2011
Le riviste musicali di mezzo mondo annunciano la morte del rock. Dopo il romanzo e il cinema sarebbe deceduto anche lui per consunzione: fra le cento canzoni più vendute nella madrepatria Inghilterra, soltanto tre ospitano ancora chitarre arroventate e rollii di batteria. Per fortuna il rock, come il romanzo e il cinema, è già morto e risorto parecchie volte, e poiché di solito dà il meglio di sé quando i giovani sono arrabbiati con gli adulti, c’è da scommettere che produrrà presto nuovi capolavori. Quando noi diciamo che qualcosa muore, in realtà sta solo cambiando il nostro modo di percepirlo. Il tempo. Che nel precedente evo tecnologico, quello dei telefoni a gettone e del duplex in casa, era composto di strisce lunghe e ininterrotte, durante le quali potevi assaporare senza distrazioni l’assolo dell’organista dei Pink Floyd in Ummagumma (tredici minuti) o Maigret alla tv che ispezionava il luogo del delitto in una scena che non durava mai meno di un quarto d’ora. Telefonino e computer hanno frantumato le strisce del tempo: oggi sappiamo godere di più cose insieme, ma di nessuna troppo a lungo. Tutto ci distrae e subito dopo ci annoia. Una musica o una storia, per attirarci, devono essere brevi. Ma ciò che poi ce le fa dimenticare in fretta non è la brevità. È la mancanza di passione. Il rock è nato breve e passionale e quindi saprà rimodellarsi all’era moderna. Non date troppo ascolto ai becchini: il rock non morirà mai. Non fino a quando il piede di un sognatore batterà a ritmo con il suo cuore.
Un amico sorride amaro: «Non farti illusioni, potenzialmente siamo tutti come lui e la sua corte: trombare e fare soldi, interessati solo ai bisogni primari, ai chakra bassi, per dirla alla maniera di voi che meditate e fate yoga. Sì, qualche disturbato che sogna con un romanzo o va in estasi per una notte d’amore sotto le stelle esisterà pure, ma è la buccia del chinotto: scorza sottile, percentuale insignificante». Davvero? Davvero la maggioranza dei giovani assomiglia a quel tipo che incita sua sorella a infilarsi nel letto di un anziano miliardario, «così ci sistemiamo»? Davvero il mondo contemporaneo si divide fra padri padroni, disposti a uccidere le figlie che osano ribellarsi, e padri ruffiani che nelle intercettazioni le incitano a sgomitare perché «le altre ti sono passate davanti, svegliati!» Sarò un ingenuo, eppure vedo ancora in giro della dignità, anche in tanti poveri che una busta di cinquemila euro l’hanno magari sognata, ma non la vorrebbero trovare nella borsa della figlia a quelle condizioni. Vedo donne e uomini pieni di vizi, ma che non invidiano lo stile di vita dei crapuloni e sognano di invecchiare con una persona amata al fianco e la musica di Mozart nelle orecchie. E quando, come ieri, alcuni lettori telefonano al giornale per segnalare che una luna mai così arancione è spuntata fra le colline e mi arriva sul tavolo la raccolta di poesie di una ragazza timida, allora penso che non è finita. Che la buccia del chinotto è più spessa di tutto il gas che le sta esplodendo intorno, in un enorme rutto di niente.
Immaginate un dopocena a casa vostra in cui gli invitati si interrompono di continuo, un tizio vi mostra il dito medio mentre gli servite l’amaro, una signora se ne va rovesciando il caffè e a mezzanotte telefona uno, sempre il solito, che si annoia a stare da solo e vi urla che siete turpi, spregevoli e ripugnanti. È quanto accade ogni sera nei talk show multi-ospiti. La caciara è il tratto dominante di queste palestre dell’ego. Ma un tempo era caciara organizzata, secondo la celebre raccomandazione di Biscardi: «Non parlate più di due alla volta». Invece, da quando è scoppiato il bunga bunga, Biscardi sembra Cetto La Qualunque: un moderato. L’ospite non va in tv per parlare e ascoltare. Ci va per impedire agli altri ospiti di oltrepassare soggetto, verbo e (nei casi fortunati) complemento oggetto, ripetendo ossessivamente una parola qualsiasi – «capra capra capra» «mavalà mavalà mavalà» – al fine di confondere il malcapitato e obbligare il regista a staccare sulla propria faccia. Conquistata l’inquadratura, farà una premessa, «Io non l’ho interrotta, lei non interrompa me» e poi comincerà a parlare: venendo immediatamente interrotto. Forse agli inizi il pubblico si divertiva. Ma adesso vorrebbe una storia, un pensiero, un discorso compiuto. Non la visione di uomini e donne stravolti dall’ansia di insultare il nemico o difendere il padrone. Modesta proposta ai conduttori: spegnete i microfoni di chi non ha la parola. I duellanti diverrebbero afoni. Oppure si prenderebbero a botte. In entrambi i casi, noi torneremmo a divertirci.
Anch’io domenica scenderò in piazza contro chi disprezza il corpo e l’anima delle donne. E cioè contro i vecchi bavosi che le riducono a gingilli. Contro gli arrivisti che le utilizzano come merce di corruzione presso i potenti. Contro le ragazze che si vendono, spacciando la loro bramosia di denaro e di fama per libertà. Contro i genitori disposti ad accettare l’idea umiliante che la carne della propria carne diventi strumento di carriera. Contro chi pensa che non esista una via di mezzo fra il burqa e il bunga bunga e invece esiste: chiamiamolo burqa bunga, oppure dignità. Contro i pubblicitari che da trent’anni riempiono di seni & sederi le tv e i muri delle nostre città per promuovere prodotti (telefoni, gioielli, giornali di sinistra) che nulla c’entrano con la biancheria intima. Contro le tante signore «impegnate» che hanno accettato questo insulto senza protestare. Contro gli autori televisivi che hanno ridotto il vestito delle ballerine a un filo interdentale, imponendo al Paese un’estetica trucida e volgare. Contro gli autori televisivi che hanno fatto la stessa cosa, ma sostenendo che si trattava di una forma sottile di ironia, mentre di sottile c’era solo la gonna. Contro chiunque considera il corpo delle donne un fatto pubblico, quando invece è un bene privato da esibire soltanto a chi si vuole, e nell’intimità. Contro i giornali e i siti «seri» affollati di tette & culi. E contro coloro che se ne lamentano, ma intanto cliccano lì. In fondo domenica scenderò in piazza un po’ anche contro me stesso.
