Capitolo ottavo
Quella sera dopo cena Sylvie preparò una colazione al sacco, e poi puntammo la sveglia alle cinque e andammo a dormire presto, con i vestiti addosso. Però, per svegliarmi, Sylvie dovette stuzzicarmi. Mi pizzicò la guancia e mi tirò l’orecchio. Poi mi appoggiò i piedi per terra e mi tirò su per le mani. Io ricaddi sul letto e mi abbandonai sul cuscino e lei si mise a ridere. – Alzati!
– Tra un minuto.
– Forza! La colazione è pronta!
Mi accoccolai sopra le coperte, cercando di trattenere calore e sonno, che mi abbandonavano come una nebbia. – Svegliati, svegliati, svegliati, – disse Sylvie. Mi prese la mano, l’accarezzò, giocherellò con le mie dita. Quando sonno e calore non furono piú abbastanza, mi rizzai a sedere. – Brava bambina, – disse Sylvie. La stanza era buia. Quando Sylvie accese la luce, apparve ugualmente tetra e colma di sonno. C’erano grida di uccelli, acute e disarmoniche, pungenti come scintille o come grandine. E persino dentro casa riuscivo a sentire l’odore aspro del vento. Quel tipo di vento metteva in evidenza l’odore muschiato degli abeti e diffondeva il freddo alito del lago ovunque. Non c’era niente là fuori, neanche un odore di fumo di legna o di farina d’avena che lasciasse intuire qualche umano conforto, e quando fossi uscita sarei stata infelice. Era quasi novembre e molto prima dell’alba, e non volevo lasciare il mio letto.
– Andiamo, Ruthie, – disse Sylvie, e mi trascinò verso la porta afferrandomi entrambe le mani.
– Le scarpe, – dissi. Lei si fermò, sempre tenendomi per mano, e io me le infilai, ma Sylvie non attese che me le allacciassi.
– Avanti, andiamo. Scendiamo le scale adesso.
– Dobbiamo fare in fretta?
– Sí. Sí. Dobbiamo fare in fretta –. Aprí la botola e scese le scale davanti a me, sempre tirandomi per una mano. In cucina si fermò per togliere un uovo dalla padella e sistemarlo su un pezzo di pane. – Ecco la tua colazione, – disse. – Puoi mangiare mentre camminiamo.
– Devo allacciarmi le scarpe, – dissi alla sua schiena mentre lei usciva sulla veranda. – Aspetta! – gridai, ma la zanzariera sbatté dietro di lei. Mi allacciai le scarpe, trovai il cappotto e me lo infilai, e mi precipitai fuori.
L’erba era azzurra di brina. La strada, cosí gelata che risuonava sotto i miei passi, e le case, gli alberi e il cielo erano di un nero compatto. Un uccello cantò con un suono come di pentola raschiata, e poi tacque. Io avevo ceduto ogni altra sensazione ai disagi del freddo, della fretta e della fame, e mi rincantucciai dentro me stessa, ancora addormentata. Alla fine raggiunsi Sylvie, mi ficcai le mani in tasca, piegai la testa, e incominciai a camminare a grandi passi, come faceva lei, e fu come se fossi la sua ombra, e mi muovessi dietro di lei solo perché lei si muoveva e non perché desideravo questa andatura, queste mani in tasca, questa testa piegata. Seguirla non richiedeva né volontà né sforzo. Potevo farlo anche nel sonno.
Camminai dietro a Sylvie fino alla spiaggia, in una pace totale, completamente a mio agio, e pensai, Siamo uguali. Avrebbe potuto benissimo essere mia madre. Mi accoccolai e dormii nella sua ombra come un bambino prima di nascere.
– Aspetta qui, – disse Sylvie quando arrivammo in riva al lago. Scese fino a un punto in cui gli alberi crescevano sul bordo dell’acqua. Dopo qualche minuto ritornò. – La barca non è dove l’ho lasciata! – disse. – Dovremo cercarla. Vedrai che la trovo. Qualche volta ci vuole un po’ di tempo, ma alla fine la trovo sempre –. Si arrampicò su una roccia che si staccava dalla collina, spingendosi quasi in acqua, e scrutò la riva in lungo e in largo. – Scommetto che è laggiú –. Scese dalla roccia e ricominciò a dirigersi verso sud. – Li vedi quegli alberi? Mi è già capitato di trovarla lí, in un punto proprio come quello, tutta coperta di rami.
– Evidentemente qualcuno stava cercando di nasconderla, – suggerii.
– Ma possibile? Io la rimetto sempre dove la trovo. Non mi importa se la usa qualcun altro. Purché non la rovinino.
Scendemmo fino a un punto in cui alcuni filari di betulle e di pioppi riparavano una piccola insenatura. – Questo dovrebbe essere un posto perfetto per la barca, – disse Sylvie. Ma la barca non c’era. – Non scoraggiarti, – disse. – È cosí presto, che nessuno può averla presa prima di noi. Aspetta –. Si incamminò dentro il bosco. Dietro un tronco caduto, e dietro un gruppo di pini grassocci e bassi, c’era un mucchio di rami di pino e di pioppo sormontato da aghi e foglie marroni. Qua e là emergeva un angolo di tela cerata. – Ma guarda qui, – disse Sylvie. – Qualcuno si è dato un gran da fare –. Spinse via i rami a calci e riuscí a scoprire tutta la tela cerata e la forma della barca a remi. Allora tirò il fianco della barca finché non la mise ritta sopra l’ammasso dei rami. Spostò la tela cerata che qualcuno ci aveva steso sopra e trovò i remi. Li ficcò sotto il sedile. La barca emise un suono caldo e denso mentre la spingevamo sugli aghi di pino. Il legno sfregò rumorosamente su dei grandi sassi. Poi la trascinammo sulla sabbia e la spingemmo in acqua. – Sali, – disse Sylvie. – In fretta –. Mi arrampicai dentro la barca e mi misi a sedere su un’asse stretta e scheggiata, guardando la riva. – C’è un uomo che ci sta gridando qualcosa, – dissi.
– Oh, lo so! – Sylvie allontanò la barca da riva con due lunghe spinte, poi, con una mano appoggiata a ciascuna frisata, ci saltò dentro, tirandosi su a forza. La barca rollò paurosamente. – Devo mettermi su quel sedile lí, – disse. Si alzò e girando su se stessa si piegò, sempre reggendosi alle frisate, e io strisciai sotto il suo corpo e poi in mezzo alle sue gambe. Un sasso colpí l’acqua a pochi centimetri dalla mia faccia, e un altro rotolò sul fondo della barca. Sylvie mi passò un remo sopra la testa, lo sistemò sul suo supporto, si accosciò, e riuscí a spingerci con forza lontano dalla riva. Un sasso volò al di là del mio braccio. Guardai verso riva e vidi un uomo corpulento con un paio di stivaloni e di pantaloni neri e una giacca a scacchi rossa. Vidi che indossava uno di quei cappelli informi che qui i pescatori decorano con assurdi lustrini, piume e uncini aggressivi. Aveva la voce piena di rabbia. – Fa’ finta di niente, – disse Sylvie. Remò di nuovo e fummo fuori dalla sua portata. L’uomo ci seguí dentro al lago, finché l’acqua non gli arrivò all’orlo degli stivaloni. – Signora! – gridò. – Fa’ finta di niente, – ripeté Sylvie. – Si comporta sempre cosí. Se pensa che qualcuno lo stia osservando, non la smette piú.
Mi girai a guardare Sylvie. Manovrava la barca con forza e disinvoltura. Quando fummo a circa cento metri dalla riva virò verso nord. L’uomo, tornato sulla spiaggia, stava dando sfogo a tutta la sua ira tirandoci sassi. – Fa pena, – disse Sylvie, – un giorno o l’altro gli verrà un infarto.
– Deve essere la sua barca, – insinuai.
