2000
I care (pronuncia Shenker: «ai ker», pronuncia Carrà: «aii keerrr», pronuncia Biscardi: «i gare»), lo slogan che Veltroni ha appiccicato all’imminente congresso del suo partito, sta animando un fervido dibattito fra i coetanei di Veltroni sull’esatta portata dell’espressione: «me ne occupo», «mi interessa», «mi faccio carico». L’aspetto curioso della vicenda è che quella generazione non si è mai fatta carico di niente, se non di se stessa e dei suoi amichetti di cordata. Fin dai tempi delle assemblee studentesche e dei gruppi di estrema sinistra, in cui – contestandolo – si allenavano a gestire il potere, hanno maturato un finto interesse per la cosa pubblica e uno, sincerissimo, per la carriera privata. Oggi gli ex giovani comunisti, «nati negli anni Cinquanta» come il titolo di una canzone del loro Sting, si occupano ma soprattutto occupano un po’ tutto: dalla Rai a Mediaset, dall’Ulivo al Polo, passando per banche, case editrici e aziende di Stato. A forza di occuparsi senza preoccuparsi, hanno accumulato ansie e giravolte politiche e sentimentali: doppie e triple famiglie di cui, eterni nevrotici Peter Pan, cercano di «farsi carico» il meno possibile. E adesso vorrebbero interessarsi a noi? Don’t care, ragazzi: ce la caviamo già malissimo da soli.
A dare retta al mio cabarettista preferito Emilio Fede, il popolo italiano avrebbe reagito con sdegno all’inqualificabile comportamento dei due amanti in fuga di Montecastrilli («i due piccioni», li ha definiti l’Emilio), colpevoli di essersi concessi a pagamento alle domande di Bruno Vespa invece che, supponiamo, a quelle altrettanto ben remunerate della concorrenza. Che vergogna farsi pagare per raccontare i fatti propri in tv! In effetti non era mai successo, se si escludono quelle due o trecento trasmissioni sulla gente comune che intasano i palinsesti pubblici e privati. L’unica differenza è che Leonardo e Agnese sembravano veri: anche i loro discorsi smozzicati rivelavano l’assenza di un copione già scritto dagli autori. E persino i più cinici si sono inteneriti nel vedere che in un angolo della provincia italiana c’è ancora qualcuno che non dice «I care» ma che lo fa, mettendo in pratica quel senso di responsabilità che l’Italia dei sessantottini metropolitani sa soltanto declamare nei congressi. Penso a Leonardo, l’idraulico adolescente che invece di derubare i coetanei e tirar sassi alle vecchiette «si fa carico» del figlio concepito da una donna che ha il doppio dei suoi anni: prenda nota chi non è mai scappato con un amore, ma è una vita che scappa dall’amore.
Insomma, si scappa. Hanno recuperato un ragazzo di tredici anni, a Bordighera. Era fuggito da Bergamo in treno qualche giorno fa. Voleva vedere il mare. Soprattutto non voleva più vedere la sua famiglia. Ai carabinieri ha chiesto solo questo: mettetemi in un istituto ma lasciatemi qui, vicino alla spiaggia e lontano da mio padre, dalle sue mani. E così, si scappa. Dai genitori, dai mariti, da una sentenza contestata. Si scappa per odio e insieme per amore. Con un minorenne, come la madre di Montecastrilli, o con un lenzuolo, come la studentessa di Palermo che aveva un fidanzato troppo povero per poter passare dalla porta di casa. Non c’è giorno ormai senza la sua fuga ed emblematica rimane quella del bambino siciliano che salta su un traghetto di cui ignora la destinazione, solo per provare l’emozione del viaggio e del distacco. La voglia di fuga non è una novità: fa parte del bagaglio genetico dell’essere umano. Ma è cambiato il nostro giudizio, la percezione che sempre più spesso non si tratti di una vigliaccata, ma di un’autodifesa, specie quando a compierla sono gli adolescenti. In un mondo dove si scappa dalle proprie responsabilità stando fermi, sapere che c’è qualcuno che considera l’ignoto meno temibile dell’orrore in cui vive ci fa assaporare ancora il gusto della più bella e bestemmiata delle parole: libertà.
