Sabato
D’Intino era steso sul letto 14 della stanza 3 al reparto traumatologico dell’Umberto Parini. Aveva il naso avvolto nelle bende e uno squarcio sulla parte destra della fronte che la tintura di iodio rendeva ancora più orripilante. Teneva gli occhi chiusi e respirava lentamente. Il medico di turno aveva accompagnato il vicequestore al capezzale dell’infortunato.
«Frattura del naso e un paio di costole andate» gli aveva detto.
Rocco guardava il degente. Si stupì nel provare per il poveretto un sentimento che si avvicinava pericolosamente alla pietà. Fino al giorno prima l’avrebbe spedito di corsa in qualche questura in mezzo alla Maiella, ora invece vederlo indifeso in quel letto d’ospedale gli faceva quasi tenerezza. «Quanto deve stare qui, dottore?».
«Lo teniamo qualche giorno, poi a casa a riposo. Le costole si devono saldare».
In quel momento D’Intino riaprì gli occhi. «Vicequestore...» disse con un filo di voce, «ha visto cosa m’è successo?».
«E ho visto sì. Almeno ora te ne stai un po’ a casa a riposarti. Siete stati in gamba ieri tu e Deruta».
«Grazie. Ma l’avete presi?».
«Uno solo. Ti ricordi qualcosa di quello che ti ha aggredito?».
D’Intino cercò di cambiare posizione e una smorfia di dolore gli apparve sul volto deturpato «Poco dotto’. Quello mi si è froncato addosso e m’ha dato una capata precisa sul naso. Un dolore che ho visto tutte le stelle, sa?».
«Proprio tutte?».
«Non ce ne mancava una. Poi so’ cascato e mi sa che lì mi sono fratturato le costole. Perché mi sono rotto pure quelle».
«E l’hai visto in faccia?».
«Appena. Era tutto buio. Quand’è buio la gente è tutta uguale. Teneva il cappuccio in testa. Era scuro. Mi sa un po’ negro».
«Che vuol dire un po’ negro?».
«Che non era negro. Ma manco bianco».
D’Intino lo stava facendo scivolare in una conversazione priva di senso, allora il vicequestore cambiò subito strada e si rivolse al medico. «Quel taglio sulla fronte?» e indicò lo sbrego di una decina di centimetri.
«Mah, che le devo dire? È un taglio sottile, come se qualcuno glielo avesse fatto con un oggetto metallico».
«Un coltello?».
«Forse».
Rocco schioccò le dita davanti al viso di D’Intino per attrarre la sua attenzione «Oh, D’Intino, guarda qui! L’aggressore aveva il coltello?».
«No. Il coltello no. Scappato».
«Questo l’ho capito».
«Veloce, era veloce. Teneva lu foche a li pidi. Proprio il fuoco ai piedi». E si addormentò come colto da improvvisa narcolessia. Da quell’uomo ormai non c’era più niente da sapere.
Rocco strinse la mano al dottore, «la ringrazio», e lasciò la stanza che D’Intino divideva con due ragazzi con la gamba in trazione. «In gamba!» disse Rocco ai due adolescenti che gli risposero col dito medio alzato in bella vista.
Mentre scendeva le scale, si ricordò che non aveva chiamato Nora. Farlo adesso sarebbe stato un errore perché l’avrebbe trovata incazzata nera. Non farlo sarebbe stato anche peggio, avrebbe significato la chiusura definitiva del rapporto. Mentre era impantanato in quell’indecisione amletica, il suo cellulare squillò. Non era Nora, era il numero dell’ufficio. «Sì?».
«Sono Italo. Abbiamo un po’ di fortuna».
«Di che si tratta?».
«C’era la telecamera di una farmacia che ieri notte ha ripreso la scena di D’Intino e Deruta. Ce l’ho qui in questura».
«Arrivo».
«Sì, ma preparati».
«A cosa?».
«Non ho mai riso tanto in vita mia».
Bianco e nero e senza sonoro, così si presentava il video registrato dalla telecamera della farmacia sul monitor del pc del vicequestore.
Esterno notte.
Buio. Una strada. Delle transenne recintano uno scavo. Lavori in corso. In fondo un muretto con due ragazzi seduti a chiacchierare. Un terzo è in sella a un motorino.
«Blocca un momento» disse Rocco. Caterina fermò la registrazione. «I nostri sono in macchina?».
«Guardi bene» disse Caterina toccando con la punta della penna il lato destro del monitor. «Ecco, vede? Sono qui, dietro questo cespuglio».
«Ah, sì ecco». Rocco annuì.
Dietro il nero delle fronde di un cespuglio sul lato della via si intravvedevano appena due ombre. «Sembrano due infrattati».
«Alla loro età poi...» aggiunse Italo.
«Io gli avevo detto di non dare nell’occhio. Così stanno a dieci metri dai ragazzi. Vabbè, ma di che mi stupisco? Sono Deruta e D’Intino. Vai Caterina, manda pure».
«Ora vedrà spuntare Righetti e il compagnuccio».
Caterina premette l’invio sulla tastiera e il video ripartì.
Sempre esterno notte.
Dal fondo della strada all’improvviso spuntano due ombre. Incappucciate.
I due ragazzi si avvicinano al terzetto che si gira verso di loro. Poi si salutano cozzando i pugni e dandosi il cinque. Righetti e il socio si infilano le mani nelle tasche e tirano fuori delle bustine.
«Attenzione, ci siamo» fece l’ispettrice Rispoli.
Dal cespuglio che nasconde D’Intino e Deruta lampeggia il flash di una macchina fotografica.
«Ma che cazzo...?» disse Rocco.
«Hanno usato il flash» ammise triste Caterina.
Italo scuoteva la testa. «Roba da matti, il flash».
I cinque ragazzi si voltano all’unisono verso il nascondiglio dei poliziotti.
L’appostamento è stato scoperto.
I tre che chiacchieravano amabilmente scappano come fulmini, due in motorino l’altro a piedi, mentre finalmente D’Intino e Deruta schizzano fuori dal nascondiglio. Righetti e il compagno sono rimasti lì, piantati sul marciapiede a guardare quei due uomini sbucare dalle fronde di alloro. Deruta impugna la pistola. D’Intino invece brandisce la macchina fotografica neanche fosse un fucile a pompa.
Righetti scarta di lato e comincia a correre sulla strada inseguito da Deruta che trascina i suoi 130 chili affannosamente, l’altro ragazzo invece si avvicina a D’Intino, gli getta a terra la macchina fotografica.
Righetti intanto inciampa all’improvviso sulle transenne dei lavori in corso, Deruta dietro di lui fa lo stesso caracollando come un birillo, finendo addosso allo spacciatore e perdendo l’arma nella caduta.
Il complice è invece in piena colluttazione. Assesta una capocciata secca sul naso di D’Intino. Mentre quello crolla a terra, l’aggressore si piega in due e si tocca il viso.
Soffre. Non si sente nulla, ma è chiaro che sta bestemmiando. La capocciata ha ferito anche lui.
Deruta indomito ha acchiappato Righetti per i pantaloni e steso a terra, mentre quello scalcia, cerca di trascinarlo a sé. Alla fine i jeans con i tasconi laterali dello spacciatore scivolano via dalle gambe e Righetti si ritrova in mutande seduto in mezzo alla via.
Dall’altra parte della strada il complice, piegato ancora in due per il dolore alla fronte, comincia a scappare mentre D’Intino si contorce a terra come un lombrico.
Ora Righetti in mutande si è rialzato. Ha anche perso una scarpa. Deruta roteando i pantaloni dell’avversario come bolas argentine glieli scaglia addosso. I jeans vanno a intrufolarsi in mezzo alle gambe del fuggitivo che inciampa e cade di nuovo a terra.
L’agente di polizia prende una rincorsa, si lancia a volo d’angelo librandosi nell’aria come Rey Mysterio, il famoso wrestler americano, e atterra con i suoi cento e passa chili sul povero spacciatore che rimane schiacciato sotto tutto quel peso.
L’agente Deruta comincia a rimbalzare con il sedere sullo stomaco del Righetti che in evidente stato di asfissia cerca inutilmente di togliersi di dosso il pachiderma.
D’Intino finalmente s’è rialzato con il viso pieno di sangue. Ha recuperato la macchina fotografica e si avvicina a Deruta e Righetti minacciando il ragazzo con la Canon. Poi è un attimo. Sparisce ingoiato dal terreno.
È caduto dentro la buca degli scavi, e di lui si perde ogni traccia.
Deruta, approfittando del ragazzo semisvenuto, ha recuperato la pistola. Se la palleggia fra le mani come fosse un pesce appena pescato. All’improvviso, nel bianco e nero del video una fiammata parte dalla Beretta e il vetro di un portone lì accanto finisce in mille pezzi.
Righetti si è congelato dalla paura. Deruta ora è solo, in mezzo alla strada, e punta la pistola su un ragazzo in mutande mentre finalmente nell’inquadratura cominciano ad apparire delle persone. Gente, curiosi accorsi a dare una mano ai poliziotti. Alle spalle di Deruta e del ragazzo in mutande, due mani spuntano lentamente dalla buca dei lavori in corso. Attaccate alle mani ci sono delle braccia e infine appare la testa di D’Intino che è riuscito a risalire da quell’orrido urbano. Appena in piedi sul bordo dello scavo pendola avanti e indietro come fosse sul ponte di una barca e poi finalmente stramazza al suolo.
Svenuto.
Dissolvenza in nero.
Rocco Caterina e Italo erano rimasti lì a fissare il monitor.
«Questo video lo teniamo qui in questura e non deve mai uscire, intesi?» disse severo il vicequestore.
«Certo, dottore».
«O almeno se deve uscire ne voglio una copia. È una delle cose più belle che questa città mi abbia regalato da quando sono qui. Stanlio e Onlio a confronto sono un film di Bergman».
E scoppiarono a ridere tutti e tre.
