Era un luogo celato,

e la password era:

élenthérine.

 

Adesso ero solo. La notte scendeva sul lago, e la mia solitudine era definitiva. Fox non sarebbe mai rivissuto, né lui né alcun cane con lo stesso patrimonio genetico, era sprofondato nell'annientamento totale verso cui mi dirigevo a mia volta.

Sapevo adesso con certezza di aver conosciuto l'amore, poiché conoscevo la sofferenza. Ripensai fuggevolmente al racconto di vita di Daniel1, consapevole ora che quelle poche settimane di viaggio mi avevano dato una visione semplificata, ma esaustiva, della vita umana. Camminai tutta la notte e poi il giorno e la notte seguente, e gran parte del terzo giorno. Ogni tanto mi fermavo, ingerivo una capsula di sali minerali, bevevo un sorso d'acqua e riprendevo il cammino. Non sentivo alcuna stanchezza. Non avevo molte conoscenze biochimiche e fisiologiche, la stirpe dei Daniel non era una stirpe di scienziati; sapevo tuttavia che nei neoumani il passaggio all'autotrofia si era accompagnato a svariate modificazioni nella struttura e nel funzionamento dei muscoli lisci. Rispetto a un umano, beneficiavo di un'agilità, di una resistenza e di un'autonomia di funzionamento largamente accresciute. Anche la mia psicologia, naturalmente, era diversa; non conoscevo la paura, e se ero accessibile alla sofferenza non provavo tutte le sfumature di quello che chiamavano rimpianto; quel sentimento esisteva in me, ma non si accompagnava ad alcuna proiezione mentale.

Provavo già un vuoto pensando alle carezze di Fox, al modo che aveva di rannicchiarsi sulle mie ginocchia, ai suoi bagni, alle sue corse, alla gioia soprattutto che si leggeva nel suo sguardo, gioia che mi sconvolgeva perché mi era così estranea; ma quella sofferenza, quel vuoto mi parevano ineluttabili, per il semplice fatto che esistevano. L'idea che le cose avrebbero potuto essere diverse non mi attraversava la mente, come non me l'attraversava quella che una catena di montagne, lì davanti ai miei occhi, sarebbe potuta svanire per essere sostituita da una pianura. La coscienza di un determinismo totale era probabilmente ciò che ci differenziava più nettamente dai nostri predecessori umani. Come loro, eravamo soltanto macchine coscienti; ma, contrariamente a loro, eravamo consapevoli di essere soltanto macchine.

 

Avevo camminato senza riflettere per una quarantina di ore, in una nebbia mentale completa, guidato unicamente da un vago ricordo del percorso sulla carta. Ignoro ciò che mi fece fermare e mi riportò alla piena coscienza; probabilmente il carattere strano del paesaggio che mi circondava. Dovevo essere ormai vicino alle rovine dell'antica Madrid, ero a ogni modo in mezzo a uno spazio asfaltato immenso, che si estendeva quasi a perdita d'occhio, solo in lontananza si distingueva confusamente un paesaggio di colline brulle e poco elevate. Qua e là il suolo si era sollevato di parecchi metri, formando bolle mostruose, come sotto l'effetto di una terrificante ondata di calore venuta dalle profondità della terra. Nastri di asfalto salivano verso il cielo, si sollevavano di parecchie decine di metri prima di spezzarsi di netto e di terminare in un ammasso di ghiaia e di pietre nere. Resti metallici, vetri esplosi costellavano il suolo. Credetti dapprima di essere giunto a un casello autostradale, ma non c'era alcuna indicazione di direzione da nessuna parte, e finii col capire che mi trovavo in mezzo a ciò che restava dell'aeroporto di Barajas. Proseguendo verso ovest, scorsi alcuni segni di un'antica attività umana: televisori a schermo piatto, pile di CD in briciole, un immenso cartellone pubblicitario raffigurante il cantante David Bisbal. Le radiazioni dovevano essere ancora forti in quella zona, era stato uno dei posti più bombardati durante le ultime fasi del conflitto interumano. Studiai la mia carta: dovevo essere vicinissimo all'epicentro della faglia, se volevo mantenere la rotta era necessario piegare verso sud, passando così per l'antico centro della città.

