Domenica

Le note erano quelle dell’ultimo movimento della nona sinfonia di Ludwig van Beethoven e provenivano dal Nokia poggiato sul tavolino di cristallo di Rocco. Che aprì un occhio, poi l’altro. Era sprofondato sul divano, fuori era buio, non pioveva più e si sentiva la bocca impastata e secca. Allungò il braccio e afferrò l’apparecchio: «Chi rompe il cazzo?».

«Dottore, sono Caterina Rispoli. Ce l’abbiamo qui».

Rocco si tirò su mettendosi seduto, si stropicciò gli occhi: «Chi avete qui? Che ore sono?».

«Sono le tre del mattino. E Gregorio Chevax ce l’abbiamo davanti al magazzino. Forse è il caso che lei faccia un salto».

«C’è cascato?».

«Come un pollo».

«Mi spieghi una cosa, Caterina? Ma perché si dice cascarci come un pollo? Ma dov’è che vanno a finire i polli?».

«Non lo so, è un modo di dire».

«È una cazzata». Chiuse il cellulare e si alzò in piedi. Si sgranchì il collo, tirò un respiro. «E andiamo a parlare con il pollo. O meglio, col pesce balestra».

La strada era nera e in cielo non c’era una stella. Alla fine del rettilineo, dietro alle cime degli alberi che nascondevano la curva, un chiarore illuminava il buio, un alone bianco e lattiginoso. Poteva sembrare un incendio.

Erano invece i fari della macchina della questura che si incrociavano con quelli di un furgone. Le due vetture ferme di fronte al cancello del magazzino dei sanitari sembravano sfidarsi guardandosi negli occhi. Rocco fermò la sua auto e scese. L’aria era fredda. Si distinguevano le ombre nere delle montagne che schiacciavano la valle. Un vento leggero muoveva i rami degli abeti. La neve sporca e fangosa aveva resistito alla pioggia della giornata ed era ammassata ai lati della carreggiata.

Gregorio Chevax era appoggiato al cofano del Ducato, Italo era a un metro da lui, lo guardava fumando una sigaretta. Caterina era seduta in macchina con lo sportello aperto, un piede sull’asfalto l’altro nell’abitacolo. Rocco sorridente raggiunse il gruppo. Caterina scattò fuori dall’auto. «Gregorio!» disse il vicequestore spalancando le braccia. «Già ci rivediamo!».

L’uomo se ne stava zitto e non parlava. «E allora, cos’è successo?».

«Venga a dare un’occhiata, dottore» disse Italo lasciando Caterina a sorvegliare l’ex ricettatore.

Girarono intorno al furgone. Aveva gli sportelli posteriori aperti. Italo accese la torcia. Dentro c’erano un paio di lavandini incellofanati, due cartoni chiusi e una valigetta portaattrezzi di alluminio aperta. All’interno non c’erano cacciaviti o trapani. Ma dei sacchetti di plastica.

«Dai un’occhiata?» fece Italo prendendone uno. Lo aprì. Rocco ci guardò dentro e alla luce della torcia apparvero anelli, braccialetti, collane.

«È pieno di questa roba» disse Italo prendendo un’altra bustina e aprendola davanti al muso di Rocco.

«Ottimo».

«Ce n’è di roba, eh?».

«A me interessa una cosa in particolare. Vediamo se la trovo». Rocco strappò la torcia dalle mani di Italo e si mise a rovistare dentro la valigetta. Scartava monete, gemelli, orologi. Italo non perdeva un movimento. «Che facciamo, Rocco?».

«Che vuoi dire?» rispose il vicequestore con la faccia dentro un sacchetto.

«Voglio dire va tutto in questura?».

Rocco sorrise. «Ora ti spiego una cosa, Italo, questa è roba rubata. Significa che è denunciata. In gergo sai come si chiamano questi? Pezzi storti. Cioè il loro valore è solo l’oro o qualche pietra che ottieni smontandole. Perché il gioiello così com’è non lo puoi vendere» e tirò su una bella spilla a forma di pavone tempestata di pietre blu e verdi. «Guarda questa per esempio: è antica. Varrebbe fai conto un diecimila euro, per fattura eccetera eccetera. Se la smonti ci ricavi poco o niente. No, Italo, questa roba va dritta in questura».

Italo ci rimase male. Sperava di mettere da parte qualche cosa, ripagarsi insomma quel sabato sera passato all’addiaccio. «Peccato. Ci avevo sperato» disse a Rocco.

«Ora apri pure i cartoni. Secondo me c’è altra roba. Per esempio a guardare quelli verticali, si direbbe che siano quadri».

Rocco tornò da Caterina e Gregorio. In mano aveva la spilla a forma di pavone. «Allora Gregorio Chevax... ti senti un po’ un coglione, eh?».

L’uomo aveva perso tutta la boria e la sicurezza di qualche ora prima. «Caterina, raccontami un po’ com’è andata».

«Certo. Chevax è uscito con un furgone dal suo deposito di materiali sanitari all’una e quarantacinque. Noi facevamo proprio lì il posto di blocco e lo abbiamo fermato. S’è mostrato subito molto nervoso».

Rocco guardava sorridente l’uomo che invece fissava un punto lontano, in mezzo agli alberi. Caterina proseguì. «Allora io e il collega ci siamo insospettiti e abbiamo chiesto di dare un’occhiata all’interno del furgone. E abbiamo trovato quello che lei ha appena visto».

Caterina aveva finito il racconto. Schiavone non parlava. Fissava Gregorio Chevax aspettando che dicesse qualcosa. Ma oltre all’aspetto del pesce, quello aveva anche assunto la peculiarità fonetica dell’animale. Il vento leggero faceva fischiare gli aghi di pino. Rocco si accese una sigaretta. «Se lei fosse stato più gentile Gregorio ora non ci troveremmo qui, alle tre del mattino, con un freddo della Madonna impegnati in quest’interrogatorio del cazzo».

Finalmente alzò gli occhi. «Voglio parlare con il mio avvocato».

«L’ha chiamato?».

«Sì, ma non risponde» intervenne Caterina.

«Che avvocato di merda, eh? Allora diamo una svolta a questa serata. Mentre lei riprova a chiamarlo, i miei uomini la portano in questura». Poi si rivolse a Caterina. «Chiama un paio di macchine. Portiamo in deposito il furgone. E di’ a Deruta di compilare la lista degli oggetti ritrovati con tanto di foto. Una per pezzo, mi raccomando».