Sylvie alzò le spalle. – Oppure è uno di quei mattoidi, – disse. – Non ho certo intenzione di tornare indietro per scoprirlo –. La nostra fuga in extremis, i mocassini inzuppati e l’orlo bagnato del cappotto non la turbavano affatto. Mi ritrovai a chiedermi se era per questo che tornava a casa coi pesci in tasca.
– Non hai freddo, Sylvie?
– Si sta levando il sole, – disse lei. Il cielo sopra Fingerbone era giallo come un fiore. Alcune nubi lunghe e sottili si illuminarono ardendo, del piú tenue dei rosa. Poi il sole lanciò un primo lungo dardo sulla montagna, poi un altro, simile a un insetto dalle lunghe zampe che cerchi di liberarsi dalla sua crisalide, e infine apparve sopra la nera cresta, setoloso, rosso e improbabile. Di lí a un’ora sarebbe stato il sole di sempre, che diffondeva una luce modesta e impersonale sul mondo di sempre, e quel pensiero mi rassicurò. Sylvie continuò a remare, lentamente ma con forza.
– Non ti immagini neanche quante persone vivono quaggiú sulle isole e sulle colline, – disse Sylvie. – Scommetto che ce n’è almeno un centinaio. Se non di piú. Ogni tanto si vede un po’ di fumo nei boschi. E là potrebbe esserci una casetta di legno con dieci bambini.
– E vivono pescando e cacciando?
– Perlopiú sí.
– E tu ne hai mai visto qualcuno?
– Credo di sí, – disse Sylvie. – Talvolta se mi sembra di vedere del fumo cerco di camminare in quella direzione, e ogni tanto sono sicura che ci sono dei bambini intorno a me. Praticamente riesco a sentirli.
– Oh!
– Questo è uno dei motivi per cui tengo sempre i cracker in tasca.
– Capisco.
Sylvie continuò a remare sull’acqua dorata, sorridendo tra sé.
– Ti dirò una cosa. Probabilmente penserai che sono pazza, ma una volta ho provato a catturarne uno –. Si mise a ridere. – No, non con una trappola naturalmente, ho cercato di farlo uscire attirandolo con delle caramelle, solo per vederlo. Che cosa me ne farei di un altro bambino?
– E hai visto qualcuno?
– No. Ho solo attaccato delle caramelle di gelatina ai ramoscelli di uno dei meli, quasi ogni giorno per un paio di settimane. Poi mi nascondevo in un punto riparato: c’è ancora il vano di una porta nascosto laggiú con dei lillà su entrambi i lati. La casa vera e propria è crollata nella fossa della cantina, anni fa, naturalmente. Cosí me ne stavo seduta lí ad aspettare, ma non è mai arrivato nessuno. In fondo è stato un sollievo, un bambino del genere avrebbe potuto graffiare o mordere. Però volevo vederlo lo stesso.
– È lí che stiamo andando adesso?
Sylvie sorrise e annuí. – Adesso conosci anche tu il mio segreto. Forse sarai piú fortunata di me. E poi almeno stavolta non dovremo affrettarci. Era cosí difficile tornare a casa in tempo da te e Lucille.
Sylvie remò con forza, e scivolammo pesantemente sull’acqua tra tonfi e sciaguattii. Sylvie guardò il cielo e non disse altro. Di quando in quando sbirciavo oltre il bordo della barca, nella fosca trasparenza della superficie dell’acqua, annebbiata e grezza come agata. Vidi penne di gabbiano e l’ombra nera dei pesci. L’immagine frammentata di un cielo color giunchiglia si sparse di cresta in cresta sulle onde tondeggianti come la lucentezza si sparge sulla seta, e i gabbiani si alzarono sulle vette del cielo, di un bianco abbagliante fino a quando non restava di loro che un puntino lontano. A est le montagne erano oscurate. A ovest svettavano, in una luce balsamica. L’alba e i suoi eccessi mi ricordavano sempre il paradiso, un posto che sapevo mi sarebbe risultato scomodo. Mi ricordavano i quadri di mio nonno, che ho sempre considerato una sua visione personale del paradiso. Era stato proprio lui a portarci qui, su questo lago aspro, governato dalla luna, trascinandoci dietro di sé ancor prima che nascessimo, come gli infanti che aveva dipinto sul cassettone, le cui tuniche nuotavano in una corrente eterea forse sull’orlo di quel vortice che li avrebbe trascinati giú dal cielo smaltato, laceri e piangenti. I remi di Sylvie creavano dei vortici, dentro i quali affondarono alcune foglie e una piuma che volteggiò in un mulinello. La corrente che ci faceva deviare verso il centro del lago era il risucchio del fiume, e non un vortice, anche se l’ultima migrazione di mio nonno lo aveva deposto sul fondo del lago. Sembrava che la barca di Sylvie scivolasse lungo il fianco occidentale di ogni onda. Se ci fosse stato un vortice, pensai, avremmo girato in tondo senza mai riuscire a toccare riva, e saremmo state trascinate giú, in un mondo piú oscuro, dove altri suoni si sarebbero riversati nelle nostre orecchie finché ci sarebbe parso di riconoscervi delle canzoni, e la vista dell’acqua avrebbe invaso i nostri occhi, e il gusto dell’acqua avrebbe invaso le nostre viscere e sciolto le nostre ossa, e noi avremmo conosciuto le stagioni e le abitudini del luogo come se non ce ne fossero altre. Immaginiamo mio nonno sdraiato da chissà quanti anni nella sua cuccetta di lusso, a guardare la mattina attraverso un finestrino azzurro. Forse ci avrebbe visto e avrebbe pensato che stava di nuovo sognando degli spiriti rubicondi ma senza peso, in un cielo dipinto, che galleggiavano in un elemento impalpabile. E dopo che era passata la nostra ombra forse avrebbe visto la luna illuminata a giorno, lo stampo di una faccia senza mandibole con orbite profonde, e l’avrebbe scambiato per la sua immagine nel vetro. Certo, lui era a miglia di distanza, miglia e miglia piú a sud, ai piedi del ponte.
Finalmente Sylvie riuscí a spingerci verso un’ampia punta che si sporgeva nel lago. Riuscii a vedere che la montagna addossata alle spalle di quella da cui si protendeva la punta aveva un fianco spezzato. La roccia trapelava rosa come una ferita sull’orecchio di un cane. – Da qui puoi vedere dov’è, – disse Sylvie. – Hanno costruito la casa proprio accanto a quel dirupo –. Remò fino a riva e scendemmo dalla barca trascinandola su per la spiaggia. Seguii Sylvie all’interno, parallelamente alla punta.
Le montagne che orlavano la vallata erano troppo vicine, accavallate l’una sull’altra. Le sfuriate dei ghiacciai nei loro lunghi periodi cosmici di lenta violenza avevano lasciato sul terreno un grande disordine. Dalla fessura, o valle, creata dalle montagne, sbucava un margine di terra spugnosa, coperta di boscaglia. La percorremmo lungo il profondo letto ciottoloso creato dallo scorrimento delle acque e dalla pioggia, e lí arrivammo al luogo di cui aveva parlato Sylvie: un orto incolto, i lillà, una soglia di pietra e una casa crollata, tutto sbiancato da un velo di brina. Sylvie mi sorrise: – Carino, vero?
– È carino, ma non capisco come mai qualcuno potrebbe voler vivere qui.
– È molto carino con il sole. Vedrai tra poco.
– Va bene, però non aspettiamo qui, fa freddo.
Sylvie mi lanciò un’occhiata, un po’ sorpresa. – Ma non vuoi restare a vedere se arrivano i bambini?
– Sí, d’accordo.
– Bene, penso che dovresti stare ferma nello stesso posto, cercando di non fare nessun rumore.
– Sí, ma fa molto freddo.