Carcasse di auto agglomerate, fuse insieme, rallentarono per un po'la mia avanzata all'altezza dello svincolo della M 45 e della R 2. Fu attraversando gli antichi magazzini IVECO che scorsi i primi selvaggi urbani. Erano una quindicina, raggruppati sotto la tettoia di metallo di una rimessa, a una cinquantina di metri. Imbracciai la carabina e tirai rapidamente; una delle sagome si accasciò, le altre ripiegarono all'interno della rimessa. Alcuni minuti dopo, voltandomi, vidi che due di loro uscivano cautamente per trascinare il loro compagno all'interno, probabilmente allo scopo di cibarsene. Avevo portato con me il binocolo e potei constatare che erano più piccoli e più deformi di quelli che avevo osservato nella regione di Alarcón; la loro pelle, di un grigio scuro, era disseminata di escrescenze e di pustole - senza dubbio conseguenza delle radiazioni.

Manifestavano comunque lo stesso terrore nei confronti dei neoumani, e tutti quelli che incrociai fra le rovine della città si diedero subito alla fuga, senza lasciarmi il tempo di aggiustare il tiro; ebbi lo stesso la soddisfazione di abbatterne cinque o sei. Benché i più fossero claudicanti, si spostavano rapidamente, aiutandosi talvolta con gli arti superiori; ero sorpreso, e persino costernato da quel pullulare imprevisto.

 

Memore del racconto di vita di Daniell, fu per me un'emozione strana ritrovarmi in Calle Obispo de León, dove aveva avuto luogo il suo primo appuntamento con Esther. Del bar che menzionava non rimaneva alcuna traccia, in realtà la strada si riduceva a due pezzi di muro annerito, di cui l'uno, per caso, portava una targa stradale. Mi venne l'idea allora di cercare Calle San Isidor, dove si era svolto, all'ultimo piano del numero 3, il party di compleanno che aveva segnato la fine della loro relazione. Mi ricordavo abbastanza bene della pianta del centro di Madrid come si presentava all'epoca di Daniell; alcune strade erano completamente distrutte, altre intatte, senza una logica apparente. Mi ci volle una mezz'ora circa per ritrovare l'edificio che cercavo; era ancora in piedi. Salii fino all'ultimo piano, sollevando polvere di cemento. I mobili, i tendaggi, i tappeti erano spariti completamente; sul pavimento sporco c'erano solo mucchietti di escrementi secchi.

Percorsi pensoso le stanze in cui Daniel doveva aver vissuto uno dei peggiori momenti della sua vita. Andai fino alla terrazza da cui aveva contemplato il paesaggio urbano prima di entrare in quello che chiamava il suo "ultimo rettilineo".

Naturalmente, non potei fare a meno di meditare una volta di più sulla passione amorosa negli umani, sulla sua terrificante violenza, sulla sua importanza nell'economia genetica della specie. Oggi il paesaggio di edifici sgretolati, i mucchi di macerie e di polvere producevano un'impressione tranquillizzante, invitavano, nelle loro sfumature di grigio, a un distacco triste.

La vista che mi si offriva era pressappoco identica in tutte le direzioni; ma sapevo che in direzione sudovest, una volta superata la faglia, all'altezza di Leganés o forse di Fuenlabrada avrei dovuto affrontare la traversata del Grande Spazio Grigio.

L'Estremadura e il Portogallo erano spariti come regioni distinte. La serie di esplosioni nucleari, di maremoti, di cicloni che si era abbattuta su questa zona geografica per parecchi secoli aveva finito col livellarne completamente la superficie trasformandola in un vasto piano inclinato, di scarsa pendenza, che appariva nelle foto satellitari come composto uniformemente di ceneri polverulente di un grigio molto chiaro. Tale piano inclinato continuava per circa duemilacinquecento chilometri prima di arrivare a una regione del mondo poco conosciuta, dal cielo quasi continuamente saturo di nuvolosità e di vapori, situata dove un tempo si trovavano le Canarie.

Disturbate dallo strato nuvoloso, le rare osservazioni satellitari disponibili erano poco affidabili. Lanzarote poteva essere rimasta una penisola, essere diventata un'isola, o essere completamente scomparsa; tali erano, sul piano geografico, i dati del mio viaggio. Sul piano fisiologico, a ogni modo, è certo che mi sarebbe mancata l'acqua. Camminando venti ore al giorno, potevo percorrere quotidianamente una distanza di centocinquanta chilometri; mi ci sarebbero volute due settimane abbondanti per arrivare alle zone marittime, sempre che esistessero.

