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Tutte le scuse furono inutili, fui costretto ad andare anch’io alla riunione degli inquilini. Si teneva al ristorante italiano, cosa che migliorò un po’ il mio umore, sebbene l’idea di stare ad ascoltare da padrone di casa le lamentele dei miei affittuari fosse tutt’altro che piacevole. Una riunione di inquilini puzzava di aria viziata, intrighi e spacconate. Ti devi astenere dal votare, mormorai tra me quando entrammo per ultimi nel locale del mio amico, e per la prima volta guardai in faccia tutti i miei inquilini, la maggior parte dei quali, probabilmente, vedeva anche me per la prima volta. Meno male che non sanno chi sei.

Nella sala anteriore del ristorante, in quelle prime ore della sera c’erano poche persone sedute davanti ai loro piatti. Sembrava come se dovessero stare lì sedute da sole per punizione, e tutti – singolarmente e insieme – davano l’impressione di essere così avviliti che desiderai tornare subito indietro.

Un’aristocrazia dell’infelicità, mi passò per la mente. Se non mi sbagliavo, un uomo stava addirittura piangendo in silenzio davanti alle sue penne all’arrabbiata; la forchetta nella mano tremava così forte che la riabbassò davanti ai miei occhi. Una tristezza a me sconosciuta gli impediva di combattere la fame. Quattro persone sedevano immusonite nei quattro angoli della sala, al centro c’era un uomo grasso con il capo cosparso di perle di sudore che, a seconda dell’angolo d’inclinazione, o cadevano dalla fronte nel cibo oppure andavano a infilarsi nelle tre pieghe di grasso che aveva sul collo. Lo avevo già visto dal giornalaio dove ogni mattina sfogliava le riviste e poi comprava un quotidiano della sera. Uno storico fallito che si guadagnava da vivere come giornalista sportivo, diceva il proprietario dell’edicola, che di tanto in tanto mi spiegava le biografie dei suoi clienti – ovviamente senza che glielo avessi chiesto – e così, nel suo modo smaliziato, mi dava a intendere che, se avesse voluto, oggi avrebbe potuto dirigere una catena di negozi, ma che ci aveva rinunciato per l’affetto che provava per suoi clienti, per la “gente semplice”, come diceva lui. Non bisogna perdere il contatto con la gente semplice, lo dico sempre io, ripeteva spesso, frase che per me era ogni volta un motivo per salutarlo.

Mi era già capitato qualche volta di notare che la cronaca sportiva, soprattutto quella calcistica, era caratterizzata da un linguaggio ricercato e da uno sforzo di riflessione tale da far pensare che alcuni accademici falliti volessero farla vedere a quelli della pagina culturale. Non si parlava forse di filosofia del gioco o addirittura della filosofia di gioco di alcuni giocatori, della filosofia di una società sportiva che era diametralmente all’opposto di quella di un’altra società, cosa che ovviamente conduceva a dispute filosofiche: nominalisti contro esistenzialisti? Ciò che un tempo era la tattica, oggi era la filosofia, e in tal senso l’istituto superiore di educazione fisica era diventato l’accademia dello sport. Quando di tanto in tanto, al ristorante italiano, guardavo una partita, ovviamente soprattutto le dirette delle partite di Coppa o della Coppa dei campioni, cercavo di continuo di scoprire a quale filosofia stessero aderendo i giocatori che si stavano affrontando in quel momento in formazioni stabilite che, alla vecchia maniera militare, vengono chiamate file – il che rendeva la faccenda sempre più noiosa. Filosofia della difesa a quattro. Dato che la televisione tedesca, come in generale quella europea, per legge consisteva di trasmissioni calcistiche da un lato e film gialli dall’altro – che a loro volta si svolgevano secondo una drammaturgia ben definita, seguendo così la filosofia dell’emittente – era lecito parlare, senza temere di esagerare o di denigrare il proprio paese, di una filosofia del calcio e del film giallo per le quali, a quanto sembrava, all’estero la Germania veniva presa spesso a esempio. Il grasso giornalista sportivo che se la stava vedendo con gli spaghetti – anche se avrebbe fatto meglio a lasciar perdere – mi fece un cenno del capo per farmi capire che mi aveva riconosciuto.

