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La settimana seguente ricevetti come Georg Faust la comunicazione che mi era stato assegnato il premio letterario indetto dalla Fondazione culturale bavarese. All’unanimità, scrisse il segretario della fondazione. I diecimila euro mi sarebbero stati consegnati a Ratisbona, durante una cerimonia seguita da un ricevimento. Mi pregavano soltanto di tenere un breve discorso e di leggere cinque o sei poesie (non più di dieci minuti in tutto) e mi chiedevano se desideravo chiedere a qualcuno in particolare di pronunciare il discorso ufficiale o se doveva cercarne uno la fondazione.
Dovevo rifiutare l’invito in nome di Georg Faust? Doris, che trovò la lettera sul tavolo di cucina, ne fu entusiasta, disse che voleva assolutamente accompagnarmi ed ebbe l’idea di proporre Renate per il discorso ufficiale.
Poiché avrei visto Renate pochi giorni dopo – dietro sua raccomandazione ero stato invitato a un seminario di autori curato da lei, in un ex monastero in Brandeburgo – avrei potuto chiederglielo di persona. Mi imbarazzava farle la mia richiesta per lettera.
Insieme alla lettera della fondazione culturale arrivò anche un’altra missiva della donna di Gießen, che non voleva arrendersi. Annunciava il suo arrivo, “tra l’alba e il tramonto”, quando meno me lo sarei aspettato, “tra l’inerzia mattutina e la disperazione della sera”, e se non mi fossi dichiarato disposto a portare a termine il nostro lavoro, allora sarebbe finita male. Scriveva che dovevo appuntare le matite e preparare carta a sufficienza, in modo che potesse cominciare a dettare. Dovevo solo adempiere ai miei doveri, otto ore al giorno, la sera avremmo fatto un salto al ristorante italiano “in cui lei è stato visto con la scrittrice dopo la presentazione”, e quel che sarebbe successo dopo, lo lasciava alla mia fantasia, di cui tra l’altro non aveva una gran considerazione. “Mi faccia vedere cosa sa fare.”
La pazza sapeva tutto di Georg Faust. Era nella libreria quando andavo a una presentazione e mi seguiva al ristorante, probabilmente sarebbe stata presente anche alla premiazione e avrebbe reclamato il premio in denaro che avrei intascato al suo posto e per la sua opera. Ancora una volta la lettera era infarcita di citazioni di poeti e pensatori, di allusioni che non capii fino in fondo e di immagini pornografiche che aveva ritagliato dalle riviste. Vi erano inoltre alcuni pensieri, evidenziati e incorniciati con un pennarello rosso, che la pazza mi consigliava di leggere con attenzione, così per esempio una riflessione di T.S. Eliot: “So per esperienza personale che verso la metà della vita un uomo si trova a dover scegliere fra tre possibilità: non scrivere più niente; ripetersi con un grado forse sempre più elevato di virtuosismo, oppure, con uno sforzo del pensiero, adattarsi a questa ‘mezza età’ e trovare un altro modo di lavorare.”
La lettera era lunga in tutto ventisette pagine, un chiacchiericcio che sembrava infinito e culminava in cattiverie e imposizioni, come sempre. Come potevo sbarazzarmi di quella donna, come potevo difendere Georg Faust da lei, come salvare la mia stessa vita? L’ultima lettera che le avevo scritto era tornata indietro, “destinatario traferito a recapito sconosciuto”. Probabilmente adesso viveva in uno dei palazzi nella mia strada o addirittura già nel mio palazzo. La sciagura era sempre più vicina, mi aveva quasi raggiunto.
