Lunedì
La neve che era caduta per tutta la notte aveva ricoperto le strade e i tetti delle macchine. Qualche fiocco ritardatario svolazzava nell’aria indeciso se posarsi su un ramo o su un lampione. Rocco aveva lasciato la macchina in doppia fila per tutta la notte, accanto ad un furgone che era parcheggiato lì oramai da sei mesi e non s’era mai mosso. Avrebbe dovuto chiamare la municipale e far rimuovere il mezzo, ma perché rinunciare a un comodo parcheggio in seconda fila proprio sotto casa? Il furgone stava bene dove stava.
Facendo attenzione a dove metteva i piedi raggiunse la sua Volvo ed entrò nell’abitacolo. Il fiato denso riempì l’aria fredda all’interno della vettura. «Freddo di merda» ringhiò. Poi girò la chiave e i 163 cavalli del motore ruggirono immediatamente al comando. Accese l’aria calda stropicciandosi le mani che i guanti di pelle non riuscivano proprio a tenere calde. Doveva andare in ufficio per la sua preghiera laica del mattino. Ma aveva commesso un errore. Una distrazione imperdonabile. Non aveva spento il cellulare che accendeva solamente dopo le nove. E quello si mise a suonare. Rocco saltò, quasi spaventato. «Porca...» imprecò cercandolo nelle tasche. Lo prese maneggiandolo come fosse una patata bollente.
Numero privato sul display. Doveva tenersi pronto. Poteva essere qualche avviso commerciale o il questore.
«Sì?».
«Due a uno al Palermo in casa loro mica è robetta».
Era Andrea Costa, il questore, che gioiva della sua squadra, il Genoa, che aveva fatto risultato in Trinacria.
«Allora Schiavone, una splendida settimana si apre davanti ai nostri occhi. Il tempo è buono e le vele sono gonfie!».
«Dottore, il suo ottimismo a quest’ora del mattino è quanto meno irritante» rispose Rocco.
«Forza allora. Ha qualcosa da dirmi riguardo al caso Baudo? Le ricordo che domani c’è una conferenza stampa».
«Alla quale io non potrò partecipare. Lei sa gestire i giornalisti, se li gira intorno al dito mignolo. Io queste cose invece non le so fare».
«Quegli stronzi...» disse il questore.
«Mi creda, lei li ipnotizza e gli può raccontare anche la favola di Pollicino che quelli sono contenti».
«Lei mi lusinga, Schiavone, ma vede, qualcosa da dare in pasto a quella gentaglia io la devo avere. Mi dica qualcosa».
«Certo. Allora provi a buttare questo nelle fauci del mostro. Venerdì a casa della morta c’era un traffico da Stazione Termini. Oltre alla cameriera dentro c’erano due ladruncoli».
«Ma che mi dice?».
«Che hanno rubato a casa Baudo».
«Sospetta di loro anche per l’omicidio?».
«Macché. Sono due sfigati. Le spiego perché non c’entrano?».
«Magari. È una cosa complessa?».
«Appena».
«Allora prendo la penna». Ci fu una pausa dove Rocco udì chiaramente cassetti della scrivania aprirsi e chiudersi istericamente. «Le penne! Chi mi ruba le penne!» urlò il questore. «Finalmente. Sono pronto, dottor Schiavone».
«Allora, i due ragazzi, al secolo Fabio Righetti e Helmi Bastiany...».
«Helmi cosa?».
«Bastiany».
«Bastiany. Di dov’è? Albanese?».
«Egitto, dottore. Allora, i due si trovavano lì per svaligiare la casa, meglio, per rubare dell’oro che sapevano essere in camera da letto».
«Come facevano?».
«Helmi è il figlio del convivente della cameriera, le ha rubato le chiavi, ha fatto la copia ed è entrato nell’appartamento. Dunque, Ester Baudo secondo il referto del solerte anatomopatologo è morta non più tardi delle sette e mezzo. Righetti, il complice di Bastiany, asserisce di essere entrato in casa alle ore nove e mezzo».
«Magari dice una sciocchezza».
«Non credo. Ho controllato. Alle nove lui ed Helmi stavano cambiando la ruota bucata del motorino. Ora ascolti. All’arrivo della cameriera, la matrigna di Helmi, i due ladruncoli si sono nascosti e, come riferisce Fabio Righetti, hanno assistito a tutta la scena della fuga di Irina e all’incontro della donna con un ex maresciallo in pensione giù un strada, che poi è l’uomo che ci ha chiamato».