Altro che il vecchio caro Rambo. Per sopravvivere al caos globalizzato dei tempi occorre un nuovo tipo di eroe. Il Piagnone. L’etica della responsabilità lo fa morire dal ridere, anzi dal piangere. Si è abituato a scaricare di tutto – colpe, famiglie, impegni presi – e nel farlo, mente e si lamenta, spesso in contemporanea. A piangere sono soprattutto le figure di potere: allenatori, politici, mamme. Ah, le mamme. Imbattibile quella del quattordicenne arrestato a Bari perché aveva puntato una lama alla gola di un coetaneo per rubargli il telefonino e subito dopo insultarlo: il modello era superato. «Che vergogna!» si è sfogata la signora. «Mio figlio più grande minaccia ogni giorno la sua insegnante con un coltello e nessuno gli dice nulla. E il piccolino per così poco me lo arrestano?» Una vergogna, veramente. Ci sono frignate di destra, toste e sfacciate, dei vari Moggi, Lippi, Berlusconi: gente che dal sistema ha avuto tutto – arbitraggi e decreti a favore – ma non gli basta mai. E ci sono frignate di sinistra, più subdole perché in apparenza a fin di bene. Specialista è l’allenatore del Parma, Malesani, uno di quei veneti con la faccia da prete e le mani sempre in movimento che non sai mai dove te le può mettere. Diceva che bisogna piantarla di frignare, e nel dirlo frignava. Un vero maestro di italianità.
Lo spirito di un’epoca si nasconde dietro le notizie più sceme. Tipo questa: un assicuratore di Riva del Garda possiede il numero che nello spot dei cellulari un cameriere belloccio mostra a Megan Gale. Sono mesi che non vive più, bombardato dalle telefonate impertinenti di donne che credono di parlare col ragazzo della pubblicità, lo chiamano «bel ciuffolino», lo invitano a cena e anche a fare altro. Qualche ritardatario si stupirà per lo scambio dei ruoli – femmine intraprendenti, maschio (e maschio assicuratore, oltretutto) indifeso e in difesa – ma sono le nuove regole del gioco. Piuttosto, l’aspetto sconvolgente della vicenda è la confusione tra fiction e realtà che ha invaso le nostre teste. Ammettiamo che fra le donne che tormentano l’assicuratore ci sia una percentuale di buontempone. Ma la maggioranza è veramente convinta che a quel numero corrisponda la faccia dell’attore che ha visto in tv. È come se fosse saltato un diaframma e avessimo deciso che la grande riforma di cui sentivamo il bisogno fosse proprio questa: sostituire una realtà che ci procura ansia, paura e a volte disgusto con il mondo dei sogni catodici e cibernetici, dove tutto ha un senso compiuto, i conflitti si risolvono, le angosce si placano. Finché un giorno il cameriere e la modella ci risponderanno in diretta durante lo spot e come ai tempi delle fiabe noi vivremo di nuovo felici e contenti.
Con l’ossessività roboante che lo ha reso celebre, il Bossi sta imponendo nel lessico quotidiano la contrapposizione del secolo, che non è più destra/sinistra, ma global/local, da pronunciare arrotando molto le «a». Per chi ultimamente faticava già a distinguere il rosso dal nero, il nuovo binomio può risultare davvero ostico. L’hamburger è global, la bagna cauda local: e fin qui ci siamo. Ma la Coca? Global. E il chinotto? Local, poverino. Juve e Milan global, specie quando danno loro i rigori. Il mio Toro, disperatamente local. La «new economy» di internet, dove tutti ordinano la spesa sul computer e poi muoiono di fame perché il camioncino del supermercato è rimasto bloccato in un ingorgo di camioncini, ecco, questa meraviglia avveniristica è global. Mentre le aziende arcaiche, quelle con la gente che ci lavora addirittura dentro, sono rimasugli local che il vento global della storia spazzerà via. Le regate sono global, come il conformismo che induce un popolo di pedoni col mal di mare a tirar tardi per una barca a vela. Ma le sciure milanesi in pelliccia che alle sfilate applaudono una sottana antinazi con la faccia di Haider e un «NO» cucito sopra, sono global in quanto politicamente corrette o local in quanto umanamente calzette? Un tempo, scriveva Flaiano, anche il cretino era specializzato. Adesso è global/local.
Le donne che l’Ottomarzo andranno a fare benzina riceveranno in omaggio l’opuscolo Mai in panne, dove la pilota Giovanna Amati spiega come cavarsela con una gomma bucata o una batteria scarica e certe malizie per sopravvivere nella giungla motorizzata, tipo: «Se siete ferme al semaforo e qualcuno vi sposta il retrovisore, non aprite subito il finestrino per riposizionarlo: potrebbero rubarvi il braccialetto o l’orologio». L’idea è della commissione Pari Opportunità e nasce dal desiderio di liberare le donne dall’ultima dipendenza che ancora le legherebbe al maschio: quella automobilistica. In realtà, come molte iniziative della festa della donna, anche questa è rivolta a noi uomini-femmina. La novità del paesaggio stradale è infatti rappresentata dal proliferare di vetture con lei al volante, concentrata ed efficientissima, e lui seduto al posto del passeggero che legge un giornale, chiacchiera al telefonino o più semplicemente guarda le altre donne fuori dal vetro. Il passo avanti è epocale e non privo di conseguenze per le signore, che il manualetto cercheranno di passarlo a noi, visto che nei loro sogni resiste l’immagine di un uomo che quando c’è da cambiare una gomma non finge un improvviso mal di schiena. Niente da fare, ragazze: aprite l’opuscolo a pagina 10 e sotto col cric. Al massimo, possiamo leggervi le istruzioni a voce alta.
