Parte Terza.
Capitolo 28.
Bärut, Líbano.
L'agente della CIA Jeff Moussad si muoveva circospetto tra le macerie della zona sud di Beirut, un'area a lui ufficialmente preclusa. L'aria era polverosa, e le montagne di mattoni e detriti ai lati delle strade erano il frutto della triste e lunga storia di conflitti civili che avevano lacerato il Libano e distrutto la fama di «Parigi del Medio Oriente» che Beirut si era faticosamente guadagnata.
Benché il cuore della città fosse in via di ricostruzione e molte imprese internazionali avessero riaperto i battenti, in quella terra di nessuno e senza legge, ancorata all'atroce passato, tali progressi erano ben poco evidenti.
Jeff si trovava in missione, armato e in incognito, per stabilire un contatto con un importante informatore, la cui identità e il cui indirizzo erano stati scoperti tra gli appunti di un collega della CIA morto a causa del vile attacco dell'Il settembre 2001 contro il Pentagono. Il complicato incarico che gli era stato assegnato - simile alla proverbiale ricerca dell'ago nel pagliaio - era possibile soprattutto in virtù delle nuove fonti di informazione che l'amministrazione degli Stati Uniti aveva promosso a ogni livello, dagli abituali strumenti come gli aerei U-2 e la costellazione di satelliti-spia segreti in orbita intorno al pianeta fino alle foto dei satelliti commerciali e quelle degli aerei-spia telecomandati.
Poiché non esisteva segnaletica stradale, Jeff doveva fare affidamento su un Palm Pilot appositamente programmato per trovare il rifugio ricavato tra le macerie di quello che un tempo doveva essere un edificio. Si fermò nell'ombra a consultare il Palm Pilot. Il display mostrava in presa diretta l'immagine delle vie e dei vicoli di quel settore della città trasmesse da uno dei nuovi velivoli da ricognizione senza pilota. Questo genere di mezzi all'avanguardia privi di equipaggio fornivano in tempo reale immagini di vaste aree a lunga distanza, ricorrendo alle comunicazioni via satellite. Si trattava di un miglioramento notevole rispetto ai tempi in cui tali velivoli riuscivano a fornire informazioni in tempo reale solo se si riusciva a rinviare alla base un segnale radio.
A causa del caotico mutare della geografia cittadina, per uno straniero era facile perdersi in quella zona, ma grazie alle immagini in diretta che gli dicevano esattamente come muoversi e dove svoltare, Jeff avanzò con sicurezza per circa mezzo chilometro. Poi, però, alle sue spalle risuonò uno sparo, seguito da un rumore di passi.
Con un'improvvisa accelerazione delle pulsazioni, Jeff si infilò alla svelta all'ombra dei resti anneriti e ritorti di un carro armato rimasto colpito tanto tempo prima. Tendendo l'orecchio, estrasse la pistola. Doveva raggiungere in fretta il covo del suo contatto, prima che qualcuno lo scoprisse.
Controllò il Palm Pilot. La sua meta non era lontana, ma mentre era intento a studiare la svolta successiva, accadde l'impensabile: il Palm Pilot andò in panne. Jeff restò a guardarlo interdetto, il petto come serrato in una morsa. Non aveva la più pallida idea di dove si trovasse.
Imprecando tra sé, si rese conto di essersi perso. Premette alcuni tasti sul Palm Pilot: le informazioni contenute nell'apparecchio - indirizzi, numeri telefonici eccetera - erano disponibili, ma il velivolo-spia telecomandato aveva sospeso le comunicazioni utili a indicargli la via da seguire per giungere a destinazione e per tornare alla base. La connessione era interrotta.
In preda all'ansia, si sforzò di ricordare quale fosse l'ultima svolta indicata dal Palm Pilot e, quando fu certo di averla individuata, si avviò verso un edificio diroccato, aggirò l'angolo e attraversò la via, verso quello che presumibilmente era il luogo da lui cercato. Sbucò su uno spiazzo aperto e cercò preoccupato l'entrata del rifugio. Non l'avrebbe mai trovata. Vide soltanto quattro lampi uscire dalle canne di altrettanti fucili d'assalto, poi... niente altro.
Fort Belvoir, Virginia.
Poco lontano da Washington, D.C., in direzione sud, sorgeva lo storico Fort Belvoir, ora trasformato in avveniristica sede di un centinaio di organizzazioni e agenzie: una sorta di Who's Who del dipartimento della Difesa. Tra i residenti più riservati di questo complesso c'era il National Reconnaissance Office, con la sua principale stazione di raccolta delle informazioni trasmesse dai satelliti. Fondato nel 1960 per progettare, lanciare e gestire i satellitispia statunitensi, l'NRO era un'agenzia così segreta che fino agli anni Novanta non se ne sapeva nulla. Ramificato e potente, l'NRO aveva un bilancio annuo multimiliardario che superava la spesa delle tre principali agenzie statunitensi addette a compiti di spionaggio: CIA, FBI e NSA.
Quella stazione di raccolta dati dell'NRO, situata tra le colline della Virginia suburbana, era un ricettacolo di apparecchi elettronici e cervelli umani tra i più sofisticati al mondo. Tra gli analisti civili che vi lavoravano vi era Donna Lindhorst, capelli corvini, viso lentigginoso e aria sfinita per via degli ultimi sei giorni trascorsi in uno stato di allerta continuo. Al momento stava monitorando un impianto missilistico in Corea del Nord, un Paese che non solo era considerato ostile agli Stati Uniti e ai suoi alleati, ma che aveva fatto dello sviluppo di missili a lunga gittata la massima priorità.
Veterana dell'NRO, Donna Lindhorst sapeva che i satelliti-spia solcavano i cieli da una quarantina di anni, in orbita, talvolta, a centosessanta chilometri da terra. Viaggiando a una velocità pari a mach 25, quegli uccellini costati miliardi di dollari sorvolavano ogni punto della Terra due volte al giorno, scattando fotografie digitali dei luoghi che la CIA, i responsabili del governo americano e gli alti comandi militari desideravano controllare. E questi luoghi non erano mai meno di cinque contemporaneamente.
Dalla guerra civile in Sudan ai disastri ambientali in Ciña, i satelliti americani fornivano un flusso incessante di immagini in bianco e nero.
La base missilistica nordcoreana che Donna stava sorvegliando era considerata una minaccia serissima. Per gli Stati Uniti, ci mancava solo che qualche Stato canaglia approfittasse della situazione di vulnerabilità elettronica. E in quell'istante, Donna ebbe l'impressione che quella minaccia fosse sul punto di concretizzarsi. La gola le si prosciugò dalla paura, perché le immagini che stava ricevendo mostravano una fiammata simile a quelle prodotte dai missili in fase di lancio.
Scrutò nervosamente lo schermo, manovrando il satellite in modo che si trattenesse più a lungo sull'area.
Appartenente a una classe nota negli ambienti spionistici con il nome di «Advanced Keyhole», ovvero «buco della serratura avanzato», quel satellite era in grado di scattare una foto ogni cinque secondi e di trasmettere le immagini quasi istantaneamente, attraverso i satelliti Milstar, sul monitor di Donna. Benché ciò richiedesse l'elaborazione di un'enorme quantità di dati e di immagini, doveva assolutamente sapere se quella fiammata fosse vera.
In caso affermativo, poteva essere segno di un incipiente attacco missilistico.
Si protese ansiosamente in avanti, operando scansioni digitali, approfondendo la lettura dei dati, stringendo sulla coda del missile, finché... lo schermo si spense. Le foto scomparvero. Donna restò per un attimo stordita, in preda allo shock; poi indietreggiò con la sedia e guardò terrorizzata la parete dei monitor. Erano oscurati. Non arrivava nulla. Se in quel momento i nordcoreani avessero deciso di lanciare un attacco nucleare contro gli Stati Uniti, niente avrebbe potuto fermarli.
Washington, D. C.
Lo stato d'animo diffuso, negli uffici e nei corridoi dell'ala occidentale della Casa Bianca, era di trattenuto giubilo, un'insolita atmosfera da giorno del Ringraziamento, se si considera che era il mese di maggio. Nella Sala Ovale, il presidente Castilla si era concesso un sorriso - evento alquanto raro, negli ultimi giorni, viste le prove affrontate -, condividendo la misurata esultanza dei suoi consiglieri che affollavano la sala.
«Non ho ancora capito, esattamente, come abbia fatto, signore», disse raggiante Emily Powell-Hill, la consigliera della National Security Agency. «Però, devo ammettere che è stato bravissimo.»
«Siamo stati bravissimi, Emily.»
Il presidente si alzò in piedi, aggirò la sua scrivania e andò a sedersi accanto a lei su un divano, un informale gesto di amicizia cui raramente indulgeva. Quel giorno, però, si sentiva più leggero, come se si fosse liberato di un fardello invalidante. Sbirciò da dietro le sue lenti, riservando a ciascuno il suo cordiale sorriso, compiaciuto di vedere anche i loro volti finalmente risollevati. Eppure, la circostanza non era adatta a veri e propri festeggiamenti.
Nell'attacco missilistico contro la villa in Algeria erano morte anche delle brave persone.
Il presidente riprese a parlare: «Tutti i presenti hanno fatto la loro parte, insieme ai servizi di intelligence. Dobbiamo essere sinceramente grati a tutti quegli eroi disinteressati che lavorano tra le grinfie del nemico senza ricevere il benché minimo riconoscimento pubblico».
«Da quel che mi ha riferito il capitano Lainson del Saratoga», disse l'ammiraglio Stevens Brose, accennando con la testa al direttore della CIA, «sono stati alcuni agenti della CIA a rintracciare quei bastardi e a distruggere quel maledetto computer a DNA.»
Il direttore della CIA annuì con modestia. «Il merito è soprattutto dell'agente Russell. È una delle migliori agenti che ho a disposizione. Ha fatto il suo lavoro.»
«Già», concordò il presidente. «Su questo non ho il minimo dubbio: la CIA e altri che non è il caso di menzionare ci hanno proprio salvati, questa volta.» Mentre passava in rassegna con lo sguardo gli uomini dello stato maggiore congiunto, la consigliera dell'NSA, il capo dell'NRO, il direttore della CIA e il capo dello staff presidenziale, il suo sguardo si fece solenne. «Ora, dobbiamo prepararci al futuro. Il computer molecolare non è più una macchina solo teorica, e presto sarà la volta del computer quantico. È inevitabile. E chi può sapere quali altre tecnologie verranno sviluppate, per minacciare le nostre difese, ma anche per aiutare l'umanità? Dobbiamo metterci immediatamente al lavoro, per trovare un modo di far fronte a queste minacce.»
«Da quel che ho capito, signor presidente», fece notare Emily Powell-Hill, «il professor Chambord, il suo computer e tutto il materiale relativo alle sue ricerche hanno fatto una brutta fine, a causa del nostro attacco missilistico.
Secondo le informazioni di cui dispongo, nessuno è in grado attualmente di emulare l'impresa di Chambord.
Perciò, forse, potremo godere di un po' di respiro.»
«Può darsi, Emily», ammise il presidente. «Tuttavia, le mie fonti più fidate all'interno della comunità scientifica lasciano intendere che il raggiungimento di un tale traguardo fungerà, in generale, da stimolo alla ricerca, che ne risulterà perciò accelerata.» Il presidente scrutò in viso l'uditorio e riprese a parlare con un tono più risoluto.
«In ogni caso, dobbiamo creare difese a prova di computer molecolare e di qualsiasi altra apparecchiatura anche solo teorica in grado di rappresentare una minaccia per la nostra sicurezza.»
Nella Sala Ovale calò il silenzio, e i presenti rifletterono sui compiti e le responsabilità che li attendevano. La quiete fu rotta dall'acuto trillo del telefono posato sulla scrivania del presidente. Sam Castilla esitò, fissando quel telefono che squillava solo in casi di estrema urgenza.
Posò le mani sulle proprie ginocchia, si rialzò, raggiunse la scrivania e sollevò la cornetta. «Sì?»
Era Fred Klein. «Dobbiamo assolutamente incontrarci, signor presidente.»
«Adesso?»
«Sì, signore.»
Parigi, Francia Nell'esclusiva clinica privata specializzata in chirurgia plastica, Randi, Marty e Peter erano riuniti nella spaziosa stanza riservata a Marty. Gli attutiti rumori del traffico che arrivavano da fuori parvero improvvisamente più forti, nel momento in cui la dolorosa conversazione registrò una pausa, e dagli occhi di Marty cominciarono a sgorgare copiose lacrime.
Jon era morto. La notizia gli aveva spezzato il cuore. Si erano voluti bene come solo due persone dai talenti e dalle inclinazioni altrettanto dissimili sarebbero in grado di fare, legati dall'impalpabile sostanza del rispetto reciproco maturato nel corso degli anni. Per Marty, si trattava di una perdita così grave da non essere neppure esprimibile.
Jon era sempre stato presente. Non riusciva a immaginare di vivere in un mondo senza Jon.
Randi si sedette accanto al letto e gli prese la mano.
Con l'altra, si asciugò le guance dalle lacrime. Più in là, Peter era in piedi accanto alla porta, il volto impietrito, e la pelle leggermente arrossata quale unico segno della sua commozione.
«Stava facendo il suo lavoro», disse Randi a Marty, in tono sommesso. «Un lavoro che aveva scelto di fare. Non si può chiedere di meglio.»