Nella primavera del 2007, a Palermo, un alunno di scuola media aveva canzonato un compagno, dandogli simpaticamente del finocchio e facendolo simpaticamente piangere davanti a tutta la classe. La vecchia professoressa di lettere si era accanita contro il mattacchione e, anziché spedirlo ai provini di Amici, lo aveva messo dietro il banco a scrivere cento volte sul quaderno «io sono un deficiente». Lui aveva scritto cento volte «deficente» senza la i, dimostrando così di avere le carte in regola per sfondare non solo in tv ma anche in Parlamento. Poi era corso a lamentarsi da papà, che di fronte all’affronto intollerabile inferto al ramo intellettuale della famiglia aveva denunciato la prof ai carabinieri, non prima di averle urlato in faccia: «Mio figlio sarà un deficiente, ma lei è una gran c...». C’è voluto del tempo per ottenere giustizia, però ieri alla fine l’aguzzina è stata condannata: un anno di carcere con la condizionale per abuso di mezzi di disciplina, nonostante l’accusa avesse chiesto solo quattordici giorni. Che vi serva da lezione, cari insegnanti. La prossima volta che un alunno umilierà un compagno di fronte a tutti, aggiungete al coro il vostro sghignazzo e non avrete nulla da temere. A patto che l’umiliato non si impicchi in bagno, come altre volte è accaduto, perché allora vi accuseranno di non aver saputo prevenire la tragedia. E il simpatico umorista di Palermo finalmente vendicato? Lo immaginiamo ormai cresciuto, tutto suo padre, intento a scrivere cento volte sul quaderno «io sono intelligiente» e stavolta senza dimenticare la i.
Questa storia comincia con un malato cardiaco che sta morendo in ospedale. E con un cuore nuovo a bordo di un aereo-ambulanza, fermo sulla pista in attesa di spiccare il volo. Fra il malato e il cuore ci sono quattrocento chilometri e un cielo pieno di neve. In sala operatoria tutto è pronto per l’espianto del cuore guasto, eppure il chirurgo frena: prima, dice, assicuriamoci che l’aereo parta davvero. Scelta giusta numero 1: la saggezza. Sulla pista nevica fitto, non ci sono le condizioni per decollare, ma il pilota e l’équipe medica sanno che è questione di vita o di morte e così decidono di mettere in gioco la loro, di vita. Scelta giusta numero 2: il coraggio. L’aereo prova ad alzarsi, ma la tormenta lo sbatte a terra, costringendolo a piegarsi su un’ala. Tutti sani e salvi tranne il cuore, che l’urto ha reso inservibile. Nessuno recrimina, nessuno perde la testa. Viene lanciato un appello per un cuore nuovo. Scelta giusta numero 3: il carattere. La fortuna ha un debole per i forti: il cuore viene subito trovato e condotto a destinazione in tempo utile per salvare il paziente. Intanto ha smesso di nevicare e l’aereo azzoppato può decollare: dal cuore inservibile i medici riescono comunque a recuperare due valvole. Serviranno ad altri malati. Il gesto di un eroe dipende, in fondo, da un uomo solo. Mentre questa storia è meravigliosa perché allinea una serie ininterrotta di gesti giusti compiuti da un numero rilevante di persone. Che sia potuta succedere in Italia (fra Torino, Lecco e Forlì) è una di quelle notizie che fanno davvero bene al cuore.
L’orrore è spudorato, ma la meraviglia coltiva la riservatezza. Perciò dei protagonisti di questa storia sappiamo solo che sono veneti. E che sono stati sposati. Poi lui si ammala gravemente e ha bisogno di un rene compatibile che, come capita spesso, non si trova. L’ex moglie lo rivede, coglie la situazione e senza dirgli nulla si presenta al centro trapianti di Padova. Disposta a donare un pezzo del suo corpo all’uomo con cui ha diviso un pezzo della sua vita. La commissione medica ha già dato il nulla osta, si attende a giorni quello del magistrato. Subito interpellato dal sottoscritto, l’Ufficio Cinismo (ha sede in una stanza acciaccata del cuore) comunica che la donna agirebbe in preda alla sindrome di Stoccolma – l’attrazione per il proprio persecutore – oppure al senso di colpa, a seconda che nel matrimonio naufragato avesse più sofferto o più fatto soffrire. Invece l’Ufficio Pragmatismo (si trova nell’emisfero sinistro del cervello e salva l’essere umano dai precipizi, anche se gli impedisce di volare) insinua che l’ex moglie sarebbe mossa dal senso materno: verso l’ex marito o gli eventuali figli, per non farne degli orfani. Ma l’Ufficio Intuizione (emisfero destro del cervello, poco frequentato) azzarda una terza ipotesi piuttosto straordinaria: che l’amore di quella donna per quell’uomo non sia finito col matrimonio e la riconosciuta impossibilità di vivere insieme. Perché l’amore, le rare volte in cui è davvero tale, non è un’emozione e neppure solo un sentimento. È un’energia. E l’energia non la puoi fermare, purtroppo. Per fortuna.
Andrea Carandini, archeologo di fama mondiale, ha lasciato la presidenza del Consiglio superiore dei Beni culturali: i troppi tagli al bilancio gli impediscono di continuare a svolgere seriamente il suo mestiere. Non sappiamo a chi Carandini abbia materialmente rassegnato le dimissioni, dato che il ministro Bondi non esce di casa da mesi. Però ci piacerebbe almeno sapere che cos’ha fatto di male la cultura a questo Paese per meritarsi un disinteresse così suicida. Nonostante molti lo ignorino o addirittura lo disprezzino, il patrimonio artistico e culturale è l’unico petrolio su cui siamo seduti, nonché la principale e forse unica ragione per cui il mondo si ricorda ancora ogni tanto della nostra esistenza. Una classe dirigente di buon senso taglierebbe ovunque, tranne lì. Se poi fosse anche una classe dirigente illuminata, proverebbe a immaginare un’Italia diversa. Un’Italia del bel vivere, punteggiata di musei accoglienti, siti archeologici spettacolari e teatri lirici con un cartellone di Verdi e Puccini pensato apposta per i turisti. Un’Italia degli agriturismi e dei centri benessere. Dei mari e delle coste ripulite da tutte le sozzure. Dei pannelli solari installati sui tetti di tutte le abitazioni private. Dei prestiti facili alle cooperative giovanili che propongano iniziative originali nell’arte, nello spettacolo, nella moda e nel turismo di qualità. Un’Italia verde e profumata, il polo attrattivo di tutto ciò che è bello. Saremmo più felici e più ricchi. Ma soprattutto saremmo quel che ci ostiniamo a non voler essere: italiani.