Un bambino italiano su cinque è obeso, uno su venti addirittura superobeso, cioè ha mezzo bambino di scorta che gli balla abusivamente nel panzone. Quelle fornite ieri dalla società dei dietologi sono cifre da Mozambico all’incontrario e riguardano un’altra forma di carestia, che colpisce il buonsenso di tanti genitori. Avrete conosciuto le loro vittime, quei bimbi-balena che rotolano per la strada fasciati dentro completini aderenti, con le mani sporche di ketchup, la voce querula e gli occhi vuoti, persi nel ricordo dell’ultimo hamburger o della merendina transgenica appena ingurgitata senza masticare. Per vendetta fra qualche anno diventeranno anoressici e poi vegetariani, ma adesso sono l’orgoglio di mamma e papà, che li ingozzano di qualsiasi cosa e per qualsiasi motivo, usando gli intrugli ipercalorici come ricatto, premio o semplicemente diversivo a un’affettività e a una fisicità sempre più virtuali. Mentre la nomenklatura visita i ristoranti come se fossero musei e discetta di fame nel mondo piluccando le opere degli chef di regime, il Terzo Stato mantiene un rapporto sgangherato con il cibo e cerca istintivamente di tramandarlo alla progenie, nella convinzione che sia la patatina fritta e non la nouvelle cuisine il nuovo carburante della storia. Urge anche qui una terza via, possibilmente a base di fibre.
Questo appello è per la signora che stasera, inciampando a tarda ora su Telemontecarlo e vedendo quattro avvenenti madamine di Manhattan chiamare gli atti sessuali con il loro nome, borbotterà il suo sconforto contro la deriva dei tempi e l’imbarbarimento del genere femminile. Non lo faccia, signora. Tenga la sua indignazione per le bellezze da calendario che sculettano fintamente allegre nei varietà col filo interdentale al posto degli slip e il cui esibizionismo triste non scandalizza più nessuno, nemmeno le donne. Si accorgerà che Sex and the city, questo il titolo della serie televisiva all’esordio, segna una tappa rivoluzionaria nella piccola storia del costume. Dalla tv senza veli a quella senza peli: sulla lingua, s’intende. Quattro donne in carriera e appena un po’ snob (d’altronde a Manhattan ci vive Woody Allen, mica Er Piotta) che parlano di sesso & uomini in tutte le combinazioni possibili e in modo esilarante, sfrontato, talvolta sporcaccione, ma sempre terribilmente sincero e mai bavoso. Difficile immaginare l’impatto di una simile bomba in un Paese represso come il nostro, dove il sesso rimane argomento maschilista, buono per le battute da caserma ma di cui è sconveniente parlare in presenza di donne o anche di una sola, la propria. Non spenga la tv, signora. E, se crede, svegli persino suo marito: sarebbe bello scoprire che stiamo diventando adulti.
Ogni volta che perde, la sinistra delle barche a vela e degli chef osserva il ceto medio trionfante del Nord con un moto di stupefatto disgusto. La società incivile: li chiamano così, quei milioni di italiani che si sentono all’opposizione dai tempi del primo centrosinistra di Fanfani, vorrebbero meno tasse, scartoffie e clandestini, amano i prati ma anche le autostrade, vivono male sotto cieli lividi ma non per questo scappano dalle responsabilità, preferiscono Julia Roberts a Margherita Buy, leggono Wilbur Smith invece di Umberto Eco oppure non leggono affatto, perché come disse un imprenditore ragazzino «se avessi studiato mica sarei arrivato dove sono». La sinistra li giudica ma non li capisce. Eppure le basterebbe attingere alla sua tanto declamata cultura per inquadrare storicamente questa «Rozza Italia», come l’ha definita nel dopo batosta la verde Francescato. Sono i barbari, insensibili ai valori classici ma traboccanti di fiducia in se stessi e di energie. L’Impero Romano poté solo ritardare la propria caduta, usando le loro truppe per difendere i suoi confini (come la Dc prendeva i voti liberali per fare politiche socialiste) o assorbendone i generali (come D’Alema ha fatto con Di Pietro). Ma una minoranza in declino non può comandare in eterno su una maggioranza più arrabbiata e vitale. Prima o poi i barbari vincono: è una legge di natura che nessun laboratorio genetico del centrosinistra potrà mutare.