«Va bene, dottore».

«Chevax, da oggi per lei comincia un calvario che in confronto quello di Nostro Signore è stata una gita in montagna». Alzò la spilla a forma di pavone. «Gliel’avevo detto, no? A me sarebbe bastata questa, poi l’avrei lasciata ai suoi traffici di merda. Invece no... ha voluto fare a chi ce l’ha più lungo».

«Quando il mio avvocato metterà le mani su questa faccenda, può darsi che il calvario cominci per lei».

Rocco sorrise. «Amico mio, la mia vita è un calvario da almeno sei anni. Sa come si dice a Roma? Lei mi fa una pippa, Chevax. Lei e il suo avvocato. Le faccio un quadro della situazione? Lei è stato beccato con la refurtiva in flagranza di reato a un posto di blocco, lei ha già dei precedenti per furto e ricettazione, l’unica cosa che può invocare il suo avvocato è l’infermità mentale. Ma non credo che la possa spuntare. Vede, lei non ha problemi mentali. Lei ha problemi con il Q.I. e non mi pare sia un’attenuante ai fini di un processo».

La faccia di Gregorio era più bianca degli abbaglianti.

«Possiamo trovare un accordo?» disse a bassa voce.

«Di che genere?».

«Lei è interessato a quella spilla. Io le dico chi me l’ha portata e chiudiamo la faccenda?».

«Se lei se ne fosse uscito tre ore fa io sarei stato ben contento. Ora è tardi. Si metta nei miei panni. Come faccio a nascondere tutto questo?» e indicò il furgone e Italo che stava scaricando i cartoni imballati. «E poi c’è una cosa che lei non conosce. Ma io chi le ha portato la spilla, lo so già. Mi serviva solo esserne sicuro al cento per cento». Si abbottonò il loden. «Cazzo di freddo, eh?».

Tirandosi su il colletto se ne tornò alla sua macchina.

«Schiavone! Primo: non mi piace essere svegliato alle sei del mattino. Se poi sono le sei del mattino di domenica diciamo che il mio fastidio si eleva al cubo. E secondo non mi piace essere disturbato a casa» rispose il giudice Baldi con la voce impastata di sonno.

«Lo so dottore, ma in quello che lei dice ci sono due imprecisioni».

«E sentiamole».

«Per prima cosa non sono le sei bensì le sette e mezzo. Secondo non la disturbo a casa, ma sul cellulare. E non è detto che il cellulare sia necessariamente a casa».

«Alle sette e mezzo di domenica di solito sì».

«Io la pensavo già immerso nelle carte, dottore. Che ci vuol fare, ho questa immagine di lei».

«Schiavone, lei proprio non ci riesce ad essere serio fino in fondo, vero?».

«Sono serissimo. E la chiamo perché credo fermamente nelle regole e nelle istituzioni».

«Vada a fare in culo e mi dica cosa vuole».

«Due mandati di arresto. Gregorio Chevax ed Helmi Bastiany».

«E posso saperne il motivo?».

«Certo. Chevax per ricettazione. Helmi per spaccio di stupefacenti, aggressione e lesione a un agente di polizia e furto».

«E per una sciocchezza simile lei mi chiama alle sette e mezzo di domenica?».

«Forse aiuta se le dico che Helmi Bastiany ha commesso il furto dentro casa di Ester Baudo, la nostra vittima di via Brocherel?».

Rocco sentì uno schiocco di lingua. «Va bene. Mi faccio un caffè... manda qualcuno o viene lei?».

«Mando qualcuno».

«Un favore. Non mi mandi l’agente ciccione e neanche quello abruzzese».

«Stia tranquillo. Il ciccione non è di turno, l’altro è all’Umberto Parini».

«E com’è?».

«Ce l’ha mandato Helmi, dottore».

«Mi faccia capire, Schiavone. Quando ce l’ha mandato?».

«Avevo spedito i due intrepidi agenti a fare un appostamento. C’è stata una colluttazione. Abbiamo anche il video. Una telecamera a circuito chiuso di una farmacia. Anzi, ne faccio fare una copia e gliela mando per sua conoscenza».

«Li conosco. Sono quei video in bianco e nero, accelerati, ci vuole la scientifica per capirci qualcosa».

«Mi creda dottor Baldi, guardi quel video e mi ringrazierà».

«Perché?».

«Si fidi».

«Quanto dura?».

«Tre minuti. Lei da piccolo guardava “Oggi le comiche”?».

«Certo, come tutti, il sabato appena rientrato da scuola. Perché?».

«In confronto Buster Keaton era un principiante».

«Schiavone, voglio quel video subito qui a casa mia!».

Aveva comandato a Scipioni e Italo di andare a prendere Helmi con l’ordine di tenerlo in una stanza senza che incontrasse nessuno, soprattutto l’amichetto, Fabio Righetti, col quale spacciava e aveva aggredito i due poliziotti. L’avvocato di Chevax era fuori Aosta, sarebbe rientrato solo il giorno dopo. Rocco alle undici era salito sulla sua macchina, aveva impostato il navigatore con l’indirizzo di Ciriè e aveva preso l’autostrada verso Torino.

Appena entrato in Piemonte il cielo si era aperto mentre un sole tiepido e scolorito cercava di riscaldare la campagna. Si perse a guardare i vitigni bassi e neri affastellati ai piedi delle montagne e i fortini sabaudi di pietra scura torvi e minacciosi incastrati fra cocuzzoli di roccia.

