2008
Se una donna confidasse alle amiche: «Voglio un uomo dotato della bomba atomica» provocherebbe un crepitio di risatine, seguite da amari commenti sulle testate missilistiche dei rispettivi ex. Ma quando Carla Bruni pronunciò questa frase memorabile, racconta la sua ultima biografia, nessuna delle astanti la interpretò come una metafora: conoscendola, capirono subito che andava presa alla lettera. Intendeva accalappiare uno dei nove capi di Stato che possono far saltare il mondo. Anzi, uno degli otto, perché George W. Bush non ha ancora finito di leggere le istruzioni. Esclusi per ragioni estetiche gli asiatici (a loro non piacciono le donne a forma di attaccapanni) e Gordon Brown (alle attaccapanni non piacciono gli uomini a forma di bulldog), restavano in lizza Putin e Sarkozy. Tardivo e assai osteggiato dalla comunità internazionale l’inserimento di Ahmadinejad. Inutile quello di Veltroni e Berlusconi, che al più potevano offrire una cassetta di petardi. Putin non era poi male, ma è stato messo fuori gioco dai climatologi: l’impatto fra due iceberg come l’orso russo e l’ape regina torinese avrebbe causato una catastrofe naturale. E così, Sarkozy. L’arrivista è arrivata, dicono ora le malelingue. Se il potere la eccita, affari suoi. A me invece incuriosisce sapere perché lo voleva proprio dotato di bomba atomica. A che pensa quando lo abbraccia, a una deflagrazione nel deserto del Nevada? Soprattutto, e qui la curiosità cede il passo alla preoccupazione, non è che per ispirarsi pretenderà di tenere la valigetta ai piedi del letto?
Le donne non sono fortunate: due secoli per vederne una alla Casa Bianca e la prima che potrebbe davvero farcela, invece del solito bietolone alla Kerry si ritrova come rivale alle primarie il candidato perfetto: nero, bello e simpatico, che la sorpassa a sinistra sull’autostrada del Politicamente Corretto. Il confronto fra Hillary e Obama dice una cosa molto importante sulle relazioni fra uomini e donne. La donna, che nella letteratura dei luoghi comuni resta creatura eterea e inafferrabile, si rivela al contrario, anche in politica, la più preparata, seria e concreta. Eppure continua a perdere perché le sue parole non fanno sognare. Resta una ringhiera che rassicura e non una rampa da cui spiccare il volo. L’uomo, lui, è approssimativo, improvvisatore. Ma sa essere affascinante. Uno specchio delle passioni altrui. Un foglio bianco, anche se nero, su cui ognuno può scrivere quel che gli pare. Le sue parole hanno un suono superiore al peso. E si prestano a qualsiasi interpretazione, purché aerea e sognante. La donna non ha quel tipo di talento, ma nessuno meglio di lei sa apprezzare gli uomini che lo posseggono. Perciò ne paga il prezzo. Si illude, imprestando i propri sentimenti inespressi a chi glieli sa stimolare. E quando il maschio la delude, rivelandosi alla prova dei fatti uno sbruffone o un millantatore, gli ritira la fiducia, promettendo a se stessa di non cascarci più. Ma senza riuscirci, perché prima o poi le tornerà la voglia di sognare, la voglia di un uomo che sorridendo le dica: «Yes, we can».
Aeroporto di Fiumicino. In attesa dell’imbarco, un passeggero sta sfogliando i giornali. Si inchioda davanti alla vignetta di Altan su Repubblica, un padano in camiciotto verde che bofonchia: «Basta con le mezze misure, ci vuole il boia di quartiere». Il passeggero si gira verso un amico: «Finalmente qualcuno che ha il coraggio di dire le cose come stanno!» Tendo l’orecchio, sicuro che l’interlocutore gli spiegherà che Altan è un umorista e gli umoristi coltivano i fiori del grottesco. Invece l’amico sbotta: «Non sono d’accordo. Vogliamo arrivare alla pulizia etnica? E sì che Altan una volta era progressista». Mi viene da piangere. Come a un funerale. La mia adorata satira giace lì senza vita, assassinata sulle poltroncine del gate numero 4. Forse è morta per asfissia: la realtà è diventata così paradossale da aver tolto il fiato a un’arte che si nutre di paradossi. Forse l’hanno pugnalata le due sorelle siamesi: ignoranza e volgarità. Forse si è suicidata a furia di prendersi troppo sul serio, anche se non è certo il caso di Altan. Oppure si è semplicemente atrofizzato il muscolo invisibile che consentiva ai lettori di cogliere il salto logico. Quella capriola intelligente del pensiero che distingue l’ironia dalla comicità da caserma, persino quando entrambe si nutrono delle stesse parolacce (è la differenza fra la Littizzetto e il Bagaglino). Qualunque sia la causa del decesso, il referto è implacabile: se bisogna mettere i sottotitoli all’umorismo, significa che non lo si capisce più. Comunicazione interrotta, riprenderemo a sorridere il più presto possibile. Sperando non sia troppo tardi.