«Lui... lui era un vero eroe», balbettò Marty. Il suo viso era scosso da tremiti mentre cercava le parole giuste. Era difficile per lui esprimere le emozioni: di questo linguaggio non aveva affatto padronanza. «Vi ho mai detto della mia venerazione per Bertrand Russell? I miei gusti, quanto a eroi, sono molto difficili, ma Russell era straordinario.
Non dimenticherò mai la prima volta che ho letto i suoi Principia mathematica. Avevo dieci anni, credo, ed è stata un'esperienza folgorante. Santo cielo! E le implicazioni...
Un'opera che mi ha spalancato gli occhi!
Quello è stato il momento in cui ha liberato la matematica dal dominio della filosofia astratta e le ha fornito una cornice precisa.»
Peter e Randi si scambiarono un'occhiata. Non capivano niente di ciò che andava dicendo.
Marty annuiva a se stesso, mentre le lacrime gli cadevano sulle lenzuola. «Esistevano così tante idee gravide di sviluppi, in quell'opera. Certo, anche Martin Luther King, Jr., William Faulkner e Mickey Mande sono stati abbastanza eroici.» Il suo sguardo percorse la stanza, come in cerca di un posto sicuro dove posarsi. «Jon, però, è sempre stato il mio più grande eroe. Sin da quando eravamo bambini.
Non gliel'ho mai confessato. Era in grado di fare tutto quello che a me era precluso, così come io sapevo fare tutto ciò che lui non riusciva. Gli piaceva, questo, e piaceva anche a me. Quante volte capita, nella vita, una cosa del genere?
Perderlo è come perdere le gambe e le braccia...
Anzi, peggio!» Deglutì. «Mi mancherà così tanto!»
Randi gli strinse la mano. «Mancherà a tutti, Marty.
Ero sicura che ce l'avrebbe fatta. E anche lui ne era certo, ma...» Si sentì stringere il petto e faticò a soffocare un singhiozzo.
Chinò la testa. Le doleva il cuore. Aveva fallito, e Jon era morto. Riprese a piangere in sordina.
Peter, burbero, disse: «Sapeva ciò che stava facendo.
Conosciamo tutti quali siano i rischi. Qualcuno deve pur farle queste cose, per permettere agli uomini d'affari e alle casalinghe, alle ragazzine viziate e agli stramaledetti playboy milionari di dormire in pace nei loro letti».
Randi colse l'amarezza nella voce del veterano dell'MI-6.
Era il suo modo di manifestare il cordoglio. Si sentiva solo, come era sempre stato, con le sue ferite sulla guancia, sul braccio sinistro, sulla mano sinistra, mezze cicatrizzate e prive di medicazione, livido di rabbia repressa per la morte dell'amico.
«Avrei voluto essergli utile anche in questa circostanza», disse Marty con la voce lenta e tentennante, frutto dell'assunzione di farmaci.
«Lo sapeva bene, amico mio», gli disse Peter.
Un mesto silenzio pervase la stanza. I rumori del traffico tornarono in risalto. Da qualche parte, lontano, risuonò la sirena di un'ambulanza.
Peter concluse con un eufemismo esagerato. «Non sempre le cose vanno come si vorrebbe.»
Il telefono sul comodino di Marty iniziò a squillare, e i tre amici rimasero per un attimo a fissarlo immobili. Fu Peter a rispondere. «Qui è Howell. Ti avevo detto di non... che cosa? Sì. Quando? Ne sei sicuro? D'accordo. Sì, ci penso io.»
Posò la cornetta sulla sua doppia forcella e si voltò verso gli amici, il viso contratto in una tetra smorfia di orrore.
«Top Secret. Da Downing Street. Qualcuno ha assunto il controllo dei satelliti militari americani in orbita, subentrando al Pentagono e alla NASA che ora non possono più utilizzarli. È possibile, secondo voi, fare una cosa del genere senza l'aiuto di un computer a DNA?»
Randi lo guardò sbalordita. Afferrò un fazzoletto di carta dal comodino di Marty e si soffiò il naso. «Avranno portato fuori il computer dalla villa prima dell'esplosione?
No, è impossibile. Ma, allora, che cosa significa?»
«Non ne ho la benché minima idea. So soltanto che il pericolo non è affatto svanito. Dobbiamo riprendere la caccia daccapo.»
Randi scosse la testa. «Non possono aver portato fuori dalla villa il prototipo. Non ne hanno avuto assolutamente il tempo. Però...» Guardò Peter. «Magari Chambord è riuscito in qualche modo a sopravvivere. È l'unica spiegazione sensata. E se è vivo Chambord...»
Marty si rialzò a sedere sul letto, la faccia stravolta rianimata dalla speranza. «Anche Jon potrebbe essere vivo!»
«Ehi, aspettate, voi due! Andateci piano. Lo Scudo della Mezzaluna avrà sicuramente fatto di tutto per salvare il professore, ma non poteva fregargliene un accidente di Jon e della signorina Chambord. Anzi, tu, Randi, hai sentito delle raffiche di armi automatiche. A chi altri potevano essere dirette? L'hai scritto tu stessa, nel tuo rapporto, che Jon può essere morto sia per colpi d'arma da fuoco sia per il missile lanciato dal Saratoga. Quei bastardi stavano esultando. Festeggiavano la vittoria. Questo è un fatto.»
«Hai ragione, purtroppo.» Randi fece una smorfia.
«Però è una possibilità che non possiamo ignorare. Se Jon è vivo...»
Marty gettò via le coperte e saltò giù dal letto, ma per un improvviso senso di vertigine, barcollò aggrappandosi alla struttura metallica. «Non mi interessa quello che pensate voi due. Jon è vivo!» La sua decisione era irrevocabile.
Si era convinto e aveva cancellato la notizia intollerabile della morte dell'amico. «Randi aveva ragione, invece.
Jon potrebbe avere un disperato bisogno del nostro aiuto. Ah, se penso che potrebbe essere ferito, da solo, in chissà quale angolo sperduto del deserto algerino... o magari, mentre noi ce ne stiamo qui a parlare, quei terroristi si stanno preparando a ucciderlo! Dobbiamo trovarlo!»
L'effetto dei farmaci stava svanendo, e la vita sembrava quasi possibile. Un superuomo armato di computer e del potere di un genio.
«Calmati, ragazzo. Sai bene che non devi lanciarti in volo oltre l'universo della logica.»
Marty si raddrizzò in tutta la sua stazza, giungendo così con gli occhi all'altezza dello sterno di Peter. Con estrema pacatezza ribatté: «Il mio universo è perfettamente logico, peccato che sia troppo al di là delle tue misere facoltà intellettive, buzzurro d'un inglese!».
«È probabile», disse Peter, senza enfasi. «Non dimenticare, però, che al momento ci troviamo nel mio universo.
Poniamo che Jon sia vivo. Da quel che ha detto Randi, potrebbe essere prigioniero o, al limite, ferito, braccato e nascosto. Il problema è il seguente: dov'è Jon?
E come possiamo metterci in contatto con lui? A parte le brevi comunicazioni a corto raggio, i nostri sistemi di comunicazione sono stati messi fuori uso da quando i terroristi hanno assunto il controllo dei satelliti.»
Marty aprì la bocca come per concedersi l'ennesima replica pungente, ma poi assunse un'espressione di sconforto, di scoramento, perché le sue facoltà ancora rallentate non riuscivano a elaborare il problema come avrebbe voluto.
Randi domandò: «Se è riuscito a fuggire e, soprattutto, se Chambord è con lui, gli uomini dello Scudo della Mezzaluna li staranno sicuramente cercando. Mauritania la considera certamente una priorità. Avrà sguinzagliato quel killer, Abu Auda. Da quel che ho potuto vedere, Abu Auda sa il fatto suo. Perciò, se Jon è vivo, da solo o con qualcun altro, si trova senza dubbio in Algeria».
«Jon, però, potrebbe anche non essere riuscito a scappare», argomentò Peter, «e forse anche il professor Chambord è ancora loro prigioniero, come sembra dimostrare l'attacco lanciato dallo Scudo della Mezzaluna contro i satelliti americani. Jon potrebbe essere nelle loro mani. E noi non abbiamo la più pallida idea di dove possa essere.»
Impaziente e più preoccupato che mai, Fred Klein sedeva sulla panca di legno graffiato che il presidente, dall'ufficio privato del suo ranch di Taos, aveva fatto portare nell'ufficio privato della suite residenziale posta ai piani alti della Casa Bianca. Mentre pensava alle questioni da affrontare, teneva lo sguardo fisso sulle massicce librerie che lo circondavano, senza vederle veramente. Provava un disperato desiderio di accendersi la pipa. Era ancora riposta nel taschino pettorale della larga giacca di lana del suo completo, con il bocchino che spuntava. Accavallò le gambe, e quella più in alto prese quasi immediatamente a oscillare come la lancetta di un metronomo.
Entrando, il presidente colse immediatamente l'agitazione del capo di Covert-One. «Sono addolorato per la perdita, Fred. So quanto stimavi il dottor Smith.»
«Le condoglianze potrebbero essere premature, signore.»
Klein si schiarì la gola. «Così come i festeggiamenti per la nostra presunta vittoria in Algeria.»
La schiena del presidente si irrigidì. Si avvicinò al vecchio scrittoio con alzata avvolgibile, che a Taos era stato il suo preferito, e si sedette. «Spiegami.»
«La squadra di ranger che abbiamo inviato sul posto subito dopo il nostro attacco missilistico non ha trovato il corpo del colonnello Smith, né quelli del professor Chambord e di sua figlia.»
«Probabilmente, è troppo presto. In ogni caso, potrebbero essere carbonizzati o disintegrati.»
«Alcuni corpi, in effetti, erano in queste condizioni, ma non appena l'agente Russell ha fatto rapporto, abbiamo mandato sul posto i nostri esperti, a cui si sono aggiunti altri addetti dell'esercito e della polizia algerina.
Per il momento, dalle rilevazioni del DNA non sono emerse tracce dei nostri tre. E poi, non abbiamo trovato membra femminili. Se la figlia di Chambord è sopravvissuta, dove si trova? Dov'è suo padre? Dov'è il colonnello Smith? Se Jon fosse vivo, si sarebbe messo in contatto con me. Se il professor Chambord e sua figlia fossero sopravvissuti, a quest'ora lo sapremmo di certo.»
«A meno che non siano tenuti prigionieri. È a questo che vuoi arrivare, vero?» Il presidente non riuscì a rimanere seduto. Si alzò e, irrigidito dalla tensione, cominciò a passeggiare sui tappeti navajo. «È possibile che qualcuno dei terroristi sia riuscito a fuggire portando con sé i tre ostaggi?»
«È proprio questo che mi preoccupa. Altrimenti...»
«Altrimenti saresti qui a festeggiare lo scampato pericolo per Smith e gli Chambord. Sì, capisco, ma il ragionamento è puramente indiziario. Pura speculazione.»
«Gli indizi e le speculazioni sono il mio mestiere, signore.
I servizi di intelligence non si occupano d'altro, ammesso che facciano il loro lavoro come si deve. Il nostro compito è di individuare i pericoli prima che si concretizzino.
Può darsi che mi sbagli; forse, i loro corpi verranno ritrovati.» Congiunse le mani e si sporse in avanti.
«Il fatto che di nessuno dei tre sia stata trovata la minima traccia, però, non può essere ignorato, Sam.»
«Che cosa hai intenzione di fare?»
«Continueremo a setacciare le macerie e a fare altre analisi, ma...»
Il telefono si mise a squillare, e il presidente alzò in fretta il ricevitore. «Pronto?» Fece una smorfia e increspò la fronte. Ordinò: «Vieni subito nel mio ufficio privato, Chuck. Sì, subito». Riagganciò e chiuse per un attimo gli occhi, come per cercare di rimuovere quella telefonata.
Klein rimase in attesa, sempre più a disagio.
Castilla, con una voce affranta, disse: «Qualcuno ha manomesso i processori dei computer installati a bordo dei nostri satelliti militari e commerciali. Tutti i satelliti.
Non siamo più in grado di fare rilevazioni. Non abbiamo più neanche un dato a disposizione. È un crollo catastrofico.
E la cosa peggiore è che nessuno dei nostri è in grado di rimetterli in funzione».
«Non abbiamo più immagini dallo spazio?»
Klein soffocò una imprecazione. «Sembrerebbe opera del computer a DNA, maledizione, ma com'è possibile?
Questa era l'unica cosa di cui l'agente Russell era certa.
Il missile ha colpito la villa, e il computer si trovava al suo interno. Smith le aveva detto che lui e gli Chambord stavano fuggendo; è stato lui a invocare il lancio del missile.
Anche ammesso che Smith e Chambord non l'avessero già distrutto, sarebbe dovuto saltare in aria con l'edificio.»
«Sono d'accordo. È la conclusione più logica. Ora ti chiederei di spostarti nella stanza qui accanto, Fred.
Chuck sarà qui a momenti.»
Non appena Klein si allontanò, Charles Ouray, capo dello staff presidenziale, entrò in tutta fretta nell'ufficio.
«Ci stanno ancora provando, ma secondo la NASA i responsabili dell'attacco ai nostri computer hanno fatto in modo di renderceli inaccessibili. Completamente. Non riusciamo a riprenderne il controllo! E stanno sorgendo problemi dappertutto.»