Il programma dei Responsabili è copiato di sana pianta dal Manifesto degli intellettuali fascisti del 1925. Incredibile. Non tanto per il riferimento ai fascisti, ma agli intellettuali. Uno non fatica a immaginarsi la scena: Scilipoti alla scrivania con la matita in bocca e gli occhi al soffitto. Responsabilità nazionale è... è... è... Ah, saperlo. All’improvviso, la luce: perché non inserire una parola-chiave su Internet, come uno studente in cerca di ispirazione? «Manifesto», per esempio. Orrore! Sullo schermo è comparso il barbone di Marx. Un momento... più in basso affiora il filosofo Gentile col Manifesto degli intellettuali fascisti da lui ispirato. Leggiamo un po’... «Il Fascismo è il movimento recente e antico dello spirito italiano, intimamente connesso alla storia della nazione». Scilipoti ha un sussulto: parla di me! Chi è più recente e antico della nostra simpatica combriccola di voltagabbana? Chi più intimamente connesso alla storia della nazione? Il leader recente e antico pigia il tasto «copia e incolla» e il più è fatto. Giusto un paio di ritocchi. «Responsabilità Nazionale» al posto di «Fascismo», che come soggetto è un po’ datato. Anche «intimamente» va sostituito perché fa venire in mente il bunga bunga. Meglio «internamente»: orribile e casto. Tra una scopiazzata e un’incollata si approda al gran finale. Gentile aveva scritto: «La patria è concezione austera della vita». Scilipoti lo personalizza con la sua griffe inimitabile: «Responsabilità è concezione austera della vita». Ci piace sperare che a quel punto gli sia almeno venuto da ridere.
Rovistando in un baule di famiglia, ho ritrovato la scatola di latta che la nonna romagnola utilizzava nel dopoguerra come sua personalissima Banca d’Italia. Ogni volta che il marito portava a casa lo stipendio da tranviere, lei lo requisiva per diritto di vino (nel senso che altrimenti il nonno sarebbe andato a berselo tutto) e lo divideva in mucchietti che poi sistemava nella scatola. C’era il mucchietto dell’affitto e delle bollette, quello della spesa, quello degli sfizi (dove per sfizio si intendeva un cono al cioccolato) e infine, più importante di tutti, il mucchietto dei risparmi. La nonna fissava l’obiettivo finale – il frigorifero, il televisore – e poi curava la crescita del mucchietto mese dopo mese, come se fosse una piantina innaffiata dalle sue preghiere. Per nessuna ragione al mondo era possibile intaccare il tesoro della scatola: i maschi di casa avrebbero dovuto passare sul suo corpo, che era piuttosto muscoloso. Quando il mucchietto aveva raggiunto le dimensioni desiderate, la nonna indossava il vestito elegante e si recava al negozio per l’acquisto. Chi la vide in uno di quei giorni, assicura che neanche una sceicca in missione da Tiffany avrebbe potuto rivaleggiare in fierezza col suo sguardo. Una volta un commesso le suggerì di comprare qualcosa a rate. Lei lo guardò storto: «Ma se mi date quel che voglio prima che io lo paghi, dopo mi passerà la voglia di averlo e anche di pagarlo!» Aveva solo la quinta elementare, ma certe volte mi capita di pensare che, con lei a Wall Street, adesso passeremmo tutti una Pasqua più serena.
Chiunque preferisca gli umili agli infallibili sarà rimasto colpito dal dialogo televisivo tra Papa Ratzinger e la bimba giapponese che gli chiedeva conto del terremoto. «Perché i bambini devono avere tanta tristezza?» domandava la piccola, dando fiato a un tarlo che non trova risposte nella ragione, ma solo in quella che le Chiese chiamano fede e gli psicanalisti junghiani intuizione. Il Papa avrebbe potuto rispondere come quel cattolico saputello e fanatico del Cnr, che a proposito dello tsunami aveva tirato in ballo il castigo di Dio. Invece se n’è uscito con un’ammissione di impotenza dotata di straordinaria potenza: «Non abbiamo le risposte. Però un giorno potremo capire tutto». Per il niente che vale, la penso (anzi, la sento) come lui. Mi sono sempre immaginato la vita come un film di Woody Allen, dove gli attori recitano le scene senza che il regista mostri loro l’intero copione. Solo al termine delle riprese vengono ammessi in sala montaggio e finalmente comprendono il motivo per cui si erano baciati o presi a schiaffi. Per tutta la vita ci sentiamo sballottare da eventi che non afferriamo e siamo pervasi da un senso di inadeguatezza, come se ogni cosa sfuggisse al nostro controllo e il cinismo rappresentasse l’unico antidoto allo smarrimento. Ma appena diamo tregua al cervello e inneschiamo il cuore, sentiamo che tutto ciò che d’incomprensibile ci succede contiene un significato. E il fatto di trovarci al buio non significa che la stanza sia vuota, ma solo che bisogna aspettare che si accenda la luce.
Però, la vecchia democrazia occidentale. Parte sempre male: lenta, litigiosa, tremebonda, confusa. Dittature e fanatismi le danzano intorno con baldanza sfrontata, esibendo idee chiare, rapidità d’azione, disciplina ferrea. Invadono le pianure della Polonia, sparano il primo uomo nello spazio, abbattono i grattacieli di Manhattan. La democrazia risponde con lo spettacolo desolante della sua impotenza. Balbetta, piange, si arrovella. Si mostra nuda e gonfia di piaghe allo sguardo dei suoi critici, che ne pronosticano i funerali imminenti. Ma passano i mesi, gli anni, talvolta i decenni, ed è ancora lì. Che incassatrice formidabile, la democrazia. Difende la sconfitta e si riorganizza, rivelando riserve insospettabili di pazienza e talvolta anche di ferocia. Vince le guerre, conquista la Luna, stana i «cattivi» e non si vergogna di giustiziarli e di esultarne. Gli egoismi di cui è composta si raggrumano in qualcosa che non sarà mai il paradiso in terra, ma è pur sempre una comunità. Donne e uomini che non si sentono sudditi di nessuno e proprio per questo non inneggiano alla democrazia come a un totem salvifico, ma le restano affezionati. Ne sparlano e però poi la difendono: per poter continuare a sparlarne. Le dittature e i fanatismi sono emozioni violente e superficiali, che sorgono all’improvviso e all’improvviso si afflosciano. La democrazia invece è un sentimento. Scava nel profondo. Non fa battere il cuore. È il cuore. E il cuore, alla fine, vince sempre.
Vorrei spezzare una lancia, o almeno una pancia, a favore del povero Scilipoti, ingiustamente elevato da noi pennivendoli a simbolo del mercato delle vacche di piazza Montecitorio. Nel rimpasto di ieri il capo dei Responsabili ha rimediato soltanto un esilarante inno di partito, composto da una sottomarca di Apicella, che sta facendo il giro di tutte le radio come antidepressivo. Ben diverso il destino del compare Antonio Razzi, cresciuto anche lui alla corte di Di Pietro (l’ex magistrato non ha gran fiuto nella scelta degli uomini, gli vengono quasi meglio i congiuntivi). Razzi. Quello che sei mesi fa diceva «io ho una faccia sola: come potrei farmi vedere ancora in giro, se passassi con Berlusconi?» e poi è passato con Berlusconi, faccia compresa. Quello che denunciava «il Pdl ha persino proposto di pagarmi il mutuo» e da neo-alleato del Pdl ha presentato una proposta di legge per togliere l’Ici agli italiani residenti all’estero, cioè a se stesso. Quello che, sistemata la casa, voleva arredarla con una poltrona, «un posticino, qualcosa per dire grazie». E ieri il posticino è arrivato: consigliere personale del ministro dell’Agricoltura, il corresponsabile Romano. Razzi dovrà occuparsi di lotta alla contraffazione alimentare. Cautamente sondato sulle sue esperienze in materia, il neo-consigliere ha risposto: «Sono un buongustaio e soprattutto un buon cuoco: a tempo perso, aiuto mia moglie in cucina». Perché il vero tratto distintivo di questa casta di macchiette non è più nemmeno l’incompetenza. È la mancanza di vergogna.