«Per favore Caterina, torna al momento in cui l’aggressore di D’Intino scappa».
La Rispoli trascinò il mouse e fece ripartire il video.
Di nuovo si vedeva D’Intino piegato in due e l’aggressore prendere la fuga.
«Fallo ripartire dal punto Caterì, e guardate le scarpe».
Italo e l’ispettrice Rispoli si concentrarono sul monitor.
«Luccicano» fece Pierron.
«Già. Ecco, vedete? D’Intino mi aveva detto che aveva il fuoco ai piedi, e in effetti se guardate...».
Era vero. Il fuggitivo sembrava avere le scarpe scintillanti.
«Sono i modelli che ora vanno di moda» disse Caterina. «Americane, si vedono al buio, per quando si fa jogging in mezzo alla strada per esempio».
«Già, per esempio». Rocco si alzò dalla scrivania. Annuiva silenzioso. Italo e l’ispettrice se ne stavano lì a guardarlo.
«Bene!» disse all’improvviso il vicequestore. «Allora diamoci da fare. Caterina, vatti a fare due chiacchiere con i vicini di casa Baudo. Cerca di capire le abitudini, le frequentazioni, insomma tutto quello che riesci a sapere su quella poveraccia. Portati Scipioni che mi pare uno a posto».
«Va bene, vado».
«Hai un abito borghese?» le chiese.
«Perché?».
«Perché se la gente ti vede in borghese è più propensa a parlare. Non lo sapevi?».
«Ce l’ho giù nello spogliatoio».
«Cambiati e vai».
«Non si finisce mai di imparare» fece l’ispettrice sorridendo e uscì dalla stanza del vicequestore.
«Io e te che facciamo, Rocco?» chiese Italo appena rimasero soli.
«Io e te andiamo da Fumagalli all’ospedale».
«Va bene. Posso restare fuori dall’obitorio?».
«No. Ci devi fare l’abitudine».
«Perché?».
«Perché fa parte del tuo mestiere, cazzarola, mica te lo devo spiegare ogni volta, no?».
Italo annuì poco convinto mentre Rocco andò alla finestra. Intrecciò le mani dietro la schiena e si mise ad osservare.
«Embè? Non andiamo?» chiese Italo con la mano sulla maniglia della porta.
«Aspetta cinque minuti».
Aveva smesso di nevicare e anche il vento s’era dato una calmata. Le nuvole però restavano appollaiate in mezzo alle cime delle montagne, e il sole doveva essere lì da qualche parte, ma non riusciva a penetrare quella coltre spessa e lanuginosa. Rocco Schiavone guardava la gente camminare tranquilla sui marciapiedi, col passo di un sabato mattina spensierato. Dei ragazzi stavano caricando gli sci sul tettuccio di un fuoristrada e un setter portato al guinzaglio da un uomo sulla cinquantina teneva la testa alta muovendo le froge del naso. La coda ritta e ferma, aveva sentito qualcosa nell’aria. Il vicequestore sorrise nel pensare alla somiglianza che sentiva fra lui e quel cane da punta. Passare la vita a individuare un odore fuori luogo, una nota stonata e darsi da fare a capire il perché.
Finalmente l’attesa finì. Dal portone della questura vide uscire prima l’agente Scipioni e dietro di lui Caterina Rispoli. Gonna al ginocchio e scarpe coi tacchi nonostante il freddo, un cappottino nero aperto davanti. Gli occhi del vicequestore erano diventati due laser puntuti. L’ispettrice aveva un seno duro che spingeva fieramente da sotto il maglioncino, e le caviglie magre. I polpacci appena disegnati, lunghi, affusolati. La guardò salire in macchina fin quando il movimento non scoprì una parte generosa di coscia.
Aveva ragione, ci aveva azzeccato. Sotto la goffa divisa della polizia, si nascondeva una femmina di massimo rispetto. Peccato per il cappotto che le copriva il didietro, ma anche con i pantaloni dell’uniforme s’era già fatto un’idea precisa. Caterina Rispoli era messa bene anche lì.
«Rocco?» fece Italo. «Che stai guardando?».
«Fatti i cazzi tuoi, Italo. Bene, ora che la vita ci ha concesso uno sprazzo di bellezza, scendiamo negli inferi a parlare con Caron dimonio».
«Mi tocca lavora’ anche il sabato» aveva bofonchiato Alberto Fumagalli mentre si allacciava il suo grembiule verde e sporco di ruggine, ma che ruggine non era. «Che pensate voialtri? Che io non abbia mai una mazza da fare? Due morti per avvelenamento più un incidente a Verres e come se non bastasse Ester Baudo. Lo sapete? Io il sabato per esempio potrei andare a trovare i parenti giù a Livorno invece di stare qui a congelarmi i coglioni».
«Alberto, hai qualcosa da dirmi o devi solo rompermi le palle?» fece Rocco sedendosi sulla poltroncina della sala d’aspetto vicino alla morgue.
«Non ti sedere. Adesso s’entra dalla poverina. Lui viene con noi?» e indicò Italo sorridendo.
«Certo» fece Rocco.
Alberto si avvicinò al distributore di caffè, infilò la pennetta. «Dai, vediamo se stavolta resiste e ’un si vomita addosso».
«Non mi fa ridere, dottore» disse Italo.
«Mai stato tanto serio» rispose il medico. «Ti va un caffè, Rocco?». Premette un tasto e il macchinario si mise in moto. «Allora lo vuoi o no?».
«Un caffè da quel coso?» disse Rocco. «Sei matto? Poi mi devi fare l’autopsia e capire cos’è che mi ha avvelenato. Ti risparmio un po’ di lavoro». E il vicequestore si alzò dal divanetto. «Sbrigati co’ sta ciofeca e andiamo».
C’era il solito odore di uova marce misto a disinfettante e urina vecchia. Un rubinetto lontano gocciolava scandendo il tempo, unità di misura che in quel posto riguardava solo Rocco Italo e il dottor Fumagalli. Per gli altri infilati nei cassetti dell’obitorio come abiti fuori stagione il tempo non aveva più senso e nessun valore.
Sul tavolo centrale, coperto, c’era il corpo di Ester Baudo. Un piano di alluminio correva lungo il perimetro della stanza. Sopra c’erano tre scodelle d’acciaio piene di ammassi sanguinolenti. I poliziotti stavano osservando quel campionario in mostra e Alberto si sentì in dovere di fare una precisazione: «Quella non è roba di Ester, fa parte dei due poveracci morti avvelenati vicino ad un depuratore. Le solite cose, fegato, cervello e polmoni...».
Italo impallidì. «Scusate, non ce la faccio». E coprendosi la bocca uscì di corsa dalla sala autoptica. Alberto Fumagalli guardò l’orologio. «Ventitré secondi. È migliorato. L’altra volta ha resistito neanche dieci».
«Sì, fa progressi il ragazzo».
Alberto indicò le tre tazze metalliche. «Glielo dovevo dire che quelli sono solo stracci sporchi?».
«Non avrebbe fatto differenza. Quello avrebbe vomitato pure se qua dentro ci fosse stata Scarlett Johansson nuda».
«Guarda che in un posto così prima o poi Scarlett Johansson nuda ci sarà».
Rocco lo guardò serio. «Che cazzo di pensiero è?».
«Non è un pensiero, è deformazione professionale».
«Fammi capire, tu vedi Scarlett Johansson a tette di fuori, che so, su una rivista e pensi al giorno che sarà stesa su un lettino autoptico?».
Fumagalli ci rifletté su. «No. A volte no. Ma a dirtela tutta per me non c’è niente di meno erotico di un corpo nudo. Conosci quel poeta francese che diceva di non poter baciare il viso di una ragazza perché gli veniva in mente che sotto quella pelle c’era il cranio che un giorno riposerà roso dai vermi nella bara?».
«Vago ricordo».
«A me il nudo fa lo stesso effetto». E il medico con un sorso buttò giù il caffè accompagnandolo con una smorfia schifata. «Accidenti che schifo!» mormorò.
«Perché lo bevi se ti fa schifo?».
«Per ricordarmi che la vita è dura e piena di difficoltà».
«E ti serve quella ciofeca? Non ti basta guardarti intorno?».
«Perché, cos’ha ’sto posto che non va?» chiese serio Alberto.
Si avvicinarono al corpo di Ester. Il volto era pesto. Il labbro tagliato, l’occhio destro gonfio e sullo zigomo sottostante c’era un livido grosso come il palmo di una mano. Intorno al collo era evidente il segno della corda che le aveva tolto la vita.
«Allora veniamo al dunque» attaccò Alberto Fumagalli. «Non è morta per asfissia ma per la compressione del nervo vago con conseguente brachicardia e arresto cardiaco». Il taglio sul torace del cadavere dimostrava che gli organi interni erano stati già espiantati dall’anatomopatologo. «Abbiamo poi un’incrinatura dello zigomo destro e sullo stesso lato mancano due molari».
Rocco annuiva guardando il viso della donna. I capelli erano sciolti sul lettino di metallo. A guardarla dall’alto sembrava che Ester fluttuasse sull’acqua.
«È stata picchiata» concluse Rocco.
Alberto annuì silenzioso. «Ora ascoltami bene perché la cosa si fa interessante. Dunque, di solito uno strangolamento lascia sul collo la traccia della corda, sotto la trachea, ma anche tutt’intorno. Fin quasi alla nuca».
«Invece?».
«Invece il segno lo abbiamo solo sulla parte anteriore. Intorno al collo c’è solo un lieve rossore. Questa cosa mi fa pensare che la morte sia dovuta ad impiccagione. Mi spiego meglio?».
«Se ti va».
«Perché rispondi? Non si risponde alle domande retoriche».
«Io ho sempre pensato che le domande retoriche non andrebbero fatte. Non servono a un cazzo» fece Rocco.
«Tu le fai».
«Anche io sbaglio, ma sto cercando di togliermi il vizio. Vuoi andare avanti? E non è una domanda retorica».