«Sarà meglio che mi spieghi nel dettaglio.»
«Per un po' è sembrato che i nordcoreani stessero lanciando un attacco nucleare, ma secondo un nostro uomo sul posto quell'impressione era dovuta a una fitta nebbia che interagiva con il calore emanato da un camion posizionato accanto alla rampa missilistica in questione. Abbiamo perso un agente, Jeffrey Moussad, nella zona a sud di Beirut, perché il suo dispositivo di orientamento satellitare 3-D ha smesso di funzionare. Crediamo sia stato ucciso.
E poi abbiamo sfiorato un incidente nel Pacifico, tra una delle nostre portaerei e un sommergibile. Persino Echelon è cieca e sorda.» Echelon era il sistema attraverso cui Stati Uniti e Gran Bretagna intercettavano le comunicazioni gestite dai satelliti e passanti per i cavi telefonici sottomarini intercontinentali.
Il presidente cercò di inspirare a fondo. «Riuniamo lo stato maggiore congiunto. Probabilmente, non se ne sono ancora andati. Se non li trovi, chiama l'ammiraglio Brose e riferiscigli di ordinare agli altri di prepararsi al peggio: un attacco immediato agli Stati Uniti.
Qualsiasi tipo di aggressione: dalla guerra batteriologica a un missile nucleare. Proteggiamo tutti i sistemi di difesa disponibili e anche quelli che, ufficialmente, non abbiamo.»
«Allude al sistema sperimentale antimissile, signore? I nostri alleati non...»
«Parlerò con loro. Dobbiamo informarli, così potranno avvertire le popolazioni. In ogni caso, forniamo loro già moltissimi dati, con i nostri satelliti. Cristo, molti li affittano a tempo, addirittura. I loro sistemi staranno sicuramente segnalando una perdita, in alcuni casi molto significativa.
Se non li informo dell'accaduto, saranno loro a chiamarmi. Attribuirò tutto all'opera di un qualche hacker capellone, il migliore mai visto in circolazione. Per un po' ci crederanno. Nel frattempo, cripteremo tutto. Se non altro, il sistema sperimentale segreto dovrebbe essere totalmente sicuro, perché nessuno sa che ne siamo in possesso, e dovrebbe permetterci di far fronte praticamente a tutto, a parte un massiccio attacco missilistico, che non è alla portata di un gruppo terroristico. Solo gli inglesi e i russi potrebbero farlo, e loro, questa volta, sono dalla nostra parte, grazie a Dio. Per qualsiasi altro genere di attacco, dovremo fare affidamento sulle nostre forze armate convenzionali, sull'FBI e sulla polizia di ogni angolo del Paese. Ah, Chuck, mi raccomando: niente soffiate alla stampa. Neanche i nostri alleati vorrebbero che la cosa trapelasse. Nessuno di noi ci farebbe una bella figura. E ora va', Chuck.»
Ouray uscì dalla sala, e il presidente aprì la porta di servizio.
Quando Klein rientrò nell'ufficio, aveva un'espressione tetra e preoccupata.
«Hai sentito?» gli domandò il presidente.
«Sì.»
«Ora trovami quel diabolico aggeggio, Fred, e questa volta facciamola finita!»
Capitolo 29.
Parigi, Francia.
Quando Marty si riaddormentò nella stanza della clinica, Peter sgattaiolò fuori per mettersi in contatto con l'ufficio locale dell'MI-6. Randi aspettò altri dieci minuti e poi uscì a sua volta. Il suo tragitto, però, fu assai più breve, dato che la meta era la cabina telefonica che aveva individuato nell'atrio principale. Si aggirò in cima alle scale antincendio, in attesa del passaggio di alcuni dipendenti, al servizio di ricchi pazienti che sarebbero ben presto ricomparsi con una nuova faccia o un nuovo corpo, o entrambe le cose. Non appena l'atrio fu sgombro, Randi vi si avventurò con circospezione. In alcuni vasi di vetro intagliati, facevano bella mostra di sé lillà, peonie e giunchiglie primaverili. L'atrio era profumato come il negozio di un fiorista, solo che la clinica faceva molti più soldi.
Chiusa nella cabina di vetro, compose il numero del capo della CIA, Doug Kennedy, approfittando di un sicurissimo cavo a fibre ottiche sottomarino.
La voce di Doug era cupa. «Ci sono brutte notizie. Anzi, pessime. I satelliti per la sorveglianza e le comunicazioni sono ancora fuori uso. Peggio ancora, abbiamo perso il contatto con tutti i satelliti in orbita, sia militari che commerciali.
La NASA e il Pentagono stanno lavorando come matti, con tutti gli strumenti a disposizione, e cercano di procurarsi di volta in volta ciò di cui hanno bisogno. Per il momento siamo kaputt, fregati, spacciati. Senza quei satelliti siamo ciechi, sordi e muti.»
«Ho afferrato il concetto. A che cosa credi che stia lavorando?
Ti ho detto che il prototipo è stato distrutto.
L'unica spiegazione possibile è che Chambord sia sopravvissuto, anche se non sono ancora riuscita a capire come abbia fatto. E non capisco neppure come abbia potuto costruire un nuovo computer così alla svelta.»
«Ci è riuscito perché è un genio.»
«Anche i geni hanno due braccia e dieci dita, hanno bisogno di tempo e di materiale e di un luogo in cui lavorare.
Un posto fisso. E questo mi riporta al motivo per cui ho chiamato la tua augusta persona.»
«Risparmiati il sarcasmo, Russell, se non vuoi avere guai. Che cosa ti serve?»
«Mettiti in contatto con tutti i nostri agenti sul terreno nel raggio di trecento chilometri dalla villa e fatti dire se hanno notato, sentito o anche solo sospettato qualche traffico insolito sulle vie e nei porti, per quanto piccoli, situati lungo la costa, nelle dodici ore successive all'esplosione del missile. E fai la stessa cosa con tutti i mezzi che abbiamo a disposizione, per mare e per aria, su tutta la zona del Mediterraneo all'interno dello stesso fuso orario.»
«Tutto qui?»
Randi ignorò l'acida ironia. «Per il momento, sì. In questo modo, potremo scoprire se Chambord è davvero sopravvissuto.» Fece una pausa. «O se abbiamo a che fare con qualche fattore attualmente ignoto, che è la cosa che più mi spaventa. Se Chambord è vivo, dobbiamo scoprire dov'è.»
«Mi hai convinto.»
«Allora, organizzi tutto per ieri, okay?»
«Se non prima. E tu? Che farai?»
«Ho alcune tracce da seguire, cose informali, mi spiego?»
Era pura spacconeria. Le uniche piste potevano venirle dai contatti privati di Peter - sempre sofisticatissimi, ramificati ed eccentrici - e dal cervello di Marty al culmine della sua trance.
«Come tutti. Buona fortuna, Russell.» Doug Kennedy interruppe la comunicazione.
In volo nei cieli d'Europa Jon Smith, imbavagliato e bendato, si trovava sul sedile posteriore di un elicottero con le mani legate dietro la schiena. Era in ansia, preoccupato, sofferente per le ferite, ma continuava a incamerare quante più informazioni era possibile e a torcere i polsi stretti dalle corde.
Aveva l'impressione che, poco a poco, i nodi si stessero allentando.
E da questo traeva speranza, ma Abu Auda e i suoi uomini avrebbero facilmente scoperto quel suo tentativo non appena fossero arrivati a destinazione, sempre che non fosse riuscito a liberarsi prima.
Era a bordo di un grosso elicottero. Sentiva le vibrazioni dei due potenti motori. Dalle dimensioni, dalla disposizione del portello attraverso il quale era stato fatto salire e dalla sistemazione dell'abitacolo, aveva dedotto, mentre lo sospingevano verso l'ultima fila dei sedili, di trovarsi su un Sikorsky S-70, altrimenti noto come Seahawk in marina, Black Hawk nell'esercito, Pave Hawk nell'aeronautica e Jayhawk tra gli uomini della guardia costiera.
Gli S-70 erano velivoli per il trasporto truppe e per il supporto logistico, ma svolgevano spesso missioni di evacuazione d'emergenza e funzioni di guida e controllo.
Gli era capitato molte volte di salire su elicotteri di quel tipo durante gli incarichi sul campo e ai tempi in cui svolgeva mansioni di comando - mezzi dell'esercito e dell'aeronautica, soprattutto, ma in un paio di casi anche della marina - e quindi lo conosceva nei dettagli.
A un certo punto, aveva sentito Abu Auda che parlava con uno dei suoi uomini. Dalla conversazione aveva scoperto di trovarsi sì su un Sikorsky, ma nella versione S-70A, ossia il modello da esportazione del Black Hawk multifunzione. Forse era un'eredità di Desert Storm o era stato acquistato grazie a qualche terrorista che, nella sua vita alla luce del sole, lavorava nel settore acquisizioni dell'esercito di qualche Paese islamico. In ogni caso, era probabile che quell'elicottero fosse dotato di armi da combattimento, e ciò aveva messo Jon, se possibile, ancora più a disagio. Poco dopo, Abu Auda si era spostato più in là, e non era più riuscito a captare i suoi discorsi.
A quel punto, per altre tre ore, nonostante il frastuono dei motori, si era sforzato di cogliere qualunque voce nel tentativo di acquisire ulteriori informazioni, ma non aveva appreso nulla di utile. L'elicottero doveva essere al limite della sua autonomia. Presto, sarebbe stato costretto ad atterrare. Lasciando la villa, in Algeria, Mauritania aveva deciso che Jon sarebbe potuto tornare utile in futuro e forse ne era ancora convinto, perché altrimenti sarebbe già stato eliminato. Prima o poi, lo avrebbero certamente ucciso, perché Abu Auda si sarebbe stancato di trascinarselo dietro. I testimoni ostili sono pessimi come compagni a lungo termine.
Mentre il Sikorsky proseguiva il suo volo, Jon smise per un po' di lavorare sulle funi, per riposarsi. La ferita al braccio gli doleva e gli bruciava. Era superficiale - più un fastidio che un vero pericolo - ma andava medicata, prima che potesse fare infezione. D'altra parte, l'obiettivo primario era quello della semplice sopravvivenza. E questo gli riportò alla mente Randi. La conosceva troppo bene, ed era preoccupato. Era riuscita ad allontanarsi prima dell'arrivo del missile? Di certo, aveva aspettato il più possibile l'arrivo suo e degli Chambord. Poi, non vedendoli comparire, doveva aver avuto l'istinto di provare a salvarli.
Jon sperava con tutto il cuore che l'avesse scampata.
Magari, pur rendendosi conto di doversi infine allontanare, non ne aveva avuto il tempo. La salivazione di Jon si azzerò, quando ripensò a come lui e Thérèse fossero stati vicini alla morte...
... Vicino alla finestra della villa buia... guardie armate dappertutto.
.. Jon e Thérèse disarmati...
Emile Chambord dice a Mauritania: «L'americano ha sollecitato un attacco missilistico di qualche tipo. Dobbiamo andarcene.
Di' ai tuoi uomini di sparare, cosicché credano che abbia avuto luogo uno scontro a fuoco. Poi, gridate. Esultate ad alta voce, come se aveste ucciso Smith e mia figlia. Presto!».
Sparano raffiche. Gridano i loro slogan. Fuggono dalla villa, trascinando Jon e Thérèse verso la rimessa dell'elicottero. Non appena raggiungono il capannone, il mondo esplode alle loro spalle.
Vengono scagliati in aria. Scaraventati di nuovo a terra. Assordati da un rombo esplosivo che li investe con l'impeto di un 'onda d'urto, risucchiando loro i vestiti, i capelli, le membra. Rami e fronde di palma volano in aria. Una massiccia porta di legno sfreccia vorticando in alto e si abbatte su un uomo di Abu Auda, uccidendolo.
Quando il suolo smette di tremare, Jon si alza barcollante, ferito alla testa. Sente un dolore acuto all'avambraccio sinistro.
Cerca freneticamente un'arma.
Abu Auda, però, gli punta contro il suo fucile d'assalto di fabbricazione britannica. «Non ci provare, colonnello!»
I sopravvissuti si rialzano in piedi. Stranamente, sono quasi tutti vivi. Thérèse perde sangue dalla gamba destra. Chambord corre verso di lei. «Thérèse! Sei ferita!»
Lei lo respinge. «Non ti riconosco più. Devi essere impazzito!»
Gli volta le spalle e soccorre Jon.
Chambord la osserva, mentre si strappa una manica del vestito bianco. «Lo sto facendo per il futuro della Francia, figlia mia», le spiega lui, serissimo. «Presto capirai. »
«Non c'è niente da capire.» Thérèse benda le ferite di Jon, prima quella al braccio, poi alla gamba. Il sangue sulla fronte di Jon non è che un graffio insignificante.
Interviene Mauritania. «Prima o poi dovrà capire, professore.
» Si guarda intorno con un 'espressione scaltra da predatore.
Da l'impressione di annusare l'aria, come se potesse estrarne delle informazioni. «Potrebbero colpire di nuovo. Dobbiamo allontanarci immediatamente. »
Uno dei terroristi lancia un grido di sconforto. Tutti accorrono intorno allo Huey, i cui rotori sono stati messi fuori uso dai detriti scagliati in aria dall'esplosione. Quell'elicottero è inutilizzabile.
