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L’alba della Repubblica

Porte girevoli

Il nuovo potere, quando arriva, prima di tutto ha un problema. Non ha una casa.

Il governo di Matteo Renzi è nato nel febbraio 2014 in un grande albergo della Capitale intitolato al Bernini, di proprietà di un senatore di Forza Italia, Bernabò Bocca, a due passi dall’ambasciata americana di via Veneto. Il sindaco di Firenze nella sua toccata e fuga romana aveva promesso a Enrico Letta che avrebbe appoggiato il suo governo: «Letta sale sul Colle, io pago il conto dell’albergo, prendo il Frecciarossa e torno a Firenze» aveva scritto Renzi sul suo diario di bordo. Sette mesi dopo rieccolo, nella stessa camera, a liquidare il rivale e a compilare gli incastri dei ministri nella lista di un altro governo. Il suo.

Un albergo sia pure centrale e di lusso ha sempre qualcosa di passeggero, transitorio, precario. Anche il primo governo dopo la Liberazione di Roma nel 1944, esattamente settant’anni prima, era stato formato in un hotel. «Era un grande spettacolo per noi vedere tanti potenti da vicino e assistere alla composizione di un governo nella sala di un albergo. Non so se allora prevalesse la soddisfazione di chi ci vedeva il segno della trionfante democrazia o l’amarezza di chi considerava sbigottito che il governo italiano nella capitale dello Stato non aveva una sede e che alla pari dei viaggiatori di commercio i ministri si trovavano all’albergo. Provinciali, parevano, che avessero finito di giocare alle carte nel circolo sociale» ricorda Vittorio Gorresio: diventerà il principe del giornalismo politico, nel 1944 è un giovane cronista di «Risorgimento Liberale». Il primo governo dopo la Liberazione di Roma prende quindi forma in un albergo della Capitale, a due passi dal rifugio renziano, l’8 giugno 1944. Il Grand Hotel, che all’epoca era in via delle Terme di Diocleziano (oggi via Vittorio Emanuele Orlando), alle spalle del ministero del Tesoro, di fronte a quel che resta delle terme, era stato la prima residenza romana di Benito Mussolini. Qui il Duce aveva incontrato per la prima volta Gabriele d’Annunzio, qui aveva scritto la lista dei ministri da consegnare al Quirinale il 28 ottobre 1922 appena sceso dal treno che lo aveva portato a Roma dopo la Marcia, qui aveva fondato il Gran consiglio del fascismo. Luogo di incontri e di appuntamenti: «Colazione al Grand Hotel con i cardinali Ottaviani e Borgongini. Atmosfera cordialissima» appuntava Giulio Andreotti sul suo diario il 24 gennaio 1953.

In mezzo, tra Ivanoe Bonomi e Matteo Renzi, ci sono settant’anni di storia in cui le crisi si sono aperte e chiuse altrove, nelle sedi istituzionali, nelle abitazioni dei protagonisti, qualche volta in un convento, mai in un albergo. Con l’eccezione di Bettino Craxi, per decenni ospite a Roma del Raphaël, davanti al quale sostavano nell’attesa di omaggiarlo aspiranti ministri, candidati onorevoli, boiardi di Stato, direttori di giornale, consiglieri di amministrazione Rai, cinematografari, nobili decaduti, attricette. Fino alla pioggia di monetine e allo sventolare delle mille lire che chiusero la sua avventura. C’erano, in quella sera di aprile del 1993, quelli che non lo avevano mai votato, ma erano i più mansueti. Gli altri, i più rabbiosi, erano quelli che lo avevano atteso all’uscita del Raphaël per decenni.

Da un albergo si entra nella storia e da lì se ne esce, sotto i fischi. Porte girevoli. Nel momento magico dello Stato nascente, il Big Bang, tutti i nuovi potenti sono senzatetto, homeless della politica. Trovano posto a due passi dalla stazione, con le valigie in mano, davanti ai tabelloni di arrivi e partenze, pronti a salire e a scendere, a portata di fuga. Diffidenti verso Roma, le sue mollezze, le sue seduzioni, non vedono l’ora di scappare dalla Capitale. Poi però occuperanno stanze, palazzi, edifici rinascimentali. E non vorranno più andare via.