«Vado avanti. Quando uno muore per impiccagione, a provocare la morte per strangolamento è il peso del corpo. Insomma è proprio quel peso a tirare il corpo e il segno della corda ci sarebbe solo sul davanti. Se invece uno viene strangolato a provocare la morte è la forza dell’assassino. Il laccio, il cavo, quello che è, è avvolto tutto intorno al collo, dunque lascerebbe un segno circolare dalla trachea fino alla nuca».
«Quindi mi stai dicendo che è morta impiccata?».
«Questa è stata la prima ipotesi. Ma poi ci ho riflettuto sopra. E sai cosa ho pensato? Concentrati sulla scena: Ester Baudo viene picchiata. Sviene. Una volta a terra l’assassino infierisce e la strangola. La vedi la scena, Rocco?».
«È ovvio che la vedo, è il mio mestiere».
Alberto sbuffò. «Parlare con te mi toglie anni di vita».
«A chi lo dici!».
«Andiamo avanti» proseguì Alberto. «Cosa abbiamo dunque? Una vittima a terra priva di sensi che non può difendersi. E allora il figlio di puttana la strangola. E come la strangola? Fai conto che Ester è a pancia in giù. A lui basta premere con una gamba sulla schiena della vittima inerme mentre le stringe l’esofago e la trachea con una corda e voilà! Il gioco è fatto. La uccide strangolandola senza lasciare i segni su tutto il collo, ma solo sul davanti, appunto».
«E poi inscena l’impiccagione?».
Alberto ci pensò su. «Guarda, non voglio dire che l’assassino lo sapesse, dico che c’è una differenza di segni fra la morte per impiccagione e quella per strangolamento, diciamo che potrebbe aver agito così e gli è andata di culo. Sì, gli può essere andata di culo, mi spiego?».
«Allora non escludiamo nessuna delle due cose».
«Dopo tutti questi anni di esperienza no, non la escluderei. Perché i colpi che la poveraccia ha beccato sul viso sono roba seria. Mi stupisco che non sia morta per quelli».
Il viso di Ester stava là, muto testimone della tesi dell’anatomopatologo.
«Con cosa l’ha strangolata?».
«Purtroppo non ho trovato resti. Né di cuoio, né fili, nulla. Comunque deve essere una corda alta almeno così» e mostrò due dita della mano a Rocco.
«Una corda così spessa non è che si trova facilmente in giro, no?».
«No. Direi di no».
«Una cintura?».
«Per esempio, sì. Oppure una cravatta».
Il vicequestore coprì con un gesto delicato il cadavere. «E poi la messa in scena dell’impiccagione con il cavo per stendere i panni».
«Forse la cravatta o la cinta erano troppo corti? Una cosa è certa. Il segno della cinta o cravatta alto due dita è chiaro, poi più tenue c’è anche quello del cavo di acciaio rivestito».
«Che l’hanno impiccata due volte? È strano Albe’, è tutto molto strano».
«Quello è un problema tuo. Come al solito io ti dico come e quando sono morti...».
«Lo so! Il perché tocca a me. A proposito, il quando?».
«Non più tardi delle sette».
«Sei stato di aiuto come sempre. Ti saluto» e il vicequestore Schiavone si incamminò verso la porta.
«Se dovessi fare una scommessa, io mi giocherei un centone che era una cravatta», aggiunse Fumagalli pensieroso.
Rocco si fermò sulla porta. «Perché?».
«Perché i segni che lascerebbe una cinta sarebbero più netti. È di cuoio, la cravatta è di seta».
«Una cravatta... ti faccio mandare le cravatte che sono a casa Baudo, gli dai un’occhiata?».
«Certo. Se una di quelle l’ha usata per lo strangolamento, dovrebbe avere dei frammenti di pelle sopra».
«Già, anche se io credo che chi l’ha usata l’ha fatta sparire. Ma tentare non nuoce...».
«Benissimo. Fammi mandare le cravatte di Baudo. E pure le cinte, hai visto mai che il centone della scommessa lo perdo? Lei me la lasci?» disse Alberto.
«Cosa?».
«Ester Baudo? Diciamo fino a domani al massimo?».
Rocco guardò seriamente preoccupato l’anatomopatologo. «Te la lascio? Che vuoi dire?».
«Niente. Voglio finire di visitarla per bene. Siccome mi sono arrivati altri due pazienti per un incidente su a Verres, più quelli avvelenati vicino al depuratore, sospendo e riprendo stasera».
«Pazienti?».
«Io li chiamo così. E ti assicuro che per quello che gli faccio, sono molto pazienti».
«Albe’, sono morti. Protestare non possono».
«Loro no. Ma se ascolti con attenzione a volte li senti. Te lo chiedono gentili, con un soffio appena, di andarci piano».
Rocco si morse le labbra. Uscì senza dire una parola ma con la convinzione che Alberto Fumagalli aveva seriamente bisogno di un periodo di riposo. Uno stacco, insomma, quindici giorni al sole su una spiaggia che gli avrebbero restituito le giuste proporzioni e ristabilito il limite che c’è fra la vita e la morte.
S’era preparato un discorso. Meglio, s’era preparato una scusa plausibile da raccontare a Nora. Attraverso la vetrina del negozio di abiti da sposa cercava di sbirciare all’interno, ma il modello sontuoso con la gonna piena di perle ricamate impediva una perfetta visuale. Doveva entrare e affrontare la cosa. Solo che non riusciva a decidersi. E si sentiva un cretino. Tutta quella strada fino al negozio per poi non entrare. Ma non ce la faceva. Anche perché, in fondo, non si sentiva così in colpa. Le cose con Nora lui le aveva messe in chiaro da subito. Niente domande, profilo basso e frequentazione solo quando se ne sente la voglia o il bisogno.
E allora perché era lì davanti?
Non poteva essere un rimorso? Quando mai era tornato indietro per un rimorso? Aveva sempre e solo seguito l’istinto. E l’istinto l’altra sera gli aveva suggerito di starsene a casa. Anche se era il compleanno di Nora. Anche se lei ci teneva tantissimo a stare con lui quella notte. Doveva domandarle scusa. E poi? Cosa ne avrebbe ottenuto? Una riconciliazione, forse. Ma era davvero questo che voleva? Riconciliarsi? Tempo due giorni e l’avrebbe ignorata o trattata male un’altra volta ricadendo nell’errore con tutt’e due le scarpe. Invece poteva approfittarne e andarsene da lì, ora e subito, senza chiedere scusa. Se non si fosse fatto vivo si sarebbe risparmiato una discussione di fine rapporto che tanto sarebbe arrivata da lì a poco. Una di quelle discussioni sfibranti, infinite, dove magari si dicono cose che è meglio tenere nascoste. E invece di far spegnere la cosa con un’eutanasia dolce e silenziosa, avrebbe dovuto affrontare uno scontro che non vede mai vincitori e vinti.
Meglio così, meglio lasciar stare, pensò. Profilo basso e niente domande. Girò le spalle al negozio e ad ampie falcate si allontanò senza voltarsi. Se l’avesse fatto si sarebbe accorto che Nora, in piedi sull’uscio del bar dirimpetto con una tazzina di caffè in mano, lo stava osservando da quando s’era piazzato davanti alla vetrina, e appena lo aveva visto svicolare come un ladro verso l’angolo della strada, le si erano riempiti gli occhi di lacrime.
«Il quartiere è Cogne» fece Italo ripartendo appena il semaforo scattò al verde.
«Dov’è?».
«Qua dietro. Questione di cinque minuti e siamo arrivati».
Il vento aveva smesso di picchiare la città e le nuvole indisturbate s’erano accovacciate sui monti coprendo tutta la valle. Il colore era un grigio uniforme e Rocco sospettava che con un paio di gradi in meno la neve avrebbe cominciato a ricadere. «Se rinevica mi presti il ferro e mi tiro un colpo alla tempia» fece guardando fuori dal finestrino.
«Tranquillo Rocco, non nevica» rispose Italo. «La temperatura s’è alzata, semmai può venire giù un bell’acquazzone».
«La tipa è a casa, siamo sicuri?».
«Sicuri. Pensi che per pranzo ce la sbrighiamo?».
«Che ora è?».
«La mezza».
«Haivoglia. Massimo alle due e siamo fuori».
«Allora addio pranzo».
«Quest’abitudine di mangiare a mezzogiorno e mezzo come negli ospedali bisogna che te la levi. A Roma alle due è ancora ora di pranzo».
«Qui alle due ci prendiamo il tè». E Italo scalò la marcia.
«Lo sai? Anche a Roma a marzo piove...» fece Rocco. Italo alzò gli occhi al cielo. Era il momento della suonata nostalgica di Rocco Schiavone. Sospirò guardando la strada e si mise in ascolto. Altro non poteva fare. «Solo che non è più una pioggia fredda. È tiepida. Fa bene ai fiori e ai prati. Basta un raggio di sole e quelli si riempiono già di margherite. Ti devi coprire, ma è bello andare in giro per Roma a marzo. È come quando da piccolo aspettavi un regalo. Sai che sta per arrivare, e quei minuti di attesa sono i più belli. Sei coperto ma lo senti nelle ossa che le cose stanno per cambiare. Che non manca molto alla primavera. Poi ti giri e t’accorgi che le donne l’hanno già avvertita. La primavera. Lo sanno molto prima di te. Un bel giorno ti svegli, esci di casa e le vedi. Dovunque. Ti viene il torcicollo a guardarle. Non si capisce dove sono state fino ad allora. So’ come i bruchi e le farfalle. Stanno in letargo e poi esplodono e a te gira la testa. A primavera saltano tutti gli schemi. Non ci sono più le magre, le grasse, le cozze e le belle. A Roma in primavera devi solo stare lì a osservare in silenzio lo spettacolo. E te lo devi godere. Ti siedi su una panchina e le guardi passare. E ringrazi Iddio di essere un uomo. Sai perché? Perché tu a quei livelli di bellezza non ci arriverai mai e quando invecchierai avrai poco da perdere. Invece loro sì. Tutti quei colori un giorno si spegneranno, evaporeranno, come il cielo di questa cazzo di città che non si vede quasi mai. Ed è una cosa terribile, la vecchiaia. La vecchiaia è la vendetta dei brutti. Perché è quella passata di vernice che ammazza tutta la bellezza e che riduce a zero le differenze. E mentre le guardi dalla tua panchina, pensi che anche quelle creature un giorno non si riconosceranno più davanti allo specchio. La sai una cosa Italo? Le donne non dovrebbero invecchiare mai». E si accese una sigaretta. Italo aveva frenato la macchina davanti al portone di Irina Oligova. Al 33 di via Volontari del Sangue.