Chambord decide per tutti. «Sull'elicottero da ricognizione ci sono cinque posti. Lei, Monsieur Mauritania, e il suo pilota. Il capitano Bonnard, e poi Thérèse e io.» Mauritania protesta.
Vuole portarsi dietro qualcuno dei suoi. Chambord scuote la testa con fermezza. «Di Bonnard ho bisogno, e mia figlia non la lascio di certo qui. Se devo costruire un altro prototipo, devo avere un posto dove sia possibile lavorare. Un nuovo computer a DNA è la nostra priorità assoluta. Mi dispiace che non ci sia posto per nessun altro, ma le cose stanno così. »
Mauritania è costretto ad accettare. Si volta verso il suo torreggiante luogotenente, che ha sentito tutto e lancia furibonde occhiate di disapprovazione. «Resterai a terra per guidare gli altri, Abu Auda. Mettiti in contatto con qualcuno per farti venire a prendere. Io mi porto il nostro pilota saudita, Mohammed. È il migliore. Tu ci raggiungerai presto. »
«E di Smith che ne facciamo? Posso ucciderlo, adesso? È stato lui che...»
«No. Se è stato davvero lui a ordinare il lancio del missile, allora è addirittura più importante di quanto pensassi. Abbi cura di lui, Abu Auda. »
Thérèse Chambord protesta con veemenza, ma la costringono a salire a bordo. Il piccolo elicottero si solleva, sorvola il sito del bombardamento e si dirige verso nord, alla volta dell'Europa.
Abu Auda da ordine di legare le mani a Jon, e il gruppo rimasto a terra si muove a passo sostenuto verso la strada lontana, dove viene raggiunto da due furgoni coperti. Un lungo e scomodo viaggio nell'entroterra desertico spazzato dal vento termina presso un rumoroso molo del porto di Tunisi. Lì, salgono a bordo di una lancia simile a quella su cui Jon si era nascosto il giorno prima. Il gruppo dei terroristi è esausto, ma la loro vigilanza è ancora elevata.
Sulla lancia, Jon viene bendato. Non vede nulla della lunga traversata sul Mediterraneo. Si addormenta, malgrado i continui, violenti urti dell'imbarcazione contro le onde. Non appena la barca tocca terra, però, si sveglia e tende l'orecchio per captare qualcosa. Lo sospingono sempre bendato sul ponte, dove sente diverse voci. Parlano italiano, e, perciò, conclude di essere in Italia.
Salgono a bordo del Sikorsky e volano verso una località innominata che poteva trovarsi in un punto qualsiasi tra la Serbia e la Francia...
Jon era a bordo dell'elicottero e, mentre attendeva bendato la fine del carburante o l'atterraggio, continuava a porsi le solite tormentose domande: Randi era viva?
Dov'erano Peter e Marty? Da quel che aveva detto Thérèse, quando Jon si era introdotto nella villa, lei e il padre erano gli unici prigionieri. Jon sperava che i suoi amici non fossero stati catturati, che Peter avesse in qualche modo salvato Marty e che fossero tutti al sicuro. L'unica consolazione derivava dal fatto che il computer molecolare era stato distrutto dal missile.
Ora doveva fermare Émile Chambord prima che potesse costruirne un altro. Era stato uno shock scoprire che il professore era sin dall'inizio in combutta con i terroristi, forse addirittura l'ideatore di un'elaborata - e riuscitissima - trama allo scopo di raggirare non solo i governi dei vari Paesi, ma anche sua figlia. Nel delirio prodotto dal grande risultato scientifico ottenuto, meditava di costruire un altro computer molecolare per distruggere Israele. Perché? Forse, perché sua madre era algerina o perché si considerava un musulmano. A Jon tornarono in mente le parole di Fred Klein: «È stato cresciuto dalla madre come un musulmano, ma da adulto ha sempre mostrato ben poco interesse per la religione». Non c'era ragione di attribuire importanza a questo aspetto: Chambord non aveva mai mostrato inclinazioni religiose.
Approfondendo tra sé la questione, Jon si ricordò che Chambord aveva insegnato all'università del Cairo appena prima di tornare al Pasteur, e che la moglie del professore era morta da poco. Un riavvicinamento all'Islam, unito alla perdita dell'amata sposa, compagna di tanti anni. La conversione in tarda età non era certo un fatto insolito. La fede dimenticata reclamava, a volte, i suoi diritti, soprattutto nel caso di persone anziane alle prese con tragedie personali.
Inoltre, c'era il capitano Darius Bonnard, che aveva una storia per certi versi simile, essendo stato sposato a un'algerina ai tempi in cui faceva parte della Legione straniera.
I permessi li trascorreva immancabilmente ad Algeri, forse con la prima moglie da cui non aveva mai divorziato. Conduceva una doppia vita? Pareva ormai assai probabile, tanto più se si considerava il suo lavoro, a un passo dai più alti ufficiali della NATO e dell'esercito francese. Era uno degli invisibili: il tranquillo ed efficiente aiutante di un generale.
Benché avesse, come pochi, accesso a informazioni importantissime, raramente si faceva notare, a differenza del generale di cui era assistente.
Le biografie di Chambord e di Bonnard assumevano un significato completamente diverso alla luce della sconvolgente rivelazione di Chambord. «Non sono in combutta con loro, colonnello Smith. Sono loro a essere al mio servizio.»
Il prototipo costruito dallo scienziato era andato distrutto, ma non il suo sapere. Se nessuno l'avesse fermato, avrebbe costruito un altro computer. Gli sarebbe occorso del tempo, però. E Smith si aggrappò a quel brandello di speranza. Il tempo necessario per trovare e fermare Chambord. Prima, però, doveva fuggire. Riprese a muovere i polsi nel tentativo di allentare le corde che li tenevano bloccati dietro la schiena.
Parigi, Francia Marty era sveglio e felice di essersi finalmente liberato della vestaglia da ospedale. Era vestito, infatti, con gli abiti che Peter gli aveva portato dopo essersi messo in contatto con l'MI-6. Indossava un paio di informi pantaloni di velluto a coste marrone scuro, un dolcevita nero di cachemire, nonostante il caldo nella stanza della clinica, scarpe da ginnastica e la sua immancabile giacca a vento marroncino. Si diede un'occhiata e si dichiarò adeguatamente abbigliato per qualsiasi circostanza, a parte una cena ufficiale con il primo ministro. Anche Randi era rientrata nella camera, e i tre amici si arrovellarono sulla questione che più premeva loro: come e dove trovare Jon. Senza dirlo esplicitamente, avevano deciso che Jon era vivo. Con gli occhi scintillanti, Marty si offrì di smettere di prendere i suoi farmaci e di dedicarsi interamente alla soluzione del problema.
Randi concordò. «Buona idea.»
«Sei sicuro di essere pronto?» gli domandò Peter.
«Non dire scemenze, Peter.» Marty sembrava offeso. «I mastodonti hanno o no le zanne? Un'equazione algebrica richiede o no un segno di eguaglianza?»
«Credo di sì», rispose Peter.
Il telefono della stanza si mise a squillare. Randi afferrò la cornetta. Doug Kennedy, il suo capo, da Langley, sulla linea telefonica di superficie criptata e sicura. Non fu incoraggiante. Lei ascoltò, gli fece alcune acute domande e, dopo aver riagganciato, riferì agli amici ciò che aveva appreso: gli uomini dislocati sul terreno in Algeria dicevano di aver notato ben poche attività insolite, persino tra i contrabbandieri, a parte il fatto che da Tunisi, cinque ore dopo l'attacco missilistico, la velocissima lancia di un noto contrabbandiere era partita per una destinazione imprecisata con circa una dozzina di uomini a bordo. Uno degli uomini, però, pare fosse europeo o americano. Non erano state avvistate donne, nel gruppo, e questo faceva pensare che l'occidentale non fosse Émile Chambord, il quale sicuramente viaggiava con la figlia.
Non si sarebbe mai separato da lei, almeno non volontariamente, secondo Randi e Marty. Peter, però, non ne era così sicuro.
Marty lo guardò storto. «È ridicolo! Quelli come Émile non abbandonano i bambini.»
«Thérèse va per i quaranta», osservò Peter senza particolare enfasi. «Non è una bambina.»
«Émile la considera tale», ribatté Marty.
Al momento pochi aerei e navi statunitensi si trovavano nel Mediterraneo orientale, dato che il Saratoga aveva abbandonato la sua posizione subito dopo aver lanciato il missile. Aveva spento tutti i radar aerei per evitare di essere rintracciato, e anche le luci, procedendo verso nord in modo da frapporre tra sé e la costa algerina tutto lo spazio possibile, prima che i Paesi arabi facessero sentire la propria protesta.
«L'occidentale a bordo di quella lancia da contrabbandieri potrebbe essere Jon», concluse Randi. «È lo stesso genere di imbarcazione utilizzato dagli uomini dello Scudo della Mezzaluna durante il trasferimento in Algeria via mare. D'altra parte, può darsi che fra i terroristi ci sia anche qualche americano.»
«Era sicuramente Jon!» esclamò Marty. «Non ci sono dubbi.»
«Aspettiamo di sapere quel che hanno da dirmi quelli dell'MI-6, d'accordo?» disse Peter.
Marty era in piedi davanti alla finestra e osservava la via sottostante. La sua mente era in corsa contro il tempo, librata oltre la stratosfera della sua immaginazione alla ricerca di una soluzione al loro problema. Chiuse gli occhi e sospirò felice, mentre punti luminosi di una varietà di colori vivaci cominciarono a lampeggiare; gli pareva di essere più leggero dell'aria. Vide alcune forme e udì dei suoni in un caleidoscopio di euforia. Il suo Io liberato si levava verso le magiche altezze a cui la creatività e l'intelligenza si incontravano, dove idee lontanissime dalla comprensione dei comuni mortali attendevano di essere portate alla luce come stelle bambine.
Quando squillò il telefono, Marty sobbalzò e si rabbuiò.
Peter si avvicinò all'apparecchio. «Tocca a me.»
Aveva ragione. Le informazioni gli furono riferite con un marcato accento londinese: un sommergibile britannico, che aveva proceduto a grande profondità, era riemerso a meno di venti chilometri dalla villa algerina pochi minuti dopo l'esplosione. Anzi, era stata proprio l'onda d'urto del missile, trasmessa attraverso l'acqua e rilevata dal sonar del sommergibile, a indurre all'emersione. Con il radar fisso in direzione dell'edificio, aveva identificato un piccolo elicottero Hughes da ricognizione che si allontanava dai dintorni un quarto d'ora circa dopo l'esplosione.
Cinque minuti più tardi, il sommergibile si era nuovamente immerso, temendo di poter essere scoperto.
Nel frattempo, sulla terraferma, un informatore dell'MI-6 che si trovava a passare da quelle parti aveva scorto due furgoni coperti che abbandonavano la zona diretti verso Tunisi. L'informatore aveva riferito la notizia al suo referente nella speranza di un compenso profumato che, in effetti, aveva ricevuto. Nel campo dello spionaggio, non conviene tirare sul prezzo. Infine, il capitano di un jet della British Airways in volo da Gibilterra a Roma aveva visto un piccolo elicottero dello stesso modello dirigersi da Orano verso la costa spagnola, in una zona in cui il capitano non aveva mai visto elicotteri. Per questo aveva ritenuto di parlarne nel suo diario di bordo. Un rapido controllo effettuato dall'MI-6 svelò che quella notte nessun velivolo aveva informato della propria intenzione di alzarsi in volo da Orano o dalla zona circostante.
«È vivo!» sbottò Marty. «Adesso davvero non ci sono più dubbi.»
«Ammettiamo che tu abbia ragione», disse Peter. «Resta il problema di metterci in contatto con lui e di scegliere la tattica da adottare. Ci concentriamo sull'elicottero in volo verso la Spagna o sulla lancia del contrabbandiere partita da Tunisi con un presunto americano a bordo?»
«Su entrambi», decise Randi. «Ci conviene occupare tutto il campo.»
Marty, intanto, si era di nuovo ritirato beatamente nei fertili territori del suo pensiero. Sentiva un'idea prendere forma nella sua mente. Era una sensazione quasi tattile, come se avesse potuto sfiorarla con le dita, quell'idea, o gustarla sulla punta della lingua. Spalancò gli occhi e prese a camminare per la stanza, sfregandosi le mani per l'eccitazione. Si fermò all'improvviso e inscenò una piccola danza con quel suo corpo grassottello, agile come quello di un demone. «La risposta l'abbiamo sempre avuta sotto gli occhi. Un giorno o l'altro dovrò approfondire i miei studi sulla natura della coscienza. È un argomento affascinante. Sono sicuro di poter scoprire alcune cosette che...»
«Marty!» esclamò Randi, esasperata. «Qual è la tua idea?»
Marty era raggiante. «Siamo stati degli scemi. Faremo come abbiamo già fatto in altri casi: pubblicheremo un messaggio sul sito web dell'associazione dei malati di sindrome di Asperger, l'OASIS. Dopo tutti quei guai avuti con la storia di Hades, è impossibile che Jon si sia dimenticato di come ci tenevamo in contatto allora. È impossibile che non se ne ricordi. Dobbiamo solo inventare un messaggio che risulti incomprensibile a tutti, tranne che a Jon.» La sua faccia paffuta si contrasse in una smorfia pensierosa.
