Capitolo primo

Mi chiamo Ruth. Sono stata allevata, insieme a mia sorella piú piccola, Lucille, da mia nonna, Mrs Sylvia Foster, e quando lei morí, dalle sue cognate, Miss Lily e Miss Nona Foster, e quando loro scapparono via, da sua figlia, Mrs Sylvia Fisher. Siamo passate da una generazione all’altra, ma abbiamo sempre vissuto nella stessa casa, la casa della nonna, costruita per lei da suo marito, Edmund Foster, un impiegato delle ferrovie che lasciò questo mondo molti anni prima che io ci entrassi. Fu lui che ci relegò quaggiú in questo posto inverosimile. Era cresciuto nel Midwest, in una casa scavata nella terra, con le finestre esattamente a livello del suolo ed esattamente a livello dell’occhio, in modo che dall’esterno la casa sembrava solo un tumulo, piú simile a una tomba che a un’abitazione umana, e dall’interno la perfetta orizzontalità del mondo in quel posto tracciava cosí rigorosamente la prospettiva che l’orizzonte sembrava circoscrivere quella zolla di casa e nient’altro. Cosí mio nonno incominciò a leggere tutto quel che riusciva a trovare in fatto di viaggi, diari di spedizioni sulle montagne dell’Africa, sulle Alpi, le Ande, l’Himalaya, le Montagne Rocciose. Comprò una scatola di colori e copiò da una rivista la riproduzione di un dipinto giapponese del monte Fuji. Dipinse anche molte altre montagne, nessuna delle quali identificabile, ammesso che qualcuna esistesse davvero. Erano tutte a forma di morbidi coni o cunette, solitarie, o a mucchi, a grappoli, verdi, marroni o bianche, a seconda della stagione, ma sempre con cime innevate, cime che erano rosa, bianche o d’oro, a seconda dell’ora del giorno. In un grande quadro aveva messo in primissimo piano una montagna a forma di campana e l’aveva coperta di alberi dipinti meticolosamente, ciascuno dei quali spuntava ad angolo retto dal suolo, come il pelo ritto sulle pieghe di un tessuto peluche. Ogni albero era carico di frutti multicolori, e uccelli vivaci si annidavano nei suoi rami, e ogni frutto e uccello seguiva la curvatura della terra. Vi si potevano scorgere bestie dalle dimensioni spropositate, maculate e a strisce, che correvano senza rallentare su per il fianco destro della montagna e senza accelerare scendevano giú per il fianco sinistro. Non riuscii mai a decidere se la genialità di questo quadro fosse dovuta all’ignoranza o alla fantasia.

Una primavera mio nonno lasciò la sua casa sotterranea, andò alla stazione, e prese un treno verso ovest. Disse al bigliettaio che voleva andare verso le montagne, e lui fece in modo di farlo scendere qui, e non fu uno scherzo maligno, e forse neanche uno scherzo, dal momento che qui le montagne ci sono, sono innumerevoli, e dove non ci sono montagne ci sono colline. Il terreno su cui sorge la città è relativamente piano, dato che un tempo apparteneva al lago. Sembra ci sia stata un’epoca in cui le dimensioni delle cose si modificavano, creando delle differenze sorprendenti, per esempio quella tra le montagne come dovevano essere e le montagne come sono adesso, il lago com’era una volta e il lago com’è adesso. Certe primavere capita che il vecchio lago ritorni. Si apre la porta della cantina e ci si trova di fronte a stivali galleggianti dalle unte suole capovolte, ad assi e secchi che sbattono contro la soglia, mentre la scala scompare al di sotto del secondo gradino. La terra trabocca, il terreno diventa fango e poi acqua melmosa, e l’erba è immersa in acqua gelida fino alla punta dello stelo. La nostra casa era al limitare della città su una collinetta, per cui era raro che in cantina avessimo piú di una pozzanghera nera, con qualche insetto scheletrico che ci slittava intorno. Nel frutteto si formava uno stretto stagno, acqua chiara come l’aria che copriva erba e foglie nere e rami caduti, tutt’intorno altre foglie nere ed erba fradicia e rami caduti, e sopra, lieve come l’immagine in un occhio, il cielo, le nubi, gli alberi, le nostre facce librate nell’aria e le nostre mani fredde.

Quando raggiunse la sua fermata, mio nonno aveva già un lavoro in ferrovia. Pare che fosse stato appoggiato da un capotreno la cui influenza era molto piú che comune. Il lavoro non era granché. Faceva il guardalinee, o forse il segnalatore. Andava a lavorare al calar della sera e restava in giro fino all’alba, munito di una lampada. Ma era un lavoratore ligio e industrioso, e pertanto destinato a far carriera. Nel giro di dieci anni sovrintendeva al carico e scarico dei treni merci e dei carri bestiame e dopo altri sei era diventato capostazione in seconda. Aveva questo posto da due anni, quando, al suo ritorno da un viaggio d’affari a Spokane, la sua carriera mortale e lavorativa terminò in uno spettacolare deragliamento.

Benché venisse riportato dai giornali fino a Denver e St. Paul, l’incidente, strettamente parlando, non fu spettacolare, perché nessuno vi assistette. Il disastro si verificò nel bel mezzo di una notte senza luna. Il treno, che era nero, affusolato ed elegante, e si chiamava Palla di Fuoco, era già oltre la metà del ponte quando la locomotiva si capovolse puntando verso il lago e il resto del convoglio la seguí scivolando nell’acqua come una donnola che cade da una roccia. Un facchino e un cameriere che se ne stavano sulla piattaforma sul retro della carrozza di servizio a discutere di questioni personali (erano lontani parenti) sopravvissero, ma non furono in sostanza dei veri testimoni, per il valido motivo che l’oscurità era impenetrabile per qualsiasi occhio e che, inoltre, stavano in coda al treno, rivolti all’indietro.

