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È stato molto piacevole attraversare la Germania in treno. Tutto sembra incantato, amichevole, sicuro, intatto. Nessun senzatetto, nessuna catastrofe ecologica. Se si prova a immaginare che non ci siano le pale eoliche, lo sguardo spazia fino alla linea dell’orizzonte che solo di rado viene interrotta da fabbriche o grattacieli. Un paese da fiaba. Il caffè ti viene portato da signore discrete, insieme a un brezel, di tanto in tanto bisogna mostrare il biglietto che viene sfiorato da una grossa pinza d’argento, ma non convalidato. Mi fu assegnato un posto in una fila da quattro in una delle carrozze aperte, accanto al finestrino, così che, pur non potendo allungare le gambe, potei ammirare per tutto il viaggio la Germania verde e le sue bizzarre formazioni di nubi. La donna che mi sedeva di fronte, e che con le sue gambe massicce mi contendeva il posto sul pavimento cambiando di continuo posizione e sfiorandomi senza alcun riguardo dalla scarpa al ginocchio, leggeva con una calma irritante un pacco di riviste disgustose, in cui venivano analizzati in un modo ripugnante i problemi davvero non semplici della grande nobiltà europea e le non meno intricate relazioni amorose di attori e cantanti tedeschi. Aveva ordinato una bottiglietta di spumante che era troppo caldo e con cui mandò giù il contenuto di un’intera scatola di biscotti, cosa che le provocò un eterno singhiozzo, uno spasmo delle vie aeree con conseguenti continui attacchi di tosse che prorompevano dalla bocca aperta. Perché questo paese così bello era abitato da persone così ripugnanti? Fuori le punte dei campanili verde patinato, le stazioni addormentate che sembravano templi ammuffiti, dentro un’impietosa battaglia a terra per la conquista di pochi centimetri. Per quella donna la cortesia era un genere particolare di cattiveria.

I due posti sul lato corridoio erano occupati da una coppia di signori anziani che cambiavano posto di continuo perché soffrivano di nausea quando non sedevano nella direzione di marcia. Andavano a trovare la figlia a Monaco, del cui stile di vita parlavano in modo così stomachevole che ebbi paura. Una volta era colpa della donna se la figlia aveva preso una brutta china, un’altra invece era colpa del marito che, a quanto pareva, non aveva avuto la mano ferma quando ancora si sarebbe potuto fare qualcosa. Le mani dell’uomo in effetti sembravano tutt’altro che ferme; le impiegava per sbottonarsi e riabbottonarsi il secondo bottone della camicia, per prendere aria, e tra queste due azioni insensate le metteva per un momento davanti al viso come se volesse chiudere gli occhi davanti a un incubo. Si avvertiva nel vero senso della parola la miseria della figlia avvicinarsi sempre più e offuscare la vita dei due vecchi. Parlavano della figlia come i direttori di un istituto correzionale per ragazze perdute. Tutte e tre le persone – mi passò per la testa – con cui sfrecciavo attraverso la pacifica Germania sembravano ottimi candidati per il mio palazzo, erano addirittura gli inquilini ideali del mio manicomio e io li vedevo già lamentarsi dei prezzi al ristorante italiano.

Ah, il paesaggio della Turingia che pareva disegnato con una morbida matita, l’argentea Saale e i castelli di Dornburg facevano solo da sfondo, erano soltanto un addobbo, una magia teatrale per una pièce che nessuno voleva vedere più e io ero fermamente deciso a cercarmi un altro teatro il più in fretta possibile.

L’appartamento mi sembrò più vuoto che mai perché Doris non era a casa. Era sporchissimo, nel lavandino c’erano delle calze in ammollo, la cucina dava l’impressione che ci fosse stata un’altra assemblea di inquilini, sui bicchieri mezzi vuoti c’erano tracce di rossetto, i miei CD giacevano a terra come se qualcuno ce li avesse gettati e nel lettore c’era un disco heavy metal. Le lettere della pazza erano sparse per tutta la casa, sembrava che fosse avvenuta una rapina. Nei pochi giorni della mia assenza, una rivoluzione aveva colpito e devastato il mio regno del vuoto. Avrei potuto mettere a posto, ma sapevo che non sarei riuscito a ripristinare il vecchio ordine che avevo costruito per mesi. Così mi distesi sul mio letto disfatto e guardai il cielo come se avessi fatto un voto: invece di illuminazione, riscatto e liberazione, solo uno sguardo fisso nel vasto orizzonte.