«Questo cosa significa?».
«Che Irina è entrata in casa alle dieci. E che a quell’ora i ragazzi erano in casa».
«La matrigna lì, la cameriera, avrebbe potuto raccontargli le cose dopo, no?».
«E quando? No, non credo. Righetti mi ha riferito addirittura che è inciampata nel tappeto e che giù in strada s’era fermata a parlare con un uomo col cane al guinzaglio. Vede, io ho imparato che quando uno è in preda al panico, e Irina lo era, di solito non racconta le cose con dovizia di particolari. Insomma, certi dettagli neanche li ricorda. Ora io mi chiedo: se Righetti e Helmi scoperti hanno ucciso Ester Baudo alle sette e trenta cosa diavolo sono rimasti a fare in quella casa per tre ore?».
«Non hanno finto il suicidio?».
«Tre ore? Per scarrucolare un corpo morto su un gancio? Guardi, mettiamoci la paura, la tensione, mettiamoci lo spavento, mettiamoci l’idea della soluzione. Ma secondo me un’ora e mezza è un tempo più che sufficiente. Tre ore è veramente troppo. E poi abbiamo il gommista che ricorda perfettamente i due imbecilli sul motorino mezzo congelati con la ruota bucata».
«Mmm, sono d’accordo. Gli orari non coincidono. Come ci è arrivato?».
«Perché Helmi mi ha portato dritto dritto da Gregorio Chevax, che è un...».
«Lo so chi è» lo interruppe Costa. «C’è ricascato? Lo sa, lo arrestai io la prima volta».
«Sì, ci è ricascato. Helmi gli ha portato la refurtiva di casa Baudo. Vede? Qualcosa di cui parlare coi giornali ce l’ha. E comunque fra poco nel suo ufficio dovrebbe arrivare l’ispettrice Rispoli con tanto di resoconto dei fatti. Così ce li ha nero su bianco».
«E questo Helmi? Dov’è?».
«Questa è la nota dolente. È scappato. Crediamo all’estero. Se lei dà un’occhiata alle scartoffie di ieri vedrà che c’è già un ordine di cattura internazionale sul ragazzo».
«Oh porca... e perché è scappato?».
«Perché ha aggredito un poliziotto. Perché deve dei soldi a gente senza scrupoli che gli ha dato la droga e perché sa che prima o poi saremmo arrivati a lui, dal momento che il suo complice si fa un processo per direttissima a breve».
«Lei sa dove può essere?».
«No. Forse ha raggiunto la madre in Egitto. Passando dalla Svizzera, io credo. L’Egitto ha l’estradizione, dottore?».
«Questo lo dobbiamo chiedere al procuratore. A memoria mi pare che non abbia firmato nessun protocollo con l’Italia. Ma, ripeto, vado a memoria. La ringrazio, Schiavone. Lei lavora anche di domenica?».
«Quando serve. Anche perché in questa città non è che abbia molto da fare».
«Dovrebbe imparare a sciare. Allora sì che amerebbe ’sto posto».
«Ci penso su, dottore».
«Allora alla conferenza stampa non la vedo?».
«Se lei fosse così gentile dall’esimermi, gliene sarei grato. In verità sono su una pista abbastanza certa».
«E allora lavori, Schiavone. E mi tenga informato. A quei bastardi dei giornalai ci penso io. Ah, si ricordi il presidente della Regione per fine aprile e la gara di bici amatoriale».
«Certo, ci sto già lavorando».
«Ottimo. Pare che quegli imbrattacarte non pensino ad altro. Che Dio li fulmini».
La ferita di tanti anni prima ancora non s’era rimarginata nel cuore del questore. L’abbandono del tetto coniugale da parte di sua moglie per un giornalista de «La Stampa» era ancora uno squarcio vivido e sanguinante nel cuore di Andrea Costa. E forse non si sarebbe rimarginato mai.
Rocco parcheggiò l’auto davanti alla questura, nel suo posto riservato. Camminando sulle punte attentissimo a dove metteva i piedi, avanzò verso l’ingresso. L’agente Scipioni che usciva in quel momento sorrise appena lo vide. «Dottore, ha paura di schiacciare qualche cacca di cane?».
«Cretino, mi si fradiciano le Clarks».