Dov’eravate il 23 maggio 1992, un sabato pomeriggio, quando la mafia fece saltare in aria Giovanni Falcone con moglie e scorta, fissando per sempre quella data nella memoria degli italiani come il loro 11 settembre? Io mi trovavo a Roma nella redazione de La Stampa e avevo voglia di un gelato. La tv accesa ronzava boiate e mi alzai dal computer per proporre a Ciccio La Licata un raid alla gelateria siciliana sotto il giornale. Lo trovai curvo su un foglietto di carta: lo rigirava fra le mani come se cercasse il verso giusto per leggerlo. Era il dispaccio d’agenzia che annunciava l’Attentatuni. Palermitano e principe del giornalismo di mafia, Ciccio era amico personale di Falcone, uno dei pochi. Quando me lo aveva presentato al giornale (Falcone scriveva per noi), ero andato in cerca di una frase memorabile, ma dalla gola non mi era uscito che uno stupido «Pia-ce-re!» Ciccio posò il foglietto e rispose al telefono. Il direttore, da Torino, gli chiedeva un ritratto del magistrato ucciso. Lui non disse nulla. Accese il computer e cominciò a battere piano sulla tastiera. Lo osservavo come in un incantesimo: intorno a noi i televisori strepitavano la notizia, sui volti dei redattori e dei fattorini montava la rabbia, ma Ciccio niente, scriveva e perdeva acqua dagli occhi in silenzio. Le lacrime gli scendevano lungo la scanalatura del naso e andavano a inzuppare la barba senza che lui facesse un solo movimento per fermarle. Ancora oggi lo rivedo mentre scrive quelle parole asciutte con gli occhi bagnati. E penso che Falcone doveva essere davvero un grand’uomo per meritarsi un giornalista così.
Sparlate pure di tutti gli altri ministri, ma non toccatemi Brunetta, il mio preferito. Quest’uomo, al cui confronto don Chisciotte era un pragmatico, si è messo in testa di far funzionare lo Stato. E mica in Danimarca o in Lapponia. In Italia. Non è commovente? Fra i tanti ex barbari del governo che camminano per le stanze del potere con le pattine sotto le scarpe, Brunetta «Taglia & Affetta» è l’unico ad aver conservato l’impeto delle origini. Irascibile peggio di Paperino, il kamikaze del liberismo si muove fra i riti di Palazzo con la leggerezza di un lottatore di sumo scaraventato in una coreografia del Lago dei cigni. Non che non si sforzi di fare il diplomatico. Ieri ha addirittura convocato i sindacalisti, una categoria che gli procura attacchi d’asma e sfoghi sulla pelle curabili solo dopo lunghe ore di meditazione davanti alla foto della Thatcher che addenta le cosce di un minatore gallese. «L’amministrazione dello Stato è una palla al piede», ha esordito con la consueta cautela. L’incanto è durato un quarto d’ora, poi il delegato della Cgil ha abbandonato il tavolo (le cronache non precisano se era inseguito dai cani), protestando perché il ministro aveva invitato un solo rappresentante per ogni sigla. Ne voleva di più, quell’ingordo, senza pensare all’effetto devastante che una cucciolata di sindacalisti sbraitanti avrebbe provocato sul sistema nervoso di Brunetta, già scosso dagli sfottò che Fiorello riserva ogni giorno alla sua statura da gnomo. Ma non è un colpo basso, nel 2008, fare ancora battute sull’altezza? Lo perdoni, Brunetta. E richiami indietro i cani.
