Premessa
Ri-generazione
Il Vuoto arrivò quell’anno in cui doveva cominciare la nostra vita a colori. In un’estate, in una piazza mentre eravamo chiusi in macchina ad aspettare i padri, quando le piazze erano parcheggi, quando c’erano ancora le estati e i padri. Il sapore dei Settanta era la liquirizia. I microassegni da cinquanta e cento e centocinquanta lire per comprare i giornaletti, usati, passati di mano in mano, per troppe mani. «Eureka» e le Sturmtruppen e il Gruppo TNT e l’inchiostro che ti sporcava le dita. Il Guardiano del Faro, la musica ipnotica del moog. Il colore dei Settanta era il piombo del cielo. Le serrande chiuse, le sirene, le molotov e le Fiat 850 che bruciavano. «Alzati e vai a spegnere il televisore», in bianco e nero. Era finita Canzonissima, per l’ultima volta.
Arrivò il Vuoto, inatteso, quando tutto sembrava cambiare. C’era la politica, c’era l’Epica. «L’Italia è cambiata davvero», in quell’inizio di estate, era il 18 giugno, la prima pagina dell’«Unità» strillava vita: «Prepariamo per domenica una diffusione straordinaria da un milione di copie». Più che un ordine, l’invito a una festa. Il risultato delle elezioni era rimbalzato sulla stampa mondiale: «Il più grande successo elettorale dalla Liberazione», l’avanzata del Pci «esaltante». Era il successo dei figli, i diciottenni che avevano votato per la prima volta.
Era il 1975. Trent’anni dopo la Liberazione. In quell’anla Repubblica sembrava morire, per poi rinascere.
La Repubblica era nata da quei ragazzi che erano scesi dalle montagne per fondare giornali, essere eletti parlamentari, conquistare la fiducia degli italiani, deludere. L’età dei padri era quella della democrazia guidata, pedagogica, sorretta da un’ideologia che teneva insieme cattolici, comunisti, socialisti, azionisti, giacobini, radicali, forse i liberali, chi aveva scritto la Costituzione. I missini no, loro non c’erano.
Così i padri si erano offerti alle masse come educatori civici, buoni maestri e pastori. Avevano accompagnato l’Italia nel suo periodo di più lungo benessere e più rapida crescita economica. Avevano trattato con i capitalisti e con gli operai, con i preti e con i mafiosi, lo avevano chiamato interclassismo, inclusione, allargamento delle basi di consenso. Avevano spianato monti e colline, asfaltato autostrade, innalzato cattedrali di acciaio e di petrolio nel deserto, conficcato antenne sui tetti delle case come frecce su un corpo vivo. Avevano tollerato che la loro sovranità fosse limitata.
Erano arrivati all’esaurimento. I padri invecchiavano, finivano, morivano. O venivano uccisi. Al loro posto doveva salire la generazione nuova. I nati nel dopoguerra, negli anni Quaranta-Cinquanta.
E invece arrivò il Vuoto.
Il Vuoto non ci ha mai più lasciato. Dura da quarant’anni. Il doppio dell’era fascista in Italia, quanto è durato il franchismo in Spagna. Quando nel 2014 è morto Adolfo Suárez, il premier che portò il suo Paese dalla dittatura di Franco alla democrazia, il quotidiano «El País» ha scritto che la sua epoca, la Transizione, era passata come «la luz de una vela cuando está apagada». L’Italia ha vissuto così, negli ultimi quarant’anni. In apparenza illuminata, ma alla luce di una candela spenta. Un Paese delle meraviglie in rovina.
Ora è al potere un leader nato all’inizio di quell’anno spartiacque: Matteo Renzi, registrato all’anagrafe l’11 gennaio 1975. Giorgio Napolitano era nato esattamente cinquant’anni prima. Un mezzo secolo di distanza che è stato colmato quando Renzi premier ha compiuto quarant’anni – il giorno della manifestazione di Parigi contro il terrorismo – e tre giorni dopo l’unico presidente votato per due mandati ha lasciato per sempre il Quirinale.
Al suo posto è stato eletto Sergio Mattarella, un democristiano fedele ad Aldo Moro, che nella sua biografia porta i segni delle tragedie e dei ritardi della precedente classe politica. Figlio di un padre costituente, Bernardo. E fratello di Piersanti, che fu ucciso dalla mafia e dalla politica sporca. Erede perciò di quel sistema che non riuscì a rinnovarsi perché aggredito nelle sue figure più sensibili dal terrorismo, dalla mafia, dai poteri occulti. Serviva al Quirinale uno degli uomini migliori della Prima Repubblica per chiudere definitivamente con il ventennio della Seconda e aprire la strada alla Terza. La Repubblica di Renzi.