«Ma quand’è che si fa un paio di scarpe adatte?».
«Lo stesso giorno in cui tu ti farai i cazzi tuoi» rispose Rocco con lo sguardo concentrato sul marciapiede inzaccherato di neve. Scipioni invece coi suoi anfibi attraversò il manto di neve come una rompighiaccio. «Vado al bar. Vuole un caffè?».
«No grazie, Scipio’. A proposito del Palermo...».
«Lasciamo perdere che è meglio».
«Tu però mi devi rispondere a una domanda».
Scipioni si fermò a guardare il vicequestore: «Dica, dottore».
«Sei siciliano?».
«Per parte di madre. Papà invece è di Ascoli Piceno».
«E come ti trovi qui ad Aosta?».
Scipioni ci pensò su qualche secondo. «Dal punto di vista lavorativo bene. Mi piacciono i colleghi e pure i capi».
«Grazie».
«Da quello climatico pure. Io amo il freddo. Chi soffre e vorrebbe andare in un posto di mare è mia moglie».
«Anche lei siciliana?».
«No, lei è di Saint Vincent».
Rocco rimase a guardare l’agente Scipioni. «C’è nata e non le piace?».
«Succede...».
Schiavone scuotendo la testa salì le scale e finalmente entrò in questura. Camminava veloce per evitare l’incontro mattutino con Deruta, D’Intino non c’era pericolo, per quanto ne sapesse stava ancora in ospedale. Si affrettò lungo il corridoio e sgusciò verso il suo ufficio.
Appena entrato trovò una nota. Probabilmente di Italo:
L’ha chiamata De Silvestri da Roma. È urgente!
Rocco neanche si sedette. Alzò il telefono e chiamò il commissariato di Roma Cristoforo Colombo. Gli rispose proprio De Silvestri, evidentemente in attesa della telefonata.
«De Silvestri, che c’è? Che succede?».
«Dottore... L’ha rifatto!».
Rocco scagliò la cornetta sull’apparecchio e con tutto il fiato che aveva in gola urlò: «Italo!».
Pioveva. Le luci del grande raccordo anulare si riflettevano sull’asfalto bagnato. I tergicristalli del taxi si affannavano a spazzare via l’acqua dal parabrezza mentre le gocce sul tettuccio dell’auto rullavano come percussioni impazzite.
«Che tempo, eh?» fece il tassista.
«Roba da matti» rispose Rocco.
«La lascio a via Poerio allora?».
«Che ore sono?».
«Le sei e mezzo».
«Esatto. Al 12».
Rocco tirò fuori il cellulare. Cercò sulla rubrica il numero di Sebastiano.
«Seba? Sono io».
«Dove cazzo sei?».
«In taxi. Sono a Roma».
«Mmm. Ci vediamo?».
«Stasera. A Santa Maria. Dillo pure a Brizio e Furio».
«Ricevuto. Alle otto?».
«Andata».
Era tornato a Roma, nella sua città. Ma nonostante mancasse da mesi non provava niente. Rabbia. Solo quella.
E parecchia.
Il vicequestore aprì la porta del suo appartamento ma non entrò subito. Rimase sulla soglia a guardare. Un tuono ruttò lontano. Poi accese la luce e si decise.
Odore di chiuso. I mobili, lugubri e tristi coperti da lenzuola bianche. Il frigorifero aperto, vuoto con i canovacci a terra. I tappeti arrotolati e nascosti dietro ai divani. In un portacenere una cicca spenta. Rocco la prese in mano. Una Diana. Segno che Dolores, che veniva a pulire una volta a settimana, si era presa una pausa sul suo divano. Entrò in camera da letto e aprì l’armadio. C’erano solo le sue giacche estive. E i vestiti di Marina imbustati nel cellophane. Li toccò uno ad uno. Ogni abito gli ricordava qualcosa. Il matrimonio di Furio. La cena della promozione del nipote di Marina. La pensione del suocero. L’ultimo vestito era quello rosso. Quello del loro matrimonio. Sorrise. Si ricordò la funzione al Comune. Marina col vestito rosso, lui coi pantaloni verdi e la camicia bianca. Laici. Patriottici. Italiani.
«Quanto ero ubriaco al nostro matrimonio?» chiese ad alta voce. Si girò. Ma c’era solo il letto coperto da una plastica trasparente. Lasciò la camera da letto e tornò in salone.
