Capitolo nono

Le prime ombre celavano ormai la presenza delle erbe e dei fiori selvatici quando le lumache arrivarono alla striscia dura e nera che gli umani chiamavano strada.

«Che paura. Non cresce niente su questo manto scuro» sussurrò una di loro.

«Che faremo adesso?» domandò un’altra.

«Aspetteremo che gli umani si riposino. Memoria mi ha insegnato che, come noi lo facciamo nel cavo dei nostri gusci, gli umani lo fanno nelle loro case. Là si mettono comodi e riposano» rispose Ribelle.

Le case degli umani avevano fori illuminati, come se tutte le lucciole fossero chiuse là dentro. Le lumache avevano fame, ma dopo aver assaggiato qualche foglia delle erbe che crescevano sul ciglio della strada si arresero. Avevano un sapore strano, sgradevole, lo stesso fetore emanato dalla superficie nera che si stendeva davanti a loro.

Le stelle brillavano invitando al silenzio serale quando i fori delle case pian piano si spensero. Ribelle sapeva che dovevano trovare al più presto il nuovo Paese del Dente di Leone perché l’oscurità notturna si sarebbe fatta sempre più lunga, l’aria più fredda, e perché avevano bisogno di nutrirsi per sopportare il letargo al riparo dalla brina e dalla neve.

«Ora» sussurrò Ribelle e per la prima volta toccò il rigido strato nero che copriva quello che fino a poco tempo prima era stato un fertile prato.

La superficie le parve dura e ruvida, il fetore che emanava infastidiva il suo olfatto, ma era uniforme, senza ostacoli da superare o aggirare, e anche se le lumache si muovevano lentamente, molto lentamente, quell’uniformità consentiva di spostarsi con una facilità estrema.

Cap_09

«Sento un calduccio molto piacevole» sussurrò una lumaca, e si fermò.

«È vero. C’è un tepore che ti entra dentro» aggiunse un’altra, e si fermò anche lei.

«È delizioso questo calore. Perché non ci fermiamo e riprendiamo il cammino quando fa giorno?» domandò una terza lumaca e Ribelle ricordò che Memoria le aveva raccontato come la cappa, essendo scura, non riflettesse i raggi del sole e trattenesse il calore. E quella era una trappola, le aveva spiegato Memoria. Certi esseri del prato, come i ricci, cedevano al tepore di quel suolo arido, si lasciavano vincere dalla sonnolenza e diventavano facile preda degli enormi animali su cui gli umani si spostavano.

«No, dobbiamo proseguire, senza alcuna sosta, dobbiamo sforzarci di arrivare dall’altra parte» fece in tempo a dire Ribelle prima che un potente ruggito le paralizzasse per lo spavento.

Dal fondo della strada si avvicinava velocissimo un essere con due enormi occhi splendenti che le investì con la sua luce abbagliante. Passò rapido come un vento di tempesta e dopo che si fu allontanato le lumache videro che varie di loro non c’erano più.

Tremando di panico, come tutte le sue compagne, Ribelle ordinò di proseguire senza fermarsi, prima che quell’animale terrificante o un altro simile ripassassero da lì.

Fu una marcia penosa, le lumache non riuscivano a sussurrare altro che la loro paura e il loro pentimento per aver seguito Ribelle, e quando raggiunsero il ciglio opposto della strada cercarono rifugio in una caverna circolare, fredda, in cui scorreva un sottile filo d’acqua. Si attaccarono alle pareti e si assopirono sfinite dal dolore e dalla fatica.

Le lumache dormivano tutte, tranne Ribelle, che era rimasta all’entrata della caverna, attenta, i cornini con gli occhi rivolti all’oscurità della notte.

La stanchezza però vinse anche lei e stava per ritirarsi dentro il suo guscio quando il rumore di qualcosa che scuoteva l’aria la fece sussultare. Un uccello si posò all’entrata della caverna.

«Lumaca, non temere» disse l’uccello.

Ribelle uscì lentamente, molto lentamente, dalla caverna e riconobbe il gufo che abitava nel faggio più vetusto del prato.

«Ma tu voli. Non ti pesa quello che hai visto?»

«Mi pesa più di prima, ma devo volare» rispose il gufo, e infilando la testa sotto l’ala per nascondere il dispiacere, le disse che non esisteva più nessuno dei tre faggi, che gli umani e le loro macchine erano più rapidi di tutti gli esseri del prato.

«E il calicanto?» si azzardò a domandare Ribelle.

«Non esiste più nemmeno quello. Resta molto poco del prato che conoscevamo» rispose il gufo con ancora maggiore tristezza.

«Credo che resteremo in questa caverna, qui per lo meno siamo al sicuro» sussurrò Ribelle.

«Non è una caverna e non siete al sicuro» replicò il gufo, spiegandole poi che erano dentro una cosa fabbricata dagli umani, una specie di lombrico lungo e grosso, collegato a una bocca metallica che, a un certo ordine, lasciava uscire un forte torrente d’acqua.

«Ho fallito. Non riuscirò mai a portare le mie compagne nel nuovo Paese del Dente di Leone. Se sapessi tante cose come te... ma sono solo una lumaca, lenta, molto lenta» si lamentò Ribelle.

«La mia natura è osservare e sapere. E non lamentarti di essere lenta, lumaca. Grazie alla lentezza di una tartaruga che ogni pochi passi girava indietro la testa per vedere se la seguivano, ho saputo di una giovane lumaca chiamata Ribelle. Una lumaca coraggiosa che, malgrado il pericolo, ha osato tornare ad avvertire le sue compagne e che adesso sta cercando di salvarle. Non ti arrendere, Ribelle, vi aiuterò a uscire da qui.»

L’oscurità notturna cominciava a svanire quando le lumache, attaccate a un pezzo di legno secondo le istruzioni del gufo, lo videro aprire le ali, sbatterle facendo dei passi rapidi, ritrarre le zampe e spiccare il volo.

Il gufo planò in cerchio con le sue grandi ali spiegate fino a trovare una corrente d’aria discendente, poi calò sul legno, lo afferrò con i suoi forti artigli e si risollevò in aria, battendo con forza le ali perché il legno era pesante.

Dall’alto le lumache contemplarono il sole che sorgeva e, azzardandosi timidamente a estrarre dal guscio i cornini con gli occhi, videro che gran parte del prato era scomparso sotto il manto nero che le incalzava.

Il gufo volò per un tempo che parve loro molto lungo, e il terreno e gli alberi e le linee argentate dei ruscelli e le case degli umani passavano a una velocità inaudita per gli esseri lenti dei prati, finché l’uccello non iniziò a scendere e depositò il suo carico vicinissimo a dei grandi alberi.

«Questo è un bosco di castagni e gli umani non riusciranno facilmente a distruggerlo. Avanzate lasciandovi alle spalle il muschio che cresce sui tronchi e arriverete in una radura. Là crescono erba e fiori selvatici, ma andate più in fretta possibile perché gli alberi iniziano già a perdere le foglie e ben presto il freddo e la neve si impadroniranno di ogni cosa. Io non posso portarvi fino alla radura perché là non potrei spiccare il volo.»

Le lumache ringraziarono il gufo per l’aiuto e lo guardarono levarsi in aria fino a sparire dietro le chiome degli alberi.

«Avanti, proseguiamo» sussurrò Ribelle e fu la prima ad avanzare verso una macchia verde che si vedeva sul tronco di un castagno.