La gente scese fino al bordo dell’acqua portando delle lampade. La maggior parte si fermò sulla riva dove, dopo un po’, accese un falò. Ma qualcuno dei ragazzi piú alti e degli uomini piú giovani si spinse sul ponte ferroviario con funi e lanterne. Due o tre si coprirono di grasso nero e si imbrigliarono nelle funi, e gli altri li calarono nell’acqua nel punto in cui il facchino e il cameriere pensavano si fosse inabissato il treno. Dopo due minuti controllati su un cronometro, le funi vennero tirate di nuovo e i tuffatori si issarono a gambe rigide su per i pali di sostegno, vennero liberati dalle corde e avvolti nelle coperte. L’acqua era pericolosamente fredda.

Fino all’alba i subacquei si calarono dal ponte e vi risalirono, da soli o tirati su a braccia. Una valigia, il cuscino di un sedile e un cespo di lattuga fu tutto ciò che recuperarono. Alcuni di quelli che si erano immersi ricordavano di essere passati accanto a dei detriti mentre scendevano nell’acqua, che però dovevano essersi inabissati ulteriormente, o la corrente li aveva portati via nelle tenebre. Quando fu abbandonata ogni speranza di trovare dei passeggeri, non restava piú niente da salvare, non c’erano che quei tre resti, uno dei quali deperibile. Allora si incominciò a pensare che, dopo tutto, non era quello il punto in cui il treno era precipitato dal ponte. Ci si interrogò su come poteva essersi mosso il treno nell’acqua. Era affondato come un sasso a dispetto della sua velocità, o era scivolato come un’anguilla a dispetto del suo peso? Se pure era uscito dalle rotaie in quel punto, forse era arrivato a fermarsi trenta metri piú in là. O magari poteva essere rotolato o scivolato dopo aver toccato il fondo, dato che i sostegni del ponte erano piantati sulla cima di una catena di colline sommerse, che su un lato formavano la parete di una grande valle (c’era un’altra catena di colline venti miglia piú a nord, alcune delle quali erano isole), e dall’altra parte precipitavano a strapiombo. A quanto pare queste colline erano le sponde di un altro lago ancora, ed erano fatte di una pietra friabile che, corrosa dall’acqua, si era spaccata in tante falesie. Se il treno fosse precipitato verso il lato sud (la testimonianza del facchino e del cameriere era in questo senso, ma ormai veniva concesso loro ben poco credito) per poi scivolare o capovolgersi una o due volte, sarebbe potuto precipitare di nuovo, molto piú in basso e molto piú in là.

Dopo un po’ alcuni dei ragazzi piú giovani salirono sul ponte e incominciarono a tuffarsi, sulle prime cauti e poi quasi di slancio, con grida di paura. Quando si levò il sole, le nubi assorbirono la luce come una macchia. Diventò ancora piú freddo. Il sole si levò piú alto, e il cielo divenne abbagliante come latta. La superficie del lago era assolutamente immobile. I piedi dei ragazzi colpivano l’acqua, con il suono lieve di una spaccatura. Schegge di ghiaccio trasparente oscillavano allora sulle onde sollevate dai loro movimenti e, quando l’acqua tornava calma, si ricomponevano come frammenti di un riflesso. Uno dei ragazzi nuotò per una decina di metri al largo del ponte e poi si immerse nel vecchio lago, facendosi strada a tentoni lungo la parete sommersa, seguendo la pietra cieca e soffocante, a testa in giú, e poi spingendosi coi piedi. Ma, al pensiero di dove si trovava, all’improvviso si spaventò, e balzò verso l’aria, sfiorando, mentre lo faceva, qualcosa con la gamba. Allora allungò il braccio e la sua mano si posò su una superficie perfettamente liscia, parallela al fondo, ma, pensò lui, piú alta di almeno tre metri. Un finestrino. Il treno era affondato sul fianco. Non riuscí ad arrivarci una seconda volta. L’acqua lo riportò su. Disse che solo quella superficie liscia, tra tutte le cose che aveva toccato, non era ricoperta di alghe né patinata da una nube di sostanze molli, come melma. Questo ragazzo era un fantasioso bugiardo, un ragazzo solitario con un desiderio sconfinato di rendersi benaccetto. La sua storia non fu né creduta né smentita.

Una volta che fu tornato verso il ponte, che vi fu issato ed ebbe raccontato agli uomini dove era stato, l’acqua stava ormai diventando sporca e opaca, come cera rappresa. Volarono delle schegge quando tornò a galla un nuotatore, e la membrana che si era formata dove il ghiaccio era spezzato apparve nuova, lucida e nera. Tutti i nuotatori rientrarono. Entro sera il lago, in quel punto, aveva sigillato la sua superficie.

Questa catastrofe lasciò tre nuove vedove a Fingerbone: mia nonna, e le mogli di due fratelli che gestivano un negozio di merceria. Queste due anziane signore vivevano a Fingerbone da almeno trent’anni, ma se ne andarono, una a vivere con una figlia sposata nel North Dakota e l’altra a cercare qualche amico o parente a Sewickley, in Pennsylvania, da dove se n’era andata subito dopo le nozze. Dissero che non potevano piú vivere accanto al lago. Dissero che il vento ne portava l’odore, e che ne sentivano il sapore nell’acqua potabile, e che non ne potevano piú sopportare l’odore, e il sapore e la vista. Non aspettarono la cerimonia commemorativa né l’erezione della lapide, quando decine e decine di persone in lutto e spettatori occasionali, guidati da tre funzionari della ferrovia, si spinsero fin sul ponte tra due ringhiere montate per l’occasione, e lanciarono delle corone di fiori sul ghiaccio.

È vero che a Fingerbone si sente sempre la presenza del lago, o quella dei suoi abissi, o la mancanza di luce e di aria delle acque profonde. Quando il terreno è arato in primavera, tagliato e spalancato, che cosa esala dai solchi se non lo stesso acuto odore acquoso? Il vento è acquoso, e tutte le pompe, i ruscelli e i fossi hanno un odore di acqua scevra di qualsiasi altro elemento. Alla base c’è il vecchio lago, che è sepolto, senza nome, e completamente nero. Poi c’è Fingerbone, il lago delle mappe e delle fotografie, che è permeato dalla luce del sole e nutre una vita verde e pesci innumerevoli, e le cui acque si possono guardare all’ombra di un pontile per vedere un fondo di sassi o di terra, piú o meno come si vede il terreno asciutto. E sopra questo, c’è il lago che si alza in primavera e fa diventare l’erba scura e dura come le canne. E sopra questo ancora c’è l’acqua sospesa nella luce del sole, pungente come il fiato di un animale, che trabocca dentro questo cerchio di montagne.