Cornacchie magre volavano in circolo sopra le sterpaglie in cerca di cibo. Qualcuna si avventurava anche al centro della carreggiata deserta se c’era da piluccare la carcassa di qualche animaletto sfortunato appena maciullato da un’auto. Rocco odiava quegli uccelli. Anche a Roma avevano preso il sopravvento sugli altri volatili. Sbranavano le uova di passeri, pettirossi, cinciallegre ed erano sempre più numerosi. Stavano diventando i padroni dei cieli italiani, a Roma ormai gli unici a tenergli testa erano i gabbiani e i pappagalli verdi che avevano colonizzato i grandi parchi cittadini. Quelli erano rapaci veri, venivano dal Brasile e in quanto a fame non avevano certo da imparare da una cornacchia italiana. Ogni volta che a Villa Borghese o a Villa Ada li vedeva volare in formazione come degli stuka, verdi e rossi coi loro richiami sgraziati, pensava al primo scemo che aveva aperto la gabbia e s’era fatto scappare il Pappagallo Alfa, il pioniere di quella che ora era una enorme colonia aggressiva e micidiale che stava finendo di massacrare i passeri e gli altri uccellini romani. Comunque, in quanto a bellezza, i pappagalli erano assolutamente superiori a quelle cornacchie spelacchiate e sgraziate. Rocco aspettava trepidante il momento in cui a Roma il cretino di turno si sarebbe lasciato scappare un anaconda. L’Anaconda Alfa. Lì sì che le cose si sarebbero fatte interessanti. Se non altro sarebbe diminuita in maniera esponenziale la popolazione dei ratti romani, ormai grossi come alani e davanti ai quali qualsiasi gatto scappava a zampe levate. Ecco, gli sarebbe piaciuto vederli di fronte ad un anaconda del delta delle Amazzoni, lungo una decina di metri, che ingoia in pochi minuti una bufala campana. Anche questo sarebbe stato un effetto collaterale della globalizzazione, un effetto benefico secondo Rocco Schiavone. Certo poi sarebbe stato un po’ complesso affrontare serpenti abbarbicati sui rami dei platani del lungotevere ma almeno il nemico era visibile, meno subdolo, elegante e bello da guardare. In più non era portatore di malattie infettive come i sorci. Magari avrebbe anche incrementato la produzione di borse e scarpe. Chissà.

Immerso in questo bestiario, Rocco raggiunse il paese di Ciriè, fermò l’auto davanti al bar di via Rossetti.

De Silvestri era già lì, seduto ad un tavolo in fondo al locale con due bicchieri pieni di un liquido arancione e un piattino di noccioline davanti. Fissava la porta e appena vide entrare il vicequestore Schiavone con tre passi era già a metà del bar ad abbracciare il suo ex superiore come un fratello ritrovato. Stringendo il corpo dell’agente De Silvestri, Rocco si rese conto che dopo tanti anni di lavoro gomito a gomito era la prima volta che lo vedeva in borghese. Si staccarono. De Silvestri aveva gli occhi lucidi.

«La trovo in forma».

«Anche tu De Silvestri sei a posto».

«Venga. Mi sono permesso due aperol...».

«Alfre’, perché non mi dai del tu?».

«Non ci riesco. Dopo tanti anni non ci riesco».

I due uomini si sedettero e fecero tintinnare i bicchieri. Rocco ne scolò metà con un sorso. «Ahhh, proprio ci voleva... hai visto che tempo?».

«Siamo a nord, che si aspettava?».

«Com’è il mio sostituto?».

«Brava persona. È giovane, e Roma non la conosce. Avrà il tempo per allenarsi. Pensi che in meno di sette mesi dice già: mortacci vostri e ’sticazzi! Certo l’accento è da curare, ma va benone».

Risero.

«Come sta la mia preferita, Elena Dobbrilla?».

«Si sposa il mese prossimo. Secondo me faranno anche un sacco di bambini e lascerà la polizia».

«Dici?».

«Il marito è un architetto. Quello che guadagna basta e avanza per tutti e due».

«A Elena!» e ancora i bicchieri tintinnarono.

E fu solo allora che De Silvestri cambiò espressione. «Mi dispiace scomodarla, ma c’è una cosa che non va, giù a Roma».

Rocco si sistemò meglio sulla sedia e si avvicinò a De Silvestri di una ventina di centimetri, così che l’agente poté abbassare un poco il volume della voce. «Di che si tratta Alfredo?».

Il vecchio collega di Rocco fece un nome: «Giorgio Borghetti Ansaldo» e il viso di Schiavone divenne una maschera di rughe e odio. «Che ha fatto?».

«Ci risiamo. Ha violentato due ragazze. Una davanti al Liceo Vivona, l’altra nei giardinetti degli eucalipti, vicino alla fonte San Paolo».

La mano di Rocco strinse il tavolino di legno e le nocche divennero bianche.

«Il vicequestore Busdon dice che prove che sia stato lui non ce ne sono. Ma non è così. Non mi sarei mai scomodato se non fossi strasicuro, dottor Schiavone».

«Come fai ad esserne strasicuro?».

«La studentessa del Liceo Vivona l’ha visto in faccia. E quando le ho mostrato alcune foto ha riconosciuto subito il figlio del sottosegretario agli Esteri. In più zoppica alla gamba destra e porta degli occhiali con una lente oscurata. Dottor Schiavone, è lui».

Giorgio Borghetti Ansaldo aveva violentato sette ragazze, una s’era tolta anche la vita, fino al giorno in cui la sua strada aveva incrociato quella di Rocco Schiavone, che lo aveva ridotto in fin di vita. E per quella vendetta efferata e bestiale al vicequestore era stata comminata la pena dell’immediato trasferimento. Anzi, per quanto era potente il padre del violentatore gli era andata pure troppo bene. Più di una volta mentre aspettava l’esito del processo interno, si era sentito chiudere le sbarre della prigione in faccia. Invece l’avevano solo mandato a lavorare ad Aosta. Tutto sommato era stato fortunato.

«Che cosa posso fare, De Silvestri?».

«Non lo so. Servirebbe dare una spinta al suo sostituto, Busdon, ma soprattutto bisognerebbe fermare quell’infame. Se lei avesse visto come ha ridotto la faccia di quella ragazza».

Rocco si alzò dal tavolino. Si fece due passi per il locale, poggiò la testa sulla vetrina, sotto lo sguardo di De Silvestri e del padrone del bar che lo osservava senza capire mentre leggeva «Tutto Sport». Poi il poliziotto tornò a sedere. «Devo venire a Roma. Mi scrivi su un foglietto i nomi delle due ragazze violentate?».

«Certo, difficili da dimenticare. Quella del giardino è Marta De Cesaris, che lui aveva già violentato, lei dovrebbe ricordarsela».

«Certo che me la ricordo. Violentata un’altra volta. Cos’è, aveva lasciato il lavoro a metà? E l’altra? Quella che l’ha riconosciuto?».

Il vecchio agente abbassò gli occhi. «Si chiama Paola De Silvestri».

«De Silvestri? Come te?».

«È mia nipote».

Rocco guidava e sentiva un intenso desiderio di sangue. Era arrabbiato, frustrato, impotente. Nell’orecchio sentiva il cuore battere come una grancassa.