Ignoravo la resistenza esatta del mio organismo alla disidratazione; credo non fosse mai stato testato in queste condizioni estreme. Prima di mettermi in cammino, ebbi un breve pensiero per Marie23, che venendo da New York aveva dovuto affrontare difficoltà simili. Ebbi pure un pensiero per gli antichi umani, che in tali circostanze raccomandavano l'anima a Dio; rimpiansi l'assenza di Dio o di un'entità del genere; innalzai infine lo spirito verso la speranza nell'avvento dei Futuri.

I Futuri, contrariamente a noi, non saranno macchine e neppure veramente degli esseri separati. Saranno Uno, pur essendo molteplici. Nulla può darci un'immagine esatta della natura dei Futuri. La luce è una, ma i suoi raggi sono innumerevoli.

Ho ritrovato il senso della Parola; i cadaveri e le ceneri guideranno i miei passi, come il ricordo del buon cane Fox.

 

Partii all'alba, circondato dal fruscio moltiplicato della fuga dei selvaggi. Attraversando le periferie in rovina, affrontai il Grande Spazio Grigio poco prima di mezzogiorno. Deposi la carabina, che non mi era più di alcuna utilità; nessuna vita, né animale né vegetale, era stata segnalata al di là della grande faglia. Sin dall'inizio la mia avanzata risultò più facile del previsto: lo strato di ceneri aveva in realtà solo uno spessore di qualche centimetro, ricopriva un suolo duro, che sembrava rosticcio e facilitava l'andatura. Il sole era alto in un azzurro immobile, non c'era alcun terreno accidentato, alcun rilievo che avrebbe potuto farmi deviare dalla mia rotta. Camminando, scivolai progressivamente in una fantasticheria tranquilla in cui si mescolavano immagini di neoumani modificati - più esili e più fragili, quasi astratti - e il ricordo delle visioni seriche, vellutate, che Marie23 aveva fatto nascere molto tempo prima, nella mia vita anteriore, sul mio schermo, per parafrasare l'assenza di Dio.

Poco prima del tramonto feci una breve sosta. Grazie a qualche osservazione trigonometrica, potei determinare che la pendenza era circa dell'1%. Se restava la stessa fino alla fine, la superficie degli oceani era situata a venticinquemila metri sotto il livello della placca continentale. Allora, non si era più molto lontani dall'astenosfera; dovevo aspettarmi un aumento sensibile della temperatura nel corso dei giorni seguenti.

Il caldo divenne in realtà penoso solo una settimana dopo, quando cominciai a sentire i primi attacchi di sete. Il cielo era di una purezza immutabile e di un blu cobalto sempre più intenso, quasi scuro. Mi spogliai poco per volta dei miei vestiti; lo zaino conteneva solo poche capsule di sali minerali; facevo ormai un po' fatica a prenderle, la secrezione salivare diventava insufficiente. Fisicamente soffrivo, il che costituiva una sensazione nuova per me. Interamente posta sotto il dominio della natura, la vita degli animali selvaggi non era stata che dolore, con qualche momento di distensione brusca, di abbrutimento beato dovuto al soddisfacimento degli istinti - alimentari o sessuali. La vita degli uomini era stata grossomodo simile, e posta sotto il dominio della sofferenza, con troppo brevi momenti di piacere, legati alla presa di coscienza dell'istinto, divenuto desiderio nella specie umana. Quella dei neoumani cercava di essere tranquilla, razionale, lontana dal piacere come dalla sofferenza, e la mia partenza stava a testimoniare il suo fallimento. I Futuri, forse, avrebbero conosciuto la gioia, altro nome del piacere continuato. Camminavo senza tregua, sempre al ritmo di venti ore giornaliere, consapevole che la mia sopravvivenza dipendeva ormai da una anale questione di regolazione della pressione osmotica, di equilibrio fra il mio tasso di sali minerali e la quantità di acqua che le mie cellule avevano potuto mettere in serbo. A dire il vero, non ero certo di voler vivere, ma l'idea della morte non aveva alcuna consistenza. Percepivo il mio corpo come un veicolo, ma era un veicolo di niente. Non ero stato capace di accedere allo Spirito; continuavo però ad attendere un segno.