Pare che mia nonna non avesse preso in considerazione l’idea di andarsene. Aveva vissuto tutta la sua vita a Fingerbone, e benché non ne parlasse mai, e indubbiamente ci pensasse di rado, era una donna religiosa. Vale a dire che concepiva la vita come una strada lungo la quale uno viaggia, una strada abbastanza facile attraverso un paese ampio, e dove il punto d’arrivo di ciascuno è segnato fin dall’inizio, a una distanza determinata, e si rivela alla luce normale come una casa semplice in cui uno entra e viene accolto da gente rispettabile che lo conduce in una stanza dove è riposto tutto ciò che ha perso o rimandato, in attesa del suo arrivo. Accettava l’idea che a un certo punto lei e mio nonno si sarebbero incontrati e avrebbero ripreso la loro vita in comune, senza preoccupazioni economiche, in un clima piú mite. Sperava che lui, in un modo o nell’altro, avesse acquisito un po’ piú di stabilità e di buonsenso. Nel suo caso queste caratteristiche non si erano manifestate come effetto dell’età, e mia nonna non aveva molta fiducia in questa metamorfosi. A renderle amara la morte del marito, dato che lei aveva una casa e una pensione, e che le figlie erano quasi grandi, era la sensazione che fosse stata una specie di defezione, per di piú non del tutto imprevista. Quante volte si era svegliata la mattina e aveva scoperto che lui se n’era andato? O capitava che per giorni interi si aggirasse per casa cantando tra sé con un filo di voce, e parlando a lei e alle figlie come un uomo estremamente educato parlerebbe a degli estranei. E adesso era sparito del tutto. Quando si fossero riuniti, sperava che l’avrebbe trovato cambiato, sostanzialmente cambiato, ma non era pronta a giurarci. Cosí meditando, si fece carico della propria vedovanza, e tutto sommato divenne tanto brava come vedova quanto lo era stata come moglie.

Dopo la morte del padre, le ragazze cominciarono a ronzarle attorno, a osservare tutto quello che faceva, a seguirla in giro per casa, a starle sempre fra i piedi. Molly aveva sedici anni quell’inverno; Helen, mia madre, ne aveva quindici; e Sylvie tredici. Quando la madre si metteva a sedere con i suoi rammendi, loro si sistemavano intorno a lei sul pavimento, cercando di mettersi comode, con le teste appoggiate alle ginocchia o alla poltrona, irrequiete come bambine piccole. Strappavano le frange del tappeto, le pieghettavano l’orlo della gonna, talvolta se le suonavano di santa ragione, mentre parlavano, indolenti, della scuola, o svisceravano le interminabili lamentele e accuse che nascevano tra loro. Dopo un po’ accendevano la radio e incominciavano a spazzolare i capelli di Sylvie che erano folti, di un castano chiaro e le arrivavano fino alla vita. Le ragazze piú grandi erano esperte nell’acconciarglieli alla pompadour con dei riccioletti sulle orecchie e sulla nuca. Sylvie, a gambe incrociate, leggeva delle riviste. Quando le veniva sonno saliva nella stanza a fare un pisolino, e scendeva a cena con i suoi bellissimi capelli tutti arruffati e scomposti. Niente riusciva a indurla alla vanità.

Quando veniva l’ora di cena, seguivano la madre in cucina, preparavano la tavola, toglievano i coperchi dalle pentole. Poi si sedevano e mangiavano insieme, Molly ed Helen schizzinose, Sylvie sporcandosi la bocca di latte. Persino allora, nella cucina luminosa con le tende bianche che schermavano il buio di fuori, la madre le sentiva protese verso di lei, a guardare la sua faccia e le sue mani.

Era da quando erano piccolissime che non le stavano tanto addosso, e da allora non le era piú capitato di accorgersi dell’odore dei loro capelli, della loro morbidezza, del loro respiro, della loro spontaneità. Questo la riempiva di una strana euforia, le dava lo stesso piacere che aveva provato quando ciascuna di loro, da poppante, le aveva piantato gli occhi in faccia allungando una manina verso l’altro seno, verso i suoi capelli, le sue labbra, ansiosa di toccare, impaziente di essere nutrita per poi dormire.

Aveva sempre conosciuto mille modi di circondarle di grazia, per come la intendeva. Conosceva mille canzoni. Il suo pane era tenero e le sue gelatine aspre e, nelle giornate di pioggia, preparava biscotti e composta di mele. D’estate teneva le rose in un vaso sopra il pianoforte, rose enormi, spinose, e quando i boccioli raggiungevano la loro pienezza e i petali cadevano, li metteva in un alto vaso cinese, con chiodi di garofano, timo e bastoncini di cannella. Le sue bambine dormivano tra lenzuola inamidate sotto strati di trapunte, e la mattina le sue tende si riempivano di luce come le vele si riempiono di vento. Loro l’abbracciavano e la toccavano come se fosse appena tornata dopo un’assenza. E non perché temessero che sarebbe svanita come aveva fatto il loro padre, ma perché dopo l’improvvisa scomparsa di lui si erano accorte di lei.

Dopo un po’ che era sposata, era arrivata alla conclusione che l’amore era in buona parte una forma di desiderio che il possesso non riusciva affatto a mitigare. Una volta, quando erano ancora senza figli, Edmund aveva trovato un orologio da tasca sulla spiaggia. La cassa e il cristallo erano intatti, ma tutto il resto era quasi consumato dalla ruggine. Lui aprí l’orologio e lo svuotò, e dove c’era stato il quadrante infilò un cerchietto di carta su cui aveva dipinto due cavallucci marini. Glielo regalò come pendente, con una catena, ma lei non lo indossò quasi mai perché la catena era troppo corta per permetterle di guardare i cavallucci marini. Temeva di rovinarlo portandolo alla cintura o in tasca. Per una settimana forse portò l’orologio con sé dovunque andasse, perfino dall’altra parte della stanza, e non perché gliel’avesse fatto Edmund, o perché il disegno fosse meno vivace o ingenuo di quanto lo fossero di solito tutti i suoi disegni, ma proprio per via dei cavallucci marini, perché erano cosí arcuati, cosí antichi e araldici, e corazzati in un guscio da insetti. Erano proprio i cavallucci marini che aveva voglia di guardare anche subito dopo averne distolto gli occhi; desiderava vederli persino mentre li stava guardando. Quel desiderio non veniva mai meno finché qualcosa, un litigio, una visita, non spostava altrove la sua attenzione. Allo stesso modo le sue figlie la toccarono, la osservarono e la seguirono, per un po’.