Sylvie alzò le spalle. – È ancora presto –. Tornammo alla spiaggia, e trovammo alcune rocce contro cui potevamo sederci, al riparo dal vento, e di fronte al sole. Sylvie incrociò le caviglie e le braccia. Sembrava sul punto di addormentarsi.
Dopo un po’ dissi: – Sylvie?
Lei sorrise. – Ssssh…
– Dov’è la nostra colazione?
– Ancora in barca. Forse hai ragione. Può essere una buona idea fargli vedere che mangiamo.
Trovai un sacchetto di caramelle gelatinose tra le cose disparate che Sylvie aveva arrotolato in una tovaglia a quadretti e che si era portata dietro per il pranzo. Una banana troppo matura, un pezzo di salame con un coltello piantato dentro, un’unica ala di pollo giallastra come un piccolo gesto elegante di sconfitta, il fondo di un sacchetto di patatine. Strappai il cellofan, tirai fuori le caramelle gelatinose e me ne riempii le tasche. Poi mi sedetti accanto a Sylvie e preparai un piccolo fuoco con la legna depositata dall’acqua sulla riva, trafissi una delle caramelle con un bastoncino e la tenni sulla fiamma finché non prese fuoco. La lasciai bruciare fino a quando non diventò nera come un grumo di carbone, poi ne strappai il gonfio involucro senza peso e lo mangiai, tenendo sulla fiamma la parte cremosa che ancora rimaneva attaccata al bastoncino finché non si incendiava a sua volta, e cosí la mattinata passò.
Sylvie si alzò e si stiracchiò, facendo un cenno d’assenso al sole, che era un sole piccolo, bianco e invernale e stava obliquo allo zenit, benché fosse sicuramente mezzogiorno. – Adesso possiamo provare a salire, – disse Sylvie. La seguii di nuovo fin dentro alla valle e trovai che tutto era cambiato. Era come se la luce avesse indotto una fioritura nella brina, che prima sembrava brulla e disseccata come sale. L’erba brillava di colori pastello, e goccioline d’acqua punteggiavano tutti gli alberi, numerose come petali. – Te l’avevo detto che era bello, – disse Sylvie.
Immaginiamo una Cartagine seminata a sale, e tutti i seminatori scomparsi, mentre i semi giacciono in fondo alla terra, finché un giorno, in vegetale profusione, non crescono foglie e alberi di brina salmastra. Che fioriture potrebbero esserci in un giardino cosí? La luce costringerebbe ogni calice di sale ad aprirsi in prismi, e a fruttificare in luminosi globi d’acqua; le pesche e l’uva sono poco piú di questo, e in un mondo fatto di sale ci sarebbe molto piú bisogno di estinguere la sete. Il bisogno infatti può sbocciare in tutte le compensazioni che richiede. Desiderare ardentemente e avere sono simili tra loro quanto un oggetto e la sua ombra. Perché quando mai un frutto di bosco si rompe sulla lingua con piú dolcezza di quando si muore dalla voglia di assaggiarlo? E quando il gusto si rifrange in infinite sfumature e sapori di frutto maturo e di terra? E quando i nostri sensi conoscono qualcosa piú a fondo di quando quella cosa ci manca? Ed ecco un altro presagio: il mondo diverrà un tutto unico. Poiché desiderare una mano sui capelli è quasi come sentirla davvero. E cosí qualsiasi cosa possiamo perdere, un desiderio disperato ce la restituisce di nuovo. Benché sogniamo senza neppure saperlo, il desiderio intenso, come un angelo, ci rifocilla, ci liscia i capelli, e ci porta fragole selvatiche.
Sylvie era scomparsa. Se n’era andata senza una parola, o un rumore. Pensai che stesse scherzando, e forse mi stesse osservando dal bosco. Finsi di non sapere di essere sola. Capivo perché Sylvie pensava che qui potessero venire dei bambini. Qualsiasi bambino avesse visto una volta come scivolava sulle punte dei rami l’acqua lucente, come rotolava, gocciolava, picchiettava le ombre morbide di brina ai piedi di ciascun albero, sarebbe tornato per rivedere questo spettacolo.
Se ci fosse stata la neve avrei fatto una statua, una donna in piedi sul vialetto, tra gli alberi. I bambini si sarebbero avvicinati per guardarla. La moglie di Lot fu trasformata in arido sale, poiché era piena di rimpianti e di lutto, e si girò a guardare. Ma, qui, fiori rari avrebbero brillato tra i suoi capelli, e sul suo seno, e tra le sue mani, e ci sarebbero stati bambini tutt’intorno a lei, ad amarla e a meravigliarsi della sua bellezza, e a ridere dei suoi stravaganti ornamenti, come se fossero stati loro a disporle i fiori tra i capelli e a gettare tutti i fiori ai suoi piedi, e loro l’avrebbero perdonata senza indugio e generosamente, per essersi girata, anche se lei non chiese mai di esserlo. Pur avendo mani di ghiaccio che non potevano toccarli, per loro sarebbe stata piú che una madre, lei cosí calma, cosí immobile, e loro delle povere creature cosí selvagge e orfane.
Mi allontanai dalla valle e scesi lungo il piccolo fazzoletto di terra al suo ingresso. La spiaggia era vuota e, come al solito, silenziosa. Sylvie doveva essere su alla punta, pensai. Immaginai che stesse nascondendo la barca in un posto piú sicuro. Sarebbe stata una precauzione ragionevole da parte sua, convinta com’era che questi boschi fossero popolati. Mi sedetti su un tronco e fischiettai gettandomi dei sassolini sulle scarpe. Sapevo perché Sylvie sentiva la presenza di bambini nel bosco. La sentivo anch’io, pur non credendolo vero. Rimasi seduta sul tronco a stuzzicarmi la scarpa, perché sapevo che, per quanto velocemente mi fossi girata a guardare indietro, la presenza alle mie spalle non sarebbe stata piú lí, e si sarebbe avvicinata solo quando avessi distolto di nuovo lo sguardo. Anche se mi avesse bisbigliato all’orecchio, come sembrava spesso sul punto di fare, se mi fossi girata non avrei trovato niente. Era dunque una presenza persistente, dispettosa e sgarbata, come lo sono i bambini soli e selvatici. Questa era una cosa che Lucille e io insieme avremmo ignorato, infatti avevo evitato la spiaggia per tutto l’autunno, perché quand’ero per conto mio, e palesemente sola a mia volta, sarebbe stato molto piú difficile non badare a questi dispetti. Avere una sorella o un’amica è come sedere di sera in una casa illuminata. Quelli di fuori se vogliono possono guardarti, ma tu non hai nessun bisogno di vederli. Dici semplicemente: «Questo è il perimetro della nostra attenzione. Se voi strisciate sotto le finestre fino a zittire i grilli, tireremo giú le persiane. Se volete che sopportiamo la vostra invidiosa curiosità, dovete permetterci di non notarla». Chiunque abbia un solido legame umano si compiace di sé in questo modo, ed è proprio questo compiacimento che le persone solitarie agognano e ammirano, oltre al benessere e alla sicurezza. E io ero stata per cosí dire cacciata di casa da abbastanza tempo per aver osservato questo tratto in me stessa. Ora non c’era né una soglia né un davanzale tra me e questi bambini freddi e solitari che respiravano quasi contro la mia guancia e quasi mi sfioravano i capelli. Decisi di tornar su e aspettare Sylvie vicino alla fossa della cantina, dove non poteva fare a meno di trovarmi.
La luce del giorno si era spostata verso la parete orientale della valle e brillava calda sui filari ripidi e irsuti di vecchi alberi neri che crescevano a quelle altitudini. Piú in basso c’erano solo ombra e un vento che soffiava giú verso il lago proprio al livello delle mie ginocchia. I lillà frusciavano rumorosamente. Il gradino di pietra era troppo freddo per sedercisi sopra. A tutta prima mi parve che per me non ci fosse alcun rifugio, quindi mi ficcai le mani in tasca, strinsi i gomiti sui fianchi, e maledissi Sylvie in cuor mio, e questo fu un sollievo perché mi diede qualcos’altro a cui pensare oltre ai boschi. Con un certo sforzo, incominciai a pensare ad altre cose. Se fossi scesa nella fossa della cantina, al riparo dal vento, avrei potuto accendere un fuoco e scaldarmi. Non era cosa che si potesse fare facilmente dato che la cantina aveva accolto le rovine della vecchia casa.