L’avvento di Renzi è apparso improvviso e fulmineo, è stata raccontata agli italiani una guerra-lampo dalle cadenze napoleoniche. Senza opporre resistenza, partiti, sindacati, associazioni di categoria, salotti finanziari, poteri editoriali e mediatici, intellettuali di professione si sono consegnati al giovane Conquistatore venuto da Firenze. La rete degli equilibri e delle influenze su cui si era retta la Repubblica italiana si è dissolta in una stagione eccezionalmente breve. È stata una frana. Una resa senza condizioni. Una bandiera bianca collettiva. «L’Italia era scalabile, me ne accorsi nel 2011» ha affermato il nuovo Principe. Ma era vero già da tempo. Da almeno quarant’anni.
La nuova razza padrona che ha il volto di Matteo Renzi si presenta senza passato, avida di presente, proiettata nel futuro. Detesta il fardello della memoria, rifiuta la responsabilità dei decenni precedenti: noi non c’eravamo, ripete. Invece va inserita in una storia. In quella che arriva da lontano, un lunghissimo processo che attraversa gli ultimi anni Settanta, gli Ottanta e i Novanta fino a Tangentopoli. E in quella più recente, il crac di una classe dirigente provocato dalla crisi economica e da un divorzio irreparabile tra cittadini ed establishment. In tutta Europa la crisi ha portato alla nascita di nuovi partiti: Syriza in Grecia e Podemos in Spagna, guidati da leader coetanei di Renzi.
Ma solo in Italia tutto questo avviene dopo quarant’anni di Vuoto. C’è stata la Repubblica dei partiti, che aveva come religione la Rappresentanza. Poi è arrivata la Repubblica del Cavaliere, fondata sulla Rappresentazione. Quella che sta nascendo è la Repubblica dell’Auto-rappresentazione. Una Selfie-Repubblica, con un’unica bandiera: l’Io.
Quella di Renzi è una generazione di mezzo, nata tra la fine di un secolo e l’inizio di un altro. Cresciuta tra riflussi, palingenesi annunciate, rivoluzioni soltanto giudiziarie, grandi riforme rimaste nei cassetti, nuovi miracoli mai avverati, nella paura del grande crollo, nella rapacità con cui si punta a cogliere l’Occasione, grande o piccola che sia.
È questo il patrimonio che ha ricevuto dagli ultimi quarant’anni di storia italiana. Il Vuoto. Il vuoto della politica e il pieno apparente di chi si è candidato a sostituirla. Le lobby e le criminalità, più o meno organizzate, le incrostazioni amministrative, le giungle tributarie, le dazioni ambientali, il sistema della corruzione, le massonerie. Le tecnocrazie, le istituzioni sovranazionali. La società che cresce spontaneamente, liberamente, senza piani regolatori, senza progetti di sviluppo, senza riforme né leggi. Il vuoto della politica, intanto, progressivamente ha invaso tutto, è diventato vuoto di rappresentanza, di produzione, di cultura.
Quarant’anni fa a essere delegittimati erano solo i democristiani, i capi del partito-Chiesa e del partito-Stato, poi tutti i politici, infine capitani di impresa, registi e scrittori, cantautori e direttori di giornale, alti burocrati e uomini di Chiesa, i grandi capi della sinistra e della destra. Sono tutti diventati immagini di un potere che non c’è più. Maschere funebri.
Il vuoto si è aggrumato. Si è fatto un vuoto denso. Un vuoto pieno.
Una lunga caduta, come nei sogni.
Il risveglio tocca ai figli.
Nel vuoto si sono mossi, in mezzo al vuoto hanno conquistato il potere, e puntando sul vuoto rischiano di perdere. O di invecchiare precocemente.
«I figli ebbero la prima ruga, e la vita consumò su loro la sua prima vittoria» scrisse in quel 1975 Pier Paolo Pasolini.
Sono i figli di una Repubblica che non può morire, ma che è obbligata a rinascere.
L’Eredità è una Rinascita.
Hanno predicato e praticato la Rottamazione.
E invece serve la Ri-generazione. Non di uno solo.