Sorridete. Non era forse il vostro sogno, andare in onda? La telecamera che vi inquadra mentre fate la fila, la spesa o più semplicemente gli scemi è una delle trecento in cui si imbatte un poverocristo durante il suo normale giro di commissioni nel centro d’una grande città, secondo la stima del Garante della privacy: trecento telecamere puntate addosso non le ha mai avute nemmeno Sharon Stone. Perché ai comuni mortali viene riservato questo onore? La scusa di banche e negozi la conoscete: proteggersi dai ladri di merendine e dai rapinatori. Ma non bastavano quegli aggeggi elettronici che squittiscono appena si attraversa una porta? O funzionano solo su di noi? No, la telecamera deve essere lì per qualcos’altro, per registrare come ci comportiamo in coda (male, signora telecamera, malissimo), come guidiamo il carrello o indugiamo dinanzi allo scaffale dei surgelati. Informazioni magari idiote per noi, ma vitali per chi fa indagini di mercato e compra a peso d’oro i video con l’autopsia delle nostre anime, vivisezionate per decidere quali nuovi prodotti lanciare. Era questo il Grande Fratello, adesso lo sappiamo, ma non è con le prediche moraliste da sessantottini invecchiati male che si risvegliano le coscienze. Nel 2000 funzionano meglio le rivolte individuali e silenziose. Per cui sorridete alla telecamera. E cercate di fregarla, se potete.
Nel giorno in cui a Bologna un bimbo di dieci anni decide di buttarsi dal balcone perché padre e madre non sono mai a casa, la Milano da ri-bere offre uno spaccato memorabile del vero dramma dei tempi: certi genitori. Il pretesto è il rinvio a giudizio della dozzina di eroici figli di papà che s’imbucarono a una festa di Carolina Vecchioni, la secondogenita del cantante, sfasciando e rubando di tutto. In un’ideale classifica dello squallore, all’ultimo posto metteremmo la scontata reazione degli imputati («Uffa, manco avessimo ammazzato qualcuno!»), rampolli di una Milano-bene che continua a farsi del male e destinati senza alcun merito a ereditare le fette più grandi della torta. Un gradino sopra, i loro avvocati. Con una logica che dell’antico calvinismo lombardo conserva soltanto l’ossessione per i danè, hanno detto che il processo «farà solo perdere un mucchio di tempo alle famiglie». Ma gli autentici mostri sono i genitori. Politici e professionisti di successo che hanno tramandato ai figli l’arida sbadataggine delle loro vite private. Mamme griffate e arroganti, senza un valore che non sia quotato in Borsa, una delle quali ha addirittura minacciato d’incatenarsi al tribunale, strillando: «È una vergogna!» È una vergogna, in effetti, che siano loro la nuova classe dirigente del Paese. I grandi borghesi del Novecento arrossiscono nelle tombe.
Con il pensionamento di Un medico in famiglia è scomparsa dal video anche l’ultima traccia di umanità. Chi accende la tv si imbatte a qualunque ora in un’orgia di sangue, scherzacci e culi sporgenti che ignora le pulsioni più semplici del cuore umano: i sentimenti. Pubblicità dove amarsi è graffiare sul collo l’amante lesbica o contendere con ferocia al partner le chiavi di un’auto si alternano a trasmissioni in cui si parla del sesso come se fosse un hamburger o un esercizio di aerobica. Le donne fanno a gara per dimostrarsi più ciniche degli uomini, dissertando sulla fellatio come un meccanico di pistoni e sventolando il loro deserto morale come prova di emancipazione. I programmi e gli spot di questo gigantesco supermarket catodico sono affollati di esseri volgari che cercano disperatamente di venderci qualunque cosa. La spaccatura non era mai stata così netta. Da una parte una società affamata di passioni che chiede di sognare. Dall’altra una classe dirigente che non crede più a nulla e che pur di alimentare un consumismo esasperato pensa solo a stupirci, aumentando ogni volta le dosi come con i drogati. Il prossimo rivoluzionario sarà chi avrà l’idea di vendere un gelato facendo vedere due innamorati che guardano le stelle invece che tre fessacchiotte che ululano per uno spogliarello.
Siamo abituati a considerare lo Stato come un estraneo, un nemico da temere e da fregare. Certe notizie alimentano il sospetto che qualche volta lo Stato sia peggio che cattivo: sia fesso. Possiamo sempre leggere un fondo di malizia nel finto-tontismo dell’impiegato a cui stiamo chiedendo per la decima volta il rimborso di una tassa. Ma quale molla segreta, se non l’ottusa insensibilità, può aver spinto degli ispettori ministeriali a chiedere dieci milioni di lire agli eredi del giudice Rocco Chinnici per una banalità burocratica: «Ritardò a dissequestrare un corpo del reato»? Ho conosciuto la vedova a Palermo nel salotto con vista sul marciapiede dove l’autobomba della mafia le fece saltare in aria il marito. E uno prova un po’ di vergogna perché comunque la pensiate «lo Stato siamo noi» e ci spetta di diritto una quota delle sue fesserie. I funzionari che hanno multato un eroe vent’anni dopo la sua morte avranno senz’altro agito in buona fede e nel rispetto delle regole. Il problema è che le regole sono come gli uomini: anche le più intelligenti in un determinato contesto diventano stupide. E allora un burocrate dovrebbe avere il coraggio di cambiarle, a costo di andare contro la legge e i suoi superiori. Invece tutti puntano solo a pararsi il fondoschiena perché gli hanno insegnato che è comportandosi da fessi che si fa carriera.