Sotto i miei passi le ceneri diventavano bianche, e il cielo assumeva tonalità ultramarine. Fu due giorni dopo che trovai il messaggio di Marie23. Vergato con scrittura nitida e fitta, era stato tracciato su fogli di una plastica fine, trasparente, impossibile da strappare; i fogli erano stati arrotolati e infilati in un tubo di metallo nero, che produsse un leggero rumore quando lo aprii. Il messaggio non mi era specificamente destinato, a dire il vero non era destinato a nessuno: non era che una manifestazione supplementare di quella volontà assurda o sublime, presente negli umani, e rimasta identica nei loro successori, di testimoniare, di lasciare una traccia.

 

Il tenore generale del messaggio era di una profonda tristezza. Per uscire dalle rovine di New York, Marie23 aveva incrociato da vicino molti selvaggi, talvolta raggruppati in tribù numerose; contrariamente a me, aveva cercato di stabilire il contatto. Protetta dal timore che ispirava loro, era rimasta comunque nauseata dalla brutalità dei loro rapporti, dalla loro assenza di pietà per i soggetti anziani o deboli, dalla loro bramosia perennemente rinnovata di violenza, di umiliazioni gerarchiche o sessuali, di crudeltà pura e semplice. Le scene cui avevo assistito nei pressi di Alarcón, lei le aveva viste ripetersi, quasi identiche, a New York - anche se le tribù erano situate a distanze considerevoli e non avevano potuto avere alcun contatto da sette o otto secoli. Presso i selvaggi, a quanto pareva, nessuna festa era concepibile senza la violenza, lo spargimento di sangue, lo spettacolo della tortura. Sembrava che avessero conservato qualcosa dell'ingegnosità degli antichi umani solo nell'invenzione di supplizi complicati e atroci.

Tutta la loro civiltà si limitava a questo. Se si credeva alla ereditarietà del carattere morale, ciò non aveva nulla di sorprendente: è naturale che siano gli individui più brutali e più crudeli, coloro che dispongono del potenziale di aggressività più elevato, a sopravvivere in maggior numero a una serie di conflitti di lunga durata e a trasmettere il loro carattere alla discendenza.

Niente, in materia di ereditarietà morale, si era mai potuto confermare - né confutare -, ma la testimonianza di Marie23, come la mia, legittimava ampiamente il verdetto definitivo che la Sorella Suprema aveva pronunciato nei confronti dell'umanità, e giustificava la sua decisione di non fare nulla per contrastare il processo di sterminio a cui essa si era avviata duemila anni prima.

Ci si poteva chiedere perché Marie23 avesse continuato la sua strada; leggendo certi passi, sembrava del resto che avesse pensato di rinunciare, ma in lei - come in me, come in tutti i neoumani - si era sviluppato con ogni probabilità un certo fatalismo, legato alla consapevolezza della nostra immortalità, con cui ci avvicinavamo alle antiche popolazioni umane presso le quali si erano radicate con forza credenze religiose. Le configurazioni mentali sopravvivono di solito a lungo alla realtà che le ha originate. Divenuto tecnicamente immortale, avendo almeno raggiunto uno stadio molto simile alla reincarnazione, Daniel1 si era comunque comportato fino in fondo con l'impazienza, la frenesia, l'avidità di un semplice mortale.

Nello stesso modo, benché avessi abbandonato di mia iniziativa il sistema di riproduzione che mi assicurava l'immortalità, o più esattamente la riproduzione indefinita dei miei geni, sapevo che non sarei mai riuscito a prendere completamente in considerazione la prospettiva della morte; non avrei mai conosciuto la paura, la noia o il desiderio con la stessa intensità di un essere umano.

Nel momento in cui mi apprestavo a reintrodurre i fogli nel tubo, mi accorsi che esso conteneva un ultimo oggetto, che feci un po' fatica a estrarre. Si trattava di una pagina strappata da un libro tascabile umano, piegata e ripiegata fino a formare una lamella di carta, che cadde a pezzi quando cercai di spiegarla.