Il pomeriggio chiamò Doris, agitata come sempre. La donna di Gießen si era presentata alla porta il giorno della mia partenza, con un coltello in mano. Ho dovuto farla entrare, esclamò Doris, altrimenti mi avrebbe accoltellato! Ha messo tutto sottosopra, disse, ha addirittura girato i piatti come se cercasse un segreto nascosto. Mi ha letto le lettere che ti ha scritto. Ripeteva che quella era vera letteratura, un giorno lo avrei capito anch’io. Ti ama, disse Doris, anche se nel suo modo pazzesco. Se non la rinchiudono non te ne libererai mai più. Si è sdraiata addirittura sul tuo letto per conoscere l’angolazione da cui guardi dalla finestra! Ha voluto sapere quale bicchiere usi e ha voluto lavarsi le mani con il tuo sapone. Un torrente di dettagli perversi che sembrava non voler finire più scaturì dal telefono. Per non essere trascinato via, restai sdraiato sul mio letto come impietrito, quasi senza respirare, e non dissi niente. La voce di mia nipote sembrava giungermi da un altro mondo, un mondo di agitazioni, di lotte. Io invece non la stavo più ad ascoltare, non provavo né rabbia né gioia né tristezza. Mi ero ormai lasciato alle spalle la parte meno importante della mia vita, adesso avevo deciso di aspettare qualcosa di sorprendente, sebbene sapessi che le sorprese potevano arrivare solo da me. La mia origine non aveva più nessuna importanza, il caso, che mi aveva messo sotto il naso un palazzo, l’avevo subito come un monaco, la mia nuova vita di scrittore senza successo non l’avevo ottenuta lottando, mi era piovuta dall’alto. A un certo punto si esaurì il racconto delle cattiverie, non sentii più niente e probabilmente mi addormentai.

* * *

Il sogno che, come succede spesso con i sogni pomeridiani, avevo ancora davanti agli occhi con una certa esattezza era così esplicito sulla necessità di trovarmi un’altra vita che scoppiai a ridere. Camminavo sul letto asciutto di un fiume ai piedi di una montagna e, a causa delle enormi pietre, procedevo lentamente. Sulla riva, che non era una vera riva ma che sembrava piuttosto una demarcazione casuale, c’erano degli alberi carbonizzati, e anche tutta la zona sembrava essere stata devastata da un grosso incendio che aveva prosciugato il fiume. Tra gli alberi c’erano uomini che indossavano tonache logore, avvinghiati tra le forcelle dei rami per non essere tirati giù dal gelido vento catabatico. Mormoravano preghiere udibili nonostante la furia del vento, tuttavia in lingue sconosciute. Non ero sicuro se stessi salendo o scendendo, non c’erano case intorno e neppure animali. Confidando nel fatto di aver preso la direzione giusta, proseguivo tra gli enormi massi erratici verso l’oscurità che presto avrebbe alterato l’orizzonte. In quell’oscurità che mi avvolgeva dolcemente, sentii all’improvviso una fragorosa e isterica risata che crebbe talmente tanto da suonare quasi come un grido di morte. Quel grido mi svegliò.

Ma questa era solo la cornice del sogno, così come la mia risata fu solo la prima reazione cui seguì una seconda. D’un tratto infatti ebbi la strana sensazione di aver fatto un sogno di Georg Faust. Dal mio letto guardai la corona del pioppo che era in cortile. Più volte avevo fatto notare al custode che la corteccia dell’albero aveva delle crepe e che doveva essere controllato, ma l’uomo non se ne era occupato affatto, proprio come faceva con la moglie che, si diceva, rinchiudeva in cantina perché era malata. L’albero – questo mi era chiaro – presto sarebbe stato così malato da rischiare di cadere. E su chi sarebbe caduto? Adesso mi accorsi che la corona era piena di vischio, che viveva di un’intensa vita propria. Se il custode – un arrogante uomo di Lipsia che si riteneva migliore degli altri e che nella vita non aveva combinato niente – era troppo pigro per salvare l’albero, dovevo informare l’amministratore. Sarebbe stata la mia prima telefonata all’amministratore, per la salvezza di un albero. L’ascensore, una nuova rastrelliera per le biciclette, una migliore illuminazione del portone d’ingresso, tutte cose che, in mancanza di argomenti più interessanti, accendevano le discussioni sulle scale, non mi interessavano nemmeno un po’, a me interessava esclusivamente la salute dell’albero. Adesso, quindi, non aveva solo crepe che buttavano, ma anche il vischio, un particolare che significava la morte molto prossima di quell’unico, solido compagno del nostro palazzo.