I pochi figli che ancora riusciamo a sfornare sono esposti a radiazioni pubblicitarie sempre più letali. Da alcuni giorni galleggia nell’etere la réclame di un gelato preconfezionato, con una donna incinta che ne divora a palettate mentre all’interno del pancione il pargolo mugugna di piacere. A parte che il gelato alle gestanti fa male, ci troviamo alle prese col primo feto consumista della storia. Un nuovo soggetto che irrompe nella girandola acchiappasoldi della modernità reclamando i suoi diritti inalienabili: più cioccolato e meno vaniglia. Già questo sarebbe sconvolgente e in qualche modo terminale, perché dopo aver sacrificato sul gran falò della televendita i ragazzini, i bimbi e i neonati, oltre i feti ci sono solo ovuli e spermatozoi (mioddio, so cosa state pensando). Ma c’è di più. C’è che a metà dello spot arriva il papà a reclamare la sua sacrosanta tangente di gelato. La mamma ridens gliene allunga una cucchiaiata e allora il feto s’incavola. Piange, capito? E all’improvviso un secolo di psicanalisi vacilla e davanti alla tele i figli di ogni età vengono assaliti dal dubbio: altro che invidia del pene, alla base del complesso di Edipo e del conflitto irrisolto col padre c’è quel boccone di gelato che l’intruso ci sottrasse prima delle doglie. Sputalo fuori, papà.
Ieri mattina passavo in auto accanto a un incendio, uno dei tanti che in questi giorni sterminano i boschi italiani. La cosa più sconvolgente non erano le fiamme. Era l’indifferenza di un gruppo di operai che lavoravano lungo la strada, di un contadino che continuava a zappare il suo orto, di due signore che trascinavano il carrello della spesa. Il fuoco era sulla montagna dietro di loro, il suo fumo ci avvolgeva in un abbraccio umido, ma tutti volgevano le spalle alla tragedia e solo il contadino ha borbottato: «Tanto è ancora lontano da qui, nel frattempo qualcuno ci penserà!» L’educazione che riceviamo a scuola e nelle case dev’essere davvero patetica se il destino di una macchia di alberi, respiro dell’universo e principio della vita stessa, non ci provoca nessuna partecipazione emotiva. Se bruciasse un asilo o un canile, saremmo sconvolti o almeno coinvolti. Ma se brucia un albero non ci importa nulla. E questo solo perché ci hanno insegnato che i vegetali non sono vivi come noi. Ma chiunque abbia abbracciato un tronco di quercia e abbia sentito la linfa pulsare all’unisono col proprio cuore, sa quanto superficiali e vecchie siano certe visioni asettiche della natura. Gli alberi siamo noi e ogni albero che muore depaupera l’anima del mondo, il suo clima, la nostra possibilità di sopravvivere. Chissà se ce lo ricorderemo, al prossimo incendio.
Per costringere i loro riottosi mariti a interrompere la guerra civile, Nelson Mandela ha suggerito alle donne del Burundi di scendere in sciopero fra le mura di casa. Silenzio stampa (e qualche marito sarà pure contento), silenzio mensa (qui invece finiranno tutti nel panico) e un atteggiamento di ferrea chiusura sotto le lenzuola. Lo avesse proposto Berlusconi, tutti a dargli del matto e dello showman. Ma Mandela è Mandela, che diamine, uno che ha fatto la storia e pure gli spot per i telefonini. La sua poi è una citazione colta. Si ispira liberamente alla Lisistrata di Aristofane, che non è un centrocampista brasiliano ma il commediografo dell’antica Grecia che raccontò la storia delle donne di Atene e del loro tentativo di fermare la guerra contro Sparta mandando in bianco i mariti. L’efficacia di questa Mandelata è controversa: certe soluzioni possono giusto funzionare in un Paese evoluto come il Burundi. In Italia, per dire, un appello analogo cadrebbe nel vuoto. Gli uomini ormai parlano da soli e quasi soltanto di calcio e di sé, per cui non si accorgerebbero neppure dell’improvviso silenzio delle consorti. Quanto al sesso, è da tempo che lo hanno sostituito con le veline di Striscia e le copertine dei settimanali. Resta la cucina, dove però le mogli verrebbero agevolmente rimpiazzate dalle mamme. Da noi l’unico sciopero di successo sarebbe il loro.