Sulla grande finestra del terrazzo screziata dalle gocce di pioggia si rifletteva tutta la casa. Rocco poggiò la fronte sulla vetrata. Guardò fuori. Un lampo illuminò le cupole delle chiese e i profili dei tetti di Roma. Le nuvole che incombevano sulla città sembrava se le fosse portate da Aosta. L’acqua vomitata dalle grondaie stava trasformando il terrazzo in una piscina. Distinse l’ombra delle piante di Marina radunate in un angolo. Il limone coperto da un telo stava sotto la tettoia di legno insieme alle rose. Almeno la portiera faceva il suo. Quelle piante non dovevano morire. Soprattutto il limone. Sentì uno strappo al cuore e lo stomaco si strizzò. Prese un ombrello dal vaso all’ingresso e uscì di casa lasciando le luci accese. Forse era l’ora di vendere l’attico. Lì dentro non c’era più niente che gli appartenesse. Gli venne in mente un film visto tanti anni prima, dove le pitture di una tomba romana appena violata, al contatto dell’aria nuova si dissolvevano sciogliendosi fino a sparire mentre il corpo di un’ancella misteriosa si sgonfiava lasciando sull’altare funerario solo un po’ di stoffa e qualche anello. Chiuse la porta senza dare neanche una mandata. Tanto non c’era niente da rubare.
Può succedere a marzo, almeno a Roma, che quello che s’era annunciato come un nuovo diluvio universale improvvisamente si plachi e tutto torni alla normalità, lasciando solo strade allagate, alberi divelti e una quantità industriale di incidenti con relativo riempimento dei pronto soccorso della città. L’odore è un misto di guano, scarico di automobili, olio fritto e erba fradicia. I motorini tornano a sfrecciare per le strade come rondini a primavera e sulle soglie dei ristoranti appaiono i camerieri in attesa dei turisti. Almeno a Trastevere.
Rocco era seduto a un tavolino esterno sotto una stufa a fungo e beveva una birra aspettando i suoi amici. Erano le otto e quelli, puntuali, sbucarono dalla Lungaretta. Sebastiano alto, enorme coi suoi capelli lunghi e ricci tenuti a bada da un cappelletto di lana. Furio magro e nervoso, sempre con le mani in tasca, sulla pelata si riflettevano i lampioni stradali. Si guardavano intorno. Non perché fossero tesi, era un’abitudine restare sempre sul chivalà. Una deformazione professionale. I suoi amici di sempre avanzavano scrutando anche il cielo, semmai il pericolo potesse arrivare dall’alto. Ursus arctos horribilis e Acinonyx jubatus. Al secolo grizzly e ghepardo. Una bella coppia. Già all’altezza della fontana avevano scorto Rocco seduto al tavolo che li aspettava. Rocco si alzò. E spalancò le mani come il Cristo del Corcovado. Seba e Furio sorrisero di rimando. E si abbracciarono con la violenza di una mischia di rugby. Tutti e tre. Il cuore di Rocco ricominciò a battere.
«Te sei messo fuori perché stai facendo quello abituato ai climi nordici?» disse Furio.
«Mi sono messo fuori perché dentro c’è troppa gente e poi non fa tutto ’sto freddo».
«Dici?».
«Dico. E poi mi sono messo fuori perché sto a Roma e perché a Roma ci si siede fuori e voglio vede’ i mosaici di Santa Maria. Ti basta?».
«Sei scemo» fece Sebastiano togliendosi il cappelletto di lana. I capelli ricci e lunghi esplosero. «Vado a prendere due birre». Si alzò trascinando la sedia.
Rocco guardò Furio. «Come stai?».
«Così così. Se campa. E tu?».
«Uguale. Se campa. Com’è che Brizio non c’è?».
«Sta a Albano. Alla suocera gli è preso un ictus. Mo’ parla tutta di sbieco».
«Brutta storia».
«Già. Oltre a parlare di sbieco non si ricorda un cazzo. E siccome Stella è partita una settimana a fare uno stage di taglio e messa in piega, a Brizio gli tocca fare il baby-sitter. Conta che ieri la suocera l’ha scambiato per l’idraulico».
«E dire che la mamma di Stella da giovane era una cosa da diventare scemi» fece Rocco.
«Guarda» fece Furio, «te lo dico tanto perché tu lo sappia. Io le prime pippe me le sono fatte su di lei».