Nel 1944, il giorno precedente alla nascita del governo della Liberazione, aveva trovato casa la Democrazia cristiana, in un vecchio palazzo dell’aristocrazia papalina. Palazzo Cenci-Bolognetti, in piazza del Gesù al numero civico 46. Gli americani erano arrivati il 6 giugno, avevano visto nel cortile una vasca di marmo candido e se l’erano portata via. Il giorno dopo, con regolare autorizzazione, i partigiani bianchi della Dc avevano preso possesso dell’edificio.

Al primo piano c’erano gli uffici della federazione fascista del vetro e della chimica, e qui il leader Alcide De Gasperi trovò posto nel salotto della principessa, gli altri si allargarono subito al secondo piano. Al terzo c’erano piccoli appartamenti in affitto, in uno dei quali abitava uno sconosciuto e squattrinato canzonettista destinato al successo mondiale: Domenico Modugno. «I democristiani? Non mi sono mai accorto della loro esistenza.» Almeno in questo, vicinissimo al resto dell’intellettualità italiana, che dell’Italia democristiana non si era mai voluta occupare, mai l’aveva sfiorata.

I comunisti venuti da lontano fecero un giro più tortuoso: avevano occupato due piani di un palazzone umbertino in via Nazionale. «Alcune stanze erano state adibite a foresteria per ospitare i compagni che venivano dalle zone liberate, molti ancora con l’improbabile divisa partigiana e il fazzoletto rosso al collo. Si fermavano pochi giorni e ripartivano volentieri per le loro città: già allora Roma veniva vissuta, dopo i primi momenti di curiosità e di entusiasmo, come il luogo del pericolo, la palude dove rischiava di spegnersi la voglia di cambiamento espressa dalla Resistenza» ha ricordato Miriam Mafai.

Nell’autunno 1944 finì la ristrutturazione del palazzo di via delle Botteghe Oscure che Palmiro Togliatti aveva richiesto al costruttore Alvaro Marchini, detto Calce e Martello, il prozio di Alfio, l’unico disponibile a parlare con i comunisti, trattati dagli altri palazzinari come appestati. «Il trasloco segnava un cambiamento di status, di ambizione, di prospettiva. Cominciava una nuova storia: si metteva fine a una fase della vita del Pci, avventurosa, disordinata e felice, e si metteva ordine nelle stanze, negli archivi e nelle teste.» E si aprì subito la prima crepa: l’ascensore separato, il primo a destra per i dirigenti, il secondo a sinistra per tutti gli altri, «un piccolo colpo al cuore per quanti, un po’ ingenuamente, pensavano che nel partito, in anticipo rispetto alla società, dovessero realizzarsi i principi dell’uguaglianza» ricorda sempre Miriam Mafai.

Il trasloco segna il passaggio dall’infanzia all’età adulta, la raggiunta stabilità, la chiusura della fase eroica. Roma, il luogo del pericolo, rabbonisce le durezze rivoluzionarie. Il vento del cambiamento rallenta, si blocca, s’impantana. (Oggi, al posto del Partito, nel palazzo di Botteghe Oscure c’è un grande supermercato.)

Il nuovo potere si fonda sulle macerie. O su quel che sembra una palude, con i suoi serpenti, il calore soffocante, le sabbie mobili. Diventa terreno edificabile, su cui alzare castelli che hanno la missione di trasmettere ai cittadini, al pubblico, ai sudditi, la stabilità, l’immortalità delle istituzioni, l’ambizione di durare decenni, secoli e, perché no?, millenni. Anche il palazzo di Westminster, la culla della democrazia parlamentare inglese, è stato costruito su un terreno limaccioso in riva al fiume, ma sul fondo deve essere rimasta una palude, sospettano i suoi inquilini, perché ogni tanto i miasmi risalgono in superficie.

Sulle macerie

La questione delle macerie piace tanto ai nuovi arrivati. Non portano mai la responsabilità delle distruzioni passate, non c’erano prima, sono qui per ricostruire. C’è sempre un Paese da rifare sulle macerie, una classe dirigente da riformare dopo le macerie. O Roma o morte. O la Repubblica o il caos. O noi o le macerie.

