III

L’IMPERATORE

Stabilità, autocontrollo

E quindi non mi era rimasto più nessuno, i servizi sociali avevano scandagliato tutte le possibilità. C’era, a dire la verità, zia Rosetta, la sorella di mio nonno, ma era talmente occupata a sopravvivere alla vecchiaia e alle malattie che rispose che non se la sentiva di prendersi in casa un’adolescente. I nonni paterni erano morti uno dopo l’altra qualche estate prima, e comunque con loro non avevo mai avuto un rapporto stretto.

Mia nonna Angela mi aveva detto che la nostra era stata una famiglia numerosa, un tempo, poi qualcuno aveva smesso di credere nel futuro oppure era semplicemente scappato o sparito, come mio nonno. Non si avevano più notizie di lui da quando, pochi mesi dopo la morte dei miei genitori, era stato avvistato in un paesino del centro Italia, sotto il monte della Sibilla. Nessuno ha più saputo che ne era stato di lui da allora, poteva essere morto anche lui, caduto in un fosso durante un’arrampicata o uscito perdente da una lotta con un cinghiale. Sapevo come era fatto, la nonna aveva moltissime foto esposte sopra i tavolini in salotto e una in camera da letto: sopracciglia folte sopra occhi arcigni e capelli bianchi prima del tempo, pantaloni a vita alta e camicie chiare stirate alla perfezione in qualsiasi stagione dell’anno. Era incredibile come quella donna, nonostante la fuga vigliacca e tutti gli anni passati, fosse ancora tanto legata all’uomo che l’aveva ferita nel momento in cui il suo cuore era più esposto, il suo dolore cocente. Come aveva potuto non bruciare quelle foto, come faceva tutte le mattine a passare davanti al volto che le aveva fatto tante promesse e non ne aveva mantenuta nemmeno una?

Trovare mio nonno Bruno sarebbe stata la mia unica salvezza dal destino che mi aspettava nella casa famiglia, ma era una possibilità remota. Nel frattempo, dato che sarei rimasta minorenne fino al gennaio successivo, dovevo vivere con persone che non avevo mai visto ma che, mi assicurava l’assistente sociale, mi sarebbero piaciute moltissimo. Dopo, se volevo, avrei potuto riprendere possesso della casa di mia nonna, tornare ad abitarci da sola o venderla, insomma potevo vivere come un’adulta. Ma ero ancora una ragazzina terrorizzata all’idea di avere così tanta gente intorno, non ero abituata a vivere in una casa piena di voci, di passi, di domande. L’unica speranza cui mi aggrappavo mentre il cancello si apriva e l’assistente sociale mi spingeva dolcemente verso l’ingresso, era che avessi almeno una stanza tutta per me, una chiave con cui tenere fuori gli intrusi e tende molto pesanti che non facessero entrare il cielo. Che era incombente, in quel paese lontano dalla città, carico di neve. La casa era una villetta degli anni Venti a tre piani circondata da un grande giardino incolto. A testimonianza di tempi più felici erano rimasti un abete, una magnolia e un paio di biancospini. Erano alberi adulti, quelli, non avevano più bisogno che qualcuno si prendesse cura di loro per poter sopravvivere. Ma il mio sguardo fu attirato da un piccolo bosco poco lontano dalla villa di cui riuscivo a vedere gli alberi alti e fitti, abeti, pini, qualche maestoso larice. Sembrava un luogo antico, come se il tempo non gli fosse mai passato sopra e anzi un velo di eterno vi fosse stato poggiato, un luogo incantevole e allo stesso tempo oscuro dal quale cercai di distogliere immediatamente lo sguardo. Ma qualcosa attirò la mia attenzione, una figura che vidi uscire dal fitto degli alberi per incamminarsi lungo il vialetto che portava alla villa. Si trattava di un ragazzo all’incirca della mia età; indossava una leggera camicia di lino bianco, pantaloni alla caviglia, scarpe chiare di tela… abiti troppo leggeri per quella mattina invernale, anche se non dava l’impressione di avere freddo. Non era molto alto, però aveva spalle poderose, che si intravedevano sotto il tessuto sottile della camicia. Qualcosa in lui, nel suo modo di camminare sicuro e al tempo stesso come se per qualche strana magia i suoi piedi non toccassero il suolo, lasciava pensare che conoscesse benissimo quel luogo e che lì fosse nato. Man mano che si avvicinava notai altri dettagli: i capelli neri avevano la consistenza della seta e gli occhi allungati e scuri si posarono su di me giusto il tempo di riconoscere un’inquietudine che come uno spillo molto sottile mi penetrò la pelle fino al cuore. La bocca, rossa come se si fosse appena spalmato del sale sulle labbra o avesse addentato un succulento frutto estivo, era leggermente schiusa e dava all’intero volto una dolcezza, una tenerezza che mi sembrava mancasse dagli occhi che invece mi parvero, a quella prima occhiata, spietati. E bellissimi, immensamente belli. Il suo sguardo mi scavava dentro provocandomi un groppo in gola e una strana sensazione: era come se mi stesse aspettando da anni. Il tempo pareva essersi fermato, non c’erano uccelli nel cielo, né vento a spostare le nuvole. Distolsi lo sguardo da lui, strappandomi al suo incantesimo, quando la porta si aprì e venne fuori una donna che indossava una tuta, e aveva i capelli raccolti e l’aria indaffarata di chi deve ancora tirare a lucido una gran quantità di stanze. Non doveva avere più di cinquant’anni e sicuramente non meno di quaranta. Aveva profonde rughe ai lati del naso e degli occhi, e le labbra naturalmente scure, come olivastro era tutto l’incarnato, erano increspate e secche come fichi. Agli occhi pareva mancassero le ciglia. Sembrava la domestica della villa.