Scesero dall’auto. Rocco gettò la sigaretta. «E questo sarebbe un quartiere degradato?» disse chiudendo lo sportello.
«Diciamo che è un quartiere con un po’ di problemi».
Rocco scoppiò a ridere pensando a Tor Bella Monaca, al Laurentino 38, all’idroscalo di Ostia. Al cui confronto il quartiere Cogne era una residenza per famiglie blasonate.
Saliti a piedi i quattro piani trovarono Irina che li aspettava sulla soglia dell’appartamento. Sulle scale c’era un misto di odori ma su tutti trionfava il curry, che Italo aveva scambiato per sudore di ascella, ed era il segno inequivocabile che nel palazzo viveva una maggioranza di extracomunitari. «Irina Oligova, si ricorda? Vicequestore Schiavone».
Irina inchinò appena la testa, gli strinse la mano e li fece accomodare.
L’appartamento era piccolo. Un saloncino con un divano che doveva fungere anche da letto perché aveva un abat-jour attaccata al bracciolo e su un cubo c’era poggiata una pila di fumetti. La cucina era ricavata in una rientranza del salone. Due porte davano presumibilmente nella camera da letto e nel bagno. A terra un tappeto marrone a fiori e sui muri c’erano appese una mattonella azzurra con una scritta in arabo e delle fotografie. Le piramidi, un suk, una coppia di anziani nordafricani e un paesetto coperto di neve che sembrava uscito da un racconto di Čechov.
Come se non bastasse la neve che c’è qui, pensò Rocco osservando la coltre immacolata che copriva il tetto di una chiesetta di legno. Poi una foto di un uomo e un ragazzo davanti a una bancarella di frutta. L’uomo baffuto con il viso gioviale sorrideva, il ragazzo invece era serio e aveva un piercing sul sopracciglio.
Irina s’era pettinata e messa un cerotto sulla rotula. Era nervosa e continuava a tormentarsi le mani.
«Ora che si è un po’ calmata, mi racconta di ieri mattina?».
Irina prese una sedia di formica e si accomodò di fronte al divano. «Alle dieci sono entrata in casa e...».
«Alt. Prima domanda. La porta era chiusa?».
«Sì, ma non a chiave. Strano, perché io trovo sempre chiusa con chiave. La signora torna alle undici che va a fare spesa. Vuole lei sapere, come si dice... convivenza?».
«Convivenza?».
«Coincidenza, scusi. Volevo dire coincidenza?».
«E me la dica».
«Fa spesa al mercato dove mio marito Ahmed ha bancarella con frutta».
«Ahmed è questo nella foto?» e indicò l’uomo col ragazzo.
«Sì sì. Lì è con suo figlio, Helmi».
«Vada avanti».
«Allora io entro. Trovo tutto disordine. Tutto in cucina, tutto casino. E penso a ladri, no? E sono scappata. Poi c’era il signore giù...».
«Il maresciallo» fece Italo.
«Proprio, e abbiamo chiamato voi».
Rocco guardò Irina: «Lei di dov’è?».
«Sono di Bielorussia. Vuole vede i permessi?».
«Grazie ma non me ne frega un cazzo. Suo marito?».
«Egiziano. Ma non è mio marito. Viviamo insieme, però non siamo sposati. Lui è dell’islam, io ortodossa. Un po’ di problemi ci sono».
«Vabbè ma finché c’è l’amore» disse inopinatamente Italo beccandosi una smicciata pesante da Rocco che intanto si era alzato. Irina lo seguiva con lo sguardo. «Da quanto tempo lei lavora a casa dei Baudo?».
«Io ci lavoro quasi di un anno. Lunedì mercoledì e venerdì». Sull’accento di venerdì si spalancò la porta di casa. Entrò un ragazzo sui diciotto anni, magro, con un giubbotto sopra una felpa, i pantaloni larghi coi tasconi laterali e ai piedi delle scarpe fosforescenti, americane, buone per lavorare di notte in mezzo a un’autostrada insieme agli operai dell’ANAS. Sul sopracciglio sinistro un bel cerotto. Appena vide la divisa di Italo sbiancò. Rocco invece, nascosto dall’anta della porta di casa, lo poteva spiare comodamente.
«Ah. Questo è Helmi, il figlio di Ahmed».
Il ragazzo deglutì e guardò Italo coi suoi occhi neri e grandi da lupo affamato.
«Piacere Helmi. Sono Schiavone».
Come se qualcuno gli avesse fatto esplodere un rauto alle spalle, il ragazzo sobbalzò e si girò. Finalmente vide Rocco. Che chiuso nel suo loden, appoggiato al muro sotto la scritta araba sulla mattonella azzurra, lo squadrava dalla testa ai piedi.
«Che c’è? Che è successo?» chiese il ragazzo. «Che ho fatto?».
«Tu? Niente. Perché, hai fatto qualcosa?» chiese Rocco.
Il ragazzo fece no convinto con la testa.
Italo indicò Irina. «Stiamo parlando con tua madre».
«Lei non è mia madre. È la donna di mio padre» precisò il ragazzo.
«La donna di tuo padre non ti ha raccontato niente?».
Helmi alzò le spalle. Lentamente stava riprendendo il controllo delle sue reazioni. Chiuse la porta e si avvicinò alla cucina. «E che mi avrebbe dovuto raccontare?».
Eccolo lì, pensò Rocco. S’è rimesso la maschera del gangsta spietato. «Che ha trovato una donna morta nell’appartamento dove va a fare le pulizie».
Helmi guardò Irina che annuì. «Chi è? La signora Marchetti?».
«No, la signora Baudo».
«Ah» fece Helmi versandosi un bicchiere d’acqua.
«La conoscevi?» chiese Rocco.
«Io? No. Mica devo conoscere tutte le signore dove va a fare la schiava. E poi perché dovrei conoscerla? Me ne frega un cazzo a me...».
«Hai ragione, bravo. Sempre meglio farsi i fatti propri». E finalmente Rocco si staccò dal muro. «Che c’è scritto lì?» chiese indicando la mattonella azzurra.
«È un verso del Corano».
«Mi puoi dire cosa dice?».
«Non lo so. Io l’arabo non lo leggo. Lo parlo un po’ e basta».
«C’è scritto: la notte del destino è migliore di mille mesi» intervenne Irina. «Lo so perché mi ha detto Ahmed».
«Vai a scuola, Helmi?» chiese Rocco. Quello si fece una risatina sarcastica: «Ci provo».
Anche Rocco rispose con una risatina. «Preferisci lavorare?».
«A lui non va di fare niente» fece Irina, «aspetta che soldi gli cascano dal cielo».
«Tu vedi di farti i cazzi tuoi» e il ragazzo la incendiò con lo sguardo.
«E tu ricorda che se mangi lo fai per soldi di tuo padre e miei».
«Ma vaffanculo!» si voltò e si avventò sulla porta. Rocco lo afferrò per un braccio e lo bloccò. «E chi t’ha detto che puoi uscire? Non abbiamo finito».
«E lasciami!» fece Helmi.
Rocco invece aumentò la presa. «Prima dammi del lei che io non ti sono né padre né amico. Secondo ti siedi sul divano e mi ascolti. Chiaro?».
Helmi si passò una mano sui capelli che portava tagliati quasi a zero, si liberò con uno strattone dalla presa del vicequestore e si andò a sedere a gambe larghe sul divano. La testa in giù, aveva chiuso i contatti con il resto del mondo. Si grattava l’avambraccio dove occhieggiava un tatuaggio Mahori. Muoveva nervosamente un piede facendo luccicare le grosse scarpe arancioni.
«È omicidio» disse Rocco dopo qualche secondo. Irina sgranò gli occhi. Helmi invece rimase lì a guardare il tappeto a fiori marrone. «Volevo dirvelo perché è bene che lo sappiate. La signora Baudo è stata uccisa. Mi sa dire qualcosa su di lei? Amicizie? Frequentazioni?».
«Perché l’hanno uccisa?» chiese Irina sconvolta dalla notizia.
«Questo ancora non lo sappiamo» intervenne Italo, «ma ci stiamo lavorando sopra».
«Allora mi dica qualcosa che mi può essere utile. C’era qualche amica? Parenti? Sorelle?».
«Parenti niente. La signora Baudo era orfana. Questo so perché mi ha detto lei. Parlavamo poco. Insomma io pulivo e lei stava in camera a leggere o guardare televisione».
«Non lavorava?».
«No. Solo marito lavora. Fa rappresentante. Di cose sportive».
Rocco andò ad affacciarsi alla finestra. «Che tempo di merda, eh?».
«Deve vedere al mio paese» fece Irina.
«E il tuo paese com’è?» chiese a Helmi. Continuava a starsene con la testa bassa a grattarsi l’avambraccio col tatuaggio. «Non lo so. Ci sono andato tre volte quando ero piccolo. È caldo, pieno di gente e puzza».
«Cazzo, che amor patrio».
Helmi tirò su la faccia di scatto. «Perché, lei sarebbe orgoglioso di un paese di merda come il mio?».
«No, se non mi dici qual è».
«Egitto».