Settant’anni fa le macerie c’erano davvero. Nel 1945 solo a Milano risultava danneggiato dai bombardamenti il 55 per cento delle abitazioni: il ritorno a casa degli italiani implicava muoversi tra ponti distrutti, ferrovie devastate, strade inesistenti. «Camicette leggere, vecchi vestiti d’estate, pantaloni militari. Quando il cielo si ingrigì per l’alba del giorno nuovo, ancora vagava per l’aria lo scalpiccìo cadenzato dei piedi, e il suono delle fisarmoniche e dei violini fra le macerie» scriveva Carlo Levi. Sono i due stati d’animo del nuovo che avanza. L’entusiasmo, la vitalità, l’ingordigia, la voracità dell’alba. E le rovine del giorno tramontato.

L’uomo delle macerie, della divisione in due del Paese, nel 1944 è il presidente del Consiglio in carica. Il maresciallo del 25 luglio e dell’8 settembre Pietro Badoglio, già presente a Caporetto nella Prima guerra mondiale con il generale Luigi Cadorna, alla guida di un governo senza autorità e senza territorio, mentre al Nord, sopra la linea Gotica, si combatte e si muore. Al Grand Hotel trova una folla di gente sconosciuta, mai vista prima. Sono i nuovi protagonisti, i futuri dominatori, i capi dei partiti. Il socialista Pietro Nenni, il democristiano Alcide De Gasperi accompagnato dal suo segretario, un romano venticinquenne che si chiama Giulio Andreotti. E poi l’azionista Ugo La Malfa, il liberale Alessandro Casati, il demolaburista Meuccio Ruini, il comunista Mauro Scoccimarro.

Per l’occasione Benedetto Croce a settantotto anni è salito per la prima volta nella sua vita su un aereo, in viaggio da Napoli a Roma, ed è atterrato con una piccola valigia che contiene i numeri del giornale napoletano «La libertà», alcuni suoi scritti e un po’ di biancheria. Con un aereo speciale è arrivato da Napoli anche il più atteso di tutti, l’oggetto misterioso, il comunista Palmiro Togliatti. Il segretario del Pci entra nella sala, saluta frettolosamente Scoccimarro che non vede da diciassette anni, scruta i presenti, si informa, è già pronto al combattimento: «Che succede qui?».

Il maresciallo, manco a dirlo, vorrebbe essere riconfermato, parla di rimpasto, finge di non ascoltare gli uomini del Cln che gli chiedono di andarsene, vuole conoscere l’opinione di Togliatti, quasi fosse il suo miglior alleato. «Abbiamo lavorato bene insieme» concede a freddo il Migliore. «Ma è venuta l’ora di una rinnovazione.» Uno di quei preziosismi lessicali che il capo comunista ama ostentare. Si dice sempre così quando si volta pagina, la filastrocca di chi ti spedisce a casa: rinnovamento, rinnovazione, cambiamento, rottamazione…

Badoglio incassa il colpo. Si alza paonazzo e se ne va, l’unico cui stringe la mano è Togliatti.

C’è un personaggio in quella caotica riunione che resta silenzioso, si limita a osservare e registrare: è il generale americano Frank Noel Mason-MacFarlane. Il primo attore della democrazia ritrovata che rimane nell’ombra e che conta più di quelli in prima fila nelle foto. Chi ti innalza o ti abbassa nella polvere non parla, non comunica, non disegna scenari. Agisce e basta.

Dopo Badoglio presiede il vecchio Ivanoe Bonomi, che unisce le due caratteristiche di questa dirigenza transitoria. La lunga esperienza politica pre-fascista. E la vanità. Un fotografo francese lo chiama: «Monsieur Bonomì!». E lui si toglie il cappello, assume una posa solenne per farsi fotografare. Il 5 giugno si era affacciato dal balcone di Palazzo Wedekind, la sede del Cln che aveva ospitato la direzione fascista, per parlare al popolo. «Per questa volta passi ma che sia l’ultima» aveva commentato qualcuno. Quanto a suscettibilità è secondo solo a Enrico De Nicola. Il futuro capo dello Stato provvisorio è offeso: «Quel fesso di Bonomi mi ha fatto la propostella di un ministero» fa sapere al Quirinale. Bonomi gli ha offerto il ministero della Giustizia, ma De Nicola rifiuta sdegnato: «In Italia si possono trovare centinaia di persone in grado di essere ottimi guardasigilli». «La primadonna Enrico De Nicola ha dimostrato tutto il suo egoismo, la sua grettezza, la sua paura. Ecco i grandi parlamentari, i grandi uomini della democrazia che gettò il paese in braccio al fascismo» annota sul suo diario il ministro della Real Casa Falcone Lucifero.