«Buongiorno, Maria Stella!» Si rivolse all’assistente sociale ma stava guardando me. Come il ragazzo, aveva occhi scurissimi e inquieti; doveva essere sua madre.

«Buongiorno, Anna. Siamo arrivate troppo presto?» rispose l’assistente.

«No no, vi stavo aspettando. Ciao, Greta, benvenuta.» Non c’era dolcezza nella voce, solo una certa fretta di finire il prima possibile con tutti quei cerimoniali. Mi arrivò il suo odore: arancio amaro e detersivo per piatti.

«Buongiorno, signora» dissi con voce ferma, a volume abbastanza alto perché nessuno pensasse di avere a che fare con una ragazzina timida.

«Non ha niente con sé la ragazza?» chiese Anna come se non fossi stata lì con loro.

«Una valigia, è in macchina, la vado a prendere» disse Maria Stella e tornò indietro verso l’automobile.

Anna rimase a fissarmi, squadrandomi con quegli occhi che più li guardavo più mi facevano sentire sbagliata.

«Sei alta per la tua età» constatò, e io non seppi bene cosa rispondere.

In effetti lei era qualche centimetro più bassa di me, nonostante portasse delle pantofole con il plateau, e io delle scarpe da tennis.

Restammo in silenzio. Io mi voltai di nuovo cercando il ragazzo, ma non era più lì.

«Ecco, qui c’è tutto» fece Maria Stella consegnando ad Anna la mia valigia e una busta di carta piena di documenti.

«Vuoi pranzare con noi?» chiese la mia tutrice all’assistente sociale che stava controllando l’orologio.

«No, devo scappare.»

«Sei sicura? Ho fatto la torta di mele.»

«La mangerà Greta anche per me» disse rivolgendomi il primo e ultimo sorriso da quando ci conoscevamo, non più di un paio di settimane.

«Le farà bene mettere su qualche chilo, in effetti» commentò Anna. Qualcosa, in lei, mi metteva i brividi nonostante si trattasse di una comunissima donna con mani screpolate smaltate di rosa.

Un cane mi venne incontro non appena entrai in casa. Mi annusò le mani e i jeans lanciandomi occhiate furtive, impossibile per me capire che intenzioni avesse. Sapevo che si trattava di un cirneco dell’Etna dagli innumerevoli libri sui cani che avevamo in casa e che erano appartenuti alla nonna. Anna, intanto, mi aveva lasciato indietro andando verso la sala da pranzo, che si apriva subito dopo il salotto dove ora mi trovavo. La casa era buia; dopotutto era il piano terra e la giornata non delle migliori. Le spesse mura erano state imbiancate di recente; contro le pareti erano addossati mobili d’epoca e ciarpame vario, come se aspettassero di essere buttati via. Il resto della stanza però era vuoto; c’erano solo un grande divano giallo e la TV, ora accesa su un programma di cucina. Nell’altra stanza sentivo dell’acqua scorrere, e fui percorsa da un leggero brivido. «Scusami, avevo lasciato il rubinetto aperto! Vieni qui! Lascia pure la valigia all’ingresso. Ah, e non preoccuparti di Marrone Chiaro, non è aggressivo.»

Mi mossi con cautela perché non ero sicura che quel cane fosse davvero inoffensivo. Ero cresciuta con i gatti, tre femmine che erano state di mia madre e poi erano invecchiate mentre io diventavo adolescente. Mia nonna le trattava come divinità nonostante per tutta la vita avesse avuto a che fare con i cani, dei quali giudicava meticolosamente pelo, forma del cranio, lunghezza della coda. Quello era stato il suo lavoro; in corridoio c’era un grosso armadio nel quale conservava i taccuini con i dati delle gare. Ma a casa, diceva, non voleva cani, erano troppo vulnerabili, i gatti invece erano molto più resistenti nonostante l’apparente fragilità. Dormivano sempre con lei, le sue camicie da notte erano piene di peli. Neanche loro avevano retto al dolore di vederla deperire giorno dopo giorno ed erano morte prima che se ne andasse. Era stato un anno così straziante che non riuscivo a credere di essere ancora viva.