Tum tum tum.

Una grancassa ovattata e continua che neanche il volume dello stereo riusciva a coprire. Davanti al parabrezza oltre la lingua di asfalto, gli appariva nei riflessi del cristallo la faccia di Giorgio Borghetti Ansaldo, come lo ricordava l’ultimo giorno che l’aveva visto in procura. Quei denti sporgenti, i pochi capelli radi ai lati del cranio, gli occhi bovini stupidi e senza vita, le sue mani bianche cadaveriche, e le lentiggini schizzate in faccia come lo spruzzo di una diarrea. Neanche il tempo di tornare a casa e rimettersi dalle ferite che il vicequestore gli aveva inferto, e quel mentecatto era tornato al lavoro.

Doveva rientrare a Roma. Fermare quel minorato mentale, il figlio del sottosegretario al quale, in uno dei pochi incontri che avevano avuto, aveva consigliato una cura farmacologica per il figlio e, in caso di fallimento, direttamente la castrazione chimica. Ma il potente Borghetti Ansaldo ovviamente non l’aveva ascoltato, e aveva difeso il figlio professando l’innocenza di quel trentenne mezzo scemo che passava le sue giornate davanti alla PlayStation e la notte in mezzo alle cosce di minorenni urlanti. Prese il cellulare, lo accese, computò il codice pin e si infilò l’auricolare. Richiamò alla memoria il numero di Seba, uno dei suoi amici di sempre, uno su cui poter contare in qualsiasi momento.

«Seba, sono Rocco».

«Lo so vecchio maiale, ancora riesco a leggerlo il display. Che mi dici di nuovo?».

«In questo momento sei a Roma?».

«In questo momento sono sulla tazza nel cesso di casa mia e vuoi sapere anche che sto facendo?».

«Non serve, grazie. Dimmi un po’, Furio e Brizio? Anche loro?».

«Vuoi sapere se sono nel bagno mio?».

«Deficiente, se sono a Roma».

«Credo di sì. Ora vuoi dirmi che succede? Hai un bell’affaruccio da propormi?».

«A Roma c’è una nota stonata» disse. Seba non rispose. Era in silenzio ad ascoltare. «Ed è una nota che disturba, dovremmo farla smettere».

«Ce l’ha con te?».

«No. Ma mi riguarda, anche se indirettamente».

«Capisco. Scendi?».

«Mi sa di sì. Non so quando, ma verrò».

«Ti aspettiamo. Basta che me lo dici un paio d’ore prima».

«Grazie Seba».

«Dovere, frate’. E che se dice su ad Aosta?».

«Piove».

«Pure a Roma se la cosa ti può aiutare».

«Non mi aiuta».

«Solo un’ultima cosa, poi ti lascio. Devo capi’ meglio. Servono le ragazzine?».

Seba si stava riferendo alle armi.

«Sì. Senza targa magari» rispose Rocco.

«Ricevuto. Non vedo l’ora che vieni».

«Anche io. Salutami tutti. E un bacio a Adele».

«Non stiamo più insieme» fece Seba.

«Ah no? E da quando?».

«Da quando la zoccola se la fa con Robi Gusberti».

«Er Cravatta?».

«Già. Roba da matti, eh?».

«Roba da matti. Ma quanti anni ha?».

«Er Cravatta? Settanta».

«Te sei fatto frega’ la donna da uno di settant’anni?».

«Secondo Brizio, Adele ci vedeva la figura paterna».

«Ma se il padre Adele non l’ha mai conosciuto».

«Appunto, no? Sempre Brizio dice che si chiama transfert. Cioè che lei nel Cravatta ci ha proiettato sopra la figura paterna che non ha mai avuto e s’è innamorata».

«E da quando Brizio fa lo psicologo?».

«Boh. So’ tutte storie che gli dice Stella che sta sempre lì a legge le riviste tipo “Focus”».

«Tu ci credi a ’sta cosa della figura paterna?».

«Rocco, io so solo che l’ho beccati nel letto di casa mia dove dormiva mamma buonanima!».

«Se vede che Adele voleva fa’ l’accoppiata».

«Cioè?».

«Cioè voleva fa’ il transfert della figura paterna e pure di quella materna!».

«Ma vaffanculo, Rocco».

«Stamme bene, Seba. A presto. E vedi che Adele fra poco torna da te».

«Perché lo dici?».

«Perché Robi Gusberti lo chiamavano pic indolor. E mica perché faceva le iniezioni».

Seba scoppiò a ridere. «È vero. Pic indolor...».

«Quindi vedrai che torna e ti chiede perdono».

«Io non la perdono».

«Tu la perdoni perché senza Adele sei solo un orso incazzato e finisci nella merda. Anzi per il futuro fai meno il cazzone. A parte le scemenze di Brizio e dei transfert, la verità è che Adele te la sta facendo pagare, ti sta facendo capire che cos’è la vita senza di lei. L’avrai fatta incazzare come al solito e lei sta pareggiando i conti. Una che ha intenzione di lasciare l’uomo non va cor Cravatta, guarda un po’ a casa tua, sicura che la beccavi. Se Adele ti voleva lasciare andava con uno bello e intelligente e che si porta gli anni da dio».

«Uno tipo te?».

«Per esempio».

I due amici risero.

«Dici che è così, Rocco?».

«Dico che è così. Anzi, ci vuoi mettere sopra duecento euro che fra tre giorni me saluti Adele?».

«Duecento euro? Andata! Se perdo pago volentieri, che te credi?».

«E pagherai. Buon proseguimento».

Appena chiuse il cellulare ben sei messaggi risuonarono come una mitragliatrice.

«Che cazzo...?».

Tutti messaggi dallo stesso numero. Tutti dalla questura.

«Che cazzo è successo?» disse ad alta voce e il cellulare suonò un’altra volta. Ancora la questura.

«Chi è? Che succede?».

«Rocco, sono Italo».

«E?».

«Helmi... non si trova».

«Che vuol dire?».

«Da quando ieri ha lasciato casa».

«Arrivo. Sto arrivando. Vediamoci lì, da Irina».

Stavolta insieme alla donna c’era anche Ahmed, il padre di Helmi, il fruttivendolo. Continuava a tormentarsi i baffi mentre gli occhi arrossati caricati dall’ansia guardavano in giro come a cercare qualcosa che s’era perso.

«Fatemi capire. Helmi ieri è uscito di casa e non è più tornato?» chiese Rocco.