«Non lo so se sarei orgoglioso. Calcola che quando in Egitto facevano le piramidi da ’ste parti manco il fuoco avevano scoperto. Ma perché tu non sei a scuola?» cambiò decisamente argomento Rocco.
«Sciopero...» bofonchiò il ragazzo.
«Insomma Irina, qualche amica la signora Baudo l’aveva o no?».
«Spesso al telefono parlava con Adalgisa. Quella era amica sua».
«Sa dirmi altro?».
«No, dottore. Niente altro».
«Allora la ringrazio. Pierron...» l’agente scattò e si avvicinò alla porta. «Mi è stata molto utile».
«Vorrei sapere chi è stato a fare quella cosa a signora Baudo».
«Sarà mia cura dirglielo il giorno che gli mettiamo le mani addosso. Ciao Helmi».
Quello non rispose. E i poliziotti lasciarono l’appartamento. Irina prese un respiro, rimise la sedia a posto, poi si voltò verso il ragazzo: «Hai fame? Ti preparo qualcosa?».
«No. Mangio fuori».
Rocco e l’agente Pierron uscirono dal palazzo di Irina Oligova.
«Devo farmi due chiacchiere con questa Adalgisa» disse Rocco.
«Chi?».
«Adalgisa, l’amica di Ester Baudo. Me ne torno in centrale».
Italo lo guardò con le chiavi dell’auto in mano. «Ma non vieni con me?».
«No. In centrale non ci vai neanche tu. Ti devi attaccare al giovanotto».
«Chi, l’egiziano?».
«Bravo. Seguilo. E raccontami che fa».
Italo annuiva. «Posso sapere perché?».
«L’hai visto il cerotto sul sopracciglio o sei cieco? Se invece di dire cazzate facessi lavorare il cervello, oppure dessi un’occhiata in giro, sapresti come me che lì, sul sopracciglio, ci portava un piercing».
«E allora?».
«Riguardati il video dell’aggressione a D’Intino e capirai di che sto parlando».
«Pensi che c’entri qualcosa?».
«Non lo penso. Lo so».
«Vedi che avevo ragione?» fece Italo incamminandosi verso l’auto.
«Riguardo a cosa?».
«Al pranzo. Lo sapevo che lo saltavamo».
«Parla per te. Io che sono il capo prima mi vado a fare uno spaghetto e poi rintraccio ’sta Adalgisa».
Non era stata una cosa difficile. Bastò una telefonata a Patrizio Baudo per farsi dare l’indirizzo dove Adalgisa lavorava. Anche se, e non fu una sensazione, fra Patrizio Baudo e Adalgisa non correva buon sangue. Bastò infatti fare il nome della donna al vedovo per sentire al telefono una specie di corrente d’aria gelata. Comunque la tipa lavorava in una libreria in centro, vicino alla piazza con il palazzo dell’erario.
Il palazzo erariale era un’architettura del ventennio che stonava con Aosta come un brufolo sulla pelle di un neonato. Nella testa degli architetti fascisti l’orologio del Comune doveva sostituire il campanile. Non più le campane di Cristo a regolare le ore di lavoro e gli allarmi bensì l’orologio del podestà. L’accrocco geometrico però aveva un pregio. Segnava l’ora giusta. Le tre e dieci minuti. Rocco aprì la porta di legno della libreria. Sembrava un rifugio di montagna. Legno alle pareti, straboccante di volumi con le coste di mille colori diversi. Entrare in una libreria gli scatenava i complessi di colpa. Perché ogni volta si riproponeva, come si fa con una dieta, che un giorno di questi si sarebbe rimesso a leggere. Avrebbe potuto farlo quando tornava a casa a rue Piave, in quell’appartamento senza nome, senza colore e senza tracce di amore e di donna. Ma non ce la faceva. Appena chiudeva la porta, arrivavano i conti da saldare col passato. La casa si popolava di pensieri densi come olio, che non gli lasciavano la possibilità di mettersi a leggere un libro e neanche di vedere un film dalla trama troppo complicata. La nostalgia, il passato, la vita che non c’era più prendeva il sopravvento e i libri restavano lì sui comodini e sulla libreria, intonsi, e lo guardavano impolverandosi e ingrigendosi ogni giorno di più.
Sul tavolo delle novità c’era anche una copia de «La Stampa» aperta proprio alla pagina della cronaca. In bella vista l’articolo sulla misteriosa morte di Ester Baudo. Segno che il questore aveva già cominciato a parlare coi giornalai, come li chiamava lui, e segno pure che Adalgisa della morte dell’amica ne aveva già avuto notizia, anche se nella maniera fredda e impersonale di un articolo anonimo su un quotidiano. Gli venne incontro una donna sui 35 anni. Alta e robusta con un naso pronunciato ma che stava bene su quel viso. I capelli lunghi fino alle spalle.
«Serve aiuto?».
Aveva gli occhi grandi e neri di quella tristezza che solo gli attori russi nei film in bianco e nero sanno emanare.
«Sono Schiavone, vicequestore mobile di Aosta».
La donna deglutì e rimase in silenzio ad ascoltare.
«Cerco Adalgisa».
«Sono io» disse chinando un po’ la testa. Poi allungò la mano. «Adalgisa Verratti. È qui per Ester, vero?».
«Sì».
Adalgisa si voltò verso l’interno del negozio. «Esco un momento!» gridò. «Rientro subito». Poi tornò a guardare Rocco. «Andiamoci a prendere un caffè, le dispiace?».
Adalgisa teneva lo sguardo fisso sulla tazzina mentre girava il cucchiaino. «Io e Ester eravamo compagne di liceo. Sempre state amiche. Sempre». Tirò su col naso. Veloce afferrò un tovagliolino di carta e si asciugò gli occhi.
«Quando l’ha sentita l’ultima volta?».
«Giovedì sera».
«Qualcosa di strano?».
«Macché, niente. Le solite chiacchiere. Volevo portarla con me a fare pilates».
Rocco bevve il suo caffè. Sciacquatura per i piatti. Lasciò la tazzina piena a metà posandola sul piattino. «Andiamo al dunque. Cosa c’era che non andava nella vita di Ester?».
Adalgisa sorrise stirando la bocca ai lati in una smorfia. «Se togliamo che era insoddisfatta della sua vita, del suo matrimonio? Che non voleva avere figli nonostante Patrizio insistesse? Niente, andava tutto bene».
«Le cose col marito andavano male?».
«Le cose col marito non andavano proprio. Patrizio è uno stronzo».
Eccolo là, pensò Rocco.
«Perché?» le chiese.
«Geloso, possessivo, le ha fatto lasciare il lavoro. Poi la vuole sapere la cosa per cui gli ho tolto il saluto? S’era fissato che io la fuorviassi».
«In che senso?».
«Non sono più sposata, diciamo che gestisco la mia vita come preferisco».
«E questo cosa significa?».
«Quando non ne potei più di mio marito chiesi il divorzio e ognuno per la sua strada. Adesso vivo come voglio, libera di frequentare chi mi piace, dispongo del mio tempo e mi creda, è una bellissima sensazione. E sono pure riuscita a prendere due gatti, che con quel noioso di mio marito era una cosa impossibile. Io amo gli animali, i libri, il cinema. Non mi interessano le macchine, il calcio e i cellulari ultima generazione».
«Quindi Patrizio era convinto che lei volesse portare Ester fuori dal matrimonio?».
«Diciamo così. E se ci fossi riuscita, io e lei adesso non staremmo qui a parlare, no?».
«No. Magari staremmo in libreria a parlare di libri».
Adalgisa morse una zolletta di zucchero. «Lei è sposato?».
«Sì».
«E ama sua moglie?».
«Più di me stesso».
La donna si infilò in bocca anche l’altra metà di zolletta. «La invidio».
«Mi creda, non può farlo».
«Perché? Ama sua moglie, è felice con lei, no?».
Rocco sorrise, annuì velocemente un paio di volte. Poi buttò un’occhiata circolare al locale, come a sincerarsi che nessuno lo potesse ascoltare. Ma non disse niente. Nelle rughe accanto agli occhi di Rocco, o forse nello sguardo o magari nel sorriso spento, Adalgisa lesse un baratro di tristezza di cui non si vedeva il fondo. Il cuore le batté forte e evitò di fare altre domande al vicequestore. Silenziosa gli prese una mano. «Com’è morta Ester, mi dica la verità».
«Impiccata, come dice il giornale».
«Prima o poi doveva succedere».
Una lacrima veloce attraversò il viso di Adalgisa. Non se la asciugò. La lasciò correre giù fino a quando sparì dietro la guancia.
«Povera amica mia...».
«Non si è tolta la vita. Ci ha pensato qualcun altro a farlo».
Adalgisa sgranò gli occhi. «Come? L’hanno uccisa?».
«Già».
La donna rimase a bocca aperta. «Non capisco... impiccandola?».
«Una messa in scena per coprire l’omicidio».
«E chi può aver...».
«È quello che devo scoprire».
«No...» scappò dalle labbra di Adalgisa come un sibilo. «No, no, no. Non così. È troppo». E si coprì gli occhi con le mani.
Rocco non parlò, aspettò che Adalgisa sfogasse il pianto. Il barista che aveva portato i due caffè al tavolo guardava il poliziotto con aria di rimprovero. Rocco gli avrebbe voluto urlare la sua innocenza. Non era lui a farla piangere. Ma il vecchio scuoteva la testa e non staccava lo sguardo. Finché il vicequestore con un gesto della mano gli suggerì di andarsene a quel paese e di farsi i fatti suoi. Finalmente la donna si riprese. Si asciugò ancora gli occhi che erano diventati due palle nere. «Oddio, sembro un procione mi sa...» disse con un’allegria forzata.
«Un po’» fece Rocco. «Se dovessi avere ancora bisogno di lei?».
«Eh?» fece la donna, risvegliandosi dai suoi pensieri.
«Dico, se dovessi avere ancora bisogno di lei?».