Esiste in natura il Farabutto Perfetto? Il pensiero di molte lettrici starà correndo al maschio che ha scompigliato la loro vita o parti consistenti di essa. Però qui si parla dell’archetipo. Del modello che tutti noi, farabutti imperfetti, ci sforziamo per tutta la vita di raggiungere o, viceversa, di sfuggire. Ebbene: il Farabutto Perfetto esiste, abita a Londra ed è l’ex fidanzato della cantante Adele Adkins. Adele è una cantautrice di ventun anni che ha scalato le classifiche del mondo intero senza l’ausilio di un fisico bestiale, ma solo con la forza della sua voce e delle sue canzoni. I testi tormentati e le atmosfere struggenti traggono ispirazione dalla storia d’amore con l’uomo che l’ha conquistata, maltrattata, irrisa, tradita, mollata, ripresa, illusa, ingannata e infine lasciata: per un’altra e per sempre. Il campionario completo, insomma. Ma non è vero che il dolore devasta soltanto. Quando penetra in un’anima sensibile, ne rischiara gli angoli bui, consentendo di scoprire tesori altrimenti ignorati. Per Adele è stato così: il dolore le ha scavato dentro un traforo al di là del quale c’era il successo. Solo che con il successo sono arrivate sette telefonate dell’ex. Una in fila all’altra e tutte con la stessa richiesta: i diritti d’autore. In fondo, è la tesi di lui, se io non ti avessi fatto del male, tu non avresti mai scritto queste canzoni: perciò mi merito una parte dei tuoi guadagni. Il Farabutto Perfetto. Così perfetto da aver regalato alla sua vittima, oltre alla gloria, la soddisfazione di sbattergli finalmente il telefono in faccia.
Sarei pronto a scommettere che, fra le migliaia di romani che hanno dormito al Circo Massimo o abbandonato la città per paura di un megaterremoto smentito da tutti gli esperti, molti penseranno che Bin Laden sia ancora vivo («pare l’abbiano fotografato mentre gioca a golf in Texas con il papà di Bush» mi ha garantito un lettore con fare cospiratorio) e che il novantanove per cento delle notizie diffuse dai mezzi di comunicazione siano balle spaziali confezionate ad arte dalla famosa agenzia Spectre. Si tratta di uno dei fenomeni più curiosi della nostra epoca: diffidare di tutto e poi abboccare alla prima esca appetitosa che passa. Per proteggerci da un eccesso di messaggi seduttivi viviamo immersi in una brodaglia di cinismo. La capacità di stupefazione è stata espulsa dal vocabolario, dove la parola «ingenuo» (dal latino «ingenuus», libero) ha assunto un significato negativo ed equiparabile a stupido. Il mondo pullula di dietrologi, di teorici della cospirazione e più banalmente di poveri cristi che non si fidano delle religioni, delle istituzioni e nemmeno dei congiunti, non sempre a torto. Eppure il bisogno di credere, insopprimibile in ogni essere umano, li spinge a spalancare il cuore a chi sappia bussare alla loro porta con l’aureola del cane sciolto o del perseguitato per vendere sogni e paure. Le uniche merci di cui nessuno di noi riuscirà mai a fare a meno.
«Ha vinto il Sistema. Quello che ti fa scendere in piazza perché hai vinto tu, ma alla fine vince sempre lui. Il Sistema ha liquidato Berlusconi e deve presentare nuove facce per non essere travolto». L’ultimo monologo di Grillo, «L’Italia di Pisapippa», non rappresenta una novità. La novità è la reazione dei seguaci, che stavolta si sono ribellati al verbo qualunquista: per i suoi toni gratuitamente volgari («e se cominciassimo a chiamarti Beppe Grullo?», gli ha scritto uno), ma soprattutto perché «Pisapippa» lo hanno votato e tifato anche loro. Mi rifiuto di credere che Grillo parli male del nuovo sindaco di Milano per invidia da soubrette. Ma mi chiedo e gli chiedo che senso abbia mettere sempre tutti sullo stesso piano, Bush e Obama, Borghezio e Vendola, Berlusconi e i critici di Berlusconi. Come se chiunque entri nel teatrone della politica senza il suo «placet» faccia automaticamente parte dell’Impero delle Multinazionali che affamano i popoli per ingrassare gli squali della finanza. Grillo riconoscerà che i suoi argomenti sono gli stessi che portarono i terroristi rossi a sparare, e a sparare proprio contro quei riformisti che il Sistema cercavano di cambiarlo nell’unico modo possibile: un po’ alla volta, dall’interno. Gli suggerisco di andarsi a leggere il più commovente discorso politico di tutti i tempi (almeno per me). Quello in cui Cavour sostiene che le comunità umane sopravvivono se sanno autoriformarsi di continuo nella libertà, rimanendo insensibili alla seduzione esercitata da due scorciatoie ingannevoli: conservazione e rivoluzione.
Conoscere la faccia del Bisignani è un privilegio concesso a pochi. Quei dieci o undici milioni di italiani che gli hanno parlato al telefono non l’hanno mai visto di persona e i cittadini comuni che hanno appreso della sua esistenza solo in questi giorni continuano a vedere la stessa foto, quella con gli occhiali a goccia e il faccino stirato, scattata qualche secolo fa. Paradossale, vero? Il mondo non fa che dirci che esistiamo solo se siamo visibili, ma intanto i potenti veri non li conosce nessuno. Mai visto un banchiere sulle poltrone dei talk show, neanche in America. I burattinai mandano i pupazzi in tv ad agitarsi al posto loro. Forse temono che l’immagine rifratta in migliaia di schermi finisca per prosciugare l’anima. O più banalmente sentono che il potere si nutre di timore. E nulla toglie il timore quanto la familiarità. Appena un gradino al di sotto degli invisibili, stanno gli audio-potenti: quelli che non vanno in tv però le telefonano, incombendo con voce monologante sugli ospiti effigiati in studio. Scendendo di un gradino ulteriore, ecco il potente distaccato: si fa vedere, ma in collegamento da un’altra sede, ritratto sul maxischermo con le dimensioni di un poster di Mao. Comunque appare, quindi conta già poco. Chi invece non conta proprio niente sono gli habitué. Le marionette abbarbicate alle poltroncine, che si agitano per strappare un primo piano alla telecamera, bofonchiando il mantra «io non ti ho interrotto tu non mi interrompere». Il popolo senza speranza li disprezza e li vota. Il potere senza volto li disprezza e li usa.