«Non proprio» rispose Ahmed. «È tornato, ma noi non c’eravamo».

«Come fa a dirlo?».

«Ha preso un po’ di cose sue e se n’è andato».

«Ha preso zainetto e vestiti» aggiunse Irina. «E la sua scatola di legno. Non c’è più. Anche quella».

«Scatola di legno?».

«Sì. Mi sa che ci teneva i soldi» fece il padre.

«Helmi aveva un documento di riconoscimento?».

«Certo. Passaporto, perché?».

«Ed è in casa?».

Ahmed guardò Irina. Subito si precipitò al mobiletto nell’ingresso. Aprì il primo cassetto. Tirò fuori il suo passaporto, quello di Irina. Ma di quello di Helmi nessuna traccia. Rovistò ancora farfugliando qualcosa in arabo, poi con le mani abbandonate nel cassetto guardò sconfortato i poliziotti. «Non c’è. Li teniamo tutti qui».

Rocco guardò Italo. «Come la vedi?».

«Io? La vedo semplice. In Svizzera con un treno e da lì un bell’aereo. Per dove? E chi lo sa?».

Rocco annuì. «Dobbiamo diramare un ordine internazionale. Che palle!».

«Ma cosa ha fatto? Perché è scappato?» chiese Ahmed avvicinandosi al vicequestore.

«Furto, aggressione a un poliziotto».

«Furto? Dove ha rubato?» chiese Irina.

«A casa dei Baudo, signora. La mattina dell’omicidio».

Irina e Ahmed si guardarono. Il padre si mise le mani davanti alla bocca e scoppiò a piangere. «No... no... Helmi no...». Irina lo abbracciò. Il fruttivendolo, come un bimbo disperato, lasciò andare la testa sul petto della donna. E pianse a dirotto con dei singhiozzi così forti da coprire il rumore della strada e dei clacson. Irina lo cullava, con gli occhi umidi. Guardava i poliziotti. C’erano decine di domande in quello sguardo, ma lei non ne fece una. A nessuna di quelle domande, e Irina lo sapeva, i due tutori dell’ordine avrebbero potuto dare una risposta esaustiva.

«... dalla madre...» mormorò Ahmed, ora che i singhiozzi non lo sconquassavano più.

«Dalla madre?» chiese Rocco. «Che vuol dire?».

«Io dico che è tornato dalla madre. In Egitto. Ad Alessandria».

«Quanti anni rischia lui?» chiese Irina mostrando una praticità insospettabile.

«Non lo so. Qualcuno sicuramente per furto e aggressione».

«Ma c’è omicidio, no?» disse Irina. Ahmed guardava Rocco fisso negli occhi.

«Non lo so. Per questo lo volevamo portare in questura».

«Mio figlio un assassino? Mio figlio un assassino...⁠». Ahmed si liberò dall’abbraccio tenero di Irina e lento, a testa bassa, senza aggiungere una parola, se ne andò in camera da letto chiudendosi la porta alle spalle.

«Che si può fare?» chiese allora Irina.

«Diramare un ordine internazionale, cercare negli aeroporti e nelle stazioni. Entra in ballo l’Interpol, signora. Questo esula dalle mie competenze».

«E se lo ritrovano?».

«E se lo ritrovano, come diciamo a Roma, so’ cazzi amari».

Aveva buttato un’ora al telefono cercando inutilmente di rintracciare il questore, che se ne stava sulle piste a Courmayeur, e a parlare con il giudice Baldi. Che, come c’era da immaginarselo, aveva devoluto l’incombenza Helmi a un suo collega. Solo un terremoto l’avrebbe fatto uscire dal suo appartamento di domenica.

Doveva incontrare Patrizio Baudo, ma non era a casa a Charvensod. Sua madre aveva indirizzato Rocco a Sant’Orso, la chiesa tardo gotica, una delle attrazioni turistiche di Aosta.

Era la prima volta che Rocco Schiavone ci entrava. Si perse a guardare la bellissima navata centrale. Il freddo era intenso anche lì dentro, e il fiato colorava l’aria. Sentì uno scricchiolio e finalmente vide Patrizio Baudo. Se ne stava in ginocchio a pregare con gli occhi chiusi e la fronte poggiata sulle mani giunte guantate. Rocco si sedette cinque panche dietro di lui deciso ad aspettare e a non spezzare quel momento intimo. Alzò gli occhi al cielo guardando la foresta di colonne che si intrecciavano lassù, in alto. Poi osservò il tramezzo barocco a tre archi che divideva la navata centrale dal coro. Ma era chiaro che quel divisorio era stato aggiunto in epoca più recente. Niente a che fare con il tardo gotico della chiesa.

Mentre era immerso in questi pensieri oziosi, sentì un fruscio alle sue spalle. Si girò. Era apparso un prete. Che gli sorrise. Anche Rocco sorrise di rimando. Il prelato si sedette accanto a lui.

«Lei è il vicequestore, vero?» gli chiese.

«Mi conosce?».

«Dai giornali». Aveva il pizzo, i capelli tagliati a spazzola. Gli occhi chiari e tranquilli. «È qui per parlare con Patrizio, vero?» e con il mento indicò l’uomo cinque panche più avanti assorto in preghiera.

«Sì, ma non volevo disturbarlo. In realtà mi serve solo una piccola informazione».

«Forse posso dargliela io».

«No. Non può» fece Rocco. E guardò il prete negli occhi.

«Faremo qui il funerale di Ester. Lei è il capo delle indagini?».

«Diciamo così».

«E ci sono novità?».

«No. Non ci sono».

Il prete sorrise a mezza bocca. «Lei è una tomba».

«Detto da un prete non mi pare proprio un bel complimento».

In quel momento Patrizio Baudo si alzò. Si fece il segno della croce e uscì dal filare di panche. Appena vide Rocco parlare col prete si incupì. Lento si avvicinò a loro.

«Buongiorno, signor Baudo» fece Rocco senza alzarsi. «Non volevo disturbarla».

«Buongiorno, commissario».

«È vicequestore, i commissari non esistono più, Patrizio» fece il prete. Patrizio annuì.

«È vero. Ah, Patrizio, a proposito, auguri per ieri. Era il suo onomastico, no?».

«Sì... grazie, dottore».

«Volevo solo farle vedere una cosa». Rocco tirò fuori la fotografia della spilla a forma di pavone. «La riconosce?».