«Non ti ho accolta come avrei dovuto, mi dispiace. Ma qui c’è sempre un sacco da fare, fra poco torneranno gli altri e sono indietro con il pranzo.» Mi dava le spalle, strofinava energicamente sotto l’acqua delle zucchine che poi posava gocciolanti sul ripiano. Socchiusi gli occhi cercando di non far caso all’acqua e al suo rumore.

Anche la cucina era buia, nonostante un grosso lampadario conico che gettava una luce intensa sopra il lungo tavolo da pranzo. Eccetto il lavabo in pietra, la cucina era nuova ed economica, anche questa in contrasto con l’elegante sobrietà della facciata della villa. I soffitti erano molto alti, forse per questo avevo così tanto freddo.

Sentii un fruscio alle mie spalle e mi voltai. Era una ragazza più giovane di me, molto magra, con i capelli a caschetto e la punta del naso rosso fuoco.

Mi venne incontro allegramente: «Tu devi essere Greta!». Tutto in lei faceva venire in mente l’infanzia, a cominciare dal pigiama di flanella con le ciliegie fino alla voce da bambina.

La salutai.

«Io sono Laura…» Stava per continuare, ma volse gli occhi al cielo come presa da un improvviso bisogno di pregare e fece una smorfia. Qualche istante dopo starnutì.

«Laura, torna in camera tua, farai ammalare tutti. Appena è pronto mando qualcuno su a portarti da mangiare. Vattene, per favore, stai spargendo germi ovunque.»

«Va bene, va bene, me ne vado» disse avviandosi pigramente verso la sua camera.

Anna si asciugò le mani con lo strofinaccio e la seguì con gli occhi mentre andava via, poi si rivolse a me: «Vieni, ti faccio vedere la tua stanza. Gli altri torneranno fra venti minuti, se vuoi puoi riposare un po’ prima che arrivino». Non fece intendere di voler prendere la valigia, così andai all’ingresso a recuperarla e la portai su per le scale. «Dopo ti farò fare il giro della casa, ma intanto ti dico che qui al primo piano dormiamo io, Paolo e Martino. Al secondo piano ci sono le camere di Makeda e Laura e un’altra grande sala dove di solito si fanno i compiti.»

La mia camera era al terzo piano, anche se non si poteva dire che fosse un vero e proprio piano e di certo nemmeno una stanza. Era la soffitta, avrei dormito nel sottotetto. Mi chiesi se Maria Stella lo sapesse; ma certo che lo sapeva, conosceva benissimo quella casa, chissà quanti altri orfani ci aveva portato. E poi un’ispezione aveva dovuto farla per forza, no? Il soffitto e il pavimento erano di legno, in quella fredda giornata invernale sembravano confortevoli ma già prevedevo quello che sarebbe potuto accadere d’estate. Il letto, poco più di una branda con la testiera di ferro battuto, era basso e più adatto a una bambina di otto o nove anni che a una della mia età, fra l’altro più alta dei miei coetanei. Addossata alla parete c’era una scrivania, una pianta grassa dentro un vaso di plastica, una sedia impagliata; a seguire un armadio, un’altra sedia e una gabbia bassa e rettangolare. Vidi qualcosa muoversi dentro.

«Qui hai tutto quello che ti serve. Se avrai bisogno di qualcos’altro lo compreremo non appena arriverà il prossimo assegno, eh? Ah, spero non ti dispiaccia dividere lo spazio con Manolo, è l’altro animale di casa. Riesce a stare solo in questa stanza, tutte le altre lo terrorizzano.» Se ne andò lasciandomi sola. Osservai la mia valigia, poi Manolo, che risultò essere un coniglio bianco e nero di piccole dimensioni.

Sentii affiorare la tristezza, ma non volevo farmi vedere da Manolo. A quel pensiero mi sentii stupida e ancora più triste, così triste che non potei fare niente per impedire alle lacrime di scorrermi sulle guance. E mi veniva da ridere, anche. “Che cretina che sono” continuavo a pensare, “preoccuparmi di fare bella figura davanti a un coniglio!”

«Manolo è molto sensibile. Non dovresti piangere davanti a lui.»

Trasalii e lasciai uscire un grido strozzato, come quello che ti fa sussultare negli incubi.

Il ragazzo che avevo visto poco prima nel vialetto che portava dal bosco alla casa era nella mia stanza, seduto sulla sedia impagliata come se fosse lì da sempre. Mi fissava con quei bellissimi occhi che parevano leggermi dentro. Faceva quasi male guardarli; le lunghe ciglia gettavano un’ombra sulla luminosità delle pupille, eppure c’era qualcosa di oscuro e di estremamente incantevole che mi toglieva il fiato.

Ma tutto l’incanto svanì un secondo dopo, cancellato dalla rabbia di vedere quello sconosciuto nella mia camera.

Avevo il cuore in tumulto ma non riuscivo a liberarmi da quella strana sensazione di meraviglia che mi aveva assalita sin dal primo momento in cui l’avevo visto.

Che ci faceva nella mia camera?

E poi: mi aveva forse letto nel pensiero?