Nella sala sul retro che, con i suoi quadri dai colori vivaci che riproducevano paesaggi marini al tramonto, veniva spesso impiegata per le feste di compleanno, l’atmosfera era un po’ meno deprimente. Evidentemente alcuni inquilini avevano già bevuto qualche bicchiere del vino della casa contenuto nelle caraffe sui tavoli disposti a quadrato. Il calvo riformatore dell’inumazione era impegnato con una signora anziana che non sembrava contraria a farsi seppellire su un’isola pedonale, mentre Mira si osservava preoccupata le unghie che nell’insieme erano di sicuro più belle e perfette di quelle mangiate fino al letto ungueale del signor Netzeband, ma probabilmente non così belle come le avrebbe volute lei. Con la sua aria intimorita e allo stesso tempo temeraria, Mira pareva in un certo senso fuori posto, come se non facesse parte di quella comitiva, come se l’avesse portata lì qualcuno che non voleva farsi vedere con lei. E dov’era Max? Nei giorni passati qualche volta Mira era venuta da me con un bambino, di mattina, quando Annika era al liceo. Un bambino in prestito, aveva detto, che lasciava da me quando andava a fare la spesa. Il bambino – che Dio solo sa per quale motivo, Mira chiamava Signor Commissario – non sapeva ancora camminare bene, sebbene avesse già tre anni. Si sedeva per terra con le gambe allungate e si spingeva in avanti con le mani, mentre il cane gli saltava intorno. Quando il Signor Commissario veniva nella mia stanza, si sedeva fermo e muto davanti al mio letto e mi guardava. Ha il viso più placido che abbia mai visto.

Dal posto che mi avevano riservato, ero costretto a guardare la finestra e il sole che tramontava, e quindi non vedevo quasi niente. Accanto a me erano seduti gli attori che abitavano sopra di me, due uomini magri, dal fisico sportivo, che alla mia domanda su come facessero a muoversi così piano che quasi non li sentivo, risposero che praticavano yoga, come se questo spiegasse tutto. Entrambi recitavano in una fiction preserale e venivano trattati da tutti gli altri inquilini come due celebrità, come membri molto significativi della compagnia; erano sposati da due anni, felicemente, così diceva Werner, che si era presentato come Werner, molto felicemente, aggiunse Marcel del quale pure non conoscevo il cognome. Quando osai chiedere scioccamente, Marcel come Proust? quei due cominciarono a ridacchiare con la mano davanti alla bocca, come se quel nome sacro fosse una buona occasione per una battuta volgare. Entrambi portavano al polso un’infinità di braccialetti e nastri colorati e quando chiesi il significato di quell’ornamento indianeggiante, si batterono di nuovo la mano davanti alla bocca ridacchiando e si piegarono sul piano del tavolo come se non fosse possibile fare osservazioni più divertenti delle mie. Non riuscivo proprio a immaginare di passare un’intera serata in loro compagnia. Cosa avrebbero fatto per farmi ridere? Indossavano entrambi delle camicie di ottimo taglio, ma non osai domandare di che marca fossero perché avevo paura che sarebbero scoppiati a ridere.

Si discusse ampiamente dell’installazione di un ascensore che fu respinta dagli inquilini dei piani più bassi per molti motivi, anche estetici, che di sicuro però erano solo scuse, e che invece fu salutata dagli inquilini dei piani più alti come un segno di rimodernamento, e rimodernamento – disse una donna che si presentò come un’impiegata della Casa dell’Arte mormorando anche un nome – significa agevolazione. Ero talmente impegnato a verificare la veridicità di questa affermazione che mi pareva del tutto campata in aria, la cui rigorosità in ogni caso non mi sembrava esatta, che non mi accorsi che la coppia di attori Werner e Marcel mi stava ripetutamente tirando la giacca per sentire il mio parere sull’ascensore in quanto inquilino di un piano alto. Non so, cominciai cauto, se l’agevolazione sia davvero una caratteristica della modernità, in ogni caso dubito che la modernità possa essere messa sullo stesso piano dell’agevolazione, e non mi accorsi come, provocata dal ridacchiare dei miei vicini, nel ristorante si fosse alzata una fragorosa risata che, mentre facevo le mie considerazioni, aumentò fino a diventare un allegro tumulto, che si placò soltanto, per poi gelarsi, quando d’un tratto mi alzai con violenza rovesciando la sedia e uscii dalla sala a passi rapidi diretto al banco. Ero stato sul punto di rivelare la mia vera identità e gridare ai miei coinquilini che erano tutti sfrattati, che avevo bisogno di tutto il palazzo per uso personale, per offrire una sistemazione al mio anziano padre e al suo istituto e a Georg Faust e alla sua scuola di scrittura, ma un istinto mi trattenne dal farlo. Che riflettessero pure da soli sul loro ascensore, sulle nuove rastrelliere per le biciclette e un altro albero per il cortile interno, avrei pagato tutto. Nessuno mi trattenne e nemmeno il portavoce, a me ancora sconosciuto, dell’assemblea degli inquilini fece l’atto di invitarmi a tornare. Sembrava sottinteso che in quella cerchia democratica io fossi un ospite indesiderato.