Qualcuno era stato qui a saccheggiare le macerie. La maggior parte delle assicelle di copertura erano state strappate dal tetto e, nel complesso, i pali e le assi che rimanevano ricordavano ben poco la struttura di una casa. La trave di colmo si era spezzata, indubbiamente sotto il peso della neve. Quello probabilmente era stato l’inizio della catastrofe, che da allora era forse continuata per settimane o anni. Avevo sentito di una famiglia che viveva a nord del lago, che era rimasta bloccata dalla neve alta fino alle grondaie finché la casa aveva incominciato a crollare. Avevano usato il tavolo di cucina in verticale per sostenere la trave di colmo nel mezzo, ma il tetto si era staccato dalle pareti a ciascuna estremità, lasciando entrare il vento, e i muri si erano incurvati facendo uscire di squadra le finestre in modo che si erano rotti tutti i vetri. Non avevano che la neve per bloccare tutte queste aperture. Non osavano nemmeno fare un fuoco nella stufa sufficiente a sciogliere dell’acqua da bere, dissero, per paura che la neve, che ormai era tutto ciò che teneva in piedi la casa, diventasse fradicia e smuovendosi la facesse crollare. Pare che in famiglia fossero in diciassette. Si diceva che fossero sopravvissuti infilandosi sotto una catasta di diciannove trapunte e altrettanti tappeti. Si diceva che la madre tenesse sulla stufa un infuso di acqua e aceto, in cui aveva messo le linguette di tutte le scarpe, insieme ai resti delle ciocche di capelli, delle barbe e delle unghie tagliate, e resina di pino e un paio di corna di cervo e un lungo calzascarpe di corno, e si dice che si siano nutriti per tutto il tempo di quell’infuso, versato sulla neve per allungarlo. Ma questa è una parte del mondo dove la gente tende a esagerare le difficoltà e i disagi, non avendo altro di cui parlare.
Le case sulle montagne di Fingerbone in genere erano costruite come questa, con delle assi inchiodate verticalmente a una struttura di legno, e altre assi di legno larghe forse cinque centimetri, inchiodate su ciascuna giuntura per chiudere le fessure. Se la casa incominciava a inclinarsi, gli interstizi si aprivano, i nodi del legno saltavano spesso e volentieri, le intelaiature della finestra crollavano e la porta incominciava a essere difficile da aprire, finché non la si poteva piú chiudere. Immagino che questo tipo di costruzione fosse un’abitudine acquisita in climi piú miti. Non so perché si fossero ostinati ad adottarla, dato che lasciava la gente senza tetto con una frequenza tale da sconcertare persino Fingerbone. E se il tragitto fino al rifugio piú vicino era impraticabile a causa della neve, la famiglia non si vedeva piú finché la neve non si scioglieva. I boschi erano pieni di storie del genere. In realtà le storie erano cosí numerose da far pensare che a un certo punto dovesse esserci stato un esodo massiccio o un massiccio spopolamento, perché ormai c’erano pochissime famiglie nei boschi, persino vicino alla città, davvero troppo poche per giustificare una cosí enorme tribú di antenati, persino di antenati che, come questi, sembravano inclini a occasionali sparizioni collettive.
Dimore abbandonate come questa, comunque, erano rare, pertanto forse tutti i racconti sulla scomparsa dei residenti non erano in fondo che un unico racconto trasmesso in ogni direzione allo stesso modo in cui un grido d’allarme si diffonde tra gli uccelli di bosco fino al cielo. Forse era stata proprio questa casa a popolare tutte queste montagne. Crollando, poteva averli sparpagliati tutti al vento, invisibili come spore, migliaia e migliaia da un unico guscio grigiastro, o milioni, poiché non c’era alcuna ragione per credere che qualcuno avesse mai sentito tutte le storie sui senzatetto che erano rimasti su queste montagne, o che le sentisse mai. E forse è proprio per questo che, vedendomi sola, mi tiravano praticamente per la manica. Forse ve ne sarete accorti anche voi che i passeggeri in attesa, nelle stazioni degli autobus, se capiscono che siete soli, vi lanciano occhiate oblique, con uno sguardo che è al tempo stesso penetrante e intimo, e se li lasciate sedere accanto a voi, vi raccontano bugie interminabili su un gran numero di figli che ormai se ne sono andati uno per uno, e su madri che erano belle e crudeli, e in ogni caso vi raccontano che sono stati abbandonati, delusi, o traditi, e che non dovrebbero essere soli, che solo fatti eccezionali, come quelli che si leggono nei libri, potevano ridurli a una condizione cosí estrema. Ed è per questo motivo che, anche quando le cose che dicono sono vere, hanno gli occhi sfuggenti e le mani che si agitano e la tendenza a un’elaborazione meticolosa, tipica di chi sa che sta mentendo. Poiché, una volta che qualcuno è solo, è impossibile credere che possa mai esser stato altrimenti. La solitudine è una scoperta assoluta. Quando uno guarda dall’interno una finestra illuminata, o guarda il lago dall’alto, vede la propria immagine in una stanza illuminata, la propria immagine tra gli alberi e il cielo – l’inganno è evidente, ma tuttavia lusinghiero. Quando invece uno guarda la luce dall’oscurità, vede in pieno la differenza tra questo e quello. Forse tutta la gente che non ha un riparo ha il cuore pieno d’ira, e vorrebbe tanto rompere un tetto, con assi e travi, e spaccare le finestre e allagare il pavimento, attorcigliare le tende e sfondare il divano.
Incominciai a tirar fuori alcune assi di legno dalla fossa della cantina, nell’angolo davanti a destra. Erano piene di schegge e irte di chiodi, ma io le tirai fuori e le gettai lo stesso per terra dietro di me, come se avessi davvero uno scopo o un’intenzione precisi. Era un lavoro difficile, ma ho notato spesso che è quasi intollerabile essere guardati, osservati, quando si è in ozio. Quando si è in ozio e si è anche soli, l’imbarazzo della solitudine si complica all’infinito. Cosí lavorai fino ad avere i capelli umidi di sudore e le mani scorticate e indolenzite, con una lena che doveva sembrare dettata da una scatenata speranza, o dalla disperazione. Incominciai a immaginare di essere un soccorritore. Il crollo della casa aveva sorpreso dei bambini nel sonno. Ben presto avrei scoperto gli orli delle loro camicie da notte irrigiditi dalla pioggia, e i loro piccoli piedi ossuti, con le dita cadute come petali. Forse ormai era troppo tardi per portare aiuto. Erano rimasti sotto la neve per troppi inverni, questa era la disgrazia. Ma abbandonare ogni speranza sarebbe stato il tradimento finale.
Mi immaginai al posto loro, e non era difficile, perché l’aspetto relativamente solido della casa di mia nonna era ingannevole. Era un’impressione creata dal pianoforte, e dal divano barocco, e dagli scaffali pieni di almanacchi e di libri di Kipling e Defoe. Infatti, nonostante l’impressione di ricchezza e di solidità che queste cose davano, piú realisticamente, erano solo un peso pericoloso su una fragile struttura. Non mi era difficile immaginare il pianoforte che si abbatteva sul pavimento della cantina con un grande strimpellare di corde. Inoltre, la nostra casa non avrebbe dovuto avere un secondo piano, poiché, se fosse crollato mentre dormivamo, noi saremmo cadute a capofitto nel buio, senza sapere altro, forse, se non che i nostri sogni si erano fatti tutt’a un tratto terribili e tutt’a un tratto erano svaniti. Una casa piccola era molto meglio. Si rompeva con grazia, come un baccello maturo o un guscio. E a dispetto delle storie che inventavo, sapevo che non c’era nessun bambino intrappolato in questo misero rudere. Loro erano agili, magri e temprati al freddo, era quasi uno scherzo per loro essere costretti fuori casa nei boschi, anche senza occhi e con i piedi a pezzi. È meglio non avere niente, perché alla fine crolleranno anche le nostre ossa. È meglio non avere niente.