Caro Marin naufrago di Federica Pellegrini, perdoni se rispondo a una lettera che lei non mi ha scritto, ma alcuni lettori mi hanno chiesto di spedirgliela. È tale l’umore collettivo, depredato da Borse e borsaioli, che si sente l’esigenza di evadere in un dolore più puro. In questi giorni lei incarna in mondovisione quel che, nel nostro piccolo, almeno una volta siamo stati o saremo un po’ tutti: l’innamorato abbandonato e tradito. Il suo strazio è passato attraverso tutte le fasi della narrativa sentimentale, a cominciare dall’equivoco sulla «pausa di riflessione», che per chi ama ancora rappresenta una sosta ai box, mentre per chi ha smesso di amare è solo la scorciatoia che lo dispensa dall’imbarazzo di un discorso d’addio. Quando lei archiviò la Manaudou e si trasferì da una primatista mondiale all’altra, la consacrai simbolo di un uomo nuovo: il maschio femmina, altruista e sensibile, che sa infondere sicurezza a compagne ingombranti senza smarrire quella in se stesso. Si tratta di un equilibrio magico, e a vent’anni parecchio provvisorio. Appena uno dei due smette di nuotare, l’amore affoga e non esiste virata che lo rimetta a galla. Ma mi creda: non è mai un altro maschio ad affondare la coppia. Può essere solo una scialuppa con cui la sua ex ha riguadagnato la riva, in attesa di ripartire verso un altrove che non contempla né lui né lei, caro Marin. Non presti orecchio alla voce livida della gelosia. Faccia conto di aver preso un malanno e si metta a letto per un mese senza guardare la tv. E senza andarci, possibilmente. Guarirà. E sarà pronto per togliersi il gusto a lei ignoto di innamorarsi di un’ignota.
La notizia che il Parlamento resterà chiuso fino a metà settembre per consentire a duecento deputati e senatori di fare un pellegrinaggio in Terrasanta ha ridato un po’ di fiato ai mercati, ma ha gettato nel panico la Terrasanta. Il sospetto è che, vista l’aria che tira in Italia, decidano di rimanervi per sempre. Permane un fitto mistero sulle ragioni vere della visita. Escludiamo che siano interessati a studiare lo stile di vita di Gesù. Mentre potrebbero nutrire una curiosità professionale per i mercanti del Tempio e per uno dei due ladroni crocefissi, quello non pentito. L’ipotesi che vogliano girare un remake di Brancaleone alle Crociate è destituita di ogni fondamento: non hanno il senso del ridicolo. Così come è improbabile che intendano fondare un nuovo ordine templare: non hanno neanche il senso del tragico. Qualcuno immagina che vadano a chiedere una grazia, però lì il foro competente è Lourdes. Qualcun altro spera che vadano a chiedere scusa, o pietà, però è a noi che dovrebbero chiederle, e potrebbero farlo comodamente dal salotto di casa, dove invece convocano le telecamere per accusarsi a vicenda di rubare. Una penitenza? Ci crederemmo soltanto se marciassero a piedi scalzi e battendosi il telefonino intercettato sul petto. No, la motivazione più verosimile del pellegrinaggio, nonché la più coerente con la natura intima dei pellegrini, è che si tratti di una bella vacanza. Formalmente a spese loro, ma di fatto pagata con lo stipendio che noi gli verseremo puntualmente anche a settembre perché continuino a darci il cattivo esempio.
La manovra del governo sposta alla domenica più vicina le solennità religiose non previste dal Concordato quando cadono in un giorno feriale. Ma l’arcidiocesi di Napoli si ribella ai dettami dello Stato italiano, di cui pure risulta far parte, dichiarando in una nota di non avere alcuna intenzione di anticipare di ventiquattr’ore il prossimo miracolo di San Gennaro, previsto in calendario per lunedì 19 settembre. La motivazione offerta è inoppugnabile: «Se si tratta di un evento non determinato da mano e da volontà dell’uomo, è evidente che non può essere spostato ad altra data». A impuntarsi, secondo l’arcidiocesi, sarebbe dunque lo stesso Santo, in questo assai meno malleabile del suo collega milanese Ambrogio, che ha ceduto alle esigenze del debito pubblico senza neppure mandare un sms di protesta alla Cgil. Invece San Gennaro non vuol proprio saperne di liquefare il suo sangue in una mattinata festiva. Neppure l’ipotesi alternativa – compiere il miracolo di lunedì durante la pausa pranzo o alle nove di sera, in pieno prime time, senza interferire con l’orario lavorativo dei fedeli – pare aver incontrato il gradimento dell’interessato. Naturalmente nessuno mette in dubbio che l’arcidiocesi di Napoli abbia un collegamento preferenziale con San Gennaro e ne interpreti fedelmente il pensiero. Ma allora ci piacerebbe approfittare della linea diretta per conoscere l’opinione del Santo anche sui quattro miliardi annui di esenzioni fiscali di cui la Chiesa italiana continua a godere persino su residenze e attività estranee al culto. Che sia questo il vero miracolo?
Fra le tante proposte di tasse alternative che turbinano in queste ore intorno al portafogli terrorizzato degli italiani, vorrei segnalare quella che mi sembra la più creativa. L’ha partorita il cervello democristiano di Paolo Cirino Pomicino, già ministro della Prima Repubblica. Si tratta di una lettera indirizzabile a società di capitali, società di persone, liberi professionisti e titolari di imprese individuali. Quattro milioni e mezzo di contribuenti, non sempre ascrivibili in blocco alla lista dei più generosi. Il tenore del messaggio sarebbe questo: «Gentile signore, lo Stato in bolletta le propone un patto. Se lei ci anticipa cinquantamila euro spalmabili in comode rate, noi per tre anni la esentiamo da ogni genere di accertamento fiscale». Tradotto dal democristiano «vintage» all’italiano corrente e ruttante suona così: «Caro amico possessore di yacht e fuoriserie a sbafo, dammi un pizzo di cinquantamila e io per tre anni mi dimenticherò di mandarti la Finanza in ufficio». In sostanza, un ricatto: al possibile evasore viene concesso di evadere senza rischi né rimorsi (ammesso che ne abbia ancora) purché paghi preventivamente allo Stato una licenza di impunità. La proposta appare cinica e astuta. Quindi perfettamente in linea con la mentalità di parecchi italiani. I quali non avrebbero alcuna difficoltà a capirla e, fatti quattro conti, ad adeguarvisi. Con un bel guadagno per l’Erario: oltre duecento miliardi di gettito potenziale. Non stupisce che l’idea sia venuta a un democristiano. In fondo la Dc era anche questo. Non pretendeva di estirpare i vizi. Si accontentava di farseli pagare.