Sul più grande dei frammenti, lessi queste frasi, in cui riconobbi Il simposio, il dialogo platonico in cui Aristofane espone la sua concezione dell'amore:

"Certo, può capitare che un tipo così incontri nuovamente la sua antica metà; e sia lui un pederasta o altro tipo, in quell'attimo sono fulminati -ed è mistero - da un riconoscersi inferiore, profondo, che è eros, e non ammettono, si può ben dirlo, distare separati, neanche per un istante. Questi sono gli individui pronti a invecchiare insieme, fino alla morte: non importa loro di saper definire che scambio di necessità, o di desiderio li collega. Non si può certo dire che è il puro impulso erotico, l'abbraccio, come fosse lo scopo unico per cui la coppia se ne sta stretta con tanta intensità. No, no: traspare, l'anima, in ciascuno, vuole qualcos'altro, che però non riesce a definire, ne parla ambiguamente, oracoli, quasi, indovinelli."

 

Ricordavo perfettamente il seguito: Efesto, il fabbro, appare ai due mortali "avvinti da sembrare uno" e propone loro di fonderli e di saldarli insieme "così da due siete diventati uno, e finché vita dura, vivrete come coppia unificata, al singolare, ed anche dopo la morte, pure nell'aldilà non sarete due distinti, ma una morta coppia sola". Ricordavo soprattutto le ultime frasi: "E la causa lontana è questa: la nostra forma umana originale era come ho detto, e noi eravamo un tutt'uno. Al desiderio bruciante di quel tutto, a quell'inseguimento si da nome eros." Era stato questo libro a intossicare l'umanità occidentale, e poi l'umanità nel suo complesso, a ispirarle il disgusto per la sua condizione di animale razionale, a introdurre in essa un sogno di cui cercava di disfarsi da più di duemila anni, senza mai riuscirvi del tutto. Il cristianesimo stesso, san Paolo stesso non avevano potuto che inchinarsi davanti a tale forza. "I due diverranno una sola carne; questo mistero è grande, lo affermo, rispetto a Cristo e alla Chiesa. " Persino negli ultimi racconti di vita umani se ne ritrovava l'inguaribile nostalgia. Quando volli ripiegare il frammento, mi si sbriciolò fra le dita; richiusi il tubo e lo posai di nuovo a terra. Prima di ripartire, rivolsi un ultimo pensiero a Marie23, ancora umana, così umana; rammentai l'immagine del suo corpo, che non avrei avuto occasione di conoscere. A un tratto presi coscienza con inquietudine che se avevo trovato il suo messaggio significava certamente che uno di noi due aveva deviato dal suo cammino.

La superficie uniforme e bianca non offriva alcun punto di riferimento, ma c'era il sole, e un rapido esame della mia ombra mi fece capire che, in effetti, ero andato troppo a ovest.

Adesso dovevo piegare verso sud. Non bevevo da dieci giorni, non riuscivo più ad alimentar mi, e quel semplice momento di distrazione rischiava di essermi fatale. Non soffrivo più molto, a dire il vero, il segnale del dolore si era attenuato, ma provavo un'immensa stanchezza. L'istinto di sopravvivenza continuava a esistere nei neoumani, era semplicemente più debole; seguii in me, per qualche minuto, la sua lotta con la stanchezza, pur sapendo che esso avrebbe finito per avere la meglio.

Con passo più lento, ripresi la mia strada verso sud.

 

Camminai tutto il giorno, e poi la notte seguente, orientandomi con le costellazioni. Tre giorni dopo, alle prime ore del mattino, scorsi le nubi. La loro superficie serica appariva come una semplice modulazione dell'orizzonte, un tremolio di luce, e credetti dapprima a un miraggio, ma avvicinandomi di più distinsi con maggior chiarezza dei cumuli di un bel bianco opaco, separati da sottili volute di un'immobilità soprannaturale.

Verso mezzogiorno attraversavo lo strato nuvoloso e mi trovavo di fronte il mare. Avevo raggiunto il termine del mio viaggio.

Quel paesaggio, a dire il vero, non somigliava gran che all'oceano conosciuto dall'uomo; era una corona di laghetti e di stagni dall'acqua quasi immobile, separati da banchi di sabbia; tutto era immerso in una luce opalina, uniforme. Non avevo più la forza di correre, e fu con passo vacillante che mi diressi verso la sorgente di vita. Il tasso di minerali delle prime pozze, poco profonde, era assai scarso; tutto il mio corpo, però, accolse il bagno salato con riconoscenza, ebbi l'impressione di essere attraversato da parte a parte da un'onda nutritiva, benefica. Capivo, e riuscivo quasi a sentire i fenomeni che si svolgevano in me: la pressione osmotica che tornava alla normalità, le catene metaboliche che ricominciavano a funzionare, producendo l'ATP 19 necessario al funzionamento dei muscoli, le proteine e gli acidi grassi necessari alla rigenerazione cellulare. Era come la continuazione di un sogno dopo un breve risveglio angosciato, come un sospiro di soddisfazione della macchina.