Talvolta gridavano di notte, piccole grida esili che non le svegliavano mai. Il rumore si interrompeva appena lei incominciava a salire le scale, anche pianissimo, e quando arrivava nelle loro stanze le trovava tutte tranquillamente addormentate, mentre la fonte del grido si nascondeva nel silenzio, come un grillo. La sua venuta era sufficiente a far tacere la creatura.

Gli anni tra la morte di suo marito e la partenza da casa della figlia piú grande furono, di fatto, anni di serenità quasi perfetta. Mio nonno talvolta aveva parlato di delusione. Con la sua scomparsa loro furono liberate dalla problematica possibilità del successo, del riconoscimento, del miglioramento. Non avevano ragioni per guardare avanti, e niente da rimpiangere. Le loro vite scorrevano con il rapido roteare del filo attorno all’arcolaio, ora di colazione, ora di cena, tempo di gigli, tempo di mele. Se il paradiso doveva essere questo mondo purgato di ogni scossa o fastidio, se l’immortalità doveva essere questa vita fermata a mezz’aria, e se questo mondo purgato e questa vita che non consumava si potevano considerare come un mondo e una vita restituiti alla loro vera natura, non c’è da meravigliarsi che cinque anni sereni e privi di eventi abbiano cullato mia nonna nella dimenticanza di quanto non avrebbe mai dovuto dimenticare. Sei mesi prima di andarsene, Molly era già completamente cambiata. Era diventata profondamente religiosa. Suonava inni al pianoforte, e imbucava corpose lettere a società missionarie, nelle quali includeva i resoconti della sua recente conversione e le copie di due lunghe poesie, una sulla resurrezione e l’altra sulla marcia delle legioni di Cristo attraverso il mondo. Io ho visto queste poesie. La seconda parla con molto fervore dei pagani, e specialmente dei missionari: «… vengono gli angeli e fanno rotolare | La lapide che chiude quella tomba».

Nel giro di sei mesi Molly si era organizzata per andare in Cina, a lavorare per un’associazione missionaria. E proprio mentre Molly percuoteva l’aria con Beulah Land e Noi possiamo, oh Signore, mia madre, Helen, sedeva in giardino a chiacchierare seria e sommessa con un certo Reginald Stone, il nostro padre putativo. (Non ho nessunissimo ricordo di quest’uomo. Ho visto due fotografie che lo ritraggono, entrambe scattate il giorno del suo secondo matrimonio. Era un tipo pallido con i capelli neri e lisci, apparentemente a suo agio nel completo scuro. Sembrava che non si considerasse il soggetto di nessuna delle due fotografie. In una sta guardando mia madre, che parla con Sylvie, che dà le spalle alla macchina fotografica. Nell’altra sembra stia lisciando le ammaccature sulla calotta del suo cappello, mentre mia nonna, Helen e Sylvie sono in piedi accanto a lui, in fila, e guardano la macchina fotografica). Sei mesi dopo che Molly era partita per San Francisco e da lí per l’Oriente, Helen aveva messo su casa a Seattle con questo Stone, che a quanto pare aveva sposato nel Nevada. Mia nonna, disse Sylvie, rimase molto offesa dalla fuga e dal matrimonio fuori dello Stato, e scrisse a Helen per dirle che non l’avrebbe mai considerata autenticamente sposata finché non fosse venuta a casa e non si fosse risposata sotto gli occhi di sua madre. Helen e suo marito arrivarono in treno con un baule pieno di vestiti nuziali, una scatola di fiori e dello champagne conservato nel ghiaccio secco. Non ho motivi per immaginare che mia madre e mio padre siano mai stati ricchi, per cui ne devo dedurre che avessero fatto non pochi sacrifici per lenire i sentimenti di mia nonna. Eppure, secondo Sylvie, non passarono nemmeno ventiquattr’ore a Fingerbone. Comunque, i rapporti vennero in qualche modo ricuciti, perché poche settimane dopo Sylvie, con tanto di cappotto, cappello e scarpe nuove, coi guanti migliori di sua madre, e borsa e valigia, partí per Seattle in treno, per andare a trovare la sorella sposata. Aveva un’istantanea che la ritraeva mentre salutava dallo sportello della carrozza, snella, giovane e molto perbene. Per quel che ne so, Sylvie tornò a casa soltanto una volta, per mettersi in posa, come aveva fatto Helen, nel giardino di mio nonno, e sposare un tale di nome Fisher. A quanto pare, non venne scattata alcuna istantanea di questo evento.

Un anno mia nonna aveva tre figlie silenziose e l’anno dopo la casa era vuota. Le sue ragazze erano silenziose, dovette pensare, perché le usanze e le abitudini della loro vita le avevano quasi liberate del bisogno di parlare. Sylvie beveva il caffè con due zollette di zucchero, a Helen piaceva il pane ben tostato, e Molly lo preferiva senza burro. Queste eran cose note. Molly rifaceva i letti, Sylvie puliva la verdura, Helen lavava i piatti. Queste eran cose stabilite. Di quando in quando Molly frugava in camera di Sylvie alla ricerca di libri non restituiti alla biblioteca. Ogni tanto Helen faceva un’infornata di biscotti. Era Sylvie che portava in casa mazzi di fiori. Questa quiete perfetta si era stabilita in casa loro dopo la morte del padre. Quell’evento aveva sconvolto la sostanza stessa delle loro vite. Tempo, aria e luce portarono ondate e ondate di trauma, finché tutto il trauma non si esaurí, e tempo e spazio e luce ridivennero immobili e nulla parve piú tremare, e nulla parve piú piegarsi. Il disastro era svanito nel nulla, come il treno stesso, e se la calma che lo seguí non fu piú grande della calma che l’aveva preceduto, l’impressione fu comunque quella. E la normalità si ricompose senza alcuna cicatrice come un’immagine sull’acqua.

