IX
IL DIAVOLO
Paura, abisso
«Se vuoi ti spiego» ripeté lui.
Io me ne stavo immobile con la schiena dritta contro la spalliera di ferro del letto, incapace di muovere un muscolo.
Lui venne verso di me e più si faceva vicino più il freddo mi attraversava la spina dorsale, diffondendosi come un veleno lungo tutte le vene.
Nella mia testa urlavo: “Non avvicinarti! Vai via!”, ma come negli incubi più spaventosi non riuscivo a pronunciare quelle parole. E non era solo la paura ad ammutolirmi, ma anche la sensazione che se non lo avessi più rivisto una parte di me, una parte enorme di me, avrebbe perso la possibilità di essere felice. Per sempre. Era una cosa così strana, eppure quella sensazione mi penetrava nelle ossa, che quasi scricchiolavano sotto il peso di quella rivelazione.
Non avevo ancora avuto modo di vederlo a così poca distanza. Il freddo che adesso avvertivo non era più una semplice impressione dovuta alla paura; i brividi erano reali, come la condensa del mio respiro, che usciva dalle labbra schiuse per lo stupore.
Sembrava zoppicasse, ma non riuscivo a staccare gli occhi dal suo viso, che ora mi appariva bellissimo alla luce dell’alba e che mi fece vergognare dei miei denti non perfettamente allineati e delle occhiaie che dovevo sicuramente avere per via della notte insonne. Mi sentii bruttissima ed era un pensiero talmente sciocco in quel momento, ma ormai non avevo più il controllo della mia mente: era tutto così pazzesco da sfuggire a ogni tentativo di dare un senso alle cose e il bisogno di controllo che aveva guidato ogni mia azione non si era semplicemente allentato, si era dissolto. Per la prima volta notai il naso spruzzato di lentiggini che, come briciole di biscotti al cacao, erano sparse anche sulle guance. Sembrava un bambino, ma anche molto più vecchio di quanto desse a vedere, come se sulle spalle avesse millenni di vita.
Era a un passo dal mio letto, sul quale sedette facendomi sussultare. Avevo la sensazione che se si fosse avvicinato di più mi sarei dissolta e forse un po’ lo aveva capito, perché si fece pericolosamente vicino e nonostante il freddo che emanava dal suo corpo sentivo dentro di me un calore rovente che mi faceva girare la testa. Mi sorrise e, nel farlo, mi guardò distrattamente la bocca, uno sguardo dato per caso che mi procurò una serie di emozioni come mai ne avevo provate fino ad allora. Non aveva peso, il materasso non aveva ceduto sotto la pressione del suo corpo, ma non me ne resi conto subito, ero troppo impegnata a combattere la paura e la rabbia di vederlo ancora lì e di essere stato capace di aver tirato fuori quella marea di emozioni che con cura avevo cercato di tenere chiuse dentro di me dalla morte della nonna. Non potevo permettergli di entrare così prepotentemente nella mia stanza, né nella mia vita; la sua presenza era un ago che qualcuno mi conficcava nella pelle suscitando terrore e insieme gioia e gratitudine. Cosa mi stava succedendo? Chi era? E chi ero io?
«Vattene via» riuscii a sibilare a denti stretti, anche se un’altra parte di me cui mi rifiutavo di dare voce lo implorava di rimanere.
«Non posso» disse lui con un tono di amara tristezza.
«Che vuol dire che non puoi? Vattene via, ho detto!»
Si passò una mano fra i capelli e quel gesto mi riscaldò il cuore, dissipando il gelo che avvertivo in tutto il corpo.
«Non so come spiegartelo… Non ci sono parole per spiegarlo, capisci? Credo che l’unico modo sia dartene una dimostrazione. Mi prometti che non urlerai?»
Come facevo a promettere una cosa del genere? Volevo urlare con tutte le mie forze. Tuttavia annuii, lui si alzò e andò verso il muro dove c’era la gabbia di Manolo.
«Dimmi almeno come ti chiami» dissi con un filo di voce, come se non avessi dovuto rivederlo mai più.
«Arturo» rispose senza voltarsi, quindi si avvicinò alla parete e vi scivolò dentro con la naturalezza con cui un dito affonda nella marmellata e scomparve lasciando il vuoto dietro di sé.
Quel ragazzo dagli occhi infernali era passato attraverso il muro della mia camera.
Ed era svanito nel nulla.