Riacquistate un po' le forze, due ore dopo mi rialzai; la temperatura dell'aria e quella dell'acqua erano uguali e dovevano essere vicine ai 37° C, poiché non provavo alcuna sensazione di freddo o di caldo; la luminosità era viva, senza essere abbagliante.

Fra gli stagni, la sabbia presentava cavità poco profonde che somigliavano a piccole tombe. Mi sdraiai in una di esse; la sabbia era tiepida, morbida come seta. Allora mi resi conto che sarei vissuto lì e che i miei giorni sarebbero stati numerosi.

Il periodo diurno e quello notturno avevano una durata uguale di dodici ore, e intuivo che sarebbe stato così tutto l'anno, che le modificazioni astronomiche verificatesi durante il Grande Prosciugamento avevano creato lì una zona che non conosceva le stagioni, in cui regnavano le condizioni di un perpetuo inizio d'estate.

Persi abbastanza presto l'abitudine a orari di sonno regolari; dormivo per periodi di un'ora o due, il giorno come la notte, ma senza sapere perché provavo ogni volta il bisogno di rannicchiarmi in una delle anfrattuosita. Non c'era alcuna traccia di vita vegetale né animale. I punti di riferimento nel paesaggio, più generalmente, erano rari: banchi di sabbia, stagni e laghi di dimensioni variabili si estendevano a perdita d'occhio. Lo strato nuvoloso, molto denso, il più delle volte non consentiva di distinguere il cielo; esso non era però completamente immobile, ma i suoi movimenti erano di un'estrema lentezza. Talvolta, fra due masse nuvolose, si liberava un leggero spazio attraverso il quale si potevano scorgere il sole o le costellazioni; era il solo evento, l'unica modificazione nello scorrere dei giorni; l'universo era racchiuso in una sorta di bozzolo o di stasi, abbastanza vicina all'immagine archetipica dell'eternità. Come tutti i neoumani, ero inaccessibile alla noia: ricordi ristretti, fantasticherie vane occupavano la mia coscienza distaccata, fluttuante. Ero tuttavia assai lontano dalla gioia e anche dalla vera pace; il solo fatto di esistere è già una sciagura.

Abbandonando spontaneamente il ciclo delle rinascite e delle morti, mi dirigevo verso un nulla semplice, una pura assenza di contenuto. Solo i Futuri sarebbero forse riusciti a raggiungere il regno delle innumerevoli potenzialità.

 

Durante le settimane seguenti, mi avventurai più avanti nel mio nuovo regno. Notai che le dimensioni degli stagni e dei laghi aumentavano via via che si andava verso sud, finché si poteva osservare su alcuni di essi un leggero fenomeno di marea; rimanevano tuttavia assai poco profondi - potevo nuotare fino al loro centro pur essendo certo di raggiungere un banco di sabbia senza difficoltà. Continuava a non esserci alcuna traccia di vita. Credevo di ricordare che essa era apparsa sulla Terra in condizioni molto particolari, in un'atmosfera satura di ammoniaca e di metano, a causa dell'intensa attività vulcanica delle prime ere, e che sembrava poco verosimile che il processo si riproducesse sullo stesso pianeta. La vita organica, a ogni modo, prigioniera dei limiti imposti dalle leggi della termodinamica, se fosse rinata avrebbe potuto ripetere soltanto gli stessi schemi: costituzione di individui isolati, predazione, trasmissione selettiva del codice genetico; non c'era da attendersi nulla di nuovo. Secondo certe ipotesi, la biologia del carbonio aveva fatto il suo tempo, e i Futuri sarebbero stati esseri di silicio, la cui civiltà si sarebbe costruita tramite interconnessione progressiva di processori conoscitivi e memoriali; i lavori di Pierce, collocandosi unicamente a livello di logica formale, non permettevano di confermare né di confutare tale ipotesi.

Se la zona in cui mi trovavo era abitata, poteva esserlo a ogni modo solo da neoumani; l'organismo di un selvaggio non avrebbe mai potuto resistere al viaggio che avevo compiuto.