Uno degli eventi più strabilianti della nostra epoca è la scomparsa dei verbi al futuro. Dopo l’abbuffata del Duemila, quando per strada e sui giornali era tutto un «saremo» e «diventeremo», il futuro ha cominciato a rattrappirsi. Fino alla condizione attuale, in cui per i poveri coincide con l’ultima settimana del mese e per i potenti con la fine dell’anno, quando molti di loro verranno giudicati sulla base del bilancio consuntivo: premiati se avranno tagliato i costi, ma puniti senza pietà se li avranno aumentati per sviluppare gli investimenti, la ricerca scientifica, la formazione del personale. Le società umane appassiscono così, a furia di chiudere in pareggio i bilanci di fine anno senza più avere un senso di marcia che non sia la mera sopravvivenza. Gli unici che osano ancora coniugare i verbi al futuro sono gli innamorati. Ascoltate i loro discorsi (o ricordate i vostri, di quando lo eravate). Pur nelle difficoltà di una vita precaria palpitano di visioni, progetti, scenari che escono dalla meschinità del presente per proiettarsi in quella dimensione magica dove le possibilità del cambiamento volteggiano intatte. Il futuro è il verbo di chi emana energia. E l’energia più potente e più giovane rimane sempre l’amore. Persino in un continente per vecchi come la nostra estenuata Europa. Non sono un economista e nemmeno un sociologo, ma sento che dalla depressione economica e morale ci potranno salvare soltanto le persone innamorate: di un’altra persona, di un sogno, del proprio talento. Della vita.
C’è il caldo caldo e c’è il caldo percepito, di solito più caldo di almeno cinque gradi. Ci sono l’inflazione ufficiale e l’inflazione percepita, di solito più alta dello stipendio percepito. E poi ci sono l’aumento del mutuo e l’aumento percepito, il declino reale e il declino percepito, la violenza percepita, la paura percepita, i furbi percepiti anche se poco perseguiti, la Nazionale che va fuori ai rigori: un pareggio percepito come una sconfitta. Giuro che non ci percepisco più niente. Non mi fido delle statistiche rassicuranti, come degli allarmi assillanti. E non mi fido neanche della memoria che abbellisce le ombre del passato e dilata i mostri del presente. C’era davvero meno violenza trent’anni fa, quando due ladri picchiarono mio padre nell’androne di casa per portargli via una cartella di cuoio che conteneva pratiche banalissime? Faceva davvero meno caldo quando nelle sere d’estate mia nonna bivaccava sul balcone passandosi La Stampa davanti alla faccia a mo’ di ventaglio? Ed eravamo davvero più ricchi quando riuscivamo a sopravvivere con le scarpe risuolate e senza telefonini? Di sicuro eravamo più giovani: anche i vecchi. Di sicuro il futuro era avvolto nella nebbia, come sempre, ma il futuro percepito non aveva lo stesso sapore di paura che si percepisce oggi. Questa paura di perdere che ci rende tutti così aggressivi eppure così abulici. Potessi esprimere un desiderio, vorrei che percepissimo più coraggio e dietro ogni porta che si chiude non vedessimo soltanto il muro, ma un’altra porta che si apre. Messaggio percepito?
Da quando ho letto la denuncia di una lettrice su Specchio dei tempi, non riesco a togliermi dalla testa la scena di quei baldi ventenni che, in spiaggia a Varigotti, hanno torturato un pesciolino vivo, strizzandolo di mano in mano, sbattendogli la coda sugli scogli e infine usandolo come palla da tennis per i loro racchettoni. Non mi sorprende il sadismo. E nemmeno la faccia tosta con cui hanno replicato alle rimostranze della lettrice: «Ci stiamo divertendo». Ciò che fatico a mandare giù è l’atrofia delle emozioni che impedisce ormai a troppe persone di mettersi nei panni di un altro, di chiunque altro, persino di un altro particolarmente piccolo e inerme come un pesciolino. Chiedersi che cosa prova l’innamorato che stiamo ingannando, il bambino che stiamo trascurando, il sottoposto che stiamo umiliando, l’animale, la foglia o la pietra su cui stiamo infierendo. Si tratta di un esercizio di ginnastica dell’anima che un tempo veniva insegnato fin dalla tenera età. Serviva a renderti un po’ meno irresponsabile dei tuoi atti. Ma soprattutto a farti sentire parte di qualcosa di più ampio delle tue paturnie individuali. Parte di una comunità, di una nazione, del creato. Invece questo solipsismo menefreghista spacciato per libertà ci ha ridotti a un balletto isterico di particelle staccate, perse dietro le proprie rivendicazioni personali, ma incapaci di prendere anche solo in considerazione quelle del prossimo. Ciascuno sfoga la sua irrilevanza torturando i pesciolini che può. E ciascuno è a sua volta il pesciolino di qualcun altro.