«Per il nuovo governo si pesarono e si dosarono le partecipazioni e le influenze, si compose non uno ma due gabinetti, o per lo meno un gabinetto doppio, il grande e il piccolo, composto da sette ministri senza portafoglio, uno per ciascuno dei sei partiti più Sforza per se stesso» scrive Gorresio. Togliatti vuole che i sei portafogli chiave (presidenza, Interni, Esteri, Giustizia, Tesoro, Difesa) siano equamente spartiti: uno a testa, per segretario. Bonomi offre due vicepresidenze alla Dc e al Pci, «partiti delle più larghe correnti del popolo italiano». Nenni vorrebbe qualcosa di più, per lui le masse socialiste e comuniste «sono probabilmente la maggioranza legale del paese (la famosa metà più uno) e in ogni caso le forze d’avanguardia della società italiana» ricorda Gorresio. I liberali sarebbero disposti a offrirgli la presidenza del Consiglio al posto di Bonomi, ma reclamano in cambio gli Interni.

Azionisti e liberali sono i gemelli contrapposti della vecchia Italia, gli eredi del Risorgimento di Cavour, Garibaldi, Mazzini. Litigano, regolano conti antichi, si muovono come se l’Italia fosse ancora quella prima del fascismo, la parentesi durata venti anni che si può finalmente richiudere di cui parla Croce. Considerano la guida della nuova Italia post-fascista una questione a due: tra di loro. Ferruccio Parri si scontra con Croce in Parlamento su una questione solo in apparenza accademica, anzi, destinata ad avere una certa fortuna nella successiva storia repubblicana. Lo Stato unitario prima del fascismo era una democrazia o no? Cosa significa la democrazia per un Paese a fragile identità nazionale come quello italiano? E ora chi sarà il leader? Non si affrontano sul passato, ma sul futuro.

«Da noi la democrazia è appena agli inizi. Io non credo che si possano definire regimi democratici quelli che avevamo prima del fascismo» attacca Parri di fronte alla Consulta nazionale il 26 settembre 1945. «Non vorrei offendere con queste mie parole quei regimi. Mi rincresce che la mia definizione sia male accetta… Quelli erano regimi che possiamo definire e ritenere liberali» aggiunge mentre l’aula rumoreggia. Il giorno dopo Croce contraddice il presidente del Consiglio azionista. «La sua asserzione urta in flagrante contrasto col fatto che l’Italia, dal 1861 al 1922, è stata uno dei paesi più democratici d’Europa, e che il suo svolgimento fu una non interrotta e spesso accelerata ascesa alla democrazia.» Già i liberali si preparano a far cadere Parri dopo sei mesi di governo. Tanto poi, sono sicuri, toccherà a uno di loro.

Il vento e la palude

Ferruccio Parri, il comandante partigiano Maurizio, è il primo presidente del Consiglio dell’Italia liberata, ha preso il posto di Bonomi dopo il 25 aprile. I giornali americani lo chiamano «l’onesto italiano», forse per complimento o per differenziarlo dal resto del popolo. È l’espressione del vento del Nord che arriva dalla Resistenza, ma i fogli di destra lo ribattezzano subito il Vanto del Nord. E il suo compagno di partito, l’azionista Leo Valiani, ha già espresso dubbi sulla reale forza delle minoranze resistenziali a pochi giorni dalla Liberazione, su «L’Italia libera», il 29 aprile: «La fede ha mosso le montagne, però le montagne fan presto a ricostituirsi. Il vento che porta la libertà, porta anche le sabbie e le ammucchia facilmente in nuove montagne di un arido deserto».

In quella Roma liberata, città aperta di puttane e di mercato nero, la capitale dove di notte si possono sentir ruggire i leoni, «un suono insieme vago e selvatico, crudele ma non privo di una strana dolcezza, nel deserto notturno delle case», giura Carlo Levi, Parri sembra muoversi come un ostaggio, un recluso più che un presidente del Consiglio. La prima sera in carica al Viminale trangugia una minestra preparata nella mensa aziendale e dorme su un lettuccio adiacente allo studio. Il giorno dopo si fa portare in macchina per un giro nel quartiere Trionfale, all’epoca estrema periferia, per vedere da vicino e con i suoi occhi i governati, il popolino di Roma.