Prevedevo ora senza gioia, e persino con imbarazzo, l'incontro con un mio simile. La morte di Fox e poi la traversata del Grande Spazio Grigio mi avevano inaridito interiormente; non provavo in me più alcun desiderio, e soprattutto non quello, descritto da Spinoza, di perseverare nel mio essere; mi dispiaceva però che il mondo mi sopravvivesse. L'inanità del mondo, già evidente nel racconto di vita di Daniel, aveva cessato di sembrarmi accettabile; non vi vedevo ormai altro che un luogo spento, privo di potenzialità, da cui era assente ogni luce.

 

Un mattino, subito dopo il risveglio, mi sentii leggermente meno oppresso senza motivo apparente. Dopo alcuni minuti di cammino giunsi in vista di un lago nettamente più grande degli altri, di cui, per la prima volta, non riuscivo a distinguere la riva opposta. Anche la sua acqua era diversa, leggermente più salata.

Quello era dunque ciò che gli uomini chiamavano mare e che consideravano come il grande consolatore, come il grande distruttore anche, quello che erode, che pone fine con lentezza.

Ero impressionato, e gli ultimi elementi che mancavano alla mia comprensione della specie si sistemavano a poco a poco.

Capivo meglio, adesso, come l'idea dell'infinito fosse potuta germogliare nel cervello di quei primati; l'idea di un infinito accessibile, per transizioni lente nate nel finito. Capivo anche come una prima concezione dell'amore si fosse potuta formare nel cervello di Platone. Ripensai a Daniel, alla sua casa di Almería che era stata la mia, alle giovani donne sulla spiaggia, alla sua distruzione a opera di Esther; e per la prima volta fui tentato di compiangerlo, senza però stimarlo. Di due animali egoisti e razionali, il più egoista e il più razionale dei due era alla fine sopravvissuto, come succedeva sempre negli umani.

Capii allora perché la Sorella Suprema insistesse sullo studio del racconto di vita dei nostri predecessori umani. Capii la meta che cercava di raggiungere; capii anche perché quella meta non sarebbe stata mai raggiunta.

Non ero liberato.

Più tardi camminai, regolando il passo sul movimento delle onde. Camminai giornate intere, senza provare alcuna stanchezza, e la notte venivo cullato da una leggera risacca. Al terzo giorno, scorsi viali di pietra nera che s'infilavano in mare e si perdevano lontano. Erano un passaggio, una costruzione umana o neoumana? Adesso m'importava poco; l'idea di percorrerli mi abbandonò prestissimo.

Nello stesso istante, senza che niente lo lasciasse prevedere, due masse nuvolose si scostarono, e un raggio di sole scintillò sulla superficie delle acque. Fuggevolmente pensai al grande sole della legge morale, che secondo il Verbo avrebbe finito col brillare sulla superficie del mondo; ma sarebbe stato un mondo senza di me, un mondo di cui non avevo nemmeno la capacità di raffigurarmi l'essenza. Nessun neoumano, adesso lo sapevo, sarebbe stato in grado di trovare una soluzione all'aporia costitutiva; coloro che avevano tentato, se ce n'erano stati, erano probabilmente già morti. Personalmente, nei limiti del possibile, avrei continuato la mia oscura esistenza di scimmia evoluta, e il mio ultimo rammarico sarebbe stato quello di aver provocato la morte di Fox, l'unico essere degno di sopravvivere che mi fosse stato dato di intravedere; poiché il suo sguardo racchiudeva già, talvolta, la scintilla annunciante la venuta dei Futuri.

Mi restavano forse sessant'anni da vivere; più di ventimila giornate che sarebbero state identiche. Avrei evitato il pensiero, come avrei evitato la sofferenza. Gli scogli della vita erano molto dietro di me; ero entrato adesso in uno spazio tranquillo da cui mi avrebbe allontanato solo il processo letale.

 

Facevo lunghi bagni, per ore e ore, sotto il sole come sotto la luce delle stelle, e non provavo null'altro che una leggera sensazione oscura e nutritiva. La felicità non era un orizzonte possibile. Il mondo aveva tradito. Il corpo mi apparteneva per un breve lasso di tempo; non avrei mai raggiunto l'obiettivo assegnato. Il futuro era vuoto; era la montagna. I miei sogni erano popolati di presenze emotive. Ero, non ero più. La vita era reale.