«Mi trova in libreria. Sono sempre lì, orario continuato. La mattina però arrivo alle undici. Devo andare all’ospedale».
«Spero niente di grave».
«No. Mia madre. Femore andato. Le tengo un po’ di compagnia».
«Auguri» disse Rocco. Poi prese lo scontrino, lesse il totale e lasciò una banconota da 5 euro sul tavolo. «Adalgisa, lei non mi nasconde niente, vero?».
«E come potrei?» rispose tirando su col naso. «Lei, dottor Schiavone, è uno in gamba, certe cose in città si sanno. E io mai potrei nasconderle qualcosa, mi creda».
Ma Rocco continuava a guardarla dall’alto in basso, senza dire una parola.
«Dottor Schiavone, le sembro una che nasconde le cose? In meno di cinque minuti le ho detto particolari così intimi della mia vita che neanche mia madre conosce».
«Che c’entra? Quella è sua madre. Io sono solo un estraneo. È molto più facile aprirsi con gli estranei, non lo sa?».
Camminava rasente ai palazzi del centro come un gatto randagio cercando di ripararsi dalla pioggia che aveva ripreso a cadere. Non c’era un taxi, doveva raggiungere la questura a piedi.
Il cingalese sotto il portico apparve come una benedizione.
«Quanto costa?».
«Cinqui euri uno ombrello, sette euri due».
«Che ce faccio co’ due?». Rocco pagò e scelse quello meno appariscente, rosso coi pois neri. Lo aprì e riprese la marcia verso l’ufficio. Si mise la mano in tasca e tirò fuori il cellulare.
«Uè, Farinelli? Schiavone».
«Ah, giusto te cercavo. Senti...». Il sostituto della scientifica aveva la voce alterata, segno che era pronto per una ramanzina al vicequestore. «Avete lasciato un casino qui a casa Baudo».
«Lo so, lo so, ma ti devo chiedere una cosa urgente».
«Ti ascolto».
«Puoi mandare a Fumagalli le cinte e le cravatte che trovi in casa Baudo?».
«Posso sapere perché?».
Che palle, pensò Rocco. «Perché deve esaminarle. Probabile arma del delitto».
Farinelli rise di cuore. Era la prima volta che Schiavone lo sentiva ridere. «Non vedo la battuta, Farine’!».
«E secondo te l’assassino l’arma del delitto l’ha lasciata in casa?».
«E secondo te io non ci dovrei provare?».
La risata si strozzò in gola al vicecapo della scientifica. «No, certo, hai ragione».
«Mi raccomando che il medico l’aspetta. E lo sai quant’è incazzoso».
«Quello? Quello farebbe meglio a mettersi a riposo, te lo dico io. Adesso ascoltami bene...».
«Tra... falgar... le pive... sacco a primavera?» disse Rocco.
«Come?».
«No... ti... snt... più! Prnt? Pront?» e spense il cellulare. Sorridendo affrettò il passo.
Le gocce di pioggia facevano lacrimare il vetro della finestra. Se non altro avrebbero sciolto tutta la neve ammucchiata sui marciapiedi e sui tetti. Mentre osservava l’asfalto picchiettato dagli scrosci d’acqua il telefono sulla scrivania squillò facendolo sobbalzare.
«Chi è?».
«Dottore? Sono De Silvestri».
De Silvestri. Il vecchio agente del commissariato Cristoforo Colombo dell’EUR, Roma. L’uomo su cui poteva sempre contare, quello che faceva le cose prima che gli fossero dette, un pezzo mancante e importante della vita che fu. «De Silvestri? Che bello sentire la tua voce!».
«Come si trova lì ad Aosta?».
Rocco guardò l’ufficio, guardò il vetro bagnato. «Altra domanda?».
«Dottore, non l’avrei mai disturbata se non fosse molto importante. Purtroppo c’è una cosa di cui dobbiamo parlare».
«La tua pensione?» fece Rocco sorridendo. Dall’altra parte del telefono la risata grassa e cameratesca di De Silvestri risuonò come in una grotta. «No dotto’, lì mi tocca ancora aspettare. Qualche anno. Ma ormai l’ho capito, io in pensione ci andrò quando mi mettono dentro una cassa».
«Non dire così».
«C’è una cosa che lei deve sapere. Il suo sostituto qui, Mario Busdon, è di Rovigo».
«Mi fa piacere».
«Sì, ma non capisce niente. Non si sa muovere. C’è un problema che andrebbe risolto».
Rocco si sedette. Il tono di De Silvestri era diventato improvvisamente serio. «Ne puoi parlare al telefono?».
«No. Meglio di no. Domani è domenica, accompagno mio figlio allo stadio. C’è Juve-Lazio».
«Perché lo porti ad assistere a un massacro? Sei crudele, De Silvestri».
«Non è detto, dottore».
«È detto, è detto, fatti servire... prendete tre fischietti e ve ne tornate a Formello».
«Come quelli che avete preso ieri a Milano?».
«Non fare ironia, De Silvestri, anche se ad Aosta, sono sempre un tuo superiore. Insomma, vai a Torino e...?».
«E allungo. Ci vediamo a metà strada?».
«Va bene. Hai un’idea?».
«Vengo in aereo. Lei conosce Ciriè?».
«Chi cazzo è?».
«Un paesino vicino a Torino. Vediamoci lì. Ci arrivo con una macchina che m’affitto all’aeroporto».
«Mi dici perché proprio Ciriè?».
«Perché vado a trovare una persona cara, e poi andata e ritorno dall’aeroporto sono 20 chilometri, neanche devo rifare benzina con la macchina in affitto».
«Hai in mente un posto?».
«Certo. C’è un bar a via Rossetti. Ci vediamo lì».
«A che ora?».
«Facciamo a mezzogiorno. L’aspetto dentro».
«De Silvestri, io non mi muovo se non mi dici chi è la persona cara che devi andare a trovare in questo paese vicino Torino».
«Perché lo vuol sapere, dottore?».
«Perché sì. Amante?».
De Silvestri rise un’altra volta di cuore. «Sì, un’amante di 84 anni. È mia zia, la sorella di mamma buonanima. L’unica che m’è rimasta viva della famiglia».
«Sei un uomo dal cuore grosso come un bue».
«No, dottor Schiavone, semplicemente mia zia s’è risposata e vuole farmi conoscere suo marito».
«S’è risposata a 84 anni?».
«Il marito ne ha 92».
Rocco ci pensò su. «Fatti dire cosa mangiano a Ciriè, mi pare la dieta giusta per campare a lungo».
«Ci conti. A domani».
«A domani».
Qual era il problema? Qualcosa che aveva a che fare con vecchi casi di Roma, forse un suo amico s’era messo nei guai? Ma allora non sarebbe stato De Silvestri a farsi vivo. Avrebbe ricevuto la telefonata da Seba o da Furio. Qualcosa che lo riguardasse? Non aveva lasciato niente in sospeso. Aveva chiuso debiti e crediti, e se il problema era il suo conto in banca la telefonata l’avrebbe fatta Daniele, il suo avvocato commercialista, certo non De Silvestri. Doveva aspettare fino al giorno dopo a mezzogiorno per sapere la verità. Il pomeriggio si andava spegnendo e con lui anche le luci dell’ufficio di Schiavone. Voleva tornarsene a casa al caldo, passare in rosticceria a prendere qualche schifezza da mangiare, farsi un bagno e guardarsi un po’ di televisione.
S’era completamente dimenticato di Italo Pierron che non sentiva dalle due del pomeriggio, da quando l’aveva messo alle calcagna di Helmi, il figlio egiziano di Irina.
A quello stava pensando mentre usciva dalla pizzeria dove aveva preso 6 euro di pizza rancida alla mozzarella. La pioggia stava dando un po’ di tregua alla città e i marciapiedi erano una poltiglia di acqua e fango. Quasi andò a sbattere contro la donna che gli veniva incontro.
«Mi scusi...».
«Dottor Schiavone!».
Era Adalgisa. Stava bene anche con i jeans e gli stivali imbacuccata in un piumino Monclear lungo fino al ginocchio. La libraia osservò l’involto di pizza. Rocco se lo rigirò fra le mani, e chissà perché gli venne voglia di nascondere quel testimone di solitudine.
«Tornavo a casa» fece la donna. «Ma non creda che la mia cena sia migliore di quella che tiene in mano. Immagino... nessuna novità, vero?».
«Immagina bene. E lei?».
«Mi manca. Non ce la faccio neanche a cancellare il suo nome dal cellulare» fece Adalgisa. «Oggi l’avrei chiamata. È la serata del circolo. Lo sa? In libreria facciamo delle serate di lettura. All’inizio Ester veniva puntuale, con il suo quaderno, prendeva appunti, discuteva. Poi smise. Patrizio non glielo permise. Era sicuro che lì nel gruppo ci fosse qualcuno interessato più a sua moglie che a Edgar Allan Poe».
«Perché Edgar Allan Poe?».
«Ci piace. A lei no?».
«E allora mi dica. C’era qualcuno interessato più a Ester che alla letteratura?».
«Sì. Un ragioniere di 72 anni appena uscito da un ictus e Federico, 35 anni, fidanzato da sette con Raul, un ballerino di tango».
«E così fine del circolo di lettura».
Adalgisa avanzò di due passi con gli occhi a terra. «Già. Fine del circolo di lettura. Ester voleva scrivere. Era il suo sogno. A dirla tutta, era il nostro sogno, fin dai tempi del liceo. Cominciava un racconto, ma lo abbandonava sempre a metà. La sua spinta creativa era ciclotimica. Si alternava con la depressione. Non c’era spazio per tutt’e due».
«E lei? Lei scrive?».
«Da quando vivo da sola. Forse mi pubblicano un romanzo».
«Autobiografico?».
«Non sono così interessante. No, è un giallo. Mi piacciono i gialli. Magari, chissà, se le do il mio romanzo mi può regalare qualche consiglio. Lei di cose deve averne viste, no?».