Un giorno mia nonna deve aver portato fuori un cesto di lenzuola da stendere sotto il sole primaverile, vestita vedovilmente di nero, eseguendo il rituale della consuetudine come un atto di fede. Diciamo che il suolo era ricoperto da cinque o sei centimetri di vecchia neve indurita, con la terra che affiorava qua e là nelle spaccature, che c’era calore nella luce del sole, quando il vento non lo soffiava tutto via, e diciamo che lei si fermò, senza fiato nel suo corsetto, a sollevare un lenzuolo zuppo e diciamo che quando ne ebbe puntati tre angoli al filo il lenzuolo incominciò a ondeggiare e a saltarle tra le mani, a sbattere e a tremare, e a risplendere di luce, e che gli spasimi di quella cosa erano cosí giulivi e forti che sembrava che uno spirito stesse ballando nel suo sudario. «Che razza di vento!» deve aver detto la nonna, perché le spingeva l’orlo del cappotto contro le gambe e le faceva volare ciocche di capelli. Scendeva giú attraverso il lago e aveva un odore dolce di neve, e un odore stantio di neve sciolta, che ricordava quei piccoli fiori, radi ed esili, che lei e Edmund facevano miglia per raccogliere, benché appassissero nel giro di un giorno. Talvolta Edmund portava paletta e secchiello e li prendeva con terra e radici per portarli a casa e piantarli, e loro invece morivano. Erano cose rare, e crescevano grazie ai formicai e allo sterco di orso e alla carne decomposta degli animali. Lei e Edmund si arrampicavano fino a coprirsi di sudore. Le mosche cavalline li seguivano e il vento li raggelava. Dove la neve si era ritirata, capitava che vedessero i resti di un porcospino, denti qui, coda là. Il vento era acido di neve stantia e di morte, di aghi di pino e di fiori di campo.

Nel giro di un mese quei fiori sarebbero sbocciati. Nel giro di un mese tutta la vita in letargo e la decomposizione interrotta sarebbero ricominciate daccapo. Nel giro di un mese non si sarebbe sentita in lutto, perché in quella stagione non le era mai sembrato che fossero sposati, lei e il silenzioso metodista Edmund che portava cravatta e bretelle persino per cogliere fiori di campo, e che da un anno all’altro ricordava esattamente dove crescevano, e che intingeva il fazzoletto in una pozzanghera per avvolgere i gambi, e che le porgeva il gomito per aiutarla nei punti ripidi e rocciosi, con una cortesia silenziosa e impersonale di cui lei non si offendeva perché non aveva mai veramente desiderato sentirsi sposata a nessuno. Talvolta immaginava un uomo molto bruno con rozze strisce dipinte sul viso e sulla pancia incavata, e una pelle d’animale legata intorno ai fianchi, e pendenti d’ossa alle orecchie, e zanne e ossa e piume e tendini e pelli a ornargli le braccia, la gola e le caviglie, mentre con l’intero corpo si proclamava piú pericoloso di tutta la morte di cui indossava i trofei. Edmund era un po’ cosí. Il nascere della primavera risvegliava in lui un’agitazione seria, mistica, e lo rendeva dimentico di lei. Raccoglieva gusci d’uovo, l’ala di un uccello, l’osso di una mandibola, i frammenti cinerei di un nido di vespe. Li fissava, con la piú assoluta attenzione, poi se li metteva in tasca, dove teneva il coltello a serramanico e le monete. Li fissava come se potesse leggerli, e li intascava come se potesse possederli. Questa è la morte, qui nella mia mano, questa è la rovina qui nel taschino, dove tengo i miei occhiali da lettura. In momenti del genere era altrettanto dimentico di lei che delle sue bretelle e del suo metodismo, ma ciononostante era allora che lei lo amava di piú, come un’anima tutta sola, non diversa in questo dalla sua.

Cosí, il vento che scuoteva il suo lenzuolo le annunciò la resurrezione della consuetudine. Ben presto sarebbe spuntato il cavolo, e l’odore di sidro avrebbe aleggiato nell’orto, e le ragazze avrebbero lavato, inamidato e stirato i loro abiti di cotone. E ogni sera avrebbe portato una sua familiare stranezza, e i grilli avrebbero cantato per tutta la notte, sotto le sue finestre e ovunque in quel nero territorio selvaggio che si stendeva in ogni direzione a partire da Fingerbone. E lei avrebbe provato quell’acuta solitudine che aveva provato in tutte le lunghe serate sin da quando era bambina. Era il tipo di solitudine che faceva sembrare gli orologi lenti e rumorosi, e ovattava le voci come se arrivassero attraverso l’acqua. Le donne vecchie che aveva conosciuto, prima sua nonna e poi sua madre, in queste serate si dondolavano sulle verande e cantavano canzoni tristi, e non desideravano che venisse loro rivolta la parola.