Giunge notizia, ma confidiamo in una smentita, che Umberto Eco si accinga a pubblicare la versione riveduta e corretta del suo megaseller Il nome della rosa. Un po’ come succede per i grandi successi musicali che vengono riproposti dopo qualche tempo in chiave acustica. Lo spirito della replica sarebbe di rendere il libro accessibile ai lettori più giovani. Restringendo i riferimenti eruditi nei 140 caratteri di un messaggino Twitter? Spostando la scena dalla biblioteca di un monastero a un Internet point? Facendo parlare Adso, Guglielmo e Bernardo come Aldo, Giovanni e Giacomo? Tutti noi Eco-ammiratori (so per certo anche Adso, Guglielmo e Bernardo) ci auguriamo di no. Non foss’altro per non creare un precedente. Perché il passo successivo sarebbe la riedizione dei Promessi sposi con la censura dei paesaggi lacustri, analizzati fino allo spasimo da generazioni di studenti sbadiglianti, e la trasformazione dei «bravi» in vampiri e di Renzo Tramaglino in un emulo lessicale del Trota.
Eco è troppo intelligente per non sapere che la ragione profonda del successo del Nome della rosa consistette proprio nella patina di cultura alta che lo avvolgeva, consentendo ai lettori dei gialli Mondadori di esibire il suo thriller colto per darsi un tono in società. Tolta la patina, svanirebbe la magia. E la magia, in un libro, è tutto. A renderci ottimisti è l’ultima parte della notizia. La nuova versione snella sarebbe di 550 pagine. Più dell’originale. Conoscendo Eco, potrebbero essere tutte di note.
Mancano i fornai. C’è la disoccupazione fulminante, a un concorso per cinque posti da vigile urbano si presentano in ventimila, ma intanto a Roma – è il lamento dell’Unione Panificatori – non si trovano trecento ragazzi disposti a fare il pane per duemila euro al mese. Ho un amico pizzaiolo che cercava un assistente e lo voleva giovane e italiano. Quando ha trovato quello giusto si è sentito chiedere: «Dovrei lavorare anche di sera?» «La gente non viene a mangiare la pizza di pomeriggio». «Allora non m’interessa». Il suo posto accanto al forno è stato preso da un egiziano, che farà gli straordinari per mantenere agli studi il figlio nella speranza che non diventi un pizzaiolo. Perché, al di là degli orari infelici, il problema di certi mestieri resta la loro scarsa considerazione sociale. È una delle follie di questo capitalismo finanziario, per fortuna malato terminale: il disprezzo per i lavori che producono beni materiali e richiedono uno sforzo fisico diverso dal tirare calci a un pallone. Un impiegato di Borsa è considerato più «giusto» di un falegname. E non solo dai ragazzi. Anche dai genitori, che si vergognano di mandare i figli alle scuole professionali. Ora, mi spiegate perché uno che passa otto ore davanti al computer, a fare nemmeno lui sa cosa, dovrebbe sentirsi più elevato socialmente di un altro dalle cui mani escono cose tangibili: un vestito, una scarpa, una pagnotta? Si può fare il barbiere e leggere Umberto Eco, come lavorare in uno studio legale e rimanere un caprone. Si può anche leggere Umberto Eco e rimanere un caprone, ma questo è ancora un altro discorso.
Il mio premier è Simone Pianigiani, c. t. della nazionale di pallacanestro che, sotto di ventuno punti contro Israele, infligge alla sua squadra di talentuosi molluschi una strigliata universale. «Bisogna giocare con un po’ di dignità! Con un po’ di anima! Facciamo a cazzotti, almeno. Ma che czz avete dentro?» Le parolacce di solito mi danno fastidio, ma stavolta mi hanno messo i brividi. E non solo a me: lo sfogo di Pianigiani è uno dei video più cliccati della Rete. Che czz abbiamo dentro? Il problema è tutto lì. Siamo un Paese meraviglioso ed è inutile che vi elenchi i nostri pregi, che sono sempre stati uno in più dei nostri difetti. Siamo sopravvissuti a lanzichenecchi e venditori di tappeti perché a un passo dal baratro abbiamo sempre trovato la mossa del cavallo, lo scatto di dignità. Noi siamo il Gassman debosciato della Grande Guerra. Quello che davanti all’ufficiale tedesco che ironizza sulla vigliaccheria degli italiani, alza la testa e gli fa: «E allora senti un po’, visto che parli così, mi te disi propi un bel nient». E pur di non dargliela vinta si fa uccidere, che czz. Ora, non dico tanto. Però un po’ di anima, di dignità. La classe dirigente ne è priva. Ma noi? Siamo disposti a smetterla di considerarci pedine impotenti di un gioco incomprensibile per riappropriarci del nostro destino? A svegliarci dal torpore lamentoso degli schiavi e a lottare con orgoglio per quello in cui crediamo? Nulla è inarrestabile, neanche il declino. Ci sarà un tempo per ricordarsi di aver avuto paura. Ma non è questo il tempo. Ora bisogna dare tutti qualcosa in più, amare questa comunità e portarla in salvo. Facciamo a cazzotti con la rassegnazione, almeno.
Steve Jobs era un genio, non un santo. Invece i siti e i giornali di tutto il mondo grondano di allusioni celestiali e riferimenti a Buddha e a Gesù, francamente eccessivi. Sono sicuro che lui si accontenterebbe di essere paragonato a Leonardo: un altro che ha cambiato il mondo nutrendosi di conoscenze spirituali per iniziati. Il discorso di Jobs all’università di Stanford – «La morte è la migliore invenzione della vita» – non smette di commuovermi, ma devo riconoscere di averlo già letto da qualche parte: in qualsiasi testo ispirato di new (e old) age. Se milioni di persone non rendono omaggio soltanto al genio semplificatore di software ma al guru di una setta quotata in Borsa, significa che nei nostri cuori è successo qualcosa di meraviglioso e terribile. Siamo affamati, direbbe Steve. Affamati di valori, di esempi, di storie di successo che indichino una direzione di marcia. A molti le parole delle religioni di massa suonano stereotipate. E da quando neppure Obama è stato capace di fermare il suicidio del capitalismo (o meglio il suo omicidio, perpetrato da certa finanza), nei popoli delle democrazie è subentrata la convinzione che la politica non abbia più alcuna possibilità di cambiare il mondo. Jobs invece ci è riuscito e, nell’innalzarlo alla gloria degli altari laici, manifestiamo il desiderio struggente di altri cavalieri che illuminino il percorso di questo nuovo Medioevo. Il passaggio successivo sarà smettere di rispecchiarci in qualche eroe mitizzato e risvegliare il piccolo Jobs che sonnecchia dentro ognuno di noi.