«Io lo conobbi al Viminale un venerdì, giorno di conferenza con la stampa» racconta Gorresio. «Alle domande disse che era in grado di rispondere solo ad alcune, non svolazzava da impostore con irritante improntitudine. “Evviva!”, mi venne voglia di gridare: è dunque questo il galantuomo che attendevamo da tanti anni. “Ma non saranno troppe?”, disse uno che stava vicino a me. “Mi sembra che siano troppe” continuava, “le cose che non sa.” Allora gli risposi, col desiderio di rassicurarlo, che sarebbero scemate certamente giorno per giorno, con la pratica. “Tutto si può imparare”, dissi precisamente a quel dubbioso.»

Un crisantemo sopra un letamaio, lo descrive Levi nel reportage sulla caduta del governo. «Uno strano fiore dai petali sottili, dalle foglie grigie, autunnale e funebre, diverso da ogni altro, esotico e coraggioso nei primi geli e nelle nebbie del nord… Era diverso, come straniero: nessuno avrebbe potuto contemplare e adorare in lui, messi alla ribalta, i propri vizi e le proprie virtù: tra gente esuberante era schivo, in un paese amante della retorica e delle frasi, era scarno e ritroso, accanto a un popolo sanguigno, egli era pallido. Dicevano che non fosse un uomo politico, che non sapesse destreggiarsi nel gioco avviluppato degli interessi, che non fosse altro che un personaggio simbolico. Ma egli rappresentava una cosa nascosta o senza nome, uguale a tutti e indeterminata, ripetuta milioni di volte in milioni di modi eternamente uguali: i morti freddi sotto la terra, la sofferenza di ogni giorno, e il coraggio che li nasconde.»

Uno straniero, uno venuto da fuori, anzi no, dall’alto. Il laico Levi rintraccia in lui l’odore delle virtù soprannaturali: «Era fatto dell’incorporea materia dei santi». In un clima di ricerca di purezza, nell’esigenza di una rottura con il precedente regime, il santo Parri incarna nei primi mesi della Liberazione il sogno di un potere diverso che percorrerà come un fantasma tutta la storia repubblicana. Il mito dell’azionista elitario, incontaminato, solitario. La solitudine come una virtù, anche quando diventa isolamento.

«Non abbiamo mai saputo essere soli» scrive il giornalista Paolo Monelli dopo l’8 settembre. «Vorrei che imparassimo a essere soli, a sperare soli in questo tempo aspro che ci si prepara. Misuriamo soli, nel nostro cuore chiuso, la profondità della sventura, le giustificazioni della coscienza, le capacità di rinascita.» E Gorresio gli risponde: «Gli italiani paiono sempre idealmente allineati lungo una via trionfale, per assistere al trionfo d’un uomo, d’una idea o d’una moda (d’un uomo, per lo più, lo scriveva Mazzini: “Supremo errore del passato fu di fidare le sorti del paese agli individui più che ai principii: gioverà tenerne conto, più di quanto finora non sia stato fatto”)». Una considerazione destinata a tornare di una certa attualità quando, finiti i partiti, saranno nuovamente di moda le individualità, i personalismi, gli uomini soli. E lasciamo perdere, per ora, se al comando o no.

Ma in quel 1945 a soffiare più forte di tutto è il vento dei partiti di massa. I non rappresentati dell’Italia liberale che nel ventennio fascista si sono preparati in clandestinità e intanto si sono alimentati della nuova società di massa che durante il regime è cresciuta fuori da ogni controllo. I democristiani, i comunisti, i socialisti. Divisi su tutto o quasi ma alleati, intanto, per chiudere definitivamente la fase precedente, l’Italia notabilare, borghese, elitaria.

Lo strappo si consuma in pubblico, il 24 novembre 1945. I liberali fanno cadere Parri, il presidente del Consiglio convoca una conferenza stampa e denuncia il misfatto. «La messa in scena della crisi di Parri fu degna dell’opera dei pupi» racconta Gorresio. «Parri era molto triste, diceva tuttavia cose sorprendenti, c’era il senso allucinante d’una allegra follia: che fosse matto, il presidente?»