In base all’ultima scoperta della psicologia, uno strano individuo si aggira fra gli ombrelloni. È maschio, di mezza età e discreta carriera, ha bolle e rossori che gli invadono il corpo, una tenaglia intorno alla testa, lo stomaco chiuso e la vivacità sessuale di un ghiacciolo alla menta. Non è il rabbino revisionista che nei giorni scorsi ha giustificato l’Olocausto, anche se i sintomi fanno venire in mente Woody Allen. Trattasi dell’italiano medio, alle prese col rito più angoscioso della sua vita: le vacanze. Sottratto per qualche giorno ai piaceri di una esistenza di lavoro (code, smog, affanni), il brav’uomo si riconsegna all’inferno dal quale per tutto l’anno cerca di scappare: la sua famiglia. Abituato a godersi moglie e figli a piccoli sorsi, l’overdose vacanziera lo manda in tilt. Gli eritemi esplodono dopo una settimana, ma basta molto meno tempo (di solito qualche ora) per trascinarlo in una prostrazione triste e senza sbocchi, se non uno: la fine delle odiose vacanze e il ritorno in ufficio, lontano dagli «andiamo in spiaggia, papà?», «mi accompagni al supermercato, tesoro?» Quelle piccole responsabilità collettive che il marito italiano, eterno single nell’anima, rimuove di continuo, disposto ad ammazzarsi di lavoro pur di evitarle. Secondo la ricerca, soffrirebbe di questa sindrome un marito su tre. Resta da capire con chi sono andati in vacanza gli altri due.
A Lampedusa c’è una campana elettrica che ogni mattina, alle 7 in punto, spara nelle orecchie dei ventimila vacanzieri un ululato assordante per richiamare i fedeli alla Messa. Quando dopo cinque minuti di allarme antiaereo la campana finalmente tace, nessuno riesce a riprendere sonno e si scende tutti al bar con gli occhi pesti e l’anticlericalismo alle stelle. Finché un giorno le occhiaie si coalizzano e presentano una mozione anticampana al sindaco. Qui entra in scena il Ppi locale, che difende la Sveglia Obbligatoria con accenti profetici, affermando di preferire il suo ronzio innocente ai frastuoni demoniaci delle discoteche. Di più: i popolari suggeriscono ai turisti di convertirsi alla campana e di andare in chiesa, che gli farà bene. Chi ha ragione? Il vacanziere consumista e criptoberlusconiano che vuole decidere da solo quando svegliarsi e quali rumori (discoteche sì, campane no) imporre all’isola che finanzia con la sua presenza? Oppure la sinistra pauperista che in quel petulante trillare sente l’ultimo richiamo di salvezza, prima che anche Lampedusa diventi, testuale, «un luogo di perdizione»? Fra i due estremismi, come sempre, finirà per prevalere la visione democristiana dell’esistenza: quella del parroco don Leo. Il quale ha già deciso che la campana continuerà a suonare, ma a volume più basso e per un minuto soltanto. Un italiano vero.
Se si facesse quel giornale delle buone notizie che a parole tutti dicono di volere ma che quando poi c’è nessuno compra, oggi il titolo d’apertura spetterebbe a Filippo. Il delfino single di Manfredonia che ha raccolto un ragazzo in bevuta libera fra le onde e l’ha sospinto con la forza dei suoi trecento chili fino alla barca da cui era scivolato. Due anni fa Filippo ha lasciato il branco e con un coraggio che manca ai nostri cocchi di mamma ha deciso di cavarsela da solo. Adora ricevere affetto – carezze sulla pancia – e non se ne vergogna come noi. Con la stessa sincerità compie del bene, e lo fa con quel pudore tipico dei veri eroi. Se fosse un umano, Filippo verrebbe conteso dai talk show: la sua storia di delfino solitario intriga parecchio. Veltroni cercherebbe di candidarlo alle elezioni («Filippo è uno di noi») e Berlusconi gli farebbe condurre uno spettacolo in una bella piscina a forma di tetta, con al fianco Natalia Estrada desnuda. Anche da delfino, però, passa i suoi guai. Già fioriscono i «comitati per la salvaguardia di Filippo», che si salvaguarda benissimo da sé. E i siti Internet. E la maledetta curiosità di chi vuole trasformare ogni gesto sano della natura in un fenomeno da baraccone. Lo stanno cercando, con la scusa di ringraziarlo. Ma lui pensa che sia un gioco e non si fa trovare. Riaffiorerà quando ci sarà di nuovo bisogno di un cuore puro.