Franco Frattini non parteciperà al vertice europeo dei ministri degli Esteri sulla guerra del Caucaso perché impegnato in una vacanza alle Maldive. Ignoriamo il contenuto, ovviamente segreto, della delicata missione che il ministro sta svolgendo in quel lontano arcipelago, dietro lo schermo ufficiale del viaggio di piacere. Ma che si tratti di far rientrare la ribellione armata (di stuzzicadenti) del contingente di gitanti bergamaschi innervositi dalla cattiva qualità delle olive negli hotel di Fua Mulaku, oppure di fungere da arbitro nella disputa territoriale fra due vicini di bungalow dell’atollo di Bathala circa l’uso dello stendino per i costumi, non vi è dubbio alcuno che la nostra diplomazia saprà essere all’altezza della situazione, essendo appunto le vacanze e i luoghi a esse collegati il contesto ideale per dispiegare i nostri talenti migliori. Non finiremo mai di lodare la saggezza di Frattini e il suo pragmatismo: ci pensino quei boriosi dei francesi a far finta di dipanare l’ingarbugliato gomitolo caucasico. Noi presidiamo i bungalow e l’oliva, senza escludere un vertice sugli sci d’acqua con il democratico americano Barack Obama, in ferie di lavoro alle Hawaii. Però disertare la riunione europea di Bruxelles sarebbe stato maleducato. Così, al posto del ministro con le pinne il fucile e gli occhiali, a rappresentare l’Italia sarà una giovane promessa della politica: il sottosegretario Vincenzo Scotti, omonimo del notabile democristiano risalente al periodo mesozoico della Repubblica. Ma talmente omonimo che è proprio lui.
Caro collega che sull’Independent di ieri passavi in rassegna le misure adottate dai nostri sindaci e concludevi: «Turisti, attenti, se una cosa è divertente, l’Italia ha una legge che la vieta», vorrei che mi togliessi una curiosità. Ma come dobbiamo essere, cosa dobbiamo fare, per ricevere la vostra approvazione? Sai quanto ci teniamo, al punto da riportare in prima pagina ogni articolo che parli male di noi, compreso l’ultimo della Frankfurter Allgemeine che ci accusa di rubare gli accappatoi negli hotel. Mentre nascondo in valigia il diciannovesimo accappatoio di pessima tela sradicato dai vostri eurobagni (potreste almeno mettere quelli di spugna, tirchi), torno a domandarti: cosa dobbiamo fare? Perché se intasiamo le piazze di rifiuti, scrivete che siamo dei buzzurri. Ma appena cominciamo a multare chi butta per terra una lattina, ci disegnate come dei pedanti insopportabili. In attesa di una parola chiara da parte tua, azzardo una teoria. Non sarà che vi irrita l’idea di non poter più venire in Italia a fare i vostri comodi? Ho conosciuto dei tuoi connazionali che a casa loro chiedevano permesso anche per attraversare la strada, mentre qui erano capaci di trasformare ogni luogo pubblico nell’imitazione particolarmente riuscita di una pattumiera. Il caos latino, che tanto criticate negli articoli, è uno splendido alibi. Consente al turista rattrappito in patria dai controlli sociali di muoversi con leggiadria nel paradiso del chissenefrega: sporcando, gridando, prevaricando. Se è questo il divertimento di cui lamenti la scomparsa, sappi che a noi non divertiva affatto: facevamo finta. Per compiacervi, come al solito.