«Qui sta avvenendo un colpo di Stato» denuncia di fronte alla stampa internazionale.

«Quando Parri ci invitò a lasciare la sala, dovendosi proseguire la discussione a porte chiuse, tra lo scalpiccio che seguì e il rumore delle sedie smosse, una voce autorevole, secca, vibrata si udì gridare in un tono che a qualcuno parve fosse di protesta. “Domando la parola…” Era Alcide De Gasperi che faceva così bruscamente il suo ingresso sulla scena, imponendosi all’attenzione della stampa italiana e straniera. Un uomo energico, avveduto, tempestivo…»

De Gasperi è forse «l’uomo meno pittoresco della politica italiana», di certo il meno mediatico a paragone con tutti i suoi successori. Uno che al momento di sposarsi, di fronte al celebrante che gli chiede il consenso al matrimonio, pare abbia risposto: «Non dico di no». Eppure anche lui sceglie il tempo giusto, irrompe come un lampo, con un colpo di scena in una conferenza stampa, con una lite in pubblico con il presidente del Consiglio dimissionario che sta per sostituire. Parri ha appena finito di dire ai giornalisti stranieri che in Italia c’è un colpo di Stato, confonde la sua sconfitta personale con un golpe – e almeno su questo farà scuola –, quando il democristiano lo interrompe: «No, signori, guardate, il presidente si sbaglia, non è così: noi, la Dc, vogliamo difendere il gioco e il metodo democratico».

Candidarsi alla guida del governo in una conferenza stampa è una mossa avventata, inaudita per liberali e azionisti. Ai notabili della vecchia Italia deve produrre lo stesso effetto che farà ai professionisti della manovra parlamentare la discesa in campo di Silvio Berlusconi nel 1994 con un videomessaggio. O un movimento nato su un blog senza sede, senza dirigenti e senza finanziamenti che diventa la lista più votata d’Italia alle elezioni, com’è successo al Movimento 5 Stelle di Beppe Grillo nel 2013. Oppure, ancora, nel 2014 l’annuncio di Renzi che il governo Letta è finito, consegnato alla Rete con un tweet. Un cambio d’epoca che segnerà un prima e un dopo, non solo sul piano comunicativo, qualcosa che fa invecchiare in un istante tutto ciò che lo precedeva. Due concezioni della politica che si scontrano: più che vecchio contro nuovo, élite contro masse.

De Gasperi passa, con la benedizione del capo comunista. Togliatti interviene a favore del democristiano con un’intervista al belga «Le Soir»: «Mi hanno detto che ci sarebbe una forte preoccupazione per la presidenza De Gasperi da una parte nei vecchi residui massonici, dall’altra parte nei gruppi cattolici conservatori. Curiosa coincidenza. De Gasperi è a capo di un partito che ha basi di massa. Questo solo lo rende a noi più accetto di quegli uomini politici cosiddetti “indipendenti” che non rendono conto del loro operato altro che ai loro quattro amici e alla loro vanità».

È il primo presidente del Consiglio democristiano, la Dc uscirà dal governo solo nel 1994, quasi sessant’anni dopo. Ma in quel momento il leader trentino è il capo di un fronte trasversale molto più ampio. Il Tripartito Dc-Pci-Psi. Chi rappresenta il popolo rispetto a chi rappresenta «una cosa nascosta o senza nome», come Parri. Per la cultura azionista, e poi per la storiografia di sinistra, è il momento in cui il vento della Resistenza smette di soffiare, in cui la rivoluzione è finita e inizia la restaurazione. Ma è vero il contrario. Il nuovo potere dei partiti di massa avrà l’obbligo delle alleanze, del consenso, dei voti che si contano e non che si pesano. La fine di un’era, come scrive don Benedetto Croce in una lettera personale a Vittorio Emanuele Orlando datata 4 settembre 1946: «Carissimo amico, ti confesso che vedere la distruzione dell’Italia che gli Uomini del Risorgimento avevano creata e nella quale noi ci eravamo educati, crescendo con essa, è cosa alla quale non riesco a rassegnarmi!».