E ora, per confortarsi, mia nonna non si sarebbe messa a riflettere sulla crudeltà delle sue figlie, o dei figli in generale. Aveva notato molte volte, sempre, che le facce delle sue ragazze erano dolci, serie, introverse e calme quando le guardava, proprio come erano state da bambine, proprio come erano adesso quando dormivano. Se nella stanza c’era un amico o un’amica, le figlie li osservavano intensamente e li tormentavano, li adulavano o li canzonavano, e ciascuna di loro era in grado di giudicare e di reagire al loro piú lieve cambiamento di espressione o di tono, perfino Sylvie, se decideva di farlo. Ma non venne mai loro in mente di imitarla nelle parole e nei modi, e lei non voleva che lo facessero. In realtà, era spesso pungolata o frenata dal pensiero di salvare questa loro inconsapevolezza. Allora era una donna autorevole, non solo a causa della sua altezza e del suo viso largo e ben delineato, non solo a causa della sua educazione, ma anche perché si confaceva al suo scopo essere quel che appariva, in modo che le sue figlie non ne rimanessero mai sconcertate o sorprese, e assumere tutte le pose e gli atteggiamenti della matrona, per differenziare la sua vita dalle loro, in modo che le sue figlie non la sentissero mai come un’infiltrata. Il suo amore per loro era totale ed equo, la sua guida generosa e assoluta. Era costante come la luce del giorno, e voleva passare inosservata quanto la luce del giorno, proprio per contemplare la calma introversa delle loro facce. Che effetto faceva. Una sera d’estate uscí in giardino. La terra tra i filari era leggera e morbida come cenere, pallida argilla gialla, e gli alberi e le piante erano rigogliosi, di un verde consueto e pieni di confortanti fruscii. E sopra la terra pallida e gli alberi vivaci, il cielo era del blu cupo della cenere. Mentre si inginocchiava tra le zolle udí l’altea rosata sbattere contro il muro del capanno. Si sentí sollevare i capelli sul collo da un vento rapido e acquoso, vide gli alberi riempirsi di vento e sentí i loro tronchi scricchiolare come alberi maestri. Affondò una mano sotto una pianta di patate e tastò guardinga le patate novelle nella loro asciutta rete di radici, lisce come uova. Se le mise nel grembiule e tornò verso la casa pensando, cosa ho visto, cosa ho visto. La terra e il cielo e il giardino, non come sono sempre. E vide le facce delle figlie non come erano sempre, o come erano le facce dell’altra gente, e rimase silenziosa, schiva e attenta, per non far fuggire quella stranezza. Non aveva mai insegnato loro a essere gentili con lei.

Passarono un totale di sette anni e mezzo tra la partenza di Helen da Fingerbone e il suo ritorno, e per tornare scelse infine una domenica mattina, quando sapeva che sua madre non sarebbe stata a casa, e si fermò solo il tempo necessario a sistemare Lucille e me sulla panchina della veranda schermata dai vetri, con una scatola di biscotti per prevenire litigi e chiasso.

Forse per un senso di delicatezza mia nonna non ci chiese mai della nostra vita con nostra madre. Forse non era curiosa. Forse era cosí offesa dalle reticenze di Helen che persino adesso si rifiutava di riconoscerle. Forse non desiderava apprendere per via indiretta quello che Helen non aveva voluto dirle.

Se me lo avesse chiesto, avrei potuto raccontarle che vivevamo in due stanze all’ultimo piano di un alto edificio grigio, dove tutte le finestre (ce n’erano cinque, e una porta con cinque file di piccoli riquadri di vetro) si affacciavano su uno stretto ballatoio bianco, l’ultimo di una grande impalcatura di scalini e di verande bianchi, fissi e intricati come una cascata d’acqua gelata sul fianco di una scogliera, granulosa e grigiastra come sale secco. Da questo ballatoio guardavamo su ampi tetti di carta catramata stesi, di grondaia in grondaia, come tristi tendoni su mucchi di merce imballata, su pomodori e rape e polli, e su granchi e salmoni, e su una pista da ballo con un juke-box che incominciava a suonare Sparrow in the Tree Top e Goodnight, Irene ancor prima di colazione. Ma di tutto questo, dalla nostra favorevole posizione, vedevamo soltanto le sommità simili a tende. I gabbiani si appollaiavano tutti in fila sulla ringhiera del nostro ballatoio e scrutavano l’orizzonte in cerca di rifiuti.

Dato che tutte le finestre erano su un solo lato, le nostre stanze erano luminose quanto il giorno, in prossimità della porta, e diventavano piú scure man mano che uno se ne allontanava. Sulla parete in fondo all’ultima stanza c’era una porta che si apriva su un corridoio ricoperto di moquette, e che non venne mai aperta. Era bloccata, in realtà, da un enorme divano verde cosí pesante e informe che sembrava fosse stato ripescato da dieci metri sott’acqua. Due poltrone color gesso gli erano state messe accanto a formare un angolo per la conversazione. Due anatre di ceramica in rilievo spiccavano il volo sulla parete. Quanto al resto della stanza, conteneva un tavolino da gioco rotondo coperto da una cerata a scacchi, un frigorifero, una credenzina azzurra, un tavolinetto con sopra un fornello e un lavandino con una tendina di tela cerata. Helen ci legava una corda da bucato in vita e la fissava alla maniglia della porta, un espediente che ci dava il coraggio di guardare giú dal ballatoio, anche quando il vento era forte.

Bernice, che abitava sotto di noi, era l’unica persona che ci facesse visita. Aveva labbra color lavanda, capelli arancioni e sopracciglia arcuate, ciascuna disegnata con un’unica linea marrone, una sfida tra la pratica acquisita e il morbo di Parkinson che talvolta allungava la riga fino all’orecchio. Era una donna vecchia, ma riusciva a sembrare una donna giovane, con una malattia devastante. Si piantava sulla nostra porta per un certo numero di ore, con la lunga schiena arcuata e le braccia incrociate sulla pancia sferica, a raccontare storie scandalose a bassa voce, consapevole che Lucille e io non avremmo dovuto sentirle. Durante tutti questi racconti i suoi occhi erano spalancati dallo stupore resuscitato dal ricordo, e di quando in quando rideva e pungolava il braccio di mia madre con gli artigli color lavanda. Helen stava appoggiata allo stipite della porta, sorrideva al pavimento, e si attorcigliava i capelli.

