivelazione e che ti fa sentire superiore ai tuoi vicini.

– Non ha mai notizie del loro padre?

Sylvie dovette scuotere la testa.

– Neanche di Mr Fisher?

– Di chi?

– Di suo marito, cara.

Sylvie rise.

Ci fu un lungo silenzio.

Alla fine qualcuna disse: – Lo sa perché le stiamo facendo tutte queste domande?

Forse Sylvie annuí o scosse la testa. Comunque non disse niente.

La signora insisté: – Alcune persone… alcune di noi… pensano che Ruthie dovrebbe avere… che una ragazza avrebbe bisogno di una vita ordinata.

– Ha già avuto tanti dispiaceri, tanti dolori –. Tanti, ha ragione, tanti da far pietà. Veramente.

– Sta benissimo, davvero, – rispose Sylvie.

Mormorii. Una di loro disse: – Sembra cosí triste.

Sylvie rispose: – Be’, è triste.

Silenzio.

Sylvie disse: – È giusto che sia triste –. Si mise a ridere. – Non voglio dire che sia giusto, ma, insomma, chi non lo sarebbe al posto suo?

Ancora una volta, silenzio.

– Succede cosí con la famiglia, – disse Sylvie. – Se ne sente la mancanza soprattutto quando non c’è piú. Una volta conoscevo una donna che aveva quattro bambini, e sembrava che non gliene importasse niente. A colazione dava loro dei fagiolini verdi, e non si preoccupava di controllare che non avessero le scarpe una di un colore e una di un altro. Questo è quel che mi diceva la gente. Ma io la conobbi quando era vecchia e aveva nove lettini a casa sua, tutti rifatti, e ogni sera andava dall’uno all’altro, rimboccando le coperte ai suoi bambini, in continuazione. Ne aveva avuti solo quattro, ma dopo che se ne furono andati tutti, erano diventati nove! Be’, probabilmente era pazza. Ma capite quel che voglio dire. Helen e papà non si erano mai intesi molto.

Silenzio.

– Ora io guardo Ruthie e vedo Helen. Ecco perché la famiglia è importante. Gli altri prendono la porta e se ne vanno.

Silenzio. Un agitarsi sul divano.

– Le famiglie dovrebbero rimanere unite. Altrimenti le cose diventano incontrollabili. Mio padre, per esempio. Non riesco neanche a ricordare che aspetto avesse, quand’era vivo, intendo. Ma dopo che se n’è andato è stato tutto un papà qui e papà lí, e i sogni, poi… Come quella povera donna con nove bambini. Andava avanti e indietro per la stanza tutta la notte!

Tutti tacquero a lungo. Alla fine qualcuna disse: – Le famiglie sono un dispiacere, questa è la verità –. E un’altra aggiunse: – Io ho perso la mia bambina sedici anni fa a giugno e ho ancora la sua faccia davanti agli occhi –. E qualcun’altra: – Allevarli è già abbastanza dura, ma quando li si perde… – Il mondo è pieno di dispiaceri. Ecco cos’è.

– Le famiglie dovrebbero restare unite, – disse Sylvie. – Dovrebbero, davvero. Non c’è altro aiuto. Ruthie e io abbiamo già abbastanza dispiaceri per tutti quelli che abbiamo perso –. Le signore sembrarono intente in pensieri tutti loro. Alla fine una disse: – Però, Sylvie, lei dovrebbe tenerla lontano dai treni merci.

– Come?

– Ruth non dovrebbe andare in giro sui treni merci.

– Oh, no, – disse Sylvie ridendo. – È successo una volta sola. Eravamo cosí stanche, sapete. Eravamo state fuori tutta la notte, cosí abbiamo preso il mezzo piú rapido per tornare a casa.

– Fuori dove?

– Sul lago.

Mormorii. – Con quella piccola barca?

– È una barca assolutamente in ordine. Non sembra un granché, ma va benissimo.

Le signore si accomiatarono, lasciando le loro offerte sul divano.

Entrai in casa e mi sedetti sul pavimento con Sylvie, e mangiammo spilluzzicando dalle pentole e dai piatti che si erano lasciate dietro.

– Hai sentito quel che hanno detto? – chiese Sylvie.

– Mmm…

– Che ne pensi?

La stanza era buia. Le lattine nella loro catasta torreggiante luccicavano azzurrine e l’effetto era freddo e melanconico. – Non voglio parlarne, – dissi.

– Io non so cosa pensare, – disse Sylvie. – Potremmo rimettere un po’ a posto qui, – disse alla fine. – Un po’ di questa roba potrebbe finire nel capanno, penso.

Il giorno dopo mi spazzolai i capelli e andai a scuola, e quando tornai a casa Sylvie aveva svuotato il salotto delle lattine e aveva incominciato a togliere i giornali. Aveva messo un mazzo di fiori finti sul tavolo di cucina e stava friggendo del pollo. – Non sta bene cosí? – mi chiese, e aggiunse: – Com’è andata a scuola?

Sylvie era carina, ma diventava molto piú carina quando qualcosa la riscuoteva convincendola che in qualche modo bisognava venire a patti con il mondo, e allora si impegnava anche nelle cose piú comuni, con una buona volontà incerta, piena di tensione e malizia, che le faceva sembrare difficili e interessanti, e anche i piú piccoli successi la deliziavano.