I grandi partiti di massa, votati da milioni di italiani, sono per il filosofo napoletano uguali agli Ixos, invasori sconosciuti arrivati da chissà dove, come erano i fascisti. Un atteggiamento aristocratico che non scomparirà negli anni della Repubblica, cambierà soltanto indirizzo. Dal liberale Croce alle case di molti importanti intellettuali di sinistra. Anche loro, come don Benedetto, spesso sorpresi e indignati per i distruttori che arrivano a rompere quel loro gioco elitario che chiamano politica.

Gli inganni della Repubblica

La Repubblica nasce in una notte degli inganni e degli intrighi, quella tra il 4 e il 5 giugno 1946. Il risultato è avvolto nel mistero, eppure si è votato da giorni, monarchia o Repubblica. «Prevalenza repubblicana?» si interrogano i giornali. E pubblicano ventitré fumose righe in neretto corpo otto: «Circa l’esito del referendum, alle ore 4 di stamane nessuna precisazione era stata ancora fornita, e anzi da parte del ministero dell’Interno è stato ripetutamente affermato che le cifre e le indicazioni apparse finora sui giornali non sono da ritenersi come attendibili. Ciononostante, nella nottata si è diffusa la voce, che ha acquisito un certo credito, che lo spoglio fosse ormai stato compiuto per circa 18 milioni di voti e che il risultato dava una prevalenza di oltre un milione di voti alla repubblica. Si diceva pure che i residui voti da scrutinare, circa 6 milioni, si riferiscono per due terzi ai collegi dell’Italia meridionale».

Alle nove di sera, in realtà, la monarchia è data in vantaggio per 20 mila voti, i carabinieri parlano del 58 per cento, così come i servizi alleati. Dopo la mezzanotte, cambio di musica, cominciano a girare voci favorevoli ai repubblicani. Si sparge la voce che il Re sia andato a Fregene e lì si sia ammazzato. «Tutti, cioè noi redattori dei quindici giornali romani del mattino, rincasavamo con gli occhi rossi e la bocca impastata, intontiti o eccitati dalla doccia scozzese delle notizie che si erano urtate, accavallate, contraddette per tutta la notte. Davamo il cambio agli spazzini municipali…» ricorda Gorresio. Quando finalmente vengono convocati i giornalisti per leggere i risultati ufficiosi, il ministro dell’Interno Giuseppe Romita sfoga la tensione dando uno schiaffo a un cronista americano che ha provato a sbirciare i numeri in anticipo dal foglietto ciclostile: è l’unico gesto di violenza registrato in quella storica giornata. E il laico, repubblicano, anti-clericale Randolfo Pacciardi si sente di ringraziare, dalle colonne della «Voce repubblicana», chi, a suo parere, ha consentito alla Repubblica di nascere: «La Madonna del Divino Amore. Trasportata in Roma durante le elezioni, ci ha propiziato la Repubblica che infatti è libertà, uguaglianza, fraternità, giustizia, redenzione. In due parole: Divino Amore».

L’Assemblea Costituente è il teatro della nuova Italia. La Dc, il partito più votato, il 35 per cento e 8 milioni di voti, ha conquistato 207 seggi, a sinistra il Psi ha il 20 per cento e i comunisti il 18: insieme, i tre nuovi partiti riuniscono il 73 per cento degli italiani. I vecchi capi liberali, Croce, Orlando, Bonomi, Nitti, Luigi Einaudi, nel complesso hanno raccolto il 6,7, il Partito d’Azione di Parri si blocca a 334 mila voti, l’1,45, molto meno dell’Uomo qualunque del commediografo Guglielmo Giannini, che supera il 5 per cento e ottiene 30 deputati. Sono i blocchi di partenza della Repubblica, eppure percentuali e ruoli non si allontaneranno di molto da questi dati fino al 1992. Cambierà tutto, ma non il sistema politico italiano nei suoi fondamentali. Un grande partito di centro cattolico, la sinistra forte ma divisa che rappresenta più o meno un terzo del Paese, un debolissimo rivolo laico-riformista, un tenace, resistente partito dell’anti-politica…

L’Assemblea si riunisce per la prima volta il 25 giugno 1946 nell’aula di Montecitorio. Nel mito repubblicano è il momento della creazione, in cui i padri fondatori, lontani da divisioni ideologiche, si uniscono per dare vita alla Costituzione più bella del mondo. Gli osservatori contemporanei, però, furono ben più dissacranti. Scrissero di un clima di imbarazzo dei neo-padri della Patria, che si aggiravano sperduti nella grande aula e che non sapevano come comportarsi. Come avverrà per i debuttanti in ogni inizio legislatura: gaffe, abiti sbagliati, incertezza.