Peter e Randi aspettarono. Non ci volle molto.
Marty scoppiò a ridere divertito. «Ho trovato! "Lazzaro tossicchiante, Lupa affamata di sesso cerca partner adeguato.
Preferibilmente con casa propria. Ansiosa di incontrarti, pronta a partire. Che cosa vuoi fare?".» Osservò la reazione degli amici con occhi curiosi.
Randi scosse la testa. «Non capisco che cosa significhi.»
«Anch'io brancolo nel buio», ammise Peter, evitando lo sguardo di Marty.
Marty si sfregò le mani soddisfatto. «Se non capite voi, non lo capirà nessuno.»
«Okay», disse Randi, «però sarà meglio che tu ci dica ugualmente qual è il messaggio nascosto.»
Peter disse: «Aspetta un attimo: inizio a intuire qualcosa.
"Lazzaro tossicchiante" dev'essere "Smith", perché esistono delle gocce per la tosse Smith, mentre "Lazzaro", naturalmente, è di nuovo Jon, perché noi speriamo sia resuscitato.»
Randi ridacchiò. «Quindi, "lupa affamata di sesso" allude a un "randy howl", ululato lascivo, ossia a "Randi" e "Howell". "Cerca partner adeguato" è facile. Un partner è anche un amico, e noi stiamo cercando il nostro amico Jon. "Preferibilmente con casa propria" significa che gli stiamo chiedendo dove si trova. "Ansiosa di incontrarti, pronta a partire" è ovvio. Lo vogliamo incontrare e andremo ovunque sarà necessario. Però non capisco bene l'ultimo pezzo, quel "che cosa vuoi fare?".»
Marty inarcò le sopracciglia. «È la parte più facile», dichiarò. «Vi ho beccati in castagna. C'è una famosa battuta di un film che tutti conoscono: "Che cosa vuoi fare stasera...?".»
«Ah, sì», fece Peter, riconoscendola. «Dal film Marty.
"Che cosa vuoi fare stasera, Marty?" Quindi, si fa riferimento a te.»
Marty si strofinò le mani. «Adesso sì che si comincia a ragionare. Dunque, tradotto, il messaggio è semplice: "Jon Smith: Randi e Peter ti stanno cercando. Dove ti trovi? Ti raggiungeranno ovunque tu sia". Ed è firmato da me. Domande?»
«Non mi permetterei mai.» Peter scosse la testa.
Corsero al piano di sotto nell'ufficio dell'amico di Peter, quel Lochiel Cameron che era proprietario nonché primario di chirurgia della clinica in cui si trovavano.
Dopo averli ascoltati, il dottor Cameron cedette a Marty il suo posto alla scrivania, su un angolo della quale era sistemato un computer. Le dita di Marty corsero rapidissime sulla tastiera e, quando sullo schermo comparve il sito www.aspergersyndrome.org, fu sufficiente digitare il messaggio concordato. Quindi, si alzò in piedi di scatto e si piazzò dietro la sedia, tenendo lo sguardo fisso sullo schermo.
Il dottor Cameron diede un'occhiata a Peter, come a domandargli se non fosse necessario somministrare a Marty un'altra dose di Mideral. Peter scosse la testa, continuando però a osservare attentamente l'amico, in cerca dei segni di un incipiente e pericoloso processo di allontanamento dalla realtà. Dopo un po', Marty prese a camminare avanti e indietro per la stanza in modo sempre più rapido e frenetico, ad agitare le braccia convulsamente e a borbottare tra sé a voce sempre più alta, finché le sue parole non cominciarono a perdere di significato.
Alla fine, Peter fece un cenno a Cameron con il capo e disse a Marty: «Okay, amico. Parliamoci chiaro. Te la sei cavata bene, ma adesso è giunto il momento di calmare i nervi».
«Cosa?» Marty si girò di scatto e lo fissò con gli occhi socchiusi.
«Peter ha ragione», concordò Randi. «Il dottore ha la tua pillola. Prendila, Marty. Così sarai in forma, se le cose dovessero mettersi male.»
Marty si incupì. Squadrò entrambi da capo a piedi, indignato.
Allo stesso tempo, però, la sua mente pronta prese atto della loro preoccupazione. Non era per nulla contento, ma sapeva che il farmaco gli avrebbe fatto guadagnare tempo, permettendogli di spiccare di nuovo il volo.
«E va bene, allora», disse scontroso. «Datemi quella schifosa pillola.»
Un'ora dopo Marty era di nuovo seduto al computer.
Peter e Randi erano accanto a lui. Jon non aveva ancora risposto.
Capitolo 30.
Aalst, Belgio.
Nei dintorni di Aalst, antico borgo mercantile del Brabante, sorgeva la residenza di campagna di un ramo della famiglia La Porte. Nonostante la cittadina si fosse trasformata in un vivace sobborgo di Bruxelles, la residenza dei La Porte aveva mantenuto il suo originario splendore, la sua aura di antichità. L'edificio veniva chiamato Hethuis, ossia casa-castello, con riferimento all'origine medievale sua e della famiglia stessa. Quel giorno il suo cortile cinto da mura era pieno di berline con autisti e limousine di capi militari della NATO, nonché di membri del Consiglio delle Nazioni Unite, che si sarebbe riunito quella settimana a Bruxelles.
Nell'edificio principale, il generale Roland La Porte faceva gli onori di casa. Al pari della sua nobile residenza, La Porte appariva grande e maestoso davanti al sontuoso camino della splendida sala principale. Tutt'intorno alle pareti rivestite di scuri pannelli di legno pendevano armi antiche, stemmi araldici e tele di grandi pittori olandesi e fiamminghi, da Jan van Eyck a Peter Brueghel.
Il capo della Commissione Europea, Enzo Piccone, appena giunto da Roma, stava commentando in inglese: «I problemi che gli americani stanno avendo con i loro satelliti sono spaventosi e devono indurre molti di noi a riconsiderare le proprie opinioni, generale La Porte. Forse è vero che siamo diventati troppo dipendenti dagli Stati Uniti e dal loro esercito. La NATO, in fin dei conti, non è un organismo separato dagli Stati Uniti».
«Tuttavia, il nostro rapporto con gli Stati Uniti si è rivelato estremamente utile», rispose La Porte in francese, benché sapesse che Piccone non parlava questa lingua. Si fermò, per dar tempo all'interprete di tradurre. «Non eravamo pronti ad assumerci la responsabilità del nostro destino. Ora, però, abbiamo acquisito l'indispensabile esperienza grazie alle operazioni militari della NATO.
Non si tratta semplicemente di sfidare gli americani, ma soprattutto di prendere coscienza del nostro potere e della nostra crescente importanza. Un passo avanti che gli americani, naturalmente, ci hanno più volte spronati a compiere.»
«La forza militare si traduce anche in un vantaggio economico nella competizione internazionale sui mercati», sottolineò il commissario Hans Brecht, che parlava francese, ma preferì interloquire in inglese, in segno di rispetto nei confronti di Piccone. Brecht era di Vienna. «Come ha sottolineato, generale, siamo in competizione con gli americani sui mercati mondiali. È un peccato doversi sempre fare da parte e cedere il passo a causa delle nostre preoccupazioni strategiche a livello politico e militare.»
«La sua opinione è molto incoraggiante», rispose La Porte. «A volte ho la spiacevole sensazione che noi europei abbiamo ormai perduto la grandezza che ci ha portati un tempo alla conquista del mondo. Non dovremmo mai dimenticare che siamo stati noi a creare non solo gli Stati Uniti, bensì tutti i Paesi dell'emisfero occidentale. Purtroppo, tutti questi Paesi sono attualmente rinchiusi nell'area geografica soggetta al dominio americano.» Sospirò e scosse la grossa testa. «Signori, ho paura che finiremo anche noi per diventare una mera proprietà degli Stati Uniti. Stati vassalli. E la Gran Bretagna lo è già diventata, a mio modo di vedere. Chi sarà il prossimo? Tutti noi insieme?»
I presenti avevano ascoltato con attenzione. Oltre ai commissari italiano e austriaco, c'erano i rappresentanti del Belgio e della Danimarca presso il Consiglio delle Nazioni Unite, oltre ai capi militari della NATO che si erano incontrati poche sere prima a bordo della Charles De Gaulle: il generale spagnolo Valentin González, con i suoi occhi furtivi e la bizzarra inclinazione del suo berretto militare; il generale italiano Ruggiero Vinzaghi, dallo sguardo di pietra e la bocca severa; e il generale tedesco Otto Bittrich, ossuto e pensieroso. Mancava, ovviamente, il generale britannico, Sir Arnold Moore, la cui prematura scomparsa li aveva sinceramente scossi. I militari di carriera trovavano oltraggiosa la morte accidentale: se un soldato non aveva la fortuna di morire in battaglia, che morisse almeno nel suo letto tra le medaglie e i ricordi.
Quando il generale La Porte ebbe finito, tutti reagirono con vigore, chi approvando chi obiettando.
Il generale Bittrich era seduto in disparte, il viso scarno assorto come sempre nei pensieri, ma il suo silenzio aveva una particolare intensità. Fissava con insistenza La Porte, e aveva scelto un posto decentrato proprio per poterlo osservare meglio. Sotto i suoi capelli folti e quasi completamente bianchi, la sua faccia scabra era così concentrata da farlo sembrare uno scienziato intento a rimirare al microscopio un esemplare di insetto prima della dissezione.
La Porte, però, non se ne avvide. Prestava attenzione a coloro che prendevano la parola, sempre più convinti della prospettiva implicita nelle sue parole: gli Stati Uniti d'Europa o più semplicemente l'Europa Unita, come amava autodefinirsi l'Unione Europea. Ribadì la sua posizione: «Possiamo andare avanti a discutere all'infinito, ma in fondo sappiamo tutti che l'Europa, dal Baltico al Mediterraneo, dall'Atlantico, fino agli Urali e anche oltre, deve farsi carico del proprio futuro. Dobbiamo avere delle forze armate unificate e indipendenti. Noi siamo l'Europa. Dobbiamo essere l'Europa!».
La gigantesca sala risuonò dell'enfatico appello, ma trovò, a dir la verità, un uditorio cauto e ispirato al pragmatismo.
Il commissario Piccone protese il mento, come se il colletto della sua camicia fosse un po' troppo stretto. «Tra qualche anno potrà contare sul mio voto, generale, ma non ora. L'Unione Europea non è abbastanza ricca e determinata per compiere un passo gigantesco come questo. E poi è pericoloso. Se pensiamo alla fase di instabilità politica che stiamo attraversando la guerra nei Balcani, gli attacchi terroristici ai quattro angoli del mondo, la turbolenza del Medio Oriente, i problemi in Asia centrale -, non possiamo permetterci di correre un rischio così grande.»
Si levò un generale mormorio di approvazione, anche se era evidente il rammarico con cui alcuni membri del consiglio e tutti i generali rinunciavano, almeno temporaneamente, a quel progetto.
Gli occhi chiari di La Porte si infuocarono quando sentì dire che era troppo presto. «Io, invece, dico che non possiamo non permettercelo! Dobbiamo conquistare un nostro spazio militare, economico e politico. E questo è il momento opportuno. Presto sarete chiamati a un voto. È una grave responsabilità, che potrebbe avere conseguenze sulla vita di tutti. Ebbene, sono sicuro che nel momento della verità, quando dovrete pronunciarvi, sarete d'accordo con me. E, per l'Europa, un destino diverso da quello degli ultimi sessant'anni vi apparirà non solo possibile, ma inevitabile.»
Piccone si guardò intorno, per cercare lo sguardo degli altri presenti, e infine scosse la testa. «Credo di poter parlare a nome di tutti se dico che nulla, per il momento, può convincerci a cambiare idea, generale. Mi dispiace, ma la dura verità è che il nostro continente, purtroppo, non è ancora pronto.»
Gli sguardi dei presenti si concentrarono sul generale Bittrich, sempre intento a studiare La Porte. Il tedesco proferì: «Quanto al recente attacco contro i satelliti americani che tanto preoccupa gli onorevoli commissari e il nostro generale La Porte, sono certo che gli americani sapranno resistere e reagire, chiunque sia il responsabile delle aggressioni».
Nella sala si diffuse un altro brusio di approvazione, che il generale La Porte accolse con un sorriso. In tono quanto mai amabile, disse: «Forse, generale Bittrich. Forse».
In quel momento, gli occhi grigi del prussiano si trasformarono in acuminate punte d'acciaio. Uno alla volta i presenti lasciarono la sontuosa sala; solo il generale Bittrich si trattenne.
Quando rimase solo con La Porte, si avvicinò al francese.
«Un tragico evento, la morte del generale Moore.»
La Porte annuì solenne. Con sguardo impassibile scrutava in volto il tedesco. «Mi sento in colpa per la sua scomparsa.
È una grave perdita. Se non fosse venuto alla nostra riunione sulla De Gaulle...» Si strinse nelle spalle, con il tipico atteggiamento francese di rassegnazione al destino.
«Ah, certo. Ja. Ma che cosa aveva detto il generale Moore, poco prima dell'incidente? Sì, ora ricordo. Si domandava se lei, per caso, non fosse al corrente di cose che noi ignoravamo.»