Bernice ci amava. Non aveva un’altra famiglia, eccetto il marito, Charley, che sedeva sulla sua veranda con le mani sulle ginocchia e la pancia che gli ricadeva in grembo, con la carne maculata come una salsiccia, e le vene spesse che gli pulsavano sulle tempie e sul dorso delle mani. Risparmiava le sillabe come a risparmiare il fiato. Ogni volta che scendevamo per le scale si piegava lentamente verso di noi e gridava: «Ehi!» A Bernice piaceva portarci della crema pasticcera, che era coperta da una pellicola gialla e spessa e galleggiava in un liquido copioso di una consistenza gelatinosa. Helen vendeva cosmetici in un emporio, e Bernice badava a noi mentre lei era a lavorare benché Bernice stessa lavorasse tutta la notte come cassiera in un bar per camionisti. Il suo modo di badare a noi era cercare di dormire di un sonno abbastanza leggero da svegliarsi al primo sentore di un litigio violento, di giochi che comportassero la distruzione di mobili, o alle ambasce di un avvelenamento casalingo. Questa strategia funzionava abbastanza bene, anche se a volte Bernice si svegliava in preda a un allarme senza nome, correva su per le scale in camicia da notte e senza sopracciglia, e picchiava i pugni sulle nostre finestre, mentre noi eravamo sedute tranquille a cena con nostra madre. Queste interruzioni del suo sonno non le risultavano affatto meno fastidiose in quanto autogenerate, tuttavia ci voleva bene per amore di mia madre.

Bernice si prese una settimana di vacanza in modo da poterci prestare la sua macchina per una visita a Fingerbone. Quando venne a sapere da Helen che sua madre era ancora viva, incominciò a incitarla ad andare a casa per un po’, ed Helen, con sua grande soddisfazione, alla fine si lasciò persuadere. Il viaggio si dimostrò fatale. Helen guidò oltre le montagne, attraverso il deserto e poi ancora in mezzo alle montagne, proseguí fino al lago e, dopo aver varcato il ponte che portava in città, girò a sinistra al semaforo imboccando Sycamore Street e poi ancora dritta per altri sei isolati. Mise le nostre valigie sulla veranda, popolata da un gatto e da una lavatrice matronale, e ci disse di star lí buone ad aspettare. Poi risalí in macchina e si diresse a nord quasi fino a Tyler, dove si buttò dall’alto di una scogliera che si chiamava Whiskey Rock, nella Ford di Bernice, dentro la piú nera profondità del lago.

Partirono le ricerche per trovarla. Nel raggio di cento miglia venne dato l’allarme perché si cercasse una giovane donna con un’automobile che io ricordavo azzurra e Lucille verde. Alcuni ragazzi che avevano appena finito di pescare e non sapevano niente della ricerca in corso l’avevano incontrata seduta a gambe incrociate sul tetto della macchina, che si era impantanata nel prato tra la strada e la scogliera. Dissero che fissava il lago mangiando fragole selvatiche, che quell’anno erano prodigiosamente grosse e abbondanti. Helen aveva chiesto loro molto gentilmente di aiutarla a spingere l’automobile fuori dalla melma, e i ragazzi erano stati tanto solleciti da mettere coperte e cappotti sotto le ruote per facilitarle il compito. Quando erano riusciti a riportare la Ford in strada lei li aveva ringraziati, aveva dato loro il suo portafogli, aveva abbassato i finestrini posteriori, e messo in moto la macchina, aveva girato il volante tutto a destra, e rombando aveva attraversato il prato a zig-zag finché non era riuscita a buttarsi dall’alto della scogliera.

Mia nonna passò un certo numero di giorni nella sua camera da letto. Si fece portare dal salotto una poltrona e uno sgabello per i piedi, li fece sistemare davanti alla finestra che guardava sul frutteto, e se ne rimase seduta lí anche per i pasti. Non aveva nessuna voglia di muoversi. Di lí poteva sentire, se non proprio tutte le parole di una conversazione, perlomeno le voci della gente in cucina, la gentile e formale accolita di amici e partecipanti al lutto che si era stabilita in casa sua per occuparsi delle cose. I suoi amici erano molto vecchi, appassionati di pasticcini e di partite a pinnacolo. A gruppi di due o tre si offrivano di badare a noi, mentre gli altri giocavano a carte al tavolo di cucina. Venivamo portate a spasso da vecchi nervosi e autoritari che, per tenerci vicino a loro e lontano dal flusso di un improbabile traffico, ci mostravano monete spagnole, e orologi, e coltelli a serramanico in miniatura con numerose lame utili per qualsiasi evenienza. Un’esile vecchia signora di nome Ettie, che aveva un incarnato del colore di un fungo velenoso e la memoria cosí logorata da renderle impossibile recitare le preghiere, e che sedeva sorridendo tra sé sulla veranda, una volta mi prese per mano e mi raccontò che a San Francisco, prima dell’incendio, aveva vissuto vicino a una cattedrale, e nella casa di fronte viveva una signora cattolica che teneva sul balcone un enorme pappagallo. Quando suonavano le campane la signora usciva con uno scialle sopra la testa e si metteva a pregare, e il pappagallo pregava insieme a lei, la voce della donna e la voce del pappagallo, andavano avanti cosí, mescolandosi, tra clamore e clangore. Dopo un po’ la donna si era ammalata, o quantomeno aveva smesso di uscire sul suo balcone, ma il pappagallo era ancora lí, e fischiettava e pregava e apriva la coda a ventaglio ogni volta che suonavano le campane. L’incendio si era portato via la chiesa con le sue campane e senza dubbio anche il pappagallo, e con molta probabilità la signora cattolica. Ettie liquidò il tutto con un gesto della mano e fece finta di dormire.

Per cinque anni mia nonna si occupò di noi con molta cura. Si occupò di noi come uno che riviva una lunga giornata in sogno. Benché sembrasse distratta, credo che, come in sogno, sentisse qualcosa di piú delle pressioni della situazione presente, con un’attenzione intensificata e allo stesso tempo confusa da una consapevolezza che quel presente era già passato e aveva avuto le sue conseguenze. In verità, deve esserle parso di esser tornata a rivivere quella lunga giornata perché era lí che qualcosa era andato perso o era stato dimenticato. Lucidava le scarpe, ci faceva le trecce, friggeva il pollo e disfaceva i letti, poi all’improvviso si spaventava al ricordo che le figlie chissà come erano scomparse, tutte quante. Come era successo? Come avrebbe potuto saperlo? E lucidava scarpe e faceva trecce e disfaceva letti come se reinscenare la consuetudine fosse sufficiente a renderla di nuovo nient’altro che una consuetudine, o come se cosí potesse trovare la crepa, la pecca nella sua vita qualsiasi, serena e ordinata, o quantomeno riconoscere l’avvertimento che le sue tre ragazze sarebbero scomparse con la stessa irrevocabilità con cui era scomparso il loro padre. E cosí, quando sembrava distratta o assente, in realtà penso che recepisse fin troppe cose, non avendo alcun principio per isolare quelle piú importanti da quelle che lo erano di meno, e che la sua consapevolezza non potesse mai venire meno perché era proprio fra le cose che aveva considerato familiari che questo disastro aveva preso forma.