* * *
Andai in Brandeburgo. Annika, che non parlava più di matrimonio, voleva venire con me; Doris era sottinteso, ma ci andai da solo. Dovetti cambiare tre volte, e alla fine presi anche un autobus. L’autista era indispettito perché aveva dovuto farmi salire e guidava in modo così brusco sulle strade provinciali piene di buche che temetti per la mia vita. Ero l’unico passeggero. Il monastero era stato trasformato in un centro d’incontro. Le stanze lunghe e strette non avevano né il telefono né il televisore, una lampadina che penzolava dal soffitto era l’unica fonte di luce. Non era permesso fumare né accendere candele. La giovane donna alla reception mi lesse le norme della salvaguardia antincendio, dal punto uno fino al punto dieci, e alla fine mi consegnò il foglio plastificato su cui erano scritte, che io, al termine del mio soggiorno, nel caso fossi stato ancora vivo, dovevo restituirle. Era stato redatto dalla cassa previdenza infortuni sul lavoro per il settore di generi alimentari e delle ristorazioni di Mannheim e cominciava così: “In caso di presenza di fumo nella stanza: rotolarsi giù dal letto, indossare le scarpe e strisciare fino alla porta (fumo e gas di combustione salgono verso l’alto). Respirare attraverso un fazzoletto bagnato. Riempire la vasca da bagno. L’acqua nella vasca può servire per spengere l’incendio. Non entrare nella vasca da bagno.” La donna alla reception aveva sul viso un sorriso stanco, non più giovane, e io mi domandai quante volte aveva già letto le regole della salvaguardia antincendio e quante volte avrebbe dovuto farlo ancora. Probabilmente presto avrebbe appiccato il fuoco lei stessa per sfuggire definitivamente a quell’incubo.
Feci appena in tempo a dare un’occhiata alla mia stanza – in cui mi attendeva una bottiglia d’acqua senza un bicchiere – che già mi accompagnarono alla prima lettura. Dato che per la mia presenza lì ricevevo del denaro – i primi soldi che guadagnavo da quando avevo lasciato il giornale – seguii immediatamente la studentessa (studi culturali, di Potsdam) nella sala conferenze e così passammo davanti a quadri in cui erano ritratti in una posizione ben eretta i signori che avevano provveduto a trasformare quel monastero in una scuola. Nessuna donna aveva contribuito a quella trasformazione.
In fondo alla sala, a un tavolino per due, era seduta Renate. Presentò un autore finlandese che sembrava una copia del regista Kaurismäki, un uomo sulla cinquantina con una camicia stropicciata, dalla quale spuntava un viso stropicciato, triste e contrito come se qualcuno gli avesse appena comunicato la sua condanna a morte. Intorno alla testa si era avvolto un nastro sul quale erano riprodotti degli alci che giravano uno dietro l’altro intorno al suo cranio. Mentre Renate lo presentava seduta, lui rimase in piedi e così mi fu possibile ammirare anche i suoi pantaloni, un indumento sformato che non cadeva giù grazie a un fazzoletto. Indossava sandali senza calze. Si chiamava Arttu ed era la speranza della Finlandia di tornare ad avere voce in capitolo nel campo letterario internazionale, come si espresse Renate, ma proprio non riuscivo a immaginare come potesse funzionare.
Prima di cominciare a leggere, Arttu aveva tirato fuori dalle sospette ampie pieghe dei pantaloni una bottiglia di vodka, aveva svitato con qualche difficoltà il tappo e – dopo che Renate aveva rifiutato di bere alla bottiglia – aveva trangugiato un lungo sorso, un gesto che aveva provocato una certa inquietudine tra i circa quaranta ospiti venuti ad ascoltare il prodigio finlandese. Degli strani personaggi che nel mezzo della settimana avevano osato spingersi fino in Brandeburgo, e io adesso ero uno di loro.
Arttu si illudeva di saper parlare tedesco, e magari sì, parlava anche la nostra lingua, ma in un modo incomprensibile. Oltre che dall’alcol, la comprensione era impedita anche dalla lisca, un sibilo che spezzettava e distruggeva ogni parola, e poiché Arttu osservava quasi meravigliato il suo testo che, a quanto pareva, gli sembrava del tutto estraneo, faceva lunghe pause come per prendere ancora lo slancio ma una volta ripartito si interrompeva subito di nuovo. Non lesse nemmeno la poesia che lo aveva reso famoso, bensì, come ci aveva informato Renate, una breve dissertazione su alcune specie di uccelli in via di estinzione o già estinte, una specie di manifesto contro l’estinzione delle specie e a me il suo sforzo disperato di esprimersi faceva pensare che fosse lui un uccello bizzarro da salvare. Mi dispiaceva, perché ben presto si sentirono le prime risate e poco dopo rideva tutta la sala come se al mondo non ci fosse niente di più comico di uno scrittore finlandese con la lisca che non conosce la nostra lingua. Mi indignai a tal punto che io, l’unico non-scrittore presente, mi alzai, tolsi di mano il manoscritto al finlandese sbalordito e cominciai a declamarlo. Silenzio immediato. Mentre leggevo in piedi, Arttu si sedette con la sua bottiglia e ascoltò il suo testo: una meravigliosa e ricca fantasia sul volo degli uccelli nella campagna finlandese, malinconica e bella.