«Sì, anche a me pare che abbia espresso, di sfuggita, un pensiero del genere, e devo avergli risposto che non sapevo proprio nulla.» La Porte sorrise.
«Ovvio.» Anche Bittrich sorrise e, allontanandosi da quella sala con la tavola imbandita di specialità fiamminghe, mormorò: «Forse...».
Massiccio della Chartreuse, Francia.
Lo chalet era moderno, dotato di un tetto dai ripidi spioventi e di esterni per metà in legno e per metà in pietra che si adattavano perfettamente al maestoso scenario delle Alpi incappucciate di neve. Annidato sullo sfondo di pini odorosi, lo chalet sorgeva su un pendio assai pronunciato a margine di vasti campi e prati con vista sulla Grande-Chartreuse, famoso monastero certosino. Da un lato della casa, lo sguardo si perdeva negli spazi che si aprivano a sud ancora punteggiati qua e là da chiazze di neve e di recenti impronte di cervi. Cominciavano a spuntare i primi fili di pallida erba primaverile. Verso nord, il pendio della montagna si inerpicava coperto di una fitta foresta di pini che abbracciava lo chalet.
Tutti questi particolari avevano una certa importanza per Thérèse Chambord, che era rinchiusa in una stanza al piano superiore. Guardò le uniche finestre, ricavate piuttosto in alto nella parete, e spostò sotto di esse la struttura di un vecchio letto. Disperata e furiosa, trascinò verso il letto uno scrittoio vuoto e ve lo caricò sopra. Arretrò di qualche passo, posò le mani sui fianchi e scosse la testa contrariata. Se anche fosse salita in piedi sullo scrittoio sistemato sopra il letto, le finestre sarebbero risultate irraggiungibili. Stava trascinando verso il letto una sedia simile a un trono, quando udì la serratura della porta che si apriva.
Nella stanza entrò suo padre portando un vassoio con del cibo e la fissò allibito mentre lei, in piedi sul letto, si accingeva a sollevare la sedia sopra lo scrittoio. Il professore posò il vassoio su un tavolino e chiuse la porta prima ancora che lei potesse scendere.
Il padre scosse la testa. «Non servirà a niente, Thérèse.
Questa casa si trova in alta montagna, e la tua stanza si affaccia su un pendio molto ripido. Se anche ce la facessi a uscire da quelle finestre, sarebbe come cadere dal secondo piano di una casa. Basterebbe questo ad ammazzarti.
E, comunque, le finestre sono bloccate.»
Thérèse lo squadrò furibonda. «Molto furbo, ma scapperò comunque, e a quel punto andrò alla polizia.»
Il volto rugoso di Chambord era triste. «Speravo che avresti capito, che ti saresti fidata e unita a me in questa crociata, figlia mia. Speravo di avere il tempo di spiegarti tutto, ma poi si è intromesso quel Jon Smith e sono stato costretto a scoprirmi. Credo di essere stato egoista, ma...»
Il professore si strinse nelle spalle. «Se non ti unirai a noi, non potrò farti uscire di qui. Ti ho portato del cibo. Ti conviene mangiare. Presto, ce ne andremo di nuovo.»
Thérèse saltò giù dal letto, inferocita. «Unirmi alla crociata?
E come potrei stare dalla tua parte? Non mi hai ancora detto che diavolo stai facendo. Io vedo soltanto che stai collaborando con dei terroristi criminali che pianificano un massacro sfruttando il tuo computer. Questo è omicidio! Anzi, strage!»
«Il nostro fine è giusto, figlia mia», disse Chambord con calma. «Non collaboro con questi terroristi criminali, come li chiami tu. L'ho già chiarito al tuo amico Smith: sono loro che collaborano con me. Il capitano Bonnard e io abbiamo tutt'altro proposito in mente.»
«E quale sarebbe questo proposito? Dimmelo! Se vuoi che io mi fidi di te, tu devi fidarti di me.»
Chambord si avvicinò alla porta, si voltò e scrutò la figlia con occhi penetranti e acuti, come ai raggi x. «Forse più avanti, quando tutto sarà finito e il mondo sarà cambiato.
A quel punto, vedrai, capirai e sarai orgogliosa.
Ora, però, no. Non sei ancora pronta. Mi sbagliavo.»
Aprì la porta e se ne andò in fretta, richiudendola a chiave. Thérèse imprecò e tornò al suo letto. Si arrampicò sullo scrittoio e, di lì, sulla sedia. La piramide di mobili vacillò, ma lei riuscì a mantenere l'equilibrio appoggiandosi al muro. Smise di respirare, finché la precaria struttura che aveva sotto i piedi non divenne più solida.
Alla fine si fece coraggio e si raddrizzò. Vittoria! Con la testa arrivava alle finestre.
Guardò fuori e poi verso il basso, restando a bocca aperta. Suo padre le aveva detto la verità: il salto era troppo alto e, quand'anche fosse arrivata a terra incolume, il pendio, da lì, pareva ripidissimo. Osservò per qualche istante la vista mozzafiato dei pascoli montani e sospirò. Provò a strattonare il telaio della prima finestra, ma era fissato saldamente con lucchetti e chiavistelli. Magari sarebbe riuscita a rompere i lucchetti, ma se anche avesse aperto una finestra, restava il problema del salto nel vuoto. Da quella parte, la fuga era impossibile.
Osservò con struggimento la bellezza dello scenario idilliaco che si stendeva davanti a lei. In lontananza si intravedeva il monastero della Chartreuse, risalente all'XI secolo, grazioso punto di riferimento in quella landa verde e allettante. Da qualche parte, non lontano, doveva esserci la città di Grenoble. Tutto questo la faceva sentire come un uccello in gabbia, dalle ali tarpate.
Thérèse, però, non era un uccello. Era una donna pratica.
Le sarebbero servite tutte le sue forze per impedire al padre di portare a termine i suoi piani, quali che fossero.
E poi, aveva fame. Con cautela, scese dal letto e balzò a terra, portando il vassoio del cibo verso un'altra vecchia sedia a trono in legno intagliato e dal rivestimento ricamato. Mangiò un piatto di una pesante zuppa contadina, piena di patate, cavoli, coniglio e maiale. Vi intinse spesse fette di pane casereccio, aiutandosi con una caraffa di vino rosso, leggero e gradevole: un Beaujolais, a occhio e croce.
Solo quando ebbe finito, mentre sorseggiava l'ultimo bicchiere, fu assalita da un'improvvisa tristezza. Che cosa stava facendo suo padre? Evidentemente, i terroristi avevano intenzione di attaccare Israele in qualche modo, ricorrendo al computer a DNA. Perché, però, suo padre era coinvolto? La nonna di Thérèse era una musulmana, ma suo padre, Emile Chambord, non era mai stato religioso e, per quel che ne sapeva, non aveva mai neppure visitato l'Algeria, odiava i terroristi e non aveva mai avuto nulla contro gli ebrei o Israele. Lui era uno scienziato. Lo era sempre stato. La sua vita era fatta di ragionamenti puri, di logica e di pensieri chiari e distinti. Nel suo mondo non era mai esistito spazio per i confini sociali, le barriere razziali o le distinzioni etniche o religiose. C'erano solo la verità e i nudi fatti.
Ma allora... Che cos'era successo? E qual era questo grande futuro che intravedeva per la Francia? Stava ancora interrogandosi, quando udì il rombo del motore di un furgone che arrivava. Il capitano Bonnard e quell'individuo sinistro da tutti chiamato Mauritania si erano appunto allontanati su un automezzo del genere e forse stavano ritornando. Thérèse non sapeva dove fossero andati né perché, ma il loro ritorno segnalava che era giunto il momento di parure, come le aveva preannunciato suo padre.
Pochi minuti dopo, sentì nuovamente la chiave che girava nella serratura, e nella stanza in cui la tenevano rinchiusa entrò il capitano Bonnard. Indossava la divisa, l'alta uniforme della Legione straniera francese, con tanto di decorazioni, mostrine e medaglie. Il suo volto squadrato era torvo, il mento proteso con fermezza, lo sguardo limpido e i capelli corti e biondi nascosti sotto il berretto. Aveva in pugno la pistola d'ordinanza.
«Ha mandato me, Mademoiselle, perché non avrò problemi a sparare, diversamente da lui. Mi spiego? Ovviamente, non sparerò per uccidere, ma sono un eccellente tiratore, e lei mi crederà se dico che non le permetterò di scappare. Out?»
«Lei ha l'aria di chi sarebbe ben felice di uccidere una donna, capitano. O anche un bambino, se è per questo.
La Legione è famosa per questo genere di cose, oui?» ribatté lei in tono di scherno.
Bonnard cambiò espressione, ma evitò di rispondere.
Si limitò, invece, a fare un cenno con la pistola, invitandola a precederlo fuori dalla stanza. Scesero le scale e giunsero nel salotto rivestito in legno dello chalet, dove Mauritania era chino su una carta geografica stesa su un grande tavolo posto in un angolo del locale. Il padre di Thérèse era alle spalle di Mauritania e osservava. Aveva una strana espressione in viso, che non riuscì a decifrare, e mostrava una sommessa agitazione che non aveva mai manifestato, neppure quando otteneva grandi risultati nella ricerca.
Mauritania esordì: «Prego, mi mostri dove si trova quest'altro nascondiglio di cui parlava. Così, potremo farci raggiungere là da un certo numero di altri miei uomini».
Bonnard attirò l'attenzione di Thérèse e le indicò una sedia lontana dal punto in cui si trovavano il professor Chambord e Mauritania. «Si sieda», le disse, «e resti ferma.»
Thérèse, perplessa e a disagio, prese posto sulla sedia, mentre Bonnard si avvicinò agli altri due. A un certo punto, suo padre estrasse la stessa pistola che gli aveva visto impugnare nella villa ad Algeri. Con grande sorpresa lo vide compiere un rapido movimento per puntare l'arma contro Mauritania.
La sua espressione e la sua voce erano dure come il granito. «Non le serve questa informazione, Mauritania.
Lo sappiamo noi dov'è. Lei si limiti a precederci. Si va.»
Mauritania non aveva neppure alzato lo sguardo.
«Non possiamo andare, professore. Abu Auda e i miei altri uomini non sono ancora arrivati. Non c'è posto per tutti sul Bell, perciò dovremo aspettare loro per andarcene tutti.»
«Non sarà necessario», disse Chambord. «Non li aspetteremo.»
Mauritania alzò lentamente gli occhi dalla carta geografica, si raddrizzò e si voltò. Quando vide la pistola in mano a Chambord, si irrigidì. Guardò il capitano Bonnard che aveva a sua volta un'arma in pugno e gliela teneva puntata contro.
«Che cosa significa?» Le sopracciglia di Mauritania si sollevarono in modo quasi impercettibile, tradendo solo una lieve sorpresa.
«Lei è un uomo intelligente, Mauritania, non faccia sciocchezze di cui finirebbe per pentirsi.»
«Non mi pento mai di nulla, professore. Posso domandarle che cos'ha intenzione di fare?»
«Intendo rinunciare ai suoi servigi. Lei ci è stato molto utile, e la ringraziamo per l'ottimo lavoro che ha svolto, ma da questo momento lei e i suoi uomini finireste soltanto per complicare la situazione.»
Mauritania diede l'impressione di pensarci su. «Si direbbe che il vostro piano sia cambiato, e ho il sospetto che non sia di nostro gradimento.»
«Voi sareste d'accordo nella prima fase. Anzi, i suoi confratelli di altri gruppi ne sarebbero entusiasti, ma voi, come lei ha spesso sottolineato, siete guerriglieri, non semplici terroristi. Avete degli obiettivi politici concreti, una prospettiva più ristretta. A voler essere realistici, la nostra prospettiva è diversa dalla vostra, perciò dobbiamo sbarazzarci di voi. Dei suoi uomini, per la precisione. Lei, Mauritania, continuerà a lavorare con noi, ma solo come "ospite". Prima o poi ci tornerà utile.»
«Ne dubito.» L'amabile facciata di Mauritania si incrinò.
«Chi guiderà l'elicottero? Il mio pilota non farà nulla, se non sarò io a ordinarglielo.»
«Naturalmente. Ce lo aspettavamo.» Émile Chambord si voltò verso il capitano francese. «Bonnard, porta con te Thérèse.»
Bonnard la afferrò per un braccio, la fece alzare e la sospinse fuori dalla porta. Gli occhi chiari di Mauritania li seguirono. Quando la porta si fu richiusa, il suo sguardo tornò a concentrarsi su Chambord.
Questi annuì. «Sì, il capitano Bonnard è un esperto pilota di elicotteri. Sarà lui a portarci via di qui.»
Mauritania non disse nulla, ma quando dall'esterno giunse il rumore di due spari in rapida successione, trasalì.
Chambord non ebbe la minima reazione. «Dopo di lei, Mauritania.»
Lo condusse fuori dallo chalet, nell'assolata foschia montana, fino a una radura tra i pini dove era parcheggiato lo Hughes, l'elicottero da ricognizione. A terra giaceva il corpo di Mohammed, il pilota saudita. Aveva due fori di proiettile nel petto e i vestiti impregnati di sangue.
In piedi, accanto a lui, si trovava Bonnard, che ora teneva sotto tiro Thérèse. Lei, con un'espressione terrorizzata, si portò una mano davanti alla bocca come se fosse sul punto di vomitare.