Quello che rimaneva, dentro quella stanza, era il rumore dei miei denti che battevano, la sensazione dei peli che si rizzavano. Manolo mi fissava, preoccupatissimo. Forse, io e quell’animale avevamo da dirci molte più cose di quanto avessi creduto in un primo momento.
Arturo ricomparve dalla porta come un qualsiasi essere umano, anche se ormai mi era evidente che non lo era.
«Capisci perché era impossibile spiegarti?» mi disse con aria colpevole.
Non sapevo cosa rispondere; fra poche ore sarei dovuta entrare in classe, il primo giorno di scuola in un posto nuovo dove avrei dovuto sforzarmi di farmi andare bene qualsiasi cosa e, dopo una notte insonne e spaventosa, adesso avevo a che fare con un ragazzo capace di attraversare i muri che aveva gli occhi più tristi e belli che avessi mai visto.
Come potevo spiegare tutto questo? Come la mia testa avrebbe potuto giustificare un essere umano che era entrato in un muro? Ero disarmata, non potevo più appellarmi a niente.
Non avevo nessuna voglia di vestirmi e uscire, affrontare il freddo e gli estranei. Avrei voluto rimanere lì tutta la mattina, ascoltare quello che Arturo aveva da dirmi perché, pensavo, doveva pur esserci una spiegazione logica. Come una sciocca, pensai che sarebbe stato incredibile raccontare tutte quelle vicende a mia nonna e per un attimo scordai che era morta. Ma quando quella certezza mi assalì scacciando l’entusiasmo, piombai nella tristezza più nera.
Arturo mi fissava in silenzio.
«Puoi chiedermi tutto quello che vuoi» disse.
Non sapevo da dove iniziare. Mi guardai attorno, quasi cercassi suggerimenti.
Tentennai.
«Sei un fantasma?»
Il suo silenzio mi tenne col fiato sospeso; desideravo moltissimo che rispondesse di no, sarebbe stato tutto più semplice.
Alzò le spalle.
«Immagino si chiamino così i Non Vivi, giusto?» mi rispose con un’altra domanda e la cosa non mi piacque per niente.
«Sei morto?» Feci quella domanda senza neanche pensare alla gravità della cosa, sarebbe stato troppo soffermarmi a pesare quelle parole.
Lo sguardo che mi rivolse mi fece tenerezza.
«Mi credi se ti dicessi che non lo so?»
Gli credevo.
La sua voce era profonda e al tempo stesso lieve, confermandomi ancora una volta che tutto in lui era una contraddizione.
«Tu puoi leggermi i pensieri?» chiesi infine, spaventata da quella che avrebbe potuto essere la risposta.
Lui sorrise. «Vorrei farlo» disse. «Sarebbe bello. Ma no. Non leggo i pensieri, né i tuoi né quelli di nessun altro.»
Fui di colpo alleggerita. Sarebbe stato davvero molto imbarazzante se avesse potuto sapere quello che avevo in testa, perché ciò che continuava a danzarmi dentro come un demonio impossibile da placare era il desiderio irrefrenabile di andargli vicino, sentire la sua consistenza, toccare le sue lentiggini. Come potevo provare un’attrazione così forte per qualcuno che nemmeno esisteva? Il mio corpo era attirato dal suo, ma il mio era fatto di carne, il suo… non avrei saputo dire. Cosa potevamo dirci, io e Arturo? E qual era il mio ruolo nella sua vita, perché era venuto da me?
Queste erano le domande che avrei voluto fargli, o almeno partire da quelle. Ma erano quasi le sette ormai, dovevo prepararmi per andare a scuola.
Il pensiero che al mio ritorno avrebbe potuto non esserci più mi diede una punta di delusione; ero sicura che ci sarei rimasta male se non lo avessi più rivisto. Se stavo cominciando a fare pace con la paura che la sua presenza mi incuteva, c’era un altro sentimento che si faceva largo in me, qualcosa di potente che mai avevo sentito fino a quel momento e che, al pari della natura di Arturo, così indefinita e oscura, mi dava lo stesso tipo di tremore.
«Sicuro che non puoi leggermi nei pensieri, vero?» chiesi ancora.
«Sicuro. E ora vai a scuola, non vorrai fare tardi il primo giorno.»
Il suo sorriso sbilenco mi fece dubitare ancora una volta: se poteva leggermi i pensieri ero spacciata, perché quello che sentivo in quel momento era che mi piaceva da morire. E sapevo, l’ho saputo sin da subito, che era la cosa più proibita e destinata all’infelicità che potessi augurare a me stessa.