Mi ribello all’idea che il ragazzo che ha lanciato l’estintore per spegnere l’incendio (premio Balla Spaziale 2011), quello coi genitori così fuori dal mondo che lo credevano all’università di sabato pomeriggio – insomma Fabrizio Filippi detto Er Pelliccia – diventi il simbolo della generazione degli Indignati. Sembra disegnato apposta per i pregiudizi dei benpensanti: belloccio, bamboccio, lavativo, ignorante. Uno che a ventiquattro anni frequenta ancora il primo di psicologia, ma ha tratto poco profitto anche dalla scuola dell’obbligo, visto che nel raccontarsi su Internet non sa scrivere correttamente neppure il titolo del suo film preferito: «Paura e delirio alla svegas». Non sono proprio tutti così, i ventenni di oggi. Guardatevi in giro senza paraocchi. Vedrete tanti ragazzi che studiano, si sbattono, cercano lavoro e non lo trovano. E quando lo trovano è perché accettano orari duri, stipendi ridicoli, posti precari. Sono anni che gli esperti chiedono alla politica di dissolvere la dicotomia odiosa fra chi lavora con tutte le garanzie e chi non ne ha alcuna. Ma da questo bla bla giovanilista degli adulti è forse uscito un fatto concreto? I ragazzi hanno tutto il diritto di essere arrabbiati. Naturalmente non di essere violenti, una degenerazione della rabbia che non ha mai portato fortuna a chi l’ha esercitata, né di lanciare estintori a favore di telecamera per diventare i capri espiatori perfetti di una società fondata sull’emotività delle immagini, invece che sulla profondità dei gesti e delle parole.
Non c’è mai nulla di glorioso nell’esecuzione di un tiranno. La vendetta resta una pulsione orribile anche quando si gonfia di ragioni. Ci vogliono Sofocle e Shakespeare, non gli scatti sfocati di un telefonino, per sublimarla in catarsi. Gli sputi, i calci e gli oltraggi a una vittima inerme – sia essa Gesù o Gheddafi – degradano chi li compie a un rango subumano. Dal governo del baciamano ci si sarebbe aspettati qualche parola di pietà nei confronti del vecchio sodale tramutato in un cencio sporco di sangue. Invece è toccato leggere le parole del ministro degli Esteri Frattini, che appena tre anni fa chiamava Gheddafi «un grande alleato dell’Italia» e adesso definisce la sua barbara fine «una grande vittoria del popolo libico». Davvero «grande» anche lui, il signor ministro con delega alla coerenza e alla sensibilità. La Russa non poteva essergli da meno e infatti non lo è stato. Ha detto: «Dobbiamo gioire». Per la nuova Libia, immagino. Ma con che razza di cuore si può abbinare un verbo di festa alle immagini di un corpo trascinato sull’asfalto? Ho vanamente cercato parole simili nelle dichiarazioni dei ministri francesi, tedeschi, americani. Forse i nostri sono solo più ruspanti: parlano prima di pensare, o anche senza pensare, né prima né dopo. Al confronto giganteggia persino il filosofo di Palazzo Chigi ed ex amicone del rais. Il suo Sic transit gloria mundi sulla volubilità della condizione umana (Gloria Mundi non è il nome di una ragazza) sembra voler dar voce, se non a un presentimento, a un tormento interiore.
Da sempre la morte rende mitici i giovani che la incontrano lungo la strada dei propri sogni. Ma forse la tantissima Italia che si è innamorata post mortem di un motociclista che fino alla settimana scorsa era noto soltanto agli appassionati cerca di raccontarci qualcosa di più. Il fenomeno Simoncelli ha colto di sorpresa persino i suoi amici, che continuano a ripetere: non immaginavamo fosse così amato. Infatti non lo era, prima della tragedia, se non nel cerchio magico che ieri si è stretto intorno alla sua bara, in uno dei funerali più coinvolgenti a cui mi sia capitato di assistere in televisione: confesso che quando Valentino Rossi ha fatto rombare la Honda numero 58 in mezzo alla navata centrale della chiesa, le lacrime sono franate a valle senza incontrare resistenza.
Da qualche giorno Simoncelli è il nome più ricercato sul web e il titolo più letto sui giornali. Certo: è morto giovane come il Grande Torino, come James Dean. E in quel modo orribile, riproposto ossessivamente dalla tirannia delle immagini che governa le nostre emozioni. Però c’è dell’altro. C’è che Simoncelli non era un campione consacrato, ma una potenzialità. Era quel verbo futuro che non riusciamo a coniugare nelle nostre vite, appiattite in un eterno presente senza traguardi né desideri che non siano la difesa angosciata dell’esistente. La sua fine ci commuove e ci spaventa. Perché è come se ci avessero ammazzato il futuro, dando forma a una nostra paura profonda. E mette i brividi, adesso, riascoltare i versi della sua canzone preferita, l’anacoluto più famoso e terribile di Vasco e dell’intera musica italiana: Siamo solo noi. / Quelli che poi muoiono presto. / Quelli che però è lo stesso.
Se penso a un’Italia senza B, immagino un brigadiere che si addormenta mentre intercetta le telefonate fra il professor Monti e Mario Draghi. Oh, mica voglio un’Italia di banchieri. Ma un po’ grigia e barbosa, sì. Non moralista, morale. Che per qualche tempo si metta a dieta di barzellette, volgarità, ostentazioni d’ignoranza. Dove l’ottimismo non sia la premessa di una truffa, ma la conseguenza di uno sforzo comune. Un’Italia solare, anche nell’energia. Con meno politici e più politica. Meno discorsi da bar e più coerenza fra parole e gesti. Una democrazia sana e contenta di sé, che la smetta di prendere sbandate per gli uomini della provvidenza e si ricordi di essere viva ogni giorno e non solo una volta ogni cinque anni per mettere una crocetta su una scheda compilata da altri. Un’Italia di politici che non parlano di magistrati, ma coi magistrati (se imputati). E di magistrati che parlano con le sentenze e non nei congressi di partito. Di federalisti che non fanno rima con razzisti. Un Paese allegro e però serio. Capace di esportare non solo prodotti belli, ma belle figure. Vorrei essere governato da persone migliori di me. Che non facciano le corna, non giurino sulle zucche e si sfilino un paio di chili dalla pancia, prima di far tirare la cinghia a noi, ripristinando il principio che chi sta in alto deve dare il buon esempio. Per giungere a un’Italia così, le dimissioni di B rappresentano un primo passo. Adesso devono dimettersi tutti gli altri. Perché più ancora di Berlusconi temo i berluscloni.