Chambord la osservò, nella speranza che dimostrasse di aver capito la serietà delle sue intenzioni. Annuì tra sé compiaciuto e si rivolse a Bonnard. «L'elicottero è stato rifornito e controllato?»
«Mohammed aveva appena finito.»
«Bon. Si parte.» Il professore sorrise con aria sognante.
«Entro domani, avremo cambiato la storia.»
Fu Bonnard il primo a salire, seguito dallo stoico Mauritania e da Thérèse, che aveva una faccia cinerea. Chambord salì a bordo per ultimo. Mentre si allacciavano le cinture, quando i rotori cominciarono a stridere e a vorticare, lo scienziato scrutò il cielo un'ultima volta. Pochi attimi dopo, l'elicottero decollò.
Capitolo 31.
In volo sopra l'Europa.
Le mani erano il fattore decisivo. Fuggire senza avere le mani libere era possibile solo in circostanze eccezionali e disperate. Per vedere aumentare le probabilità di successo, occorreva avere le mani libere. Perciò, quando i terroristi gli avevano legato i polsi dietro la schiena durante il viaggio in furgone verso Tunisi, Jon li aveva posizionati l'uno accanto all'altro, in modo che occupassero più spazio possibile. Nella fretta di abbandonare la villa, i terroristi non si erano curati della posizione dei suoi polsi, e il giochetto di Jon era almeno in parte riuscito.
Da allora aveva continuato a torcere le braccia e le mani, tirando e allargando il nodo. Ciononostante, non era ancora riuscito a crearsi abbastanza spazio. E il tempo era agli sgoccioli.
La benda davanti agli occhi era un ulteriore handicap.
Considerata la situazione, Jon ebbe un tuffo al cuore. Il Sikorsky stava scendendo di quota e procedeva lungo un'ampia curva, come se stesse per atterrare. A Jon restava poco tempo. Con un improvviso attacco alla cieca, avrebbe potuto far perdere l'assetto di volo al Sikorsky, facendolo precipitare. In fondo, l'elicottero era progettato per assorbire urti ad alta velocità e disponeva di sedili appositamente studiati e di serbatoi autosigillanti. Per lui, però, le probabilità di salvarsi erano di poco appena sopra lo zero. E per far precipitare l'elicottero, gli servivano le mani libere.
Se fosse riuscito a liberarsi e se, per attaccare, avesse aspettato gli attimi appena precedenti l'atterraggio, l'elicottero sarebbe stato praticamente già quasi a terra. Se la sarebbe forse cavata senza conseguenze gravi e, nella confusione, sarebbe forse riuscito a fuggire. Era un tentativo disperato, ma non esistevano alternative.
Mentre il Sikorsky proseguiva nella sua discesa, Jon si diede freneticamente da fare con le corde, ma il gioco non aumentava. Improvvisamente, nella parte anteriore dell'elicottero, Abu Auda parlò in arabo in tono irritato.
Altri si unirono a lui, e la discussione si fece concitata. Secondo i calcoli di Jon, i terroristi a bordo dovevano essere più di una dozzina e tutti, in breve, si misero a discutere e a interrogarsi su qualcosa che avevano visto a terra. Allarmati, si consultarono nelle loro molteplici lingue.
Una delle voci, in inglese, domandò: «Che cosa succede?».
Nel frastuono dei rotori, Abu Auda urlò la cattiva notizia in francese, intercalando qua e là una parola inglese, per chi non capiva: «Mauritania e gli altri non ci hanno aspettato allo chalet, come invece avevano assicurato. Non rispondono neanche alla radio. C'è un furgone vuoto accanto allo chalet, ma l'elicottero da ricognizione è sparito.
Ecco, c'è qualcuno disteso a terra nella radura». Tacque.
Jon sentì diffondersi una crescente tensione a bordo di quel velivolo vibrante prossimo all'atterraggio.
«Di chi si tratta?» domandò qualcuno.
«Lo vedo con il binocolo», rispose Abu Auda. «È
Mohammed. Ha il torace insanguinato.» Esitò. «Sembra morto.»
Ci fu un'improvvisa esplosione di voci in arabo, in francese e in tutte le altre lingue. Mentre Abu Auda urlava, cercando di tenerli a bada, Jon continuò ad ascoltare con attenzione. Evidentemente, Abu Auda si aspettava di trovare non solo Mauritania, bensì anche il professor Chambord, il capitano Bonnard e anche la figlia di Chambord. Abu Auda aveva appuntamento con loro allo chalet, dove Chambord avrebbe forse costruito un altro computer a DNA.
Una nuova voce eruppe tra le grida: «Hai visto che cosa succede a fidarsi degli infedeli, fulani?».
«L'avevamo detto a Monsieur Mauritania che non dovevamo collaborare con loro!»
Abu Auda replicò sprezzante con la sua voce poderosa e cupa: «Voi vi siete fidati dei loro soldi, Abdullah, ma il nostro obiettivo è più grande, e per raggiungerlo, occorreva la macchina del francese».
«E adesso che cosa abbiamo ottenuto? Nulla!»
Una voce di uomo più anziano domandò: «Credi sia una trappola, Abu Auda?».
«Non so che cosa stia succedendo. Tenete le armi a portata di mano e preparatevi a saltar giù non appena avremo toccato terra.»
Jon non era riuscito ad allentare a sufficienza le corde che gli legavano i polsi. Quella, però, era l'opportunità per la fuga: molto meglio che rischiare la vita facendo precipitare l'elicottero. Al momento dell'atterraggio, Abu Auda e i suoi avrebbero avuto ben altro a cui pensare.
Visto da davanti, appariva immobile. Solo un fremito dei muscoli delle spalle lasciava intuire l'attività in corso dietro la sua schiena, dove le mani e i polsi non avevano ancora sospeso la loro lotta disperata.
L'elicottero, vibrando, rimase a librarsi nell'aria con leggere oscillazioni. Jon continuava a tendere e tirare i legacci.
La pelle gli bruciava, ma lui non ci badò. L'elicottero iniziò la sua lenta discesa verticale. Improvvisamente, il velivolo subì un violento scossone di lato. Jon perse l'equilibrio e fu scaraventato all'indietro; la spalla urtò contro il sedile. Qualcosa di duro gli punse la schiena. Udì le grida dei primi uomini scesi a terra, subito seguite da altre, finché l'elicottero non ritrovò l'equilibrio e si posò definitivamente al suolo.
Mentre i rotori rallentavano il loro moto, Jon cercò disperatamente la punta che sporgeva dalla struttura dell'elicottero.
Strofinò la schiena contro la parete, finché non sentì nuovamente una trafittura; subito dopo, una piccola perdita di sangue gli segnalò che l'aveva trovata.
Sdraiato su un fianco, a tentoni, cercò la sporgenza con le mani. Ci mise poco a trovarla. Il rivestimento interno della parete si era leggermente staccato e, se sottoposto a pressione in corrispondenza della fessura, lasciava scoperto un pezzo di metallo appuntito che faceva parte del telaio del velivolo. Prendendo coraggio, Jon cominciò a strofinarvi contro le corde che gli stringevano i polsi. Il motore si spense, e nell'abitacolo calò uno strano silenzio.
Jon sentì che la corda cominciava a sfilacciarsi.
Continuò a strofinare contro quella lama improvvisata, finché la corda non cedette. Si era procurato qualche taglio sulle mani, da cui perdeva sangue. Si liberò i polsi e restò lì immobile, in perfetto silenzio, l'orecchio teso fino allo spasimo. Quanti terroristi erano rimasti a bordo? Erano così ansiosi di scendere a terra che la maggior parte di loro era saltata giù prima ancora che l'elicottero avesse toccato il suolo.
Fuori, continuavano a susseguirsi grida e imprecazioni.
«Sparpagliatevi! Cercateli! Cercate dappertutto!» ordinò Abu Auda.
«Qui c'è una cartina della Francia!» annunciò qualcuno.
«L'ho trovata nello chalet.»
Altri annunci concitati, altre violente bestemmie. Il trambusto, fuori, cominciò a spostarsi.
Jon cercò di cogliere eventuali rumori dovuti alla respirazione o anche al più piccolo movimento. Nulla. Inspirò a fondo per calmare i nervi, si tolse la benda e si lasciò scivolare sul fondo del velivolo, tra i sedili. Si guardò intorno e non vide nessuno. Da sdraiato si tolse anche il bavaglio e perlustrò con lo sguardo l'elicottero, in cerca di un fucile di scorta, di una pistola, di un coltello perso da qualcuno. Qualunque cosa. Lo stiletto che si era legato al polpaccio glielo avevano tolto al momento della cattura.
Non trovò nulla. Raggiunse, tenendosi basso, i sedili anteriori, e lì, in un vano portaoggetti accanto al sedile del copilota, vide una pistola dallo strano aspetto. Una lanciarazzi.
La prelevò con prudenza e sbirciò fuori dai finestrini.
Erano atterrati su un campo in pendenza ai margini di una foresta di pini, accanto a una casetta in legno e pietra dal tetto alto e assai spiovente. Lo chalet era alto e stretto, e per questo difficilmente individuabile dal cielo e dai lati. I pini erano fittissimi fino a pochi metri dalla casa e occupavano tutto il resto del pendio fino a una più bassa montagna retrostante. Sullo sfondo, torreggiavano le vette incappucciate di neve. Qualcuno aveva parlato della Francia. Erano dunque sulle Alpi?
Due dei terroristi, le armi in spalla, stavano raccogliendo il corpo esanime del pilota di Mauritania. Altri due perlustravano il prato in pendenza, mentre in alto, su una terrazza al secondo piano, Abu Auda con altri due sauditi più anziani scrutava il cielo in lontananza.
Fu la sterminata foresta, però, ad attirare l'attenzione di Jon. Se fosse riuscito a sgattaiolare giù dall'elicottero e a infilarsi tra i pini, le sue probabilità di fuga si sarebbero triplicate all'istante. Doveva approfittare della momentanea distrazione dei terroristi. Di secondo in secondo, aumentava il rischio che Abu Auda e gli altri rinunciassero alle loro ricerche, tornassero a radunarsi e si ricordassero di lui.
Acquattato sul fondo dell'elicottero, raggiunse il portello spalancato sul lato del copilota, che guardava dalla parte opposta a quella dello chalet. Senza neppure pensare alle ferite, scivolò oltre il bordo dell'abitacolo e, attorcigliandosi a un montante del pattino d'atterraggio, scese a terra come un serpente. Disteso a pancia in giù, osservò la situazione da sotto l'elicottero: i terroristi sembravano sempre furiosamente affaccendati. Compiaciuto, lanciarazzi in pugno, Jon avanzò trascinandosi sui gomiti verso l'erba marrone che delimitava la foresta. I fiori primaverili iniziavano a far capolino tra i fili d'erba. Dalla terra umida di montagna, tutt'intorno a lui, saliva un fresco profumo. Per un attimo provò un senso di vertigine, si sentì ebbro di libertà. Ciononostante, non osò fermarsi.
Continuando rapidamente ad avanzare rasoterra, raggiunse la fila più esterna degli alberi e si intrufolò, sospirando di sollievo, nella penombra della foresta, fitta di abeti e silenziosa. Era a corto di fiato e aveva il viso imperlato di sudore. Raramente, però, si era sentito tanto bene. Si acquattò dietro un tronco e studiò la posizione dei terroristi sparsi per la radura intorno allo chalet. Ancora non si erano accorti della sua fuga. Sorridendo freddamente tra sé, balzò in piedi e corse via.
La prima volta che udì quel rumore si nascose dietro un albero, accucciandosi. Il cuore gli batteva all'impazzata, mentre scrutava tra le intricate ombre degli alberi.
Quando da dietro un pino vide sbucare una testa, il suo cuore prese a pompare ancora più forte. La testa in questione era sormontata da un copricapo afghano, con tanto di nastro di tessuto penzolante nella parte posteriore.
Aveva rischiato di trovarsi faccia a faccia con un afghano armato, ancora in cerca di qualche indizio che riconducesse a Chambord, a Mauritania e agli altri.
L'uomo si muoveva con circospezione, cercando di penetrare con lo sguardo la penombra. Aveva colto dei rumori causati da Jon? Così pareva, a giudicare dal fatto che aveva spianato il suo M16A1 di fabbricazione americana più o meno dalla sua parte. Jon trattenne il respiro, la lanciarazzi sempre in pugno. Sparare con quell'arma era l'ultima cosa che avrebbe voluto fare. Se anche fosse riuscito a colpire l'afghano, questo si sarebbe messo a strillare come un ossesso. Se l'avesse mancato, il razzo sarebbe esploso divampando come una candela romana.
Osservò l'afghano che procedeva cauto verso il punto in cui era nascosto. Il terrorista avrebbe dovuto chiamare rinforzi, ma non lo aveva fatto. Forse, non era sicuro che ci fosse qualcuno. Dalle espressioni che si susseguivano sul suo volto, l'uomo sembrava sempre più propenso a credere che si fosse trattato di un falso allarme. Non aveva sentito nulla. Al massimo, un coniglio. O il vento.
L'afghano si tranquillizzò e abbassò la guardia. Fugati i sospetti, prese a muoversi più rapidamente.