Mi sedetti sull’erba, che era indurita dal freddo, mi misi le mani sul viso, e lasciai che mi si tendesse la pelle, lasciai che i brividi mi increspassero, come acqua smossa dal vento, tra le scapole e il collo. Lasciai che l’erba gelida mi toccasse le caviglie. Pensai, Sylvie è sparita, e tra poco farà buio. Pensai, Che vengano pure a privarmi del rifugio di questa mia carne, e a smantellare questa casa. Ormai non era piú un riparo, non serviva che a tenermi qui da sola, e io avrei preferito essere con loro, se non altro per vederli, anche se loro mi evitavano. Se potessi vedere mia madre, non occorrerebbe che avesse i suoi occhi, o i suoi capelli. Non avrei bisogno di toccarle la manica. L’incurvatura delle sue alte spalle non c’era piú. Il lago quella se l’era presa, lo sapevo. Ormai era passato tanto tempo da quando l’oscurità le aveva inondato i capelli, e non era rimasto niente su cui sognare, ma spesso sgusciava attraverso qualsiasi porta io vedessi con la coda dell’occhio, ed era lei, e non era cambiata, e non era morta. Era una musica che non sentivo piú, che mi squillava in testa, unica e inconfondibile, ormai priva di ogni corporeità, ma non morta, non morta.
Sylvie mi appoggiò una mano sulla schiena. Si era inginocchiata sull’erba accanto a me e io non me n’ero accorta. Mi guardò in faccia e non disse assolutamente niente. Aprí il cappotto e me lo chiuse intorno, infagottandomi, e mi attirò a sé in modo che finii con lo zigomo contro il suo sterno. Ci cullò al ritmo di una canzone lenta che però non cantò e io rimasi ferma immobile contro di lei nascondendo la scomodità e l’imbarazzo in modo che continuasse a stringermi e cullarmi. Mia nonna si dimenticava sempre di avere degli spilli puntati sul davantino del vestito, e soleva stringermi troppo forte tra le braccia, ma anche allora rimanevo immobile contro di lei piú che potevo, perché al minimo segno d’insofferenza mi avrebbe fatto scendere dalle sue ginocchia, scompigliato i capelli, e si sarebbe allontanata.
Per qualche ragione, l’interno del cappotto di Sylvie odorava di canfora. Era un odore abbastanza gradevole, simile a resina di cedro o a incenso, balsamico ed elegiaco. Il suo vestito era di un cotone pettinato forte e spesso, e sopra indossava un pullover di orlon. Il vestito era sicuramente marrone o verde, e il pullover rosa o giallo, ma non potevo vederli. Mi accoccolai tutta contro di lei in modo che il suo cappotto impedisse alla luce di filtrare anche attraverso le mie palpebre. Dissi: – Non ne ho visto neanche uno. Non sono riuscita a vederli.
– Lo so, lo so, – disse lei. Era questa la canzone al cui ritmo mi cullava. Lo so, lo so, lo so. – Un’altra volta, – canterellò, – un’altra volta.
Quando ci alzammo per andarcene, Sylvie si tolse il cappotto e me lo mise addosso. Lo chiuse fino in cima, fino all’ultimo bottone, e mi tirò sulle orecchie il grande bavero maschile. Poi mi circondò le spalle con le braccia e mi guidò verso la spiaggia con estrema premura, come se fossi cieca, o potessi cadere. Sentivo che provava piacere nella mia dipendenza, e piú di una volta si piegò a guardarmi in faccia. La sua espressione era intenta e concentrata, senza ombra di distacco o di pura cortesia. Era come se stesse studiando la propria faccia allo specchio. Mi faceva infuriare che mi avesse lasciata sola cosí a lungo, e che non avesse chiesto scusa né si fosse spiegata. E che, abbandonandomi, si fosse arrogata il potere di elargirmi tanta grazia. Infatti indossavo il suo cappotto come una beatitudine, e le sue braccia intorno a me erano altrettanto confortanti della misericordia, e non avrei detto niente che le facesse allentare la stretta o la facesse allontanare di un solo passo.
La barca era già in acqua, dondolava all’estremità di una corta cima che Sylvie aveva ormeggiato a una grossa pietra. Sylvie la tirò a riva e la orientò in modo che potessi scavalcare il bordo senza bagnarmi i piedi.
Era sera, il cielo risplendeva come un guscio d’uovo illuminato all’interno da una candela. L’acqua era di un grigio traslucido, e le onde erano alte quanto è possibile senza che si rompano. Mi sdraiai di fianco sul fondo della barca, e appoggiai le braccia e la testa sull’asse tutta scheggiata del sedile. Sylvie salí e si sistemò con un piede da una parte e uno dall’altra delle mie gambe. Si rigirò e si allontanò dalla riva con un remo, poi incominciò a piegarsi e spingere, piegarsi e spingere, con una forza che sembrava non implicare alcuna fatica. Io rimasi sdraiata come un seme nel guscio. L’acqua immensa sciabordava con colpi sordi sotto la mia testa, e io sentii che dovevamo la sopravvivenza alla nostra leggerezza, che danzavamo tra rovinose correnti come fanno le foglie secche, e che non venivamo capovolte perché il relitto che ci portava era destinato a cose piú grandi.
Mi trastullavo con il pensiero che potevamo capovolgerci. Era nell’ordine di questo mondo, dopo tutto, che l’acqua penetrasse attraverso le fessure dei gusci, che, per quanto compatti e impermeabili possano essere, sono fatti soltanto per fendersi. Era nell’ordine delle cose del mondo che il guscio cedesse e che io, il germe intorpidito e dormiente, mi gonfiassi e mi espandessi. Mettiamo che l’acqua sormontasse i bordi della barca, e io mi gonfiassi sempre piú fino a squarciare il cappotto di Sylvie. Mettiamo che l’acqua e io insieme trascinassimo sul fondo la barca a remi, e io, miracolosamente, mostruosamente, bevessi acqua da tutti i pori, fino a che l’ultimo buchino nero del mio cervello non fosse che un rivoletto, un gocciolio. E dato che è nella natura dell’acqua riempire e costringere le cose a colmarsi e scoppiare, il mio cranio si gonfierebbe fino all’assurdo e la mia schiena si inarcherebbe contro il cielo e la mia stessa enormità mi premerebbe la guancia con forza contro il ginocchio. Poi, presumibilmente, arriverebbe il parto in qualche forma, ma la mia prima nascita si era meritata a malapena quel nome, quindi perché avrei dovuto sperare di piú da una seconda? L’unica vera nascita sarebbe una nascita finale, che ci liberasse da una tenebra acquosa e dal pensiero della tenebra acquosa, ma è immaginabile una nascita simile? Cos’è il pensiero, dopo tutto, cos’è il sogno, se non nuotare e galleggiare, e le immagini del nuotare e del galleggiare che ne scaturiscono? Le immagini sono la parte peggiore. Sarebbe terribile stare fuori al buio a osservare una donna in una stanza illuminata che studia la sua faccia alla finestra, e tirarle una pietra, rompendo il vetro, e poi guardare il vetro che si ricompone intatto e i lucidi pezzi di labbra e la gola e i capelli rappezzarsi, senza una sola cicatrice, per formare di nuovo quella donna indifferente e sconosciuta. Sarebbe terribile vedere uno specchio spezzato ritornare intatto per mostrare una donna sognante che si raccoglie i capelli. E qui troviamo la nostra grande affinità con l’acqua, perché, come riflessi sull’acqua, i nostri pensieri sono immuni al cambiamento indotto da un trauma, immuni alla deviazione permanente. Si prendono gioco di noi con la loro apparente leggerezza. Se fossero piú corporei, se avessero peso e occupassero spazio, affonderebbero o sarebbero trascinati via dal flusso generale. Ma essi persistono, al di fuori delle rovinose e brusche energie del mondo. Penso che il progetto di mia madre fosse proprio quello di spezzare questa lucida superficie, e inabissarsi sotto di essa dentro al nero piú puro, e invece eccola qui, ovunque si posino i miei occhi, e dietro i miei occhi, intera e in frammenti, un migliaio di immagini di un solo gesto, immagini che non si sono mai disperse, ma riemergono sempre, inevitabilmente, come una donna affogata.