Nel frattempo, al tavolino accanto al banco, insieme al ristoratore si era seduto l’uomo che prima aveva pianto sulle sue penne all’arrabbiata. Stava facendo così onore al vino che le lacrime gli scorrevano sulle guance a torrenti. Quando il pomeriggio era tornato a casa, aveva trovato l’appartamento vuoto e sul pavimento un biglietto di sua moglie che gli diceva di non essere triste ma che lei non ce l’aveva fatta più. Non c’è più niente, disse l’uomo scuotendo la testa, niente, addirittura neanche gli spazzolini da denti, e il ristoratore disse che a tutto c’era rimedio, che di sicuro era il proverbio sbagliato al momento giusto. L’uomo faceva l’astrofisico, a Garching, e probabilmente aveva guardato troppo a lungo nei buchi neri nel cielo e perso l’orientamento sulla Terra.

Eravamo ancora seduti al tavolino con il cuore colmo di angoscia quando gli inquilini del mio palazzo mi passarono accanto senza considerarmi. La dottoressa Annika Keller, che aveva già teso una mano per posarmela sulla spalla, indietreggiò con un sussulto quando dette un’occhiata agli inquilini dietro di lei. La coppietta di attori si congedò in modo prolisso dal ristoratore senza degnarmi di uno sguardo. Omo, disse il siciliano quando finalmente se ne furono andati tutti, e io alzai le spalle. Solo l’impiegata della Casa dell’Arte che aveva dato avvio al processo che mi aveva estraniato dagli altri prese una sedia per parlare con me e l’astrofisico del problema già accennato ma non approfondito della modernità e dell’agevolazione, ma – detto molto francamente – non ne venne fuori molto. L’astrofisico diceva: Non c’è più niente, e lei di tanto in tanto diceva: Gehlen,12 come per aggiungere un po’ di sale a una minestra sciocca, ma la minestra rimase sciocca, non ci fu niente da fare.

A casa, se così posso dire, davanti al portone, c’era un’auto della polizia con il lampeggiante acceso che sembrava aspettarmi. Comunque fosse, un poliziotto sconosciuto mi impedì di aprire il portone. Conosce un certo Georg Faust? mi domandò. No, risposi in modo veritiero. È sicuro di non aver visto il signor Georg Faust negli ultimi giorni? Come ho già spiegato ai suoi colleghi questo pomeriggio, non ho mai incontrato personalmente un signore con questo nome in vita mia, risposi, e spinsi il poliziotto da parte.

Ovviamente questo era vero solo a metà. Ma lei sa di chi sto parlando? mi domandò il poliziotto. Naturalmente, dissi, non c’è nessuno a questo mondo con cui abbia maggiore familiarità. Quindi è in stretti rapporti con lei? chiese il poliziotto, infilando il piede tozzo nella porta.

Con nessun altro ho un rapporto così stretto, dissi. E tuttavia non lo ha mai incontrato? insistette il poliziotto. Lo sforzo che faceva per capire gli si leggeva sul viso gentile, perché un caso simile non era contemplato nella letteratura specializzata. Forse tornerà in sé e poi verrà anche da me, dissi, allora gli dirò di venire al commissariato.

Quando finalmente fui davanti alla porta del mio appartamento, come in una scenetta della Commedia dell’Arte, si aprì anche la porta di Annika Keller. Con lei uscì da casa sua anche Wagner, forte e inesorabile. Devo parlarti, disse Annika, vieni da me? Parlo solo senza Wagner, dissi, quindi Annika venne da me.

Ci sedemmo al tavolo di cucina uno di fronte all’altra, congiungemmo le mani e ci guardammo negli occhi. Poi Annika cominciò a parlare.