Omaggio a un vecchio esordiente che ieri si è presentato alla Nazione con queste semplici, chiare parole: «Del Piero è uno di quei giocatori fenomeni gioia e dolore che possono essere messi in una sfera di non gioco, definirli così è un limite ideologico che il calcio non si può imporre, chi è violino non suona la grancassa». Non importa cosa volesse dire, forse non lo sa nemmeno lui. Però è stato come sempre meraviglioso: Giovanni Trapattoni, il ct più amato dagli italiani ma soprattutto dalla Treccani. Un rivoluzionario del luogo comune che appena dice «nella mia vita ho dovuto ingoiare tanti ricci» (un male cane, fra l’altro), tu capisci che i rospi hanno chiuso coi proverbi per sempre. Lontano dagli aridi tecnicismi di Sacchi e dai gorgoglii onomatopeici di Zoff, Trap è un Di Pietro del Nord che ha imparato a stare a tavola. Il nuovo ruolo fa di lui l’unico leader veramente ecumenico del Paese. Ieri, per dire, ha lanciato il federalismo trappico: una divagazione da Haider simpatico sull’insufficienza dell’euro a unificare il continente. Poi ha scavalcato l’Ulivo a sinistra, affermando che «100 anni fa in America tiravano ancora le frecce». Certo, ha rischiato l’incidente diplomatico con Clinton, ma ha recuperato la fascia dei bertinottiani e del non voto. Lo han fermato prima che cominciasse a commentare la Finanziaria. Meglio così: chi è violino non suona la grancassa.
Eugenio Gargiulo, giovane avvocato di Foggia, ha osato iscriversi a un concorso per caposezione del personale, indetto dall’azienda municipale di rifiuti della sua città. Non pago dell’affronto fatto a tanti onesti lavoratori meno dotati di lui, questo autentico provocatore ha anche avuto la faccia tosta di classificarsi primo nella prova scritta e primo in quella orale. Per fortuna la commissione d’esame ha risposto con la saggezza che rappresenta il vanto della nostra pubblica amministrazione. Ha deciso di escludere il Gargiulo dal concorso, ritenendolo «sovradimensionato». Tradotto in italiano, significa troppo in gamba per quel posto, che così andrà a uno più scarso. Un esempio fulgido di flessibilità: si scarta quello bravo perché dopo un po’ potrebbe stufarsi dell’impiego e mettersi a cercarne un altro. E si fa vincere invece un mediocre, che da lì non si muoverà più nemmeno con le bombe. Il tutto, ovviamente, per garantire ai cittadini un servizio migliore. Che poi Gargiulo protesti, sia disoccupato e comunque ritenga quel posto idoneo alle sue attuali aspettative, non è stato giustamente preso in considerazione. Altrimenti anche l’Italia cadrebbe in quella spirale pericolosa di libertà individuali che caratterizza i popoli meno evoluti. Quanto ai concorsi truccati, d’ora in poi si venderanno i test con gli errori già incorporati: non si sa mai.
Le favole sono come i panda. Stanno scomparendo. Ormai soltanto il 16 per cento dei bambini fra i due e gli otto anni – recita una ricerca inglese – si addormenta al suono di una storia raccontata dai genitori. Dieci anni fa erano ancora il 30 per cento, trent’anni fa il 75 per cento. La deduzione inesorabile è che la prossima generazione avrà un’infanzia senza favole, se non nella versione transgenica offerta da computer e tv. Secondo gli psicologi, quei dieci minuti prima della buonanotte in cui papà o mamma si sedevano accanto al letto del pupo per raccontargli di Biancaneve o di un altro personaggio inventato lì per lì non erano solo il più straordinario sonnifero mai creato dall’uomo. Rappresentavano il momento decisivo nella formazione morale del bambino: era in quel mondo popolato da mostri e fate che il piccolo apprendeva dalla voce rassicurante dei genitori la differenza fra bene e male. Meno favole, più baby gang: un’equazione facile da dimostrare. Perché milioni di genitori abbiano rinunciato a educare con la fantasia è un discorso che conosciamo bene: stanchezza da doppio lavoro, pigrizia, famiglie dimezzate (e compiti raddoppiati) dai divorzi. Smettiamola almeno di incolpare la scuola e la tv per la maleducazione dei nostri figli. Rimane la speranza di un’illuminazione collettiva sull’orlo dell’abisso: le favole sono come i panda, ma nessun Wwf potrà salvare i sette nani.
Se l’Italia rimane il posto peggiore in cui vivere, esclusi tutti gli altri, è perché solo da noi succedono ancora storie come questa. Tre vigili urbani entrano in un appartamentaccio della periferia di Napoli per uno sfratto e trovano un bambino che li guarda e piange, aggrappato alle sottane della madre. I colleghi tedeschi o francesi (per non parlare degli americani) avrebbero sollevato di peso il piccolo fardello ed eseguito l’ordine. Così pare che funzioni la vita nelle nazioni civili, poveracce. I nostri vigili, invece, vedono quel faccino spaventato che li scruta. E si ricordano che anche loro, come noi, come tutti in questo benedetto Paese, «tengono famiglia». Allora uno dice al piccolo: «Siamo solo venuti a controllare che abbiano dato il bianco alle pareti» e un altro corre a comprargli delle caramelle. Poi, appena il lacrimoso comincia a sorridere, se ne tornano in ufficio senza aver sfrattato alcunché. A Napoli può essere vero tutto, anche che il bambino fosse un nano di quarantasette anni che gli abusivi si palleggiano di casa in casa per intenerire le forze dell’ordine. Ma «italiani brava gente» oppure no, rimane il fatto che se c’è una cosa in cui ci distinguiamo dal resto del mondo è nell’applicazione delle leggi: a volte bonaria, più spesso sgangherata, ma sempre umorale e anarchica, due aggettivi che ci cascano addosso come un vestito di sartoria.