La poesia con cui era diventato famoso, una lunga e contorta elegia, volle declamarla lui stesso. Dopo avermi abbracciato e baciato calorosamente e forse un poco troppo a lungo, tanto che sembrò che non volesse più lasciarmi andare, Arttu si appoggiò al tavolo a gambe larghe – cosa per cui Renate divenne invisibile – e cominciò a descrivere l’uccello su cui aveva scritto la sua elegia. Arttu non dimenticò di citare anche l’albero su cui viveva l’uccello, ma disse che ne aveva dimenticato il nome. Descrisse l’albero con ampi gesti, il fogliame, la particolare corteccia, ma il nome non voleva proprio tornargli in mente. Infine venne consultato un dizionario elettronico e al termine di una lunga ricerca saltò fuori che si trattava di un pino del Nord; l’uccello che viveva sul pino del Nord era una gru.
Prima però che Arttu potesse leggere l’elegia, la maggior parte dei suoi colleghi e colleghe si erano già alzati e avevano cominciato a lasciare la sala perché in programma c’era una pausa caffè, così che Renate fece capolino da dietro la schiena di Arttu e annunciò che avremmo potuto ascoltare e discutere la poesia dopo la pausa. Ma fu un richiamo debole, che nessuno sentì più.
Andai da Arttu e lo abbracciai in silenzio. Sotto tutti quei vestiti gonfi era magro come un uccello. Non so se dipese dalla vodka, il cui odore avvolgeva l’intera figura malandata, oppure dalla sua debolezza, in ogni caso rimase tra le mie braccia e pianse.
A un certo punto – comunque dopo un’eternità – riuscii a convincerlo ad andare nella sua stanza. Anche sopra il suo letto era appeso un disadorno crocifisso di legno e sotto un adesivo rotondo con una sigaretta cancellata. Appena misi giù quel corpo fradicio di sudore, Arttu tirò fuori un pacchetto di sigarette dai pantaloni da carpentiere e cominciò a fumare.
Incontrai gli altri scrittori nella sala di ritrovo. Erano seduti sulle panche e bevevano birra. Uno di loro mi chiese se non lo riconoscevo. Düsseldorf, tre anni fa! Allora avevi ancora i capelli lunghi e un paio di chili in più addosso. Sì, certo, dissi e come un ladro colto sul fatto uscii dalla sala chiassosa e andai nella mia camera silenziosa, mi misi in tasca le poesie di Georg Faust che avrei dovuto leggere il giorno dopo, spensi la luce e scavalcai la finestra. Al cancello, che grazie a Dio era ancora aperto, Renate aspettava alla luce della luna. Chi sei, mi domandò, se non sei Georg Faust? La guardai a lungo, il suo occhio si contrasse. Poi dissi: Sono uno attraverso il quale è passato Georg Faust. Ha lasciato qualche traccia, ma non abbastanza da fare di me un poeta. Ho bisogno di altro tempo. Ti ringrazio. E me ne andai. Alla luce della luna il sentiero era ben riconoscibile, mi bastava mettere un piede davanti all’altro. I poeti devono camminare molto per vuotarsi ed essere pronti ad accogliere qualcos’altro.
Imbruniva già quando raggiunsi il villaggio da dove, la mattina dopo, un autobus partiva per la città in cui avrei preso il treno per Berlino. Davanti al casottino della fermata dell’autobus c’era una panca di ferro su cui mi sdraiai. Ascoltai i richiami degli uccelli notturni che si udivano chiaramente nell’aria cristallina. Poi devo essermi addormentato.