Quando notai il vischio, seppi all’improvviso cos’altro avevo sognato. Non ero solo sul letto del fiume pieno di enormi pietre. C’era anche un inseguitore o qualcuno inseguito da me. Nel mio sogno – o nel sogno di Georg Faust sognato da me – era presente pur essendo invisibile. Dai rami spezzati, dalle pietre rotolate sul terreno fresco o addirittura dalle impronte, intuivo che ero io a inseguirlo, che ero io a essergli alle calcagna. Doveva essersi nascosto dietro uno dei macigni che avevo davanti. Poi ebbi di nuovo la sensazione che fosse lui a inseguirmi, nonostante il forte vento riuscivo a sentirlo ansimare, un rantolo nel rumoreggiare uniforme. Pensai di rannicchiarmi dietro a una roccia per aspettarlo, scivolai però sul terreno umido e caddi sulla pietra che subito si staccò dal suo sostegno e cominciò a rotolare verso valle, acquistò una velocità pazzesca fino a sembrare una palla di cannone luminosa in un universo buio. E poi sentii un rumore simile a quello di un osso che si spezza e nell’aura abbagliante della palla vidi volare le parti disintegrate di un essere umano che, come in un caleidoscopio, si ricomposero in aria a formare un corpo con un volto. Era il volto di Georg Faust.

Il mio tempo in quella casa era terminato. Feci il giro delle stanze e raccolsi i miei biglietti con le citazioni; li incollai tutti sulla pagina di un taccuino ma così stretti l’uno all’altro sembravano a disagio. Avevano bisogno di spazio, di diverse stanze. Uno dei testi diceva “I sogni sono percezioni sensoriali a due dimensioni. Le idee sono percezioni sensoriali con una sola dimensione. La linea è un’idea. (P, 162)” Come nella maggior parte dei casi, avevo dimenticato da quale autore e da quale libro avevo ricopiato quella citazione. Forse avrei dovuto farle incorniciare e proporle come oggetti da esposizione?

Il mio zaino fu presto pieno delle cose che volevo portare con me. Le registrazioni di Sibelius le lasciai, il maestro finlandese apparteneva a quell’appartamento e non poteva accompagnarmi; presi con me tre o quattro altre registrazioni, le interpretazioni di Brendel dell’Impromptus di Schubert per esempio e le Variazioni Goldberg nell’interpretazione di András Schiff. I miei quindici taccuini, un paio di libri per il viaggio. Circa dieci poesie di Georg Faust che avevo pescato nei manoscritti rifiutati. Dieci fotografie che ritraevano i diversi membri della mia famiglia, anche mio padre con un piccolo Buddha in mano. Lasciai anche i disegni che avevo comprato negli ultimi mesi, come anche tutte le lettere indirizzate a Georg e a me.

Strano quanto poco prendiamo con noi quando partiamo, anche se poi molto ci manca quando arriviamo.

Mi affacciai ancora una volta a ogni finestra per portare con me almeno il ricordo della vista che si aveva da lì. Notai il farabutto decorato accanto al supermercato che aspettava un cane da poter torturare; stava parlando con il nostro custode: stavano bene insieme. Dietro, il sole stava calando, mi sembrò di non aver mai visto un tramonto così chiaro, un addio davvero ideale. Mi congedai addirittura dai pochi mobili, con una stretta di mano e un po’ di sentimentalismo, statevi bene, dissi alle sedie, resistete. Passai la mano sul tavolo e ci bussai sopra tre volte. Il cavalluccio marino me lo misi in tasca.

E poi non seppi da chi o da cosa potessi ancora congedarmi. Indossai la mia nuova giacca a vento, mi misi lo zaino in spalla e uscii. Se Annika era dietro lo spioncino, dovette sorprendersi perché ributtai le chiavi dentro, attraverso la fessura per la posta, ma tanto mi riteneva comunque una persona con strane manie.

D’un tratto mi chiesi chi avrebbe ricevuto il premio letterario. La donna di Gießen? Georg? Doris?

Davanti al portone c’erano Mira con il bambino in prestito e Max. Quando Mira vide il mio zaino cominciò a piangere, ma non le chiesi perché. Mi hai fatto sempre paura, disse Mira, la tua calma, la tua riservatezza, il tuo mutismo, tutto mi faceva paura di te, anche i foglietti alle pareti.

Mi dispiace, dissi.

Max abbassò le orecchie, sapeva che non ci saremmo rivisti. Sembra imbronciato, dissi a Mira, davvero imbronciato.

Attraverso le vetrate del supermercato vidi Doris che passava lentamente davanti alla pasta, dovevo quindi sparire in fretta. Senza spiegazioni.

La casa che mi era toccata in sorte, non mi apparteneva; non volevo più avere a che fare con la mia storia. E Georg Faust? Lo mandai al diavolo. Era venuto il tempo di immaginare una storia tutta mia.