Nauseato dal surreale omaggio di Roma ai soldati papalini di Porta Pia, ieri pomeriggio sono uscito a fare due passi e in una piazza di Torino ho incontrato lo Stato. Almeno, credo fosse lui: ormai sono anni che non si fa troppo vedere in giro. Sullo sfondo dei palazzi barocchi si stagliavano centinaia di alpini di ritorno dall’Afghanistan. Un sottosegretario parlava al microfono senza sbrodolarsi eccessivamente in retorica. Dietro le transenne i parenti dei soldati osservavano la scena mescolati agli alpini anziani. È partito l’inno di Mameli e non è che lo cantassero tutti a squarciagola come calciatori: lo mormoravano, per non sporcare la compostezza del quadro. Poi i ragazzi in divisa hanno reso omaggio a una bandiera, gli alpini anziani si sono portati la mano alla fronte, un genitore dietro le transenne ha gridato: «Viva l’Italia» e nessuno lo ha trovato strano né comico. Sembrava di essere precipitati dentro una pagina di De Amicis o sul set di una fiction risorgimentale, ma l’atmosfera era troppo sincera per assomigliare alla tv. Anche uno come me, che militarista non è mai stato e certo non potrebbe cominciare a esserlo ora con un principio di pancetta, ha percepito per un attimo la presenza di una comunità. Bella o brutta, non so. Ma era la sua. La nostra. Persino in un Paese che non è una nazione, dove il cittadino non ha senso dello Stato e semmai è lo Stato che gli fa senso, può ancora succedere di inciampare in avventure come questa, che ti fanno tornare a casa con la sensazione di essere un po’ meno solo.
Quand’è che l’insonnia è diventata un valore politico? Perché i cocchi della folla hanno sempre menato vanto del loro dormir poco? L’amato premier lo ha ribadito sabato, strusciando fuori da una discoteca milanese alle sei e un quarto del mattino: «Mi basta dormire tre ore, così poi ho l’energia per fare l’amore altre tre». Anche il capo dell’opposizione passa la notte a duplicare cd per gli amici e a vedere film ubzeki coi sottotitoli in lituano, ma giustamente non lo dice a nessuno. L’insonnia è politicamente spendibile solo se funzionale al racconto, vero o millantato, di prestazioni sessuali e riunioni strategiche, le due attività in cui ogni capo branco maschio esprime la propria concezione del potere. È vero che anche i mistici si svegliano alle tre di notte, ma loro lo fanno per pregare e comunque si erano coricati al tramonto, senza aspettare l’ultima dichiarazione di Cicchitto. «L’allievo dormirà sei ore, ne siano concesse sette solo al pigro, a nessuno otto», si leggeva nel regolamento delle scuole pitagoriche. Ma sei ore erano garantite a tutti, una sorta di minimo esistenziale sotto la cui soglia si celano il malessere e l’inquietudine. Tanto poi avrò l’eternità per dormire, sentenziano gli stakanovisti del fare. E non capiscono che sarebbe saggio cominciare a portarsi avanti col lavoro. Che solo chi dorme riesce a sognare. E che i sogni sono la vita vera. Avessero dormito di più anche certi cocainomani di Wall Street, forse adesso la notte prenderemmo tutti sonno un po’ meglio.
Lui, Marco, fratello minore di Antonio, il primo operaio a morire nel rogo della Thyssen. Lei, Laura, sorella minore di Giuseppe, l’ultimo ad andarsene dopo lunga agonia. Si conobbero all’indomani della tragedia, confusi fra i parenti delle vittime. Non avevano occhi per il piacere ma si piacquero subito, senza dirselo. Non avevano tempo per l’amore ma ne ebbero tantissimo per il dolore: piansero e cercarono consolazione sulle rispettive spalle. Si corteggiarono senza corteggiarsi durante le veglie, le fiaccolate, i funerali solenni in Duomo. Poi cominciarono a frequentarsi con regolarità, dandosi appuntamento sempre allo stesso posto: il cimitero, là dove i fratelli maggiori giacevano affiancati. Davanti alle tombe singhiozzarono molto e parlarono ancora di più: dei morti, e dei vivi che si sentivano morti. Ma il dolore per la perdita di un bene comune, che avvelena le coppie più solide, incollò invece la loro. Il 31 agosto, al cimitero, Marco tolse gli occhi dalla foto del fratello e li posò su quelli di Laura per invitarla in pizzeria. Laura resse lo sguardo e rispose va bene. Stanno insieme da quella sera. Dicono che nessun altro sopporterebbe la loro presenza, fatta di mestizie improvvise, ossessionata dai ricordi e da una rabbia che non riesce a stemperarsi in oblio. Dicono anche di sentirsi in colpa nell’essere così felici, perché senza la morte di coloro che amavano non avrebbero mai incontrato questo amore. Ma la vita è un pavimento a scacchi che ci ha abituato a contrasti anche maggiori, e spesso è là dove sembra ci sia solo buio che si accende all’improvviso una luce.