Patrizio sgranò gli occhi. «Certo che la riconosco. È la spilla di mia nonna che avevo regalato a Ester». La passò al prete che non reggeva più dalla curiosità.

«Dove l’ha trovata?».

«Da un ricettatore!».

«Fatevi dire subito chi gliel’ha portata!» gridò Patrizio Baudo e la sua voce rimbombò nelle volte tardo gotiche.

«Lo sappiamo già chi è stato» rispose Rocco con volume esageratamente basso per riportare la tranquillità nella casa di Dio.

«È lui che ha ammazzato Ester. È lui!». Patrizio non si teneva più. Il prete lo guardò. «Calmati, Patrizio!».

«Come calma? L’avete preso. Chi è? Chi è? Voglio saperlo».

«Si calmi, signor Baudo. Ero solo interessato alla spilla».

«Non ci posso credere. Questa è la prova che l’inchioda. Io pretendo di sapere chi è».

«Glielo diremo, signor Baudo, lei non si preoccupi. Ora siamo nel pieno dell’indagine, e mi dispiace ma sono informazioni strettamente riservate».

«Anche la morte di mia moglie è una cosa strettamente riservata, ma è ormai sulla bocca di tutti».

«Ora basta Patrizio!» intervenne il sacerdote. «Io sono sicuro che il dottor Schiavone sta facendo del suo meglio per trovare il colpevole».

Patrizio al suono della voce pastorale sembrò calmarsi un poco. Respirava a fatica e si guardava le mani avvolte dai guanti di pelle marrone. «Mi scusi, dottor Schiavone. Mi scusi...».

«Niente» fece Rocco. «È passata. Sono in mezzo a un’indagine, signor Baudo, che la vede coinvolto. La prego, non insista e non s’immischi. Ora se non le dispiace torno al lavoro».

«Da venerdì non riesco a dormire. E se lo faccio sogno sempre la stessa cosa». Patrizio si sedette sulla panca. «Due uomini che entrano in casa mia per rubare, mia moglie li scopre, loro la uccidono e poi la tirano su come una mucca macellata. Al gancio del lampadario». Si portò la mano davanti agli occhi. «È andata così?».

«Non lo so, signor Baudo. Ma mi sembra una buona ricostruzione».

«Se avete preso il ladro, allora questa storia è finita» intervenne il prete.

«Non proprio. C’è un problemuccio. Ma sono cose interne. Ora devo andare» tagliò Rocco. «Mi aspettano giorni ancora molto pesanti. Grazie per la collaborazione, signor Baudo. E grazie anche a lei, padre...».

Il vento aveva ormai abbandonato la valle e la temperatura era lievemente salita. Ebbe la sensazione che fuori facesse più caldo che dentro la cattedrale.

Uscito dalla chiesa guardò la bella piazza col campanile e il tiglio che una targa raccontava avere più di cinquecento anni. Ne doveva aver viste di cose quell’albero. Cinquecento anni. Un essere umano potrebbe impazzire se solo vivesse la metà, pensò Rocco mentre con le mani insaccate nel loden si incamminava fra le vie antiche di Aosta.

La stanza dei colloqui della casa circondariale di Brissogne aveva quattro macchie di umidità, una per angolo. Divisi da un tavolino Rocco Schiavone e Fabio Righetti si guardavano alla luce dell’unica finestrella e nel silenzio più assoluto. Il ragazzo era pallido e la cresta da Urone s’era ammosciata. Se ne stava lì, in silenzio, a guardare ora il vicequestore, ora il pavimento. Qualcuno in lontananza aprì un cancello. Rocco con una penna sembrava scrivere appunti su un foglio di carta. In realtà stava facendo degli scarabocchi con dei ghirigori psicotici. La penna correva disegnando spirali, lettere, nomi senza un senso logico. E la sfera della bic sulla carta era l’unico rumore nella stanza. Poi Rocco mise un punto, secco, e alzò lo sguardo su Fabio. Il ragazzo lo stava osservando. Fece per masticare quando un lampo gli passò negli occhi. Portò la mano alla bocca e tirò fuori la gomma americana che appiccicò sotto il tavolino.

«La conservi per dopo?» disse Rocco.

Il ragazzo annuì.

Finalmente la porta si aprì e entrò Riccardo Biserni, l’avvocato di Righetti. Giacca e cravatta, sui 35 anni, un bel viso rosso di salute e gli occhi azzurri e intelligenti. Sorrise subito al vicequestore. «Scusa il ritardo Rocco, ma i suoceri sono sempre i suoceri...».

Si strinsero la mano. «Figurati Ricca’, figurati. D’altra parte ti sei voluto sposare».

«Io? Ma sei matto? M’ha incastrato».

«È la prima volta che qualcuno incastra un avvocato».

«A dirtela tutta è un incastro piacevole. Allora...» l’avvocato prese posto accanto al suo assistito. «Come va, Fabio? Tutto a posto?» mentre apriva la sua ventiquattrore tirando fuori delle carte. «Roba che devi firmare». Fabio annuì. Rocco si stiracchiò e tornò al suo posto.

«Come ti trattano? Bene?».

«Bene. Sto sempre solo».

Riccardo guardò il vicequestore. «Sei stato tu?».

Rocco annuì. «Non mi pareva il caso di farlo familiarizzare con certa gente».

«Allora, io di solito registro, ma stavolta no. Tanto è un colloquio amichevole, no?» fece l’avvocato. Rocco annuì.

«Abbiamo preso Helmi Bastiany, Fabio» disse all’improvviso scrutando la faccia di Righetti. «Il tuo complice».

Il ragazzo abbassò lo sguardo.

«E ci ha raccontato un po’ di cose. Correggimi quando sbaglio, eh? Avete smerciato un po’ di gioielli per farvi i soldi da dare a qualche spacciatore e rivendervi la roba ai giardinetti della stazione. Corretto?».

Fabio guardò l’avvocato che lento fece sì con la testa. «La coca l’avevamo presa senza pagare per ora. Se eravamo bravi ce ne avrebbero data altra».

Rocco non chiese chi gli avesse dato la coca. Ora il bersaglio era un altro. Doveva continuare il bluff. E gettò l’asso pigliatutto. «A che ora siete entrati in casa Baudo?».

Fabio fece un sogghigno. «In casa Baudo?» chiese di rimando.