Dormii ai piedi di Sylvie, e a portata delle sue braccia, e talvolta una di noi parlava, e talvolta una di noi rispondeva. C’era una pozza d’acqua sotto l’incavo del mio fianco, ed era quasi calda. – Fingerbone, – annunciò Sylvie. Mi alzai sui talloni. Avevo il collo rigido e il braccio e la mano intorpiditi. C’erano fievoli luci sparpagliate sulla riva, che era ancora a una considerevole distanza. Sylvie era arrivata fino al fianco del ponte e stava lavorando di remi per impedire alla corrente di portarci sotto.
Lo conoscevo bene quel ponte. Partiva dalla spiaggia, a circa dieci metri dalla riva. Conoscevo a memoria i suoi bulloni arrugginiti e i sostegni di ferro incatramati. La struttura era piuttosto rozza, vista da vicino, benché da una certa distanza la sua lunghezza e la vastità del lago la facessero sembrare fragile e inconsistente. Adesso, sotto la luce della luna, si stagliava sopra di noi ed era nerissima, come legno carbonizzato. Naturalmente, fra tanti piloni e travature, le onde sgusciavano, sbattevano e stillavano, insistenti, intime e insinuanti, spadroneggiando come roditori in una casa buia. Sylvie si staccò di qualche metro dal ponte per poi avvicinarsi di nuovo. – Perché restiamo qui, Sylvie? – chiesi. – Per aspettare il treno, – rispose lei. Se le avessi chiesto perché aspettavamo il treno lei avrebbe detto: «Per vederlo». Oppure avrebbe detto: «Perché no?» Oppure: «Visto che siamo qui, tanto vale vederlo passare». La nostra barchetta sobbalzava e rollava, e io ero inorridita dalla liquidità pura dell’acqua sotto di noi. Se avessi scavalcato il fianco della barca, dove avrei posato il piede? L’acqua non è quasi nulla, dopo tutto. Sembra cosí diversa dall’aria solo per la sua tendenza a inondare, ad affondare e ad annegare, e persino questa differenza può essere relativa piú che assoluta.
La mattina che mia nonna non si svegliò, Lucille e io la trovammo raggomitolata sul fianco con i piedi puntellati contro un groviglio di lenzuola e coperte, le braccia buttate in alto, la testa all’indietro, e il codino di capelli di traverso sul cuscino. Era come se, affogando nell’aria, avesse fatto un balzo verso l’etere. Che gioia dovette esplodere tra i pochi funzionari presenti, quanti lanci di cappelli bordati di crespo, quanti calorosi applausi di mani guantate, quando mia nonna proruppe dalla spuma dopo tutto quel tempo, dopo che ne era passato tanto da quando le nubi si erano chiuse sul disastro, da quando si era persa ogni speranza di salvezza. E con quale precipitazione dovettero correrle incontro per avvolgerla con i loro cappotti, e forse abbracciarla, tutti indubbiamente emozionati dal considerevole significato dell’occasione. E mia nonna forse osservò la riva per vedere quanta somiglianza ci fosse tra lo stato di grazia e lo Stato dell’Idaho, e per scrutare la folla crescente alla ricerca di facce familiari.
Sylvie spinse la barca a una certa distanza dal ponte. – Non dovrebbe mancare molto ormai, – disse. La luna brillava luminosa, ma era alle sue spalle, per cui non riuscivo a vedere la sua faccia. La luna era cosí luminosa che offuscava le stelle, e c’era una patina di luce su tutto il lago, a perdita d’occhio. Sotto la luce della luna la barca aveva il colore del legno, proprio come di giorno. Il ponte incatramato era piú nero di quanto non fosse alla luce del giorno, ma solo di un po’. La luce creava una specie di aureola intorno a Sylvie. Vedevo i suoi capelli, anche se non ne distinguevo il colore, le sue spalle, il profilo delle sue braccia e i remi, che agitavano incessantemente frammenti di luce acromatica e priva di immagini. Le luci di Fingerbone avevano incominciato a spegnersi, ma non avevano aggiunto niente alla somma complessiva della luce e pertanto niente avrebbero potuto sottrarle.
– Quanto manca ancora? – chiesi.
– Mmm?
– Quanto manca?
Sylvie non rispose. Cosí me ne restai lí seduta in un silenzio assoluto, avvolta nel suo cappotto. Prese a canticchiare Irene cosí presi a canticchiarla anch’io. Alla fine disse: – Lo sentiremo prima di vederlo. Il ponte tremerà –. Restammo sedute entrambe nel piú assoluto silenzio. Poi ricominciammo a cantare Irene. Tra tenebre e acqua, il vento era aspro e duro, e io desideravo con tutto il cuore di essere altrove, e questo, insieme alla luce della luna, faceva sembrare il mondo vastissimo. Sylvie non aveva coscienza del tempo. Per lei, ore e minuti erano semplicemente i nomi dei treni, noi stavamo aspettando il nove e cinquantadue. Sylvie non appariva né paziente né impaziente, proprio come non sembrava né a suo agio né a disagio. Era semplicemente silenziosa, salvo quando cantava, e immobile, salvo quando remava al largo del ponte. Io odiavo aspettare. Se mai avessi dovuto lamentarmi di qualcosa di preciso, era che la mia vita sembrava fatta interamente di attesa. Io aspettavo un arrivo, una spiegazione, delle scuse. Non erano mai arrivati e avrei potuto adattarmici, non fosse che, proprio quando mi ero abituata ai limiti e alle dimensioni di un momento, venivo catapultata nel successivo e costretta a chiedermi ancora una volta se nella sua ombra non si nascondesse qualche forma. Che tutti i momenti fossero perlopiú identici non toglieva niente alla possibilità che il momento successivo potesse essere completamente diverso. E cosí il quotidiano esigeva attenzione ininterrotta. Qualsiasi ora tediosa poteva essere l’ultima di quel tipo.
– Sylvie, – dissi.
Non rispose.
E ogni momento presente non era che pensiero, e i pensieri, in massa e peso, hanno lo stesso rapporto con l’oscurità da cui nascono, hanno i riflessi dell’acqua su cui scorrono, e sono allo stesso modo arbitrari, o semplicemente già scontati. Chiunque si chini a guardare in uno stagno è la donna dello stagno, chiunque guardi nei nostri occhi è l’immagine nei nostri occhi, e queste cose sono inconfutabilmente vere, e cosí i nostri pensieri riflettono quanto passa davanti a loro. Ma ci sono delle difficoltà. Per esempio, il deragliamento del treno di mio nonno è piú vivido nella mia mente di quanto non lo sarebbe se lo avessi visto (infatti l’occhio della mente non si lascia confondere dall’oscurità), e ancora, la forma senza volto di fronte a me potrebbe essere tanto Helen che Sylvie. L’ho chiamata Sylvie, e lei non ha risposto. E allora come si fa a saperlo? E se ai miei occhi lei fosse Helen, come potrebbe non essere Helen davvero?
– Sylvie! – dissi.
Non rispose.