Jon si rialzò in piedi e gli fu addosso prima che questi potesse reagire. Lo colpì con il calcio della lanciarazzi, costringendolo in ginocchio; quindi, tappandogli la bocca con una mano, lo percosse brutalmente con il calcio della pistola sul cranio, da cui cominciò a sgorgare sangue. Il malcapitato provò a dimenarsi, ma era chiaramente stordito.
Jon lo colpì di nuovo, e il terrorista cadde inerte nell'umido sottobosco. Ansimando, Jon si chinò in avanti.
Gli dolevano i polmoni e tutto il torace. Strappò l'M16 all'afghano, e trovò anche il suo pugnale ricurvo.
Allungò una mano per tastare il polso del terrorista. Era morto. Jon spogliò il cadavere dei caricatori di scorta per l'M16, girò i tacchi e tornò a inoltrarsi nella foresta. Adottò un passo sostenuto, da fondista, e i pensieri cominciarono ad affollargli la mente. Cercò di ricostruire ciò che era accaduto prima del loro arrivo in elicottero. Perché il pilota saudita era stato assassinato? Da quel che aveva detto Abu Auda, allo chalet dovevano esserci il professor Chambord, Thérèse, Bonnard e Mauritania. Dov'erano finiti?
Si ricordò delle parole di Chambord: «Non sono in combutta con loro. Sono loro a essere al mio servizio». Gli rimbombavano in testa, adombrando scenari tutti da esplorare.
Il mosaico delle strane scoperte susseguitesi dal lunedì precedente cominciava a prendere forma, dando origine a una nuova domanda: perché Chambord e Bonnard non avevano atteso? Dopo tutto, lo Scudo della Mezzaluna lavorava per il professore.
Chambord non faceva parte dello Scudo della Mezzaluna: questo l'aveva detto chiaramente. Erano loro che si erano messi con lui.
Proseguendo nella sua fuga, Jon continuò a interrogarsi e cercò di valutare le varie ipotesi. Poi, come quando la nebbia si alza, i conti cominciarono improvvisamente a tornare: così come la Fiamma Nera era servita da paravento per lo Scudo della Mezzaluna, questo era servito da paravento per Chambord e per il capitano Bonnard.
Era solo un'ipotesi, ma Jon ne era convinto. Più ci pensava, anzi, e più gli pareva plausibile. Doveva mettersi in contatto con Fred Klein e avvertirlo il prima possibile.
Klein e metà dei servizi segreti mondiali stavano sì cercando dei criminali, ma quelli sbagliati. Klein doveva sapere, mentre Jon, da parte sua, doveva scoprire dov'erano fuggiti Chambord e Bonnard, e quali devastazioni stavano per compiere.
Il primo segno a indicare che Jon si trovava in pericolo, fu il fragoroso proiettile sparato dall'elicottero S-70.
Squarciò le chiome degli alberi, mentre Jon stava attraversando una piccola radura. Cominciarono a piovere aghi di pino, e l'elicottero, dopo una brusca virata, si alzò e tornò indietro. A quel punto Jon non era più allo scoperto, cosicché l'elicottero passò e scese seguendo il pendio.
Era un tentativo di ingannarlo, pensò Jon. I terroristi lo avevano visto ed erano andati a posarsi in un'altra radura leggermente più a valle; dopo di che, probabilmente, si sarebbero sparpagliati nella zona e avrebbero atteso.
Potevano sperare che fosse lui stesso a cadere nelle loro mani, ammesso che fossero abbastanza numerosi.
Jon aveva seguito per due ore un ampio arco ascendente.
Dopo un po' che non vedeva traccia degli uomini dello Scudo della Mezzaluna, sentendosi finalmente più sicuro, iniziò a procedere verso valle, dove avrebbe avuto maggiori probabilità di incrociare una strada. Era convinto di essere nel Sudest della Francia, in un punto imprecisato tra Mulhouse e Grenoble. Più passava il tempo, più si faceva urgente la necessità di mettersi in contatto con il mondo civile. Proprio per questo impellente bisogno di trovare un telefono, Jon aveva invertito la marcia troppo presto, prima di essersi allontanato a sufficienza dallo chalet, facendosi così individuare dall'elicottero.
Doveva riprendere in mano la situazione. Invertì nuovamente la marcia, ma non si mosse in salita, dirigendosi invece più o meno verso lo chalet, nella speranza di cogliere Abu Auda di sorpresa. Inoltre, nei pressi dello chalet doveva pur esserci una qualche strada. L'improvviso gracchiare di uno stormo di corvi che si staccò dalle cime dei pini circostanti fu la prima indicazione del fatto che aveva commesso un nuovo errore. La seconda fu il frenetico sgattaiolare di un animale spaventato, a un centinaio di metri da lui, sulla sinistra.
Aveva sottovalutato Abu Auda. Un drappello di uomini aveva seguito da terra l'elicottero, nell'eventualità che Jon decidesse di fare ciò che effettivamente aveva fatto. Jon si tuffò tra i crepacci di una formazione rocciosa che affiorava alla sua destra, da dove poteva osservare la foresta tutt'intorno. Quante persone poteva aver mandato, Abu Auda, in ricognizione sul terreno? Aveva a disposizione una dozzina di uomini in tutto, a meno che non fossero arrivati rinforzi. In alto, le chiome dei pini gemevano al vento. Da qualche parte, in lontananza, si sentivano il ronzio delle api e il cinguettio degli uccelli.
Lì dov'era, invece, nessun cinguettio. La boscaglia era immersa in un silenzio e in un'attesa inquietanti. Presto sarebbe accaduto qualcosa.
A un certo punto, le ombre dei pini cominciarono a vibrare e a ondularsi come per effetto di una lieve foschia.
Dalla foschia, come fluttuando sulle stesse ombre, emerse un altro afghano. Questo, però, non era solo. Un altro terrorista si materializzò una cinquantina di metri alla destra di Jon, più in basso, come dislivello, di una ventina di metri. Un terzo terrorista sbucò a una distanza simile sull'altro lato.
Jon non vide nessun altro. Sorrise, gelido. Non avevano ricevuto rinforzi.
Tre contro uno... più quelli a bordo dell'elicottero in arrivo. Quanti saranno stati? Sei o sette, forse. Se si fosse mosso con la dovuta rapidità, sarebbero risultati ininfluenti.
In quel caso, Abu Auda aveva sbagliato i suoi calcoli.
Non aveva previsto che Jon potesse tornare sui suoi passi così bruscamente, incontrando i suoi inseguitori a piedi così presto. Tre contro uno non era un'impresa impossibile, se si era in possesso di un M16.
Jon vide che il primo terrorista si era accorto dell'escrescenza di roccia e stava facendo cenno ai suoi soci di accerchiarla, mentre si avvicinava con l'intenzione di controllare.
I suoi inseguitori, pensò Jon, probabilmente sapevano che si era impossessato dell'M16. Abu Auda era un ottimo comandante, di certo aveva contato gli uomini prima di ordinare loro di sparpagliarsi. Doveva, perciò, essersi accorto che qualcuno mancava all'appello. E se avevano trovato il corpo, sapevano di certo che all'appello mancava anche un M16.
Jon sbirciò con estrema prudenza. Il terrorista più avanzato procedeva diritto verso le rocce. Il primo pensiero di Jon fu di calcolare quanto ci avrebbe messo a colpire tutti e tre o, quantomeno, a costringerli a terra per poter fuggire di soppiatto. Sicuramente, il primo colpo avrebbe attirato sul posto anche tutti gli altri. Con molta probabilità, qualcuno avrebbe avvertito l'elicottero.
Attese finché gli altri due non si trovarono allineati con le rocce dove si trovava nascosto. A quel punto, il terrorista più vicino era a sei o sette metri. Era il momento.
Jon si alzò e lasciò partire una rapida serie di tre colpi: due contro il terrorista di punta, l'altro, dopo un rapido movimento del fucile, contro quello piazzato a est. Poi, ruotando di centottanta gradi, altri due colpi verso il terzo uomo, a ovest. Dopo di che, si mise a correre.
Il primo era stato centrato in pieno. Non si sarebbe rialzato. Gli altri erano caduti a terra, ma Jon non sapeva se e quanto gravemente fossero stati colpiti. Mentre correva, tendeva l'orecchio per cogliere eventuali indicazioni.
Udì un grido lontano, poi più nulla: né passi affrettati né fruscio di vegetazione né schiocchi di rami spezzati. Nessun rumore di inseguimento ravvicinato.
Correva, ma con estrema circospezione, cercando un riparo qualsiasi e procedendo leggermente in discesa, finché non sentì nuovamente il rombo dell'elicottero. Si accucciò dietro un grosso albero. Scrutò nei piccoli spiragli tra i lucenti aghi di pino. In breve, l'elicottero si avvicinò, e Jon scorse, affacciato al portellone del velivolo, un volto nero che scrutava di sotto. Abu Auda.
Il Sikorsky proseguì. Jon non poteva rimanere dov'era, perché Abu Auda non si sarebbe limitato di certo alla sola ricognizione aerea. Altri suoi uomini erano sicuramente rimasti a terra. Jon doveva prendere una decisione, ma Abu Auda si trovava nella medesima condizione. Doveva indovinare la direzione che Jon avrebbe preso per la fuga.
Jon cercò di individuare il rumore dell'elicottero in fase di discesa o di atterraggio, sforzandosi di adottare il punto di vista dell'assassino. Alla fine, si decise: Abu Auda, probabilmente, si aspettava di vederlo correre il più lontano possibile dagli inseguitori. In base a questo ragionamento, l'elicottero sarebbe andato ad atterrare a sud. Jon si voltò verso destra e cominciò a correre. Poi rallentò e puntò verso ovest, inoltrandosi tra gli alberi, facendo meno rumore possibile.
Dopo meno di un'ora, la foresta di pini iniziò a diradarsi.
Madido di sudore, con le ferite che gli bruciavano, Jon proseguì e, attraversato un prato, si fermò al limitare di un'altra fitta massa di alberi. Su una strada asfaltata più in basso stava passando un'automobile. Dopo aver puntato verso ovest aveva smesso di sentirsi inseguito, e i rari echi del rumore dell'elicottero gli erano giunti da molto lontano, a sud, sulla sua sinistra. Rimase appena all'interno della zona alberata, muovendosi in fretta verso nord, nella speranza che la foresta e la strada, a un certo punto, si incontrassero o, almeno, si avvicinassero.
Trovò un ruscello e si fermò sulla riva. Con il fiato grosso, slegò la striscia di tessuto che Thérèse gli aveva stretto al braccio dopo l'esplosione del missile ad Algeri.
La ferita era piuttosto estesa, ma poco profonda. La risciacquò e ne approfittò per bagnarsi anche il fianco, dove un proiettile gli aveva graffiato la pelle; la fronte, dov'era stato colpito da alcuni detriti scagliati in aria dal missile; e, infine, i polsi. Alcune delle ferite stavano cominciando ad arrossarsi, segno di un'incipiente infezione.
Nulla di cui preoccuparsi, però.
Si gettò altra acqua fredda sul volto sudato e rovente e, a malincuore, si rimise in cammino. Si udivano soltanto i normali rumori della foresta: la quiete sommessa che un escursionista solitario si aspetterebbe di trovare, non l'innaturale e immobile silenzio che lasciava intuire la presenza di assalitori nascosti.
Improvvisamente si bloccò, pieno di speranza: tra gli alberi aveva intravisto un incrocio e dei segnali stradali. Si guardò intorno e sbucò furtivo dal folto della foresta per andare a leggere il segnale stradale, da cui scoprì di trovarsi a dodici chilometri da Grenoble. Una distanza non improponibile. E poi c'era già stato, a Grenoble. Sulla strada, però, sarebbe risultato troppo esposto. Se l'elicottero si fosse spinto fin lì, gli uomini a bordo l'avrebbero scorto senza difficoltà.
Rimuginando tra sé, tornò a nascondersi fra gli alberi e aspettò. Quando sentì il rumore di un'automobile in arrivo, sorrise sollevato. Andava nella direzione giusta. Attese con ansia che l'automezzo sbucasse da dietro la curva: era il furgone di un contadino. Abbandonò l'M16 e le munizioni tra i pini e ricoprì il tutto di terriccio e aghi caduti. Si infilò il pugnale afghano in una tasca della giacca e la pistola lanciarazzi nell'altra, per poi mettersi ad agitare in aria entrambe le braccia.
Il contadino si fermò, e Jon salì a bordo, ringraziandolo in francese. Disse di essere uno straniero in visita da quelle parti con un amico, che era tornato a Grenoble prima di lui. Si sarebbero dovuti trovare a cena, ma la sua auto non voleva saperne di rimettersi in moto e così lui aveva deciso di mettersi in cammino, nella speranza di incontrare un buon samaritano. Nei boschi era caduto, e questo spiegava le sue condizioni non proprio ottimali.
Il contadino gli sorrise con simpatia e si mise a chiacchierare dei difetti di quella regione, felice di aver trovato la compagnia di Jon in quella zona remota dalle vette altissime, dai vasti spazi e dai pochissimi abitanti. Lungo il tragitto, però, Jon non si rilassò. Con lo sguardo continuò a vigilare.
Grenoble, Francia Grenoble, annidata sulle Alpi francesi, era una città strabiliante: antica, ricca di storia, nota per le sue stazioni sciistiche, soprattutto quelle di discesa libera, e per i