Adalgisa sorrideva. Solo con la bocca però. Gli occhi erano sempre tristi, velati, come se un pennello ci avesse passato sopra una patina di grigio.
«Sì. Di cose ne ho viste».
«Il mio libro è su un delitto perfetto».
«Non esistono delitti perfetti. E sa perché? Perché sono stati commessi. E tanto basta. Semmai esistono colpevoli molto fortunati».
Adalgisa annuì. «Lei legge?».
«Mi piacerebbe. Non ho il tempo. Ogni tanto la sera. Chi leggeva era mia moglie» fece Rocco.
«Quell’imperfetto non mi piace».
«Figurati a me».
«Lei è un uomo pieno di rimpianti. Come ci convive?».
«Malissimo. Tu ne hai?».
La donna si limitò ad un’alzata di spalle, poi indicò un portone. «Io sono arrivata. Posso darti del tu?».
«Certo. Io ho cominciato senza permesso».
«Ora sai dove abito. Sono sei mesi che stai qui, mi piacerebbe tu mi considerassi un’amica».
Rocco guardò il palazzetto. Era a due piani, elegante. «Come fai a sapere che sono sei mesi che sto qui?».
Adalgisa sorrise ancora e si incamminò verso il suo portone, scortata dal vicequestore. «Perché sono una che legge i giornali. Ho seguito tutto il caso su a Champoluc, a febbraio. Te l’ho detto che mi piacciono i gialli e la cronaca nera, no? Sei stato molto bravo. Chissà, forse un giorno mi dirai com’è che sei finito qui, ad Aosta».
«Vacanza premio».
Risero insieme. Adalgisa sempre con la bocca. Mai con gli occhi.
«Visto che di me sai un sacco di cose, saprai anche dove abito».
«No. Quella è vita privata. Io so le cose della vita pubblica. Della strada. Quello che c’è sui giornali. Te l’ho detto, leggo molto. E osservo».
«Ma tu hai un circolo di lettura o un parrucchiere?».
«Tutti gli aspiranti scrittori, in fondo, sono dei gran pettegoli».
«A Roma abbiamo un altro modo per chiamare quel tipo di gente».
«Ficcanaso?».
Rocco sorrise. «Non potevi fare niente per Ester. Non sentirti in colpa. E soprattutto non avere rimorsi».
«È molto più complicato di così, Rocco».
«Allora dimmi com’è».
«Non ne vale la pena. È una storia lunga e complessa. Magari quando saremo più amici...». Poi tirò fuori le chiavi di casa. «A presto, Rocco Schiavone».
«Spero con notizie migliori da darti».
«Trova chi è stato. Ti prego».
«Tranquilla, dove cazzo va lo stronzo?».
«Tu pensi sia un uomo?».
«Sì. Per issare un corpo su un gancio di un lampadario bisogna essere forti, non credi?».
«Non è facile» fece Adalgisa, e gli occhi tornarono tristi e velati. Si stava immaginando la scena. La sua amica appesa come un quarto di bue nel frigo di una macelleria.
«Già. Secondo te come ha fatto?».
Era rimasta appoggiata sull’anta di legno aperta del portoncino. La luce chiara delle scale illuminava un quarto del suo viso. «Non è una cosa che mi piace immaginare».
«Dici che sei una scrittrice di gialli. Dimmi la tua».
Adalgisa tirò un respiro forte. «Forse farei come fanno gli alpinisti in parete. Con un moschettone, e la tirerei su».
«Sì, qui in mezzo a queste montagne mi sembra l’immagine più appropriata. Insomma s’è aiutato con un moschettone. O una carrucola?».
«Sì. Penso a una cosa del genere».
«Brava. È l’unico modo».
«Ha fatto così?» chiese la donna con un filo di voce.
«Sì. Ha usato un cavo ancorato a un mobile».
Il Nokia di Rocco suonò. Il vicequestore si mise la mano in tasca. Era la questura. «Scusa, devo rispondere» e con un gesto salutò Adalgisa. «Ci vediamo» le disse.
La donna entrò nell’androne e chiuse il portone sparendo alla vista di Rocco.
«Agente Pierron».
«A te stavo pensando, Italo. Che mi dici?».
«Che sono venuto qui in questura ma lei non c’era. Due chiacchiere servirebbero. Possiamo vederci a casa sua?».
«Sei matto? Vieni in centro, ti aspetto al bar di piazza Chanoux».
«Lascio un paio di carte a Deruta e arrivo».
Poi Italo riagganciò male l’apparecchio così che Rocco poté cogliere un pezzo di dialogo fra i due agenti.
«Deruta, devo andare dal vicequestore. Le finisci tu queste pratiche?».
«Io? E perché io? Io neanche mi sento tanto bene».
«È un favore che ti chiedo. Siamo dietro a una cosa importante».
«Tu e la Rispoli fate i superiori, culo e camicia col vicequestore, e a me lasciate le cose più noiose. Ma io un giorno di questi salgo dal questore e metto tutto a posto».
«Fa’ come ti pare. Poi ci parli te con Schiavone. E se vuoi un consiglio, tu di Caterina meno parli e meglio è».
«Vaffanculo».
«Vacci tu, ciccione».
Poi si udirono rumori di cartacce, una porta che sbatteva e un sospiro. Evidentemente Pierron aveva troncato la discussione e se n’era andato.
Rocco si rimise in tasca il telefonino e s’incamminò verso il bar guardando l’involto di pizza che teneva ancora in mano. La gettò nel primo cestino. Si sarebbe freddata. E se c’era una cosa di cui proprio non aveva bisogno era starsene a casa a masticare una pizza molle come un chewing-gum.
«Italo, me la spieghi una cosa?» chiese Rocco appena l’agente si sedette al tavolino di fronte alla finestra. «Oggi è sabato sera. Dove sono i ragazzi?» e indicò il bar semivuoto.
«Non ti capisco».
«Questo è il centro. A malapena c’è ’sto bar che fra un po’ chiude. Poi un pub e basta così? Che fanno il sabato sera?».
«Non lo so».
«Tu che facevi?».
«Io non sono di Aosta. Sono di vicino Verres, e per me una botta di vita era venire ad Aosta».
Rocco guardò fuori dalla finestra. La pioggia aveva ricominciato a martellare le strade. Qualcuno passava sotto il portico, un paio di ombrelli, per il resto sembrava una piazza metafisica di De Chirico. «Forse vanno giù a Torino». Gli piacque tantissimo dire giù a Torino.
«Sì, giù a Torino c’è più vita. Locali, pub, discoteche, cinema e teatri. E a proposito di Torino. Farinelli della scientifica ha chiamato tre volte. L’ultimo messaggio l’ha lasciato a Caterina. È tornato a Torino ma pare che ti debba parlare».
«Sì, lo so. Vuole spaccarmi le palle sicuro. Era questo il motivo per cui volevi vedermi?».
In quel momento Ugo portò due calici di bianco. Rocco sorrise per ringraziarlo e l’uomo tornò al banco a servire tre pensionati presi in una discussione nella loro lingua incomprensibile.
«No» disse Italo giocherellando col bicchiere. «Ho seguito il ragazzo, Helmi, come mi avevi detto. E ho scoperto una cosa interessante».
«Sentiamo».
«Si è fermato in una sala giochi per mezz’ora, poi è salito su a Arpuilles».
«Dove?».
«Sopra Aosta, un bel po’ di strada, sette otto chilometri di curve».
«E che cosa è andato a fare?».
«S’è fermato in una specie di piccolo magazzino. È stato una ventina di minuti e poi se n’è tornato ad Aosta».
Rocco finì il vino. Italo neanche ci aveva messo le labbra. «Dov’è la notizia?».
«Nel magazzino. Risulta un deposito di Gregorio Chevax. Sanitari e piastrelle».
«Continuo a non vedere la notizia».
«Perché non sei di qui. Gregorio Chevax ora ha cinquantatré anni, nel ’90 se n’è fatti cinque per truffa e ricettazione. S’era venduto tre dipinti, rubati in una chiesa di Asti».
«Adesso sì, Italo. Questa è una notizia che apre un bel panorama. Bravo».
E finalmente Pierron scolò con un sorso il bicchiere di bianco. Poi sorrise e si asciugò le labbra. «Che facciamo?».
«È sabato sera» disse Rocco, «andiamoci a divertire un po’».
Erano le nove quando Rocco, protetto da un ombrello nero, suonò il citofono di un villino nella frazione di Arpuilles.
«Chi è?» rispose una voce dura e contrariata.
«Cerco Gregorio Chevax».
«Sì, ma chi è?».
«Vicequestore Rocco Schiavone».
Silenzio. Solo la pioggia che batteva istericamente sulla tela impermeabile dell’ombrello.
«Entri». Un raglio elettronico e il cancelletto si aprì. Rocco attraversò il giardino, pochi metri quadrati, percorrendo un vialetto di pietra che portava alla casa. Una luce si accese a piano terra, poco dopo la porta si spalancò. In controluce apparve una figura sul metro e settantacinque, in camicia. «Venga pure...».
«Piacere, Schiavone. Mi scusi l’ora ma il mio è un mestiere senza orari».
L’uomo non sorrise. Gli strinse la mano e fece spazio per farlo entrare. Prese in consegna l’ombrello di Rocco e lo infilò in un vaso. Ora, sotto le tre alogene incassate nel controsoffitto, Rocco poté guardarlo bene in faccia. La somiglianza con i pesci balestra era impressionante. Quei piccoli pesci colorati che vivono nelle acque calde delle barriere coralline e che hanno una specie di muso gigantesco quasi elefantiaco e degli occhi piccoli e posizionati in mezzo al corpo. La bocca minuscola e a cuore era separata dal naso enorme da una distanza superiore alle quattro dita, uno spazio talmente vasto che neanche i baffi di Magnum P.I. avrebbero potuto coprire. Gli occhi tondi e inespressivi troppo distanti dalla radice del naso, sembrava gli fossero cresciuti sulle tempie. Aveva l’espressione sorpresa, proprio come il piccolo Rhinecanthus aculeatus la cui fama però di azzannatore di prede è ben conosciuta dai suoi colleghi della barriera.