Mi sento come certi studenti che ho incontrato in questi giorni: non rappresentato dalla politica. Invidio i dichiaratori assertivi, modello Capezzone o Sabina Guzzanti: sembrano sempre così convinti di indossare le ragioni del bene, contrapposte a quelle del male. Io sono pieno di dubbi, accidenti. Ammiro chi aderisce in toto a uno schieramento o a un’ideologia, condividendone i valori e gli interessi, e giustificandone i vizi con la motivazione tifosa che gli altri fanno peggio. Io non ci riesco. Sono infastidito dalla volgarità del centrodestra, però mi dà ai nervi la supponenza del centrosinistra. Penso che bisognerebbe dimezzare il numero degli insegnanti e raddoppiare invece i loro stipendi. Ritengo il lavoro precario una forma di schiavitù, ma non appoggio un sindacato che in nome della giustizia sociale finisce per proteggere ingiustamente i furbi e gli scansafatiche. Mi piace il benessere, ma non chi lo ostenta. Ho una sola certezza, che la ripresa economica arriverà dalle energie alternative, ma mi sta sullo stomaco il millenarismo iettatorio di certi ambientalisti. Non sopporto l’ipocrisia della Palin, mentre mi fa tenerezza quel dispari di McCain. Diffido del mito di Obama, ma resto affascinato dalla sua giovinezza fisica e mentale. Sono felice che esista Saviano, ma i libri sulla realtà mi angosciano e per capire davvero come funziona il mondo preferisco rifugiarmi nel linguaggio simbolico della fantasia. Ogni tanto mi viene voglia di fondare un partito, ma so già che non mi ci iscriverei.
Quando il tuo ex compagno di scuola viene eletto presidente degli Stati Uniti, hai un bel ripetere a tutti i microfoni che sei contento. Nella migliore delle ipotesi proverai un pizzico di umanissima invidia. Nella peggiore, verrai assalito dal morbo letale dei paragoni, che ti provocherà la sensazione di essere una nullità. Perciò mi ha spiazzato e commosso la breve intervista a un ex compagno di scuola di Obama: «Il suo destino era diventare presidente, il mio diventare orologiaio. E ce l’abbiamo fatta tutti e due», ha detto con naturalezza. E si capiva che per lui non esistevano una serie A e una serie B, ma due desideri di eguale valore che si erano realizzati. La cultura dominante ripete ogni giorno che per essere felici bisogna entrare nel piccolo cerchio della notorietà e che solo i mestieri che garantiscono fama e denaro meritano di essere perseguiti. Invece l’ex compagno di Obama ci ha detto una cosa diversa. Che tutti ma proprio tutti abbiamo un talento, piccolo o grande, e l’unica cosa che conta è accorgersi di possederlo. Per superficialità o blocchi interiori, molti non riescono a metterlo a fuoco e conducono vite magari brillantissime ma infelici, perché scentrate rispetto alla missione iniziale del loro vivere. Non c’è nessuna differenza fra chi ripara orologi e chi viene chiamato a riparare il mondo, se entrambi infondono nel proprio lavoro il senso profondo di un’esistenza. Soltanto uno dei due finirà sui libri di storia, ma poco importa. Importa che anche l’altro potrà dire di aver vissuto davvero.