«Non sei l’unico. L’estate era una cosa da stare male. Te la ricordi?».
«Se me la ricordo? Con quei vestitini a fiori e le zinne che sembravano esplodere. E i capelli. Neri, lunghi, le labbra... guarda, te la dico tutta, secondo me Brizio s’è sposato Stella perché ha fatto un transfert con la madre».
«Furio, ma ve siete fissati co’ ’sta storia dei transfert?».
«Perché?».
«Pure a Seba Brizio ha detto che Adele si è fatta la storia cor Cravatta perché ha fatto un transfert con la figura paterna».
«Vedi? Se lo dice lui! Guarda che è così, Rocco. Brizio sta con Stella sull’onda del ricordo della madre. È umano, che ti credi?».
«Secondo me sei scemo».
«Una volta alla fontanella di piazza San Cosimato, poteva essere agosto, la madre di Stella s’è fermata e ha cominciato a sciacquarsi il viso. Però s’era bagnata pure il vestito e sotto non portava niente. Si vedeva tutto! I capezzoli, ogni respiro sembrava che potesse esplodere tutto l’ambaradan. Io e Brizio stavamo lì sulla bici che ce la spizzavamo, lei se ne accorse, ci guardò con quegli occhi verdi e ci sorrise. Ci fece pure l’occhiolino. Poi la stronza si girò di spalle e si chinò per sciacquarsi il collo. La vuoi sapere? Neanche le mutande portava. Io e Brizio siamo corsi a casa e siamo andati in bagno e...».
«Vabbè, basta, Furio, ho capito. Mi stai arrapando».
«La sai una cosa, Rocco? La vecchiaia non dovrebbe esistere per le donne».
«Vero. La vecchiaia è una cosa da uomini. A proposito, Sebastiano come sta?».
«Te l’ha raccontato di Adele, no?».
«Ma è vera questa storia di Roby Gusberti?».
Furio sorrise. «Esagera. Dice che l’ha trovati a letto, ma non è così. Stavano in salone a prendere un caffè. In realtà Sebastiano ci ha ricamato sopra. Però che Adele s’è rotta le palle è vero. Seba deve rientrare in tazza».
«E tu?».
«Sempre libero come l’aria!».
Sebastiano tornò con due birre. «Salute!» disse lasciando cadere il suo corpaccione sulla sedia.
Brindarono. Dopo una sorsata generosa, Sebastiano si pulì la barba con la manica del giubbotto. «Allora Rocco, ci spieghi?».
Il vicequestore li guardò. «In due parole. Giorgio Borghetti Ansaldo...».
«Chi cazzo è?».
«Quello che se ne va in giro a stuprare le ragazzine».
«Ah!» fece Furio. «Quello che ha il padre che t’ha mandato ad Aosta?».
«Sì. Ha ricominciato».
Furio si mise la mano in tasca e prese una sigaretta. Sebastiano si lasciò andare sullo schienale della sedia.
«Che vuoi fare?» fece Furio accendendosi la Camel.
«Va fermato».
«Chi lo sa che sei a Roma?» chiese Furio.
«Nessuno. Solo quell’Italo, Sebastiano lo conosce».
«Sì, l’agente paraculo. Uno a posto» confermò Seba.
Furio fece una tirata profonda. «Tu però sarebbe meglio che ne stai fuori, Rocco» disse sputando il fumo.
«E perché?».
«Perché se ti beccano stavolta non te mandano ad Aosta, ma direttamente a Rebibbia».
«E una guardia dentro Rebibbia campa poco» aggiunse Sebastiano, «lo sai meglio di me».
«Vuoi spaventare il ragazzo, come si chiama? Giorgio?».
«Forse non sono stato chiaro, Furio. Lo voglio fermare una volta per tutte».
Furio annuì. «E quando va fatta questa cosa?».
«Domani al più tardi».
Furio spense la sigaretta nel posacenere: «Dicci meglio».
«Ho una persona che mi dice tutti i movimenti dello stronzo» cominciò Rocco. «Beccarlo è facile».
«Chi è questa persona?».
«De Silvestri».
«Ma non è un agente?» chiese Sebastiano.
«Sì. Il migliore».
«E non è un po’ rischioso?».
«No. Quella merda ha toccato pure sua nipote. Se sono qui è perché m’ha chiamato lui».
I due amici annuirono. «Spiega...».