Silvio, mi manchi. L’ho sempre temuto, ma ne ho avuto la certezza ieri pomeriggio. Quando, in piena sonnolenza post-spaghetto e post-discorso programmatico del nuovo premier, mi sono imbattuto in una tua dichiarazione roboante. Te la prendevi con Napolitano «maestrino» e con la stampa «terrorista». Come ai vecchi tempi. Per un attimo ho creduto che tu fossi tornato, che le tue parole riattizzassero polemiche e scavassero indignazioni. Invece niente. Non ti ha filato nessuno. Tutti dietro a quell’altro che parla di «iato» e di «spending review». Persino gli studenti in piazza ti hanno già dimenticato: i loro cartelli sfottevano solo i banchieri. Guarda, non dovrei dirtelo, ma persino i tuoi tg hanno fiutato l’aria sobria e anziché sostenere le tue battaglie contro i mulini forti preferiscono darsi alla cronaca nera. Taccio sulla Rai, per non farti soffrire. Comunque sappi che davanti alla porta di Casini c’è una tale fila di tuoi ex raccomandati che fra un po’ dovranno dargli il numeretto come alle Poste. Siamo rimasti soli, Silvio. Hai spaccato un Paese, abbassato l’asticella del buongusto al livello dell’elastico degli slip, desertificato i cervelli di due generazioni di telespettatori, abolito il senso di autorità e quello dello Stato (già scarsi anche prima di te), sdoganato un esercito di fascisti, razzisti, squinzie e buzzurri. Soprattutto hai sparato una quantità inverosimile di panzane. Eppure eri la mia musa. Ora basta però, ti devo lasciare. Per il bene della Nazione e mio personale, da domani scriverò solo dei Buongiorno tecnici.
Si può comprendere lo stupore che emerge dagli interrogatori di Tommaso Di Lernia, il tizio che ungeva politici e dirigenti per mungere la mammella degli appalti pubblici. A un certo punto del suo peregrinare fra mazzette e fatture false, Di Lernia finisce nell’ufficio di un alto funzionario dell’Enav che si colloca a uno snodo cruciale del percorso tangentizio. Il corruttore ha bisogno della sua firma o della sua omertà. «Andai da lui per cercare di disincagliare la situazione» racconta nel gergo delle deposizioni, «ed egli mi manifestò le sue ragioni, devo dire valide. Allora tentai di offrigli del denaro, ma mi resi conto che non avrebbe accettato nessuna retribuzione». Dunque il funzionario si attenne alle regole, rifiutandosi di disincagliare e di intascare. Nonostante attorno a lui fosse tutto un fiorire di attività intascanti e disincaglianti: chi si faceva accreditare i soldi all’estero, chi li intestava a una società di comodo, chi maneggiava fondi neri in guanti di velluto. Ma lui niente, «impermeabile a ogni tipo di offerta» lo definisce l’amareggiato Di Lernia. Impermeabile e recidivo. Perché chiunque può avere un momento di sbandamento e rifiutare una mazzetta. Mentre qui siamo di fronte a un caso estremo di onestà continua e reiterata. «Più volte l’amministratore delegato di Finmeccanica mi disse di sistemare la faccenda con tale dirigente perché per lui rappresentava un problema». Difficile dargli torto. Una persona perbene come il dottor Fausto Simoni lì in mezzo era decisamente un problema.
Equità (s. f.) Contrazione di E-qui-taglio. Diffusissima fra i cavalli e le altre bestie da tiro, come i muli, i buoi e i lavoratori con almeno 42 anni di contributi. Ex moglie dell’ex ministro Tremonti, con il quale ha avuto una figlia: Equitalia. Esempio di equità: andare in pensione alla stessa età dei tedeschi senza però avere mai percepito gli stipendi francamente esosi dei tedeschi. Altro caso tipico di equità è il raddoppio dell’Ici alle vedove che vivono in case fin troppo grandi, per contribuire al fondo di solidarietà «Mansarde di Stato con vista panoramica abitate dai parlamentari a loro insaputa». Aggettivo: equo. Nel sentire comune è equo che paghino gli altri, mentre è iniquo che paghi io. La saga «Lamento dell’Equo» di Evasor Multiplex racconta le avventure dei possessori di yacht in nero, che la tassa sui posti-barca costringerà a tentare un attracco di fortuna in qualche isolotto dei mari del Sud, dopo una sosta nei centri di raccolta svizzeri per fare il pieno di banconote non scudabili e difficilmente scusabili. Sinonimi: torna qua, hai da pagà, ma va là. Frasi celebri: «Rogito, equo suv» (pronunciata dal filosofo Cartesio, già ministro tecnico nel governo Ciampi, alla notizia della rivalutazione degli estimi catastali). Curiosità: dopo le lacrime della ministra Elsa Fornero, alla manovra «Lacrime e Sangue» verrà presto aggiunto il sangue dei pensionati. Per equità.
Arianna scivola sul ghiaccio e viene investita da un pullman che un autista distratto trascina per cinque metri prima di accorgersi che c’è qualcosa di vivo sotto le ruote. L’agente Peck, della contea di Salt Lake City, striscia accanto alla ragazza. Arianna ha le gambe schiacciate e la faccia nascosta dal sangue, ma è ancora viva. Il poliziotto telefona ai vigili del fuoco, eppure sa che potrebbero arrivare tardi, se lui nel frattempo non sarà riuscito a tenerle il cuore in caldo con un gesto profondamente umano. Come prenderle la mano e sussurrare: «I’ll stay until we get you out». Resterò qui finché non ti tireremo fuori. Poi Arianna si è salvata, l’agente Peck è diventato un eroe nazionale e la sua spremuta di umanità è fra le più lette del mondo intero. Forse perché, col linguaggio dei simboli, parla al subconscio di tutti. Anche noi come Arianna siamo finiti sotto il pullman, un po’ per colpa nostra e molto per l’irresponsabilità di chi era al volante. Siamo feriti ma vivi e possiamo ancora salvarci, se qualcuno avrà la forza di stendersi accanto a noi e tenerci la mano, sussurrando quelle parole. Resterò qui finché non ti tireremo fuori.
È il 21 dicembre e il mondo finirà fra un anno: minuto più, minuto meno. Considerato l’anno che ci aspetta, potrebbe essere persino un sollievo. Io la scena la immagino così: un ultrasuono che perfora soltanto gli orecchi dei pigri e dei vigliacchi, i quali per la disperazione corrono a sfracellarsi contro un muro invisibile, osservati con vivo stupore dal resto dell’umanità. Mi resta dunque un anno a disposizione per smettere di essere pigro e vigliacco. Per foderarmi gli orecchi con la cera della passione. Cosa si può fare in un anno che non si è fatto mai? Mi vengono in mente solo fantasie musicali. Ballare un tango con i delfini, addormentarsi sopra un organo a canne suonato dal mare (esiste, è in Croazia), ascoltare a palla in un deserto la canzone più straziante della storia, che per un punkettaro impunito come me rimane My Way nella versione di Sid Vicious. Però si possono fare cose altrettanto sfiziose a chilometro zero. Per esempio afferrare il tempo, governarne la fluidità e plasmarla ai nostri scopi. Smettere di lamentarsi, di fare le vittime, di aspettarsi dagli altri la soluzione dei nostri problemi. Diventare adulti. Profondi ma leggeri. Voler bene alle persone a cui si è scelto di voler bene. Leggere Charles Dickens o chi volete voi, purché oltre alla tecnica abbia un’anima, oltre al cinismo un sogno. E le vere profezie dei Maya, per scoprire che il 21 dicembre 2012 non finirà un bel niente, semmai comincerà qualcosa. Qualcosa che sarebbe meglio far cominciare già adesso, anche dentro di noi.