I cronisti dell’epoca si scatenano sugli abiti scelti dalle prime donne rappresentanti del popolo. La qualunquista Ottavia Penna, baronessa siciliana, sembra una saponetta, Maria Cingolani è l’unica democristiana vestita in chiaro, in shantung beige, a differenza della collega Merlin, in nero e guanti. Rita Montagnana, deputata del Pci e moglie di Togliatti, è in blu a pallini rossi. Il «Risorgimento liberale» titola il giorno dopo Come sono vestite le deputate a Montecitorio, e si attira la protesta vibrante di un’associazione di donne: «Questo indugiare su esteriorità femminili suona sfiducia nel contributo che le onorevoli potranno dare ai lavori della Costituente». Anticipo di infinite polemiche, in un’aula che vedrà elette professoresse universitarie, imprenditrici, attrici, campionesse di scherma, soubrette televisive, pornostar. Deputate più intelligenti che belle, più belle che intelligenti, deputate-veline…

Presiede Orlando, parla De Gasperi, viene eletto presidente dell’assemblea Giuseppe Saragat, i cronisti scrutano le schede con il binocolo. Volti ignoti in aula, «Questo qui quando parlerà che dirà?» ci si chiede in sala stampa. Finalmente, alle 16.20, Saragat proclama a Montecitorio la nascita ufficiale della Repubblica italiana in una seduta di venticinque minuti. Alla stessa ora l’attenzione di tutti è sulla conclusione della tappa del Giro d’Italia Napoli-Roma, vinta dal romano Elio Bertocchi. Il giorno dopo il papa riceve in udienza la personalità del momento. Bertocchi, non Saragat.

I leader della nuova Italia non sono giovani: De Gasperi ha sessantacinque anni, Togliatti cinquantatré, Nenni cinquantasette. Sono immersi più nell’Ottocento che nel Novecento, per letture, cultura, sensibilità. Una generazione di mezzo, di figli della loro epoca costretti dall’interminabile ventennio fascista a restare congelati e a proporsi come padri a un Paese devastato. Del loro privato si sa poco, pochissimo. Saragat è il più alla moda, conteso dalle signore dei Parioli che hanno votato per lui. De Gasperi ama le canzoni alpine e le ore notturne, in cui alle riunioni dà il meglio di sé. Quando un giornale scrive che la famiglia è divisa sul referendum istituzionale – le due figlie maggiori repubblicane, le due minori monarchiche –, il ministro Guido Gonella sente di dover intervenire per precisare che a casa De Gasperi non si parla di politica. Togliatti nella sua stanza conserva un trenino, un aeroplanino, un apparecchio radio. Tifa in segreto per la Juventus e ha una forte antipatia per il Bologna: «Ciò deriva» appunta Gorresio «dalla concorrenza che questo squadrone va facendo ai torinesi, o, secondo i maligni, è frutto dell’influenza che avrebbe su di lui una giovane graziosa deputata del suo partito che è nativa di Reggio Emilia, e perciò ostile ai bolognesi». Il primo gossip della storia repubblicana. La deputata avrà presto un nome, si chiama Nilde Iotti.

Alla fine degli anni Quaranta, però, non si usa la vita privata per gli attacchi politici. Il privato non è pubblico, non esiste. Il nuovo potere è impersonale eppure sa benissimo a chi vuole rivolgersi, l’Italia che vuole rappresentare. Al contrario dei poteri che verranno nelle fasi successive della Repubblica. Personali, personalissimi, ma con idee molto vaghe sull’elettorato cui vogliono rivolgersi.

Il nuovo potere dei partiti ha una catena di amici interni e di alleanze esterne. Cammina sulle macerie, ma non si muove nel vuoto. L’Italia dell’alba repubblicana è devastata, ma è piena, intasata come una strada all’ora di punta: di trame, agenti, spie, ambasciatori, militari. Gli agenti della guerra fredda. I preti e i rivoluzionari di professione.

Partiti visibili e partiti invisibili.

Ciascuno con i suoi leader, i suoi colonnelli, la sua rete di alleanze, i suoi nemici.

Il contrario del Vuoto.

Il grande gioco della Rappresentanza.