Esiste ancora una speranza e si chiama Paolo Marassi, preside di una scuola media di Venezia, il «Morosini». Stufo di trovarsi i bagni dell’istituto invasi dalla pipì neanche ci fosse l’acqua alta, questo rivoluzionario dei nostri tempi ha detto ai ragazzi della terza B: «La prossima volta li faccio pulire a voi». Alla successiva esondazione, perdurando l’omertà riguardo ai colpevoli (e poi dicono: i siciliani), Marassi ha scelto un nome a caso dal registro e gli ha dato un paio di guanti sterilizzati e uno scopettone. Invece di ringraziarlo per aver fatto il loro mestiere, i genitori dei pargoli lo hanno additato al Provveditore, denunciando «la gravità dell’accaduto, senza entrare nel merito degli aspetti pedagogici, psicologici e morali». E no, entriamoci, nel merito. Il preside ha sbagliato: invece del ragazzo estratto a sorte, a pulire i gabinetti doveva mandarci mamma e papà. Sono loro ad averla fatta fuori dal vaso. Loro che se il pupo sporca in casa volano i ceffoni, mentre gli si insegna con l’esempio che le cose di tutti non meritano alcun rispetto. Nessuno pretende il senso civico degli inglesi, che hanno cessi pubblici che sembrano case e case private che sembrano cessi. Basterebbe quello degli animali, che cercano di farla dove si deve e, quando non ci riescono, almeno ci restano male. La vera riforma della scuola sarebbe aprire corsi di recupero per genitori.
Marina, la gatta col doppio mento del Grande Fratello, sta per firmare un contratto da attrice maledetta per la soap opera Vivere e il romanzo sceneggiato Pamela. Con quali titoli? Nessuno, ma se è per questo anche la Marcuzzi e la Falchi, in lizza con lei per la parte della protagonista, non sanno cantare né ballare né tantomeno recitare e non hanno mai fatto altro che posare, preferibilmente nude, per qualche calendario. Il segnale che arriva ai giovani non potrebbe essere più dilaniante. Da un lato politici e industriali gli ripetono che nell’Era Flessibile non esiste futuro senza fatica e aggiornamento continui. Dall’altro la tv dell’anno Duemila garantisce loro che la vita è un bingo: per riuscire non occorre sacrificarsi. Basta esserci. Partecipare a un quiz, e anche se uno non sa che Roma è la capitale d’Italia, ci arriverà col ragionamento, eliminando b) Calcutta, c) Firenze, d) Forlì. Meglio ancora, infilarsi in uno spettacolo di gente comune, andando a rimpolpare l’esangue circo delle facce note: avranno molte più chances di finire in un film di chi ha consumato le notti a studiare recitazione. Se il comunismo era la mortificazione del merito individuale, piallato dalla prevalenza della massa mediocre, la tv iperconsumista lo ha infine realizzato, issando il pubblico sul palcoscenico e imprigionando gli artisti dentro i camerini.
La trasformazione dell’uomo in un cartellone pubblicitario ha fatto un altro passo avanti verso l’ignoto. Tempo fa due francesi in un bar ridevano della possibilità che le aziende offrissero buoni-benzina agli automobilisti in cambio di strisce pubblicitarie da applicare sulla portiera. L’italiano che li ascoltava fingeva di scandalizzarsi insieme a loro. In realtà i suoi occhi brillavano di cupidigia. Siamo fatti così: la parola gratis ci commuove a tal punto che per lei siamo disposti a rinunciare a quanto abbiamo di più caro: le fiancate, e nei casi estremi anche il cofano. Il sogno si è avverato, comunque: da gennaio il pieno potrà esserci «gentilmente offerto» dal marchio al quale affitteremo pezzi di carrozzeria. Le conseguenze non saranno necessariamente orribili. Non più di tutto il resto, insomma. Saremo costretti a guidare un po’ meno da banditi: un incidente danneggerebbe l’immagine dello sponsor. L’importante è non perdere mai la voglia di chiederci cosa può succederci di peggio. I tatuaggi, ovvio. Dopo l’auto, la prossima superficie a essere appaltata sarà il nostro corpo. Perché non cedere allo sponsor l’esclusiva di certe fronti spaziose in cambio di uno sconto ai grandi magazzini? Senza contare che per le scritte aggiuntive (indirizzo e numero di telefono dell’azienda) abbiamo due guance a disposizione e per una volta saremo ben felici di porgerle entrambe.