«Helmi ha detto che eravate lì alle sette e mezzo. Questo tu lo puoi confermare?».

«Io non sono mai stato in casa Baudo. Non so neanche che cos’è».

«Te lo dico io cos’è. È la casa dove avete rubato degli ori e un gioiello che avete rivenduto a Gregorio Chevax per fare i soldi per lo spaccio».

«Gliel’ho già detto. Noi la coca l’abbiamo presa senza pagare. Non avevamo bisogno di soldi».

«E allora perché avete rubato in casa Baudo?».

«Io non ho rubato da nessuna parte».

Mancava la bordata finale. «Senti scemo...».

«Rocco...» intervenne paternalistico Riccardo.

«Senti scemo» insistette Rocco, «tu ed Helmi siete entrati a casa Baudo, avete preso gli ori, la signora vi ha scoperto e l’avete ammazzata. Strangolata! Poi avete inscenato l’impiccagione».

«Rocco, che cazzo dici?» sbottò l’avvocato. «Stai accusando Fabio di omicidio?».

«È Helmi che lo fa. Dice che l’idea della finta impiccagione è sua».

«Io non ho ucciso nessuno! Ma di che parla?».

«Rocco, se devi muovere contro il mio assistito un’accusa del genere mi vedo costretto a interrompere questo dialogo amichevole e portarlo su un altro livello».

«Riccardo, io sto solo cercando di aiutare Fabio, perché Helmi gli sta buttando tutta la merda addosso».

«Non costringermi a ricorrere al giudice, se esco da questa stanza...».

«Helmi ha fatto una foto col cellulare del tuo assistito all’interno dell’appartamento, Riccardo. Mentre rovista nell’armadio. Ti rendi conto? Io sto solo cercando di salvarlo dall’accusa di omicidio, porca puttana!».

«Erano le nove e mezzo» urlò Fabio Righetti gelando il suo avvocato e anche Rocco.

«Fabio, se vuoi non parlare, lascia perdere, dobbiamo prima farci quattro chiacchiere io e te».

«No, non ho niente da nascondere. Erano le nove e mezzo. Non le sette e mezzo».

Rocco si accomodò sullo schienale. «Allora Helmi mente?».

«Certo che mente» fece Fabio. «Dovevamo entrare dopo le sette ché il signor Baudo se n’era andato in bici. Solo che quel motorino di merda di Helmi ha bucato e abbiamo fatto tardi».

«Avete cambiato la gomma?».

«Sì. Proprio dal gommista davanti alla questura. Ve lo può dire lui, si chiama Fabrizio».

«Bravo Fabio. Va’ avanti».

L’avvocato respirava a fatica. Come un ghepardo era lì pronto a saltare, ma la situazione ormai s’era sconvolta. A Rocco pareva quasi di vedere il cervello del legale sforzarsi per rimettere le cose a posto. «Siamo arrivati a casa dei Baudo alle nove passate. Lo so perché m’è arrivato un sms sul cellulare».

«Quando avete fatto la copia delle chiavi di casa Baudo?».

Fabio alzò lo sguardo. «Tre giorni fa. È stato Helmi che le ha rubate a Irina».

«Dimmi com’è andata».

«Noi siamo andati a colpo sicuro in camera da letto. Lo sapevo che lì tenevano gli ori». Riccardo Biserni ascoltava in silenzio. Prendeva appunti, ma ormai la frittata era fatta.

«Come facevi a saperlo?».

«Una volta Irina l’ha detto al padre di Helmi che il signor Baudo teneva una scatola in camera da letto e che lei gli aveva consigliato di farsi una cassaforte perché lasciare le cose preziose in giro così era pericoloso».

«E lo era, infatti. Continua».

«Abbiamo trovato la scatola con gli ori. Stavamo andando via quando abbiamo sentito le chiavi nella toppa».

«Era Irina?».

Fabio Righetti annuì. «Io e Helmi non sapevamo dove nasconderci. Ci siamo infilati dentro l’ultima stanza, che aveva la porta chiusa».

Rocco guardò il ragazzo: «E che c’era dentro?».

«E che ne so? Era buia, e io la luce non l’ho accesa, altrimenti Irina mi vedeva».

«E dopo che hai fatto?».

«Ho sentito Irina che chiamava la signora. E la signora tanto non era in casa, sicuro che stava al mercato, fa sempre così la mattina. Poi ho sentito Irina che scappava, e ho pensato cazzo se n’è accorta, ci ha visto. Ma come ha fatto? Irina è inciampata nel tappeto, ho sentito un rumore, lei che urlava e sbatteva la porta di casa. Ho aspettato un po’ e siamo scappati dall’appartamento».

«Come avete fatto ad uscire dal palazzo?».

«Dal portone, non c’era nessuno. Siamo scappati e ci siamo accucciati dietro una macchina. Irina aveva fermato un signore col cane in mezzo alla strada».

Rocco si alzò dalla sedia. «Bravo Fabio. Sei stato grandioso».

«Io non ho ucciso nessuno. Io la signora non l’ho mai vista in vita mia, commissario».

«Vicequestore» lo corresse subito Rocco. «Tu lo sapevi che cosa c’era in quella stanza buia?».

«No...».

«C’era il cadavere di Ester Baudo, amico mio». Rocco e l’avvocato si guardarono.

«Perché Helmi ha detto quelle bugie?» chiese Fabio.

«Ascoltami Fabio, già te l’ho detto la prima volta che ci siamo incontrati. Per essere un gangster ci devi nascere. E tu non lo sei. Io volevo sentire che cosa era successo in quella casa, e ora farò i riscontri e vedrò se mi hai detto la verità. Se mi hai detto la verità allora resta solo l’accusa per spaccio... e furto... qui c’è il tuo avvocato, che sa meglio di me come vanno ’ste cose. Ma io mi darò da fare a dire che l’idea è stata di Helmi, che la talpa era lui e che tu al massimo sei un complice. Ti fai qualche mese dentro e poi sei fuori».

«Commissario, è la verità».

«Richiamami commissario e ti faccio dare l’ergastolo».

«Sì, vicequestore» si corresse subito Fabio.

«Se invece mi hai mentito e c’entri con l’omicidio, le cose cambiano». E guardò l’avvocato. «Bene Fabio, è stato un bel colloquio. Il tuo cellulare?».

«Perché?».

«È importante. Mi hai detto che hai ricevuto un sms alle nove di venerdì. Quella è una piccola prova a tuo favore, sai?».