Ci stavamo di nuovo avvicinando al ponte, eravamo quasi sotto quando le travature incominciarono a ronzare. Sylvie appoggiò il palmo della mano contro un pilone. Il rumore si fece sempre piú forte, e un tremito percorse l’intera struttura. Tutto il lungo ponte era vivo e teso come una colonna vertebrale, risuonava di un unico allarme, e dal rumore non avrei saputo dire da che direzione sarebbe arrivato il treno. Sylvie aveva posato i remi, e sobbalzammo sempre piú in là, sotto il ponte. Sylvie piegò le braccia sulle ginocchia, vi affondò la faccia, e dondolò, dondolò e dondolò, facendo quasi rovesciare la barca.
– Helen, – sussurrai, ma lei non rispose.
Poi il ponte incominciò a rumoreggiare e a tremare come se stesse per crollare. L’impatto esplose e martellò in ogni giuntura. Vidi una luce passare sopra la mia testa come una meteora, poi sentii l’odore di olio bollente, sporco e nero, e sentii il digrignare delle ruote lungo le rotaie. Era un treno lunghissimo.
Sylvie si alzò in piedi. La barca rollò e l’acqua entrò bagnandoci i piedi. Sylvie si girò a guardarsi alle spalle. Mi aggrappai a un pilone per fermare il rollio della barca. La coda del treno passò sopra le nostre teste e filò via veloce. Sylvie si passò le dita tra i capelli e disse qualcosa di inafferrabile.
– Che cosa hai detto? – gridai.
– Niente –. Fece un gesto alla volta del ponte e dell’acqua con il palmo delle mani rivolto in su. Fissò lo sguardo sul lago illuminato dalla luna, lisciandosi i capelli, e nel suo portamento non c’era niente che facesse pensare che si ricordava di essere su una barca. Se ne avesse scavalcato la fiancata, e l’orlo del vestito le si fosse allargato intorno, e lei avesse sollevato le braccia scivolando tra i raggi della luna nel lago invernale, non ne sarei rimasta sorpresa.
– Sylvie, – dissi.
E lei rispose: – Probabilmente non avrei visto molto comunque. Spengono le luci per lasciar dormire la gente. Ero tutta assorta nelle mie fantasticherie, quando di colpo mi sono accorta che l’avevamo sopra la testa. Eppure, quant’era forte il rumore.
– Perché non ti siedi…
Sylvie si sedette, prese i remi e ci allontanammo di nuovo dal ponte. – Il treno dev’essere qui proprio sotto di noi, – disse. Si sporse a guardare nell’acqua. – Molti scendevano dalle colline. Sembrava il Quattro Luglio, solo che la bandiera era nera –. Sylvie rise. Si spostò e guardò dall’altra parte.
Si stava alzando il vento, e la barca doveva affondare pesantemente nel lago, perché avevamo l’acqua alle caviglie. Ne raccolsi un po’ con le mani gettandola oltre la fiancata. Sylvie scosse la testa. – Non c’è niente da temere, – disse. – Niente di cui preoccuparsi. Niente di niente –. Affondò la mano nel lago e lasciò che l’acqua le sgocciolasse dalle dita. – Il lago dev’essere pieno di gente, – disse. – È tutta la vita che ne sento parlare –. Dopo un minuto si mise a ridere. – Puoi scommettere che in treno c’era un sacco di gente di cui nessuno sapeva niente –. La sua mano giocherellò con l’acqua come se non fosse fredda. – Non l’ho mai considerato un furto, – disse pensosamente. – Ti trovi un posto vuoto, dove non dai fastidio a nessuno, che male fai? Non lo sanno nemmeno che sei lí –. Tacque a lungo. – Tutti viaggiavano su quel treno. Era quasi nuovo, sai. De luxe. Nella carrozza di prima classe c’erano i candelieri. Tutti raccontavano di aver viaggiato su quel treno, tutti i miei vecchi amici. Oppure, se non loro, le loro madri, o i loro zii. Era famoso –. Smosse l’acqua con le dita. – Per cui doveva esserci un sacco di gente nei vagoni merci. Chissà quanti erano. E tutti addormentati.
– Non si può mai sapere, – aggiunse.
Notai che all’altezza della caviglia i miei piedi scomparivano in un velo di luce lunare. Quando Sylvie si muoveva o faceva un gesto, la luce si increspava e si copriva di ombre, ma in quel momento Sylvie era sdraiata a prua, con la mano che strascicava nell’acqua. Mi venne da chiedermi se tutta quella luce assieme, vedendola dall’altezza necessaria, avrebbe restituito un’immagine della luna, con tanto di ombre per le orbite e la bocca.
– Non hai freddo, Sylvie? – chiesi.
– Vuoi andare a casa?
– Sí, va bene.
Sylvie prese i remi e cominciò a spingerci verso Fingerbone. – Non riesco a dormire in treno, – disse. – È una cosa che non riesco proprio a fare –. Il vento soffiava da riva e la corrente ci trascinava sempre verso il ponte. Sylvie remava a tutta forza, ma per quel che riuscivo a vedere ci spostavamo a stento. Fingerbone era tutta spenta e i piloni del ponte erano uno uguale all’altro per cui non potevo esserne certa. Ma guardare Sylvie assomigliava molto a sognare, perché il movimento era sempre lo stesso, ed era necessario, e arduo, e improduttivo, e ripetuto, non come parte di una serie di movimenti analoghi, ma ripetuto esso stesso all’infinito perché lí stava il mistero, a saperlo cogliere. Sembrava fossimo ormeggiate al vecchio relitto sul fondo del lago. Era il vento che ci teneva sospese in superficie. Forse sarebbe stato possibile sfuggire alla vista degli occhi vuoti di mio nonno, però lo sforzo era terribile. Sylvie mollò i remi e piegò le braccia, e ancora una volta ci allontanammo, dondolando, dalla riva.
– Fammi provare a remare, – dissi. Sylvie si alzò e la barca oscillò. Io strisciai tra le sue gambe.
Il mio braccio sinistro era sempre stato piú forte del destro. Per ogni due bracciate con entrambi i remi dovevo darne una terza con il remo destro soltanto, finché non abbandonai l’idea di rimanere accanto al ponte. Seguire il ponte era il tragitto piú veloce verso casa, o perlomeno lo sarebbe stato se si fosse verificato un qualche avanzamento, ma visto come stavano le cose lasciai che la corrente ci trascinasse sotto il ponte e verso sud. Il vento era sempre ostinato e la spiaggia inaccessibile. Posai i remi. Sylvie aveva piegato le braccia con la testa china. La sentivo canticchiare. Disse: – Vorrei tanto delle frittelle.
Io dissi: – Vorrei tanto un hamburger.
– Vorrei tanto uno stufato di manzo.
– Vorrei tanto un pezzo di torta.
– Vorrei tanto una pelliccia di visone.
– Vorrei tanto una coperta elettrica.
– Non dormire, Ruthie. Io non voglio assolutamente addormentarmi.
– Neanch’io.
– Allora cantiamo.
– D’accordo.
– Pensiamo a una canzone.
– D’accordo.
Restammo in silenzio, ascoltando il vento. – Che giornata, – disse Sylvie. Poi si mise a ridere. – Un tempo conoscevo una donna che lo diceva sempre. Che giornata. Che giornata. Sembrava cosí triste detto da lei.
– Dov’è adesso?
– E chi lo sa? – Sylvie rise. La luna si stava eclissando dietro una montagna, e la notte stava diventando nera. Sylvie aveva incominciato a canticchiare tra sé una canzone che non conoscevo, e ogni momento era identico all’altro, salvo che a volte ci giravamo, e talvolta un’onda colpiva la fiancata della barca.
– Avremmo potuto ormeggiare la barca al ponte, – disse Sylvie. – Almeno saremmo rimaste vicino alla città, e non ci saremmo perse.
– E perché non l’hai fatto?
– Non importa. La conosci Sparrow in the Tree Top?