Ogni giorno alle 13.40 la signora Kathy, titolare con il marito Rocco del banco di carni e salumi in un famoso mercato di Torino, riceve la visita di un gruppo di adolescenti in libera uscita da una scuola media poco distante. Ogni giorno scende dal predellino e rivolge loro le stesse due domande: come state e quanti siete. Col tempo la seconda domanda è diventata sempre più importante, perché il numero dei ragazzini è in aumento. A ciascuno Kathy offre un sorriso e una fetta di prosciutto. Non sa nemmeno lei perché lo fa. Ha cominciato e si è scordata di smettere. L’aspetto più straordinario di questo racconto, del quale sono venuto a conoscenza dalla mamma di uno dei beneficiati, è la sua assoluta gratuità. Una fetta di prosciutto non basta a sfamare neppure Fassino e i dodicenni che la ricevono in omaggio non appartengono alla schiera dei bisognosi. Il gesto di Kathy non possiede quindi alcuna utilità pratica o rilevanza sociale. Eppure ogni giorno alle 13.40 sembra che al mercato stia per succedere qualcosa. I frequentatori abituali cominciano a chiedersi: ma i ragazzi quando arrivano? E quando arrivano, perché arrivano sempre, e ogni volta più numerosi, il rito della fetta di prosciutto si ripete, per la soddisfazione incomprensibile di tutti. È come se in un mondo dominato dallo scetticismo dei pensieri tristi, quel siparietto quotidiano di assurda bontà fungesse da balsamo e da ripasso universale. Per ricordarci, nel caso gli affanni della vita ce lo avessero fatto dimenticare, chi siamo e cosa potremmo essere davvero.
Spero di non sconvolgere nessuno rivelando che La cura di Franco Battiato, giustamente considerata da tutti (anche da Celentano che l’ha appena inserita nel suo nuovo album) una delle più belle canzoni d’amore di ogni epoca, è dedicata a una persona che ciascuno di noi conosce o crede di conoscere piuttosto bene. Non esiste donna che, ascoltando i versi di quel capolavoro, non abbia sognato di incontrare un amante che, invece di parlarle affannosamente dei propri problemi, le sussurrasse protettivo all’orecchio: «Ti salverò da ogni malinconia, perché sei un essere speciale e io avrò cura di te». In effetti la canzone contiene una serie di promesse da far impallidire dieci campagne elettorali. Oltre a una serie di doni non irrilevanti che il protagonista si offre di portare in dote – il silenzio, la pazienza, le leggi del mondo – alla fortunata destinataria viene assicurato un servizio di pronto soccorso sui seguenti temi: paure, ipocondrie, turbamenti, ingiustizie, inganni, fallimenti, ossessioni, malattie e lotta all’invecchiamento. C’è da far innamorare di Battiato persino Berlusconi. Ma la verità, e magari per qualcuno sarà una sorpresa, è che in questa canzone l’artista catanese non si rivolge a una donna o a un altro essere umano, ma a colei a cui probabilmente già pensava Leonardo quando disegnò la Gioconda: la parte nascosta di se stesso. Perché solo chi riesce ad amarsi nel profondo, «superando le correnti gravitazionali», avrà poi la forza di scacciare l’egoismo e di amare veramente il suo prossimo.
Scrivo da un letto di dolore che troppo di dolore non è. Insomma, ho l’influenza come milioni di italiani e cerco di godermela fino in fondo. Mi barrico con la testa sotto le lenzuola come da piccolo, quando immaginavo che il letto fosse un sottomarino. Poi guardo fuori, ma non mi pare di perdermi un granché. Le Borse borseggiano e i terroristi terrorizzano, quasi quanto gli economisti, i quali assicurano che il 2009 sarà peggio del 2008 ma uno scherzo rispetto al 2010. La febbre è una compagna preziosa. Ti libera dallo stress e dalle scocciature. E ti consegna a quello stato di ottundimento che è la condizione ideale per concentrarti sul linguaggio silenzioso del corpo, mediatore indispensabile per raggiungere la parte più inesplorata di se stessi. Il mal di testa ti impedisce di leggere, il mal di gola di telefonare. Resta la televisione, da guardare a occhi chiusi, appisolandoti di continuo. E ogni volta, sempre la stessa scoperta: il mondo va avanti senza di te. Straziato dalla tua assenza, ma in qualche modo ce la fa. La commissione urgente si rivela rinviabile. L’appuntamento da non perdere, perdibilissimo. E il tarlo affettivo o professionale che ti teneva sveglio la notte svanisce al cospetto di una fitta alla schiena. Sei ai box a fare il pieno, a cambiare le gomme. E, se ci riesci, a dare un’occhiata al motore. Mi piace pensare che la crisi assomigli all’influenza: uno stato di malessere che prelude a un benessere meno isterico e più consapevole. Ma non datemi retta: mica sono un economista, anche se il mio delirio almeno ha l’alibi della febbre.