– A scuola è andata bene, – dissi. In realtà era stato un incubo. Il vestito ormai mi stava piccolo, e ogni volta che smettevo di controllarmi con un preciso sforzo di volontà, i miei piedi incominciavano a ballare sul pavimento oppure mi mordevo le nocche delle dita o mi tormentavo i capelli. Non riuscivo a prestare attenzione all’insegnante per paura che mi chiamasse mettendomi improvvisamente al centro dell’attenzione. Avevo disegnato sulla mia lavagnetta forme elaborate, che cambiavo non appena diventassero un minimo riconoscibili. Lo facevo per distogliere i miei pensieri dall’impulso di uscire dalla stanza, era un impulso molto forte, anche se potevo contare sulla benevolenza di Miss Knoll, che era talmente obesa da indossare delle scarpe senza lacci, con le linguette in fuori, e che piangeva quando leggeva Keats e se ne vergognava.

– Hai visto Lucille?

– No –. Sí. Lucille era dappertutto, ma non c’eravamo parlate.

– Forse è malata. Forse dovrei andare a farle visita e vedere come sta. In fondo sono sua zia.

– Sí –. Che importanza aveva? Ormai mi sembrava che la fragilità del nostro focolare fosse cosí grande da rendere inevitabile una breccia, e pertanto fosse inutile preoccuparsi che ci fosse o meno saggezza o buonsenso in qualsiasi particolare progetto per salvarla. Ben presto una cosa o l’altra avrebbe posto fine a tutto.

– Le porterò del pollo, – disse Sylvie. Sí, portale del pollo. Sylvie era cosí entusiasta dell’idea che mise da parte il collo per sé e le ali per me e accartocciò tutto il resto in una tovaglietta. Si lavò le mani, si puntò i capelli sulla nuca e partí alla volta di Lucille.

Era tardi quando tornò. Io avevo mangiucchiato le ali di pollo ed ero andata a letto con Nessuno resta solo. Sylvie salí di sopra e si sedette ai piedi del letto. – Quelle donne hanno parlato a Lucille, – disse. – Lo sai cosa hanno in mente di fare?

– Sí.

– Lucille me l’ha detto. Non credo che possano. Secondo te?

– No –. Sí.

– Non lo credo neanch’io. Sarebbe terribile. Lo sanno anche loro.

– Sí –. Sí. Sarebbe terribile. E loro lo sanno.

– Pensavo che volessero parlarmi del treno merci. Pensavo che avessero capito. Ma Lucille adesso dice che è perché abbiamo passato la notte sul lago. Be’, glielo spiegherò.

Spiegaglielo, Sylvie.

– Non preoccuparti –. Mi diede un colpetto sul ginocchio che sporgeva sotto la coperta. – Gli spiegherò tutto –. Alla fine mi addormentai nonostante il rumore che Sylvie faceva lavando e accatastando i piatti. La mattina dopo il tavolo di cucina era sgombro e ripulito e c’era una scodella con un cucchiaio, una scatola di corn flakes, un bicchiere di succo d’arancia e due pezzi di pane tostato spalmati di burro su un piattino accanto a un vaso di margherite finte. Sylvie era tutta imbrattata d’inchiostro di carta di giornale e aveva delle ragnatele tra i capelli.

– Sta bene cosí, – dissi.

Lei annuí. – Che confusione! Credimi, sono stata sveglia tutta la notte. Adesso mangia la tua colazione, altrimenti farai tardi a scuola.

– Credi che dovrei restare a casa ad aiutarti?

– No! Tu vai a scuola, Ruthie. Adesso ti aiuto a spazzolarti i capelli. Devi avere un aspetto carino.

Non avrei mai immaginato che Sylvie fosse capace di fretta e urgenza. Fui sorpresa, in effetti, che fosse disposta a tanto per amor mio. Mi era sempre sembrato che fossimo lí insieme per puro caso: il vento soffia su un ciuffo d’avena e due semi non volano via. Mi sembrava che condividessimo amichevolmente la casa perché era abbastanza spaziosa e ci sentivamo entrambe a nostro agio lí anche perché l’abitudine all’educazione era profondamente radicata in entrambe. E se un giudice fosse apparso all’improvviso nascondendomi sotto il suo nero mantello come un vagabondo nei racconti ammonitori di mia nonna, per portarmi via nella famosa fattoria, un tremito avrebbe percorso la casa, facendo traballare i piatti, e sbattere le tazzine, e squillare i bicchieri per giorni e giorni, forse, e Sylvie avrebbe avuto soltanto un’altra storia da raccontare, neanche troppo triste in confronto alle altre. Eppure ecco che in lei ora c’erano decisione e fretta. Io sapevo che eravamo condannate. Indossai una gonna che Sylvie aveva scelto per me e persino stirato (cose del genere hanno importanza per loro, disse), e il mio maglione piú bello, e lei mi tolse i nodi piú grossi dai capelli con un pettine a denti radi. – Adesso stai dritta, – disse mentre uscivo dalla porta. – Sorridi alla gente –. Passai la giornata in un’ansiosa infelicità, e tornando a casa trovai Sylvie seduta in un salotto spazzato e privo di gatti, che parlava piano con lo sceriffo.

È una cosa terribile infrangere una famiglia. Se capite questo, capirete tutto ciò che segue. Anche lo sceriffo lo sapeva, e la sua faccia era alterata per il dispiacere. – Ci sarà un’udienza, Mrs Fisher, – disse, stancamente, perché qualunque cosa Sylvie dicesse non poteva darle altra risposta.

– Sarebbe davvero una cosa terribile, – disse Sylvie e lo sceriffo si batté i palmi delle mani sulle ginocchia in segno di assenso e disse: – Ci sarà un’udienza, signora –. Quando io entrai nella stanza si alzò tenendo il cappello stretto sotto la pancia. Aveva i modi formali di un imprenditore di pompe funebri, e io gli dissi: – Buonasera, – per pura gentilezza. – Abbi pazienza, e scusaci, – disse, – ma noi grandi dobbiamo parlare –. Cosí salii nella mia stanza e lasciai che il mio fato si compisse da solo, dato che non avevo alcuna curiosità su quanto mi era destinato, e nessun dubbio.