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Le caverne si formano con la pioggia.
La pioggia si mescola ai gas. L’acqua acida corrode la roccia, e minuscole fessure si allargano fino a diventare cunicoli. Alla fine, dopo molte migliaia di anni, questi cunicoli possono creare un’apertura abbastanza grande da ospitare un uomo.
Dunque, la caverna di Dor era essa stessa un prodotto del tempo. Ma al suo interno un nuovo orologio ticchettava. Dal soffitto, nel punto in cui il vecchio aveva aperto una fessura, l’acqua si infiltrava e formava a poco a poco una stalattite.
E poiché la stalattite gocciolava sul pavimento, cominciò a formarsi una stalagmite.
Con il passare dei secoli, le due formazioni si avvicinavano, come attratte da una calamita, ma così lentamente che Dor non se ne accorse mai.
Una volta era stato orgoglioso di misurare il tempo con l’acqua. Però l’uomo non inventa niente che Dio non abbia già creato.
Ora Dor viveva nel più grande degli orologi ad acqua.
Non ci pensò mai. Anzi, smise di pensare del tutto.
Smise di muoversi. Rimaneva sempre seduto. Si teneva il mento fra le mani e rimaneva fermo in mezzo alle voci assordanti.
Diversamente da chiunque altro prima di lui, a Dor era concesso di esistere senza invecchiare, di non consumare nemmeno uno dei respiri che gli spettavano. Ma Dor era a pezzi. Non invecchiare non significa vivere, e senza contatti umani la sua anima si inaridiva.
Le voci provenienti dalla Terra erano sempre più numerose e ormai le avvertiva indistinte, come si sentono cadere le gocce di pioggia.
La sua mente si impigrì. I capelli e la barba gli si allungarono a dismisura, e così fecero le unghie delle mani e dei piedi. Perse qualsiasi nozione del proprio aspetto. Non vedeva la propria immagine da quando lui e Alli erano andati al grande fiume e avevano sorriso al loro riflesso sull’acqua.
Aveva un desiderio disperato di aggrapparsi ai ricordi. Chiudeva forte gli occhi per riportare alla mente ogni dettaglio. Fino a che, in un momento imprecisato di quel purgatorio, Dor si riscosse dal torpore dell’oscurità, affilò una pietra e cominciò a incidere le pareti.
Lo aveva fatto anche sulla Terra,
ma sempre per misurare il tempo. Conti, figure di lune e soli, i primi elementi di matematica della storia.
Quello che Dor incideva ora era diverso. Prima tracciò tre cerchi, tre come il numero dei suoi figli, e diede un nome a ciascuno. Poi incise un quarto di luna per ricordare la notte in cui aveva preso Alli in moglie. Fece un rettangolo in memoria della prima casa in cui avevano vissuto insieme, il tugurio di fango di suo padre, e un rettangolo più piccolo per rappresentare la capanna di giunchi sull’altopiano.
Disegnò la forma di un occhio per ricordarsi dello sguardo di Alli, quelle occhiate che gli facevano girare la testa. Tratteggiò delle linee ondulate che rimandavano ai suoi lunghi capelli neri e alla serenità che provava nell’immergerci il viso.
A ogni nuova incisione parlava ad alta voce.
Stava facendo quello che fanno le persone quando non hanno più niente.
Si raccontava la storia della propria vita.