– Non ho voglia di cantare.
Sylvie mi diede un colpetto sulle ginocchia. – Puoi dormire se vuoi, – disse. – Stai tranquilla, non farà nessuna differenza.
Finí che, allo spuntar del sole, ci ritrovammo vicino alla sponda occidentale del lago, e ancora in vista del ponte. Sylvie remò fino a riva, mettemmo la barca in secco e ci arrampicammo fino alla superstrada dirigendoci verso la ferrovia. Io sonnecchiai sulle rocce mentre Sylvie aspettava un treno diretto a est. Dopo molto tempo arrivò un merci, e rallentò con cosí tanta cautela prima del ponte che riuscimmo ad arrampicarci dentro a un vagone senza molta difficoltà. Era mezzo pieno di casse di legno e odorava di olio e di paglia. C’era una vecchia donna indiana seduta in un angolo con le ginocchia rannicchiate e le braccia tra le ginocchia. Aveva la pelle molto scura salvo che per una chiazza albina sulla fronte che l’aveva dotata di un ciuffo di capelli incolore e di un sopracciglio bianco. Era avvolta in un polveroso scialle viola frangiato come un copripianoforte. Ci osservò succhiando le frange dello scialle.
Sylvie rimase in piedi sulla porta, a guardar fuori in direzione del lago. – È carino oggi, – disse. Imponenti nubi bianche, panciute come cherubini, navigavano nel cielo, e il cielo e il lago erano di un elegante azzurro. Si può immaginare che al culmine del Diluvio Universale, quando il globo era una palla d’acqua, fosse venuto il giorno in cui il divino si mosse a pietà e la moglie di Noè aprí le persiane su una mattinata destinata a riflettere una natura enormemente buona. Possiamo immaginare che il Diluvio fosse tutto un increspato scintillio, e le nubi, cambiata la legge, fossero puramente ornamentali. È vero, le acque erano piene di gente, la storia la sappiamo fin dall’infanzia. La signora alla finestra deve aver desiderato di trovarsi con le madri e con gli zii, tra quella danza di ossa, non essendo certo un mondo umano quello, lí nella luce fatua, ad ammirare le nubi paffute. Guardando verso il lago si poteva credere che il Diluvio Universale non fosse mai finito. Se uno è perso sull’acqua, qualsiasi collina è Ararat. E al di sotto è tutto il passato che si è andato accumulando, che svanisce ma non svanisce, che perisce e rimane. Forse la moglie di Noè, ormai vecchia, si sarà imbattuta da qualche parte nella coda del Diluvio, forse vi si sarà immersa finché il suo vestito vedovile non avrà galleggiato sopra la sua testa e l’acqua non le avrà sciolto le trecce dei capelli. Allora avrà lasciato ai suoi figli il compito di tramandare la tediosa storia delle generazioni. Era una donna senza nome e pertanto di casa tra tutti coloro che non erano mai stati trovati e non erano mai stati rimpianti, tra coloro che non erano stati commemorati, e le cui morti, come pure le nascite, erano passate inosservate.
La vecchia dall’angolo mi lanciava oblique occhiate insistenti. Si ficcò un lungo dito in fondo alla bocca per tastarsi un dente. Poi disse. – Si sta facendo grande.
Sylvie rispose: – È una brava ragazza.
– Si dice sempre cosí –. La vecchia mi strizzò l’occhio.
E cosí ticchete-tac viaggiammo sull’acqua fino a Fingerbone, e Sylvie e io scendemmo nel deposito delle carrozze.
Poi ci incamminammo verso casa. Eravamo in uno stato pietoso. Ma il disordine totale dei miei abiti era completamente nascosto dal cappotto di Sylvie, le cui maniche mi arrivavano oltre la punta delle dita, e l’orlo fin sopra le caviglie. Sylvie si pettinò i capelli con le dita, poi si strinse nelle spalle e assunse un’espressione di offesa dignità. – Non farci caso se ci fissano, – disse.
Attraversammo la città. Sylvie tenne lo sguardo a dieci centimetri sopra il livello degli occhi, ma in realtà nessuno ci fissò anche se molti ci lanciarono delle timide occhiate, per poi girarsi a guardare una seconda volta. All’emporio passammo vicino a Lucille e alle sue amiche, anche se Sylvie sembrò non accorgersene. Lucille era vestita come tutte le altre ragazze, in felpa, jeans rimboccati e scarpe da ginnastica, e ci seguí con lo sguardo, le mani piantate nelle tasche. Io pensai che non avrei dovuto attirare troppo l’attenzione, sapendo l’importanza che Lucille ormai dava alle apparenze, per cui mi limitai a scivolare via come se non mi fossi accorta che mi aveva visto.
Fu un sollievo quando arrivammo in Sycamore Street, anche se i cani si precipitarono fuori dalle verande con le orecchie appiattite e si misero ad abbaiarci contro con una ferocia che non avevo mai visto. – Fa’ finta di niente, – disse Sylvie. Raccolse un sasso. Questo sembrò eccitarli ancor di piú. Sulle verande uscí della gente e si mise a gridare: – Qui, Jeff –. E: – A cuccia, Brutus –. Ma i cani non sentivano ragioni. Per tutto il tragitto lungo la strada fummo circondate da bastardi frenetici che si slanciavano verso le nostre caviglie. Modellai la mia indifferenza su quella di Sylvie.
Quando finalmente arrivammo a casa, Sylvie preparò un fuoco e ci sedemmo accanto alla stufa. Sylvie trovò dei biscotti e dei fiocchi di cereali, ma eravamo troppo stanche per mangiare, cosí lei mi accarezzò la testa e se ne andò a sdraiarsi nella sua stanza. Ero quasi addormentata, o forse del tutto, quando Lucille entrò in cucina e si sedette sulla seggiola di Sylvie. Non disse niente. Tirò su un piede per riallacciarsi la scarpa da ginnastica e si guardò intorno in cucina, poi disse: – Vorrei che ti togliessi quel cappotto.
– Ho i vestiti bagnati.
– Allora dovresti cambiarti.
Ero troppo stanca per muovermi. Lei prese della legna dalla veranda e la buttò nella stufa.
– Non importa, – disse Lucille. – Dove siete state?
Ora, io l’avrei anche detto a Lucille, e avevo ogni intenzione di dirglielo, appena fossi riuscita a riordinare i miei pensieri. Incominciai a dire, Al lago, e Al ponte, ma sentivo con tutto il cuore che Lucille si meritava una risposta migliore. In realtà desideravo raccontare a Lucille dove eravamo state esattamente. E fu proprio il senso di importanza che attribuivo al racconto che le avrei fatto che mi fece addormentare. Infatti seguitai a sognare che Sylvie e io vagavamo nel buio, e non sapevamo dove eravamo, oppure Sylvie lo sapeva e non voleva dirmelo. Sognai che il ponte era uno scivolo che finiva nel lago e che, uno dopo l’altro, dei bei treni lucidi scivolavano nell’acqua senza neanche turbarne la superficie. Sognai che il ponte era la struttura di una casa carbonizzata, e che Sylvie e io cercavamo i bambini che ci abitavano, e benché li udissimo, non riuscivamo a trovarli. Sognai che Sylvie mi stava insegnando a camminare sott’acqua. Per muoversi cosí lentamente erano necessarie pazienza e grazia, ma lei mi trascinava dietro di sé in un lentissimo valzer, e i nostri abiti fluttuavano come le tuniche di angeli dipinti.
Sembrava che Lucille mi stesse parlando. Penso che mi abbia detto che non c’era bisogno che io rimanessi con Sylvie. Credo che abbia accennato al mio benessere. Stava tormentando una piega sul ginocchio dei suoi jeans, e aveva la fronte contratta e gli occhi molto calmi, e sono sicura che mi abbia parlato con sobria gentilezza, ma io non riuscii a sentire una parola di quel che disse.