«Sta giù al deposito» intervenne Riccardo.

«Le ripeto che io ho detto la verità. Chiedetelo pure al gommista».

«Certo che lo farò. Grazie Riccardo» fece avvicinandosi alla porta. L’avvocato lo raggiunse. Sottovoce gli disse: «Tu Helmi non l’hai preso, dimmi la verità».

«Se lo sai già, che me lo chiedi a fare?» aprì la porta e uscì dalla sala colloqui.

«Perché ieri non sei entrato nel negozio?».

«Mi hai visto?».

«Ero nel bar di fronte».

Fermi sul pianerottolo, incerti se entrare in casa o rimanere lì a parlare, Nora e Rocco si guardavano con gli occhi stanchi.

«Mi hai fatto passare un compleanno bruttissimo, lo sai?».

«Sì, lo so».

«E ora vieni da me. Perché?».

«Ti chiedo scusa».

«Rocco Schiavone che chiede scusa».

«Non hai una bella opinione di me».

«E come potrei?».

«Mi fai entrare o stiamo sul pianerottolo?».

«Né l’una né l’altra» rispose Nora e dolcemente chiuse la porta sul viso del vicequestore. Che rimase lì a guardare i nodi del legno. Poi prese un respiro profondo, fece dietrofront e lasciò casa di Nora.

Fuori la temperatura era scesa insieme al sole e una mano ghiacciata strinse il petto del poliziotto. «Che freddo di merda...» masticò amaro tra i denti mentre si abbottonava il loden. Neanche due passi sul marciapiede e il primo solitario fiocco di neve scese leggero davanti ai suoi occhi. I lampioni stradali erano già accesi e nella luce giallognola ne volavano a centinaia come falene, lenti e maestosi. Uno cadde sulla guancia di Rocco. Lui se l’asciugò. Alzò gli occhi verso il cielo color acciaio e li vide cadergli addosso a decine. Spuntavano dal buio e prendevano corpo a pochi metri da lui. Si immaginò di essere un’astronave che viaggiava alla velocità della luce e quei puntini che gli venivano incontro erano in realtà stelle e galassie che attraversava lanciato nelle profondità misteriose del cosmo. Le finestre di Nora erano accese. E nel riquadro luminoso di quella del salone c’era lei ferma a guardarlo mentre giocava a farsi punzecchiare dalla neve. I loro occhi si incontrarono di nuovo. Poi un movimento nella finestra accanto, quella della camera da letto, attirò l’attenzione del vicequestore. Un’ombra dietro le tende. Passò veloce ma abbastanza da non lasciare dubbi sulla sua natura: era un uomo. Rocco si morse il labbro e subito cercò di dare un nome e un viso a quell’ospite. Alzò la mano destra come a salutare Nora poi ci avvicinò la sinistra e mimò il gesto di aprire la finestra. Nora non capì subito. Rocco ripeté il gesto. La donna obbedì, aprì la finestra e si affacciò appena, tenendo una mano sul petto per proteggersi dal freddo. Rocco le sorrise. «Secondo me è l’architetto Pietro Bucci-qualcosa. Vero?».

Nora fece una smorfia. «Che dici?».

«Dico, secondo me è l’architetto Pietro Bucci-qualcosa».

«Si chiama Pietro Bucci Rivolta».

«È lui?».

«Ma chi?».

«Quello che sta di là in camera da letto?».

Nora non rispose. Chiuse la finestra e tirando le tende sparì alla vista di Rocco. Neanche dieci secondi e spense anche la luce.

Eh già, pensò Rocco, alle domande retoriche non si risponde.

Adesso i fiocchi di neve erano aumentati e non sembravano più stelle da attraversare esplorando il cosmo, ma solo quello che erano: fiocchi di neve gelati che entravano nel colletto del cappotto e che avrebbero reso le strade un manto ghiacciato e pericoloso.

Era ora di andare a casa.

«Che poi se ci pensi c’è un dio, no?» mi dice Marina.

«A che ti riferisci?» le chiedo.

«A quello che violenta le ragazzine». Si sta facendo una tisana mi sa, perché spignatta in cucina.

«Scusami, ma che c’entra Dio e la sua presenza con quel fijo de na mignotta?».

«Non riguarda lui. Riguarda te». Entra in salone e va ad appoggiarsi al tavolo. In mano ha una tazza. Sì, è una tisana.

«Non ti capisco, Marì».

«Dico, c’è un dio perché alla fine ti hanno punito. Se ci pensi ti hanno punito per la cosa più scema che hai fatto, picchiare quel tizio».

Ha ragione.

«Tipo Al Capone, no? Che alla fine è andato in galera per questioni fiscali e non per i cadaveri che ha sparpagliato per Chicago. Facendo le debite proporzioni, anche a te è successa la stessa cosa, Rocco».

«Io non ho seminato cadaveri».

«No? Pensaci bene».

Non ci voglio pensare bene. Non ci voglio pensare proprio. «Vabbè» le dico «c’è un dio. Ma perché a te fa piacere che io sia stato esiliato qui?».

Si fa una bella risata e tira fuori il solito taccuino. Legge la parola del giorno. «Dilucolo. Sai che vuol dire?».

«No».

«È la prima luce, quella che porta il nuovo giorno».

«L’aurora?».

«Sì. Bella, eh?».

«La parola non tanto, suona strana».

«Ma la prima luce è bella. Porta speranza, perché prima o poi arriva». E sparisce un’altra volta. Fa sempre così. Tanto l’ho capito che mi sta dicendo. Sempre la stessa cosa, anche se usa giri di parole, parole che trova sul vocabolario ma che raccontano sempre lo stesso problema. Come se non lo sapessi. Ma mi manca la forza. E forse anche la voglia. Ci vuole una forza bestiale. Non è detto che uno ce la debba avere. Non è detto che uno è capace a tirarsene fuori. Ci sto con tutte le scarpe. Anche se, valle a guardare le scarpe sul termosifone. Come si sono ridotte. E non è neanche finito marzo. Mi chiedo se un giorno pure qui arriverà la primavera. Dopodomani è il 20, e a mezzanotte entra la primavera. Ma da queste parti non se n’è accorto nessuno. Io sì. Dopodomani è il compleanno di Marina. Che è nata proprio a mezzanotte. Per poco non era il 21. Ma per me Marina e la primavera sono sempre state la stessa cosa.