E poteva anche sembrare che fosse dotata solo degli strumenti piú fragili e inappropriati alle situazioni d’emergenza. Una volta, ci raccontò che aveva sognato di aver visto un bambino cadere da un aereo e aveva cercato di acchiapparlo con il grembiule, e che un’altra volta ancora aveva cercato di ripescare un bambino da un pozzo con un colino da tè. A Lucille e a me badava con cura scrupolosa e ben poca fiducia, come se sperasse che le sue offerte di monetine e biscotti al cioccolato potessero tenere noi, e i nostri spiriti, qui nella sua cucina, sapendo al tempo stesso che poteva darsi di no. Sua madre, ci raccontò, conosceva una donna che, quando guardava fuori dalla finestra di notte, vedeva spesso i fantasmi di bambini piangere per strada. Questi bambini, che erano neri come la pece e completamente nudi e che ballavano per il freddo e si asciugavano le lacrime con il dorso della mano, morti di fame, consumavano molte delle sostanze della donna e occupavano gran parte dei suoi pensieri. La donna metteva fuori dalla porta scodelle di zuppa, che venivano mangiate dai cani, e coperte, che la mattina erano velate di rugiada e assolutamente intatte. I bambini continuavano a succhiarsi le dita e a tremare dal freddo come sempre, ma lei pensava di avergli in qualche modo fatto piacere perché divennero piú numerosi e si presentarono sempre piú spesso. Quando sua sorella le fece notare che la gente pensava che fosse piuttosto strano mettere fuori la cena tutte le notti perché la mangiassero i cani, lei rispose molto sensatamente che chiunque avesse visto quei poveri bambini avrebbe fatto esattamente la stessa cosa. Talvolta mi sembrava che mia nonna vedesse le nostre anime nere ballare in un gelo senza luna e ci offrisse delle torte di mele belle gonfie come gesto di benevolenza e di disperazione.

Ed era vecchia. Mia nonna non era una donna incline a eccessi di alcun tipo, cosí la vecchiaia fu per lei piuttosto sconcertante. È vero, era dritta, vispa e lucida mentre la maggior parte dei suoi amici ciondolavano la testa, facevano discorsi confusi o affondavano nelle sedie a rotelle o nei letti. Ma negli ultimi anni continuò a incurvarsi e a rimpicciolire. La sua bocca si protese in avanti e la fronte scivolò indietro, mentre il cranio faceva capolino, rosa e lentigginoso, tra una lieve nebbia di capelli che le aleggiavano intorno al capo come il ricordo di una forma antica. Sembrava che l’aura d’umanità la stesse abbandonando, mentre andava trasformandosi in una scimmia. Le sue sopracciglia divennero simili a viticci e sulle labbra e sul mento le spuntarono peli bianchi e duri. Quando indossava un vecchio vestito il corpetto sembrava vuoto e l’orlo della gonna spazzava il pavimento. I cappelli dei giorni andati le cadevano sopra gli occhi. Talvolta si copriva la bocca con la mano e rideva con gli occhi chiusi e le spalle sussultanti. Fin dai primi ricordi che ho di lei, mia nonna era già avanti con gli anni. Ricordo che sedevo sotto l’asse da stiro, che scendeva a ribaltina dal muro della cucina, mentre lei stirava le tende del salotto bisbigliando Robin Adair. Intorno a me cadeva un velo dopo l’altro, inamidato, bianco e fragrante, e io immaginavo di essere nascosta o protetta da un chiostro, e osservavo il cordone del ferro da stiro che oscillava, e contemplavo le grandi scarpe nere di mia nonna, e le sue gambe con le calze di un marrone-arancio, prive di contorni e di muscolatura come due ossa spesse. Fin da allora era già vecchia.

Poiché mia nonna aveva una piccola rendita ed era proprietaria della sua casa, traeva sempre una certa soddisfazione nel prevedere il momento in cui il suo semplice destino privato si sarebbe intersecato con il grande processo pubblico della legge e della finanza, ovvero il momento della sua morte. Tutte le sue abitudini, gli schemi e le proprietà che si erano istituite intorno a lei, gli assegni mensili della banca, la casa in cui aveva vissuto fin da quando c’era arrivata come sposa, il frutteto infestato dalle erbacce che circondava su tre lati il cortile dove durante la sua vedovanza, anno dopo anno, erano cadute mele, albicocche e prugne sempre piú piccole e piene di vermi, tutte queste cose all’improvviso sarebbero divenute denaro liquido, capace di assumere nuove forme. E tutto sarebbe stato di Lucille e mio.

– Vendete gli orti, – diceva, con aria grave e saggia, – ma abbiate cura di tenere la casa. Finché baderete alla vostra salute, e avrete un tetto sopra la testa, sarete assolutamente al sicuro, a Dio piacendo –. Mia nonna amava parlare di queste cose. Quando lo faceva, scorreva con lo sguardo i beni che aveva accumulato senza pensarci e aveva conservato per abitudine con la stessa passione con cui sarebbe venuta a reclamarli.

Le sue cognate, Nona e Lily, sarebbero venute a occuparsi di noi quando fosse arrivato il momento. Avevano dodici e dieci anni meno di mia nonna e, vecchia com’era, lei continuava a considerarle piuttosto giovani. Erano quasi rovinate finanziariamente, e la possibilità di risparmiare sull’affitto, per non parlare dei vantaggi di passare da una stanzetta d’albergo sotto il livello del suolo a una casa circondata da peonie e da cespugli di rose, sarebbero stati abbastanza allettanti da farle restare con noi finché non fossimo state maggiorenni.