«Cosa posso fare per lei?».
«Una cosa molto semplice». Non riusciva a staccargli gli occhi di dosso. La mostruosità di quel viso, umanizzato da una barba incolta di tre giorni, lo ipnotizzava. Doveva cancellare le immagini dell’enciclopedia degli animali altrimenti avrebbe passato la prossima mezz’ora in contemplazione di quella faccia. «Mi serve un aiuto. Dunque lei nel ’95 ha passato un po’ di guai con la legge, dico giusto?».
Gregorio sorrise. «Debito pagato».
«Sì, lo so, non vengo per quello. So che lei ormai s’è messo a commerciare in sanitari e mattonelle. Ha un bel deposito e credo anche un bel giro d’affari, o no?».
«Non mi lamento, sono un onesto imprenditore».
«So anche questo. Però magari una mano me la può dare lo stesso. Forse lei non lo sa, ma ultimamente in zona ci sono stati un sacco di furti in chiese e collezioni private».
«Non lo sapevo».
«Ora lo sa» precisò Rocco. «E cerchiamo di rintracciare le refurtive».
Rocco si azzittì e lo guardò negli occhi. Gregorio rimaneva silenzioso aspettando il resto.
«Lei era nel campo. E magari ci può fare qualche nome che ci dia una mano, dico bene?».
Gregorio si appoggiò al muro sul quale era esposta una bella marina napoletana. «No, non dice bene. Io non conosco nessuno e non so neanche di che cazzo stiamo parlando».
«Perché diventa improvvisamente così aggressivo?» chiese gentile Rocco.
«Perché sono le nove di sera, perché stavo per andare a cena, perché io con quella merda non ho più niente a che fare e perché se vuole parlarmi come si deve, mi convochi in questura».
«Mi dispiace averla disturbata, signor Cheval».
«Chevax».
«Quello che è. Però, vede, devo portare risultati, altrimenti il questore mi rende la vita un inferno».
«E a me cosa me ne importa?».
Rocco rise. E la sua risata spiazzò l’ex ricettatore. «Vero, bravo, risposta giusta. Esageratamente giusta. Ora però io e lei facciamo un gioco. Lo conosce il gioco del se?».
«No, non lo conosco. E non mi va di giocare».
«Se le dicessi: ho rubato in un appartamento dei preziosi e devo smerciarli, da chi vado? A chi mi rivolgo?».
«Ancora? Le ho già detto che non ne so nulla e lei sta abusando della mia pazienza».
«Ha visto però? Io sono gentile». Chevax lo guardò senza capire. «Lei invece continua a fare lo stronzetto. Mica bello, no?».
«Adesso io...».
«Adesso tu chiudi la ciavatta e mi stai a sentire». Gli occhi del vicequestore erano diventati due fessure. «Non ci credo alle tue storielle, sento una puzza di cazzata che appesta l’aria. E non sbaglio mai. Quindi adesso non gioco più e cambiamo registro».
«Se lei pensa di...».
«Stai zitto, tu parli quando io ho finito, faccia di merda».
Gregorio Chevax deglutì. «Tu non mi hai aiutato e questo è male, molto male. Domani torno con un ordine del giudice e ti guardo anche dentro le mutande. Qui in casa, nel tuo deposito di sanitari del cazzo, tutto! Un solo oggetto che mi puzza e te ne torni dentro». Rapido il vicequestore afferrò l’ombrello, la velocità del gesto spaventò Chevax che si ritrasse come a difendersi da un colpo in pieno viso. «Da domani per te comincia l’inferno».
«Non ho niente da nascondere e lei non mi fa paura».
«Non sono qui per farti paura. Ma solo per dirti che ti sei fatto un nemico. E peggiore non lo potevi trovare. Credimi».
Il vicequestore aprì la porta, spalancò l’ombrello e a passi decisi uscì di casa. Chevax lo guardò attraversare il giardino sotto la pioggia. Aspettò che uscisse dal cancello, poi chiuse la porta di casa.
Appena fuori dal villino Rocco prese il cellulare: «Italo? Tu e Caterina siete in posizione?».
«Sì, siamo qui. Ci mancava ’sta pioggia».
«Vero? Io ora me ne vado a casa che sono distrutto. Mi raccomando, tenete i fari sempre spenti e rimanete dentro. Niente lampeggianti».
«Certo, dottore, certo».
«A occhio e croce vi toccherà stare lì per un po’. Questo coglione aspetterà la notte per muoversi. Portate pazienza».
«Va bene».
«Mi ha chiamato De Silvestri, mi deve riferire qualcosa di Roma» le dico, però Marina non mi risponde. «Dove sei? Sei qui?» non è in camera da letto, non è in salone e neanche in cucina. Il letto intonso e la pioggia che continua a battere sui vetri. Una cosa sorprendente questa città ce l’ha. La capacità di sopportare acqua e neve come se non finisse mai. Se un decimo di questa roba cadesse a Roma te lo immagini il lungotevere? Morti, feriti, un’apocalissi biblica. La pizza l’ho buttata, e il frigorifero è così vuoto che se ci parlo dentro fa l’eco. C’è mezzo limone, un cartoccio con roba che neanche voglio sapere cos’è, tanto fra un po’ comincia a muoversi e se ne va a fare quattro passi in giro per casa, mezza acqua minerale e una bottiglia di Moët. Che cazzo l’ho comprata a fare? Che cosa devo festeggiare? Cosa dimentico? Il mio compleanno no, è ad agosto. Quello di Marina il 20 del mese? Impossibile. Per quello le ho fatto una promessa che devo mantenere. Altro che champagne. Allora per ricordare papà? Papà se n’è andato a novembre. Mamma erano invece i primi di ottobre. E poi non poteva servire a quello una bottiglia di Moët. Non si stappa champagne per ricordare i morti. «Perché l’ho comprata, amore?».
«Sei scemo? Il nostro anniversario» mi risponde Marina. Non riesco a capire dov’è.
«Il nostro... oh porca! È vero! 2 marzo...».
«È passato» mi aiuta Marina.
«E non abbiamo festeggiato?».
«Ma sì che abbiamo festeggiato, Rocco. Solo che tu di bottiglie ne avevi prese due».
2 marzo 1998. Al Comune di Bracciano, il paese dei genitori di Marina. Non ho mai bevuto così tanto in vita mia. La festa sul lago. C’è gente che ancora se la ricorda. Io no. I miei ricordi di quella sera si fermano più o meno alle nove. Pare che io mi sia fatto pure una gara «due senza» con un pattino del lido. «Che m’ero tirato giù Marì?».
«Fai prima a chiedere cosa non avevi tirato giù» ed ecco che sento il suo profumo. Mi giro e la vedo lì, appoggiata alla porta del salone. «Qualcosa devi mangiare».
«Non ho fatto la spesa».
«Cucinati la pasta».
«Senza neanche il parmigiano?».
«Ma vacci al supermercato, compra qualcosa, poi magari la metti nel surgelatore così almeno ogni tanto una cosa da mangiare ce l’hai».
«Sai cosa faccio? Mi fumo sedici sigarette, mi faccio tre caffè, bevo lo champagne e la fame mi passa».
«Questo sì che è vivere secondo sani principi nutrizionali!» e ride, Marina. Quanti denti ha? Più di me. Sono così bianchi che non ci si crede.
«Ci sei più andato?». So a che si riferisce Marina. A dare un’occhiata alla casa in Provenza. Il nostro sogno. Finire lì le nostre vite, come vecchi elefanti con le ossa al sole. «Ci sei andato o no? Da qui neanche un paio di ore».
«No, non ci sono andato. E a dirti la verità neanche ho più cercato su internet i casali a Aix». Mi siedo sulla poltrona e non la guardo. Ma lei me lo chiede lo stesso. «Perché?».
«Perché non ci sono andato?».
«Esatto. Perché?».
E come faccio a dirglielo? «Marì, costano troppo».
«I soldi non sono mai stati un tuo problema».
«E poi la Provenza. Parlano in francese».
«Sì, è una cosa abbastanza scontata dal momento che è in Francia. Dicevi che in sei mesi lo imparavi. Cos’è successo? Non ti piace più?».
Non lo so. «Non lo so, Marina. Non è più come prima».
«Ma un posto dove andare devi avercelo, Rocco. Sennò che campi a fare?».
Mi giro per guardarla ma è sparita. È andata sicuro in camera da letto a prendere il taccuino sul quale avrà segnato qualche parola difficile.
«E forse gli alberi che attirano le tempeste, sono quelli che il vento inclina sui naufraghi, persi, senz’alberi, senz’alberi né isole fertili. Ma cuore mio, ascolta il canto dei marinai!».
Mi giro. È tornata in salone. In mano ha un libro. «Bella. Di chi è?».
«È un tuo vecchio libro. Dovresti saperlo» e mi mostra la copertina. Distinguo solo i colori, ma non l’autore. «Non lo so, non me lo ricordo».
Lo nasconde dietro la schiena. «Questi versi me li sono segnati tutti, amore mio. Sono belli».
Io la guardo. Si passa la mano sul viso, mi regala un altro sorriso e poi sparisce. Rimango sul divano senza la forza di andare a prendere lo champagne e neanche il telecomando. Mi sento sprofondare in un letto di sabbia. Mi abbandono. E penso. Forse morire è così. Chiudere gli occhi e lasciare andare via tutto, per sempre, calare in una massa nera e senza luce dolce e calda come la pancia di una madre, rimettersi in posizione fetale, chiudere gli occhi e tornare a quello che si era prima di nascere. Una nota indistinta che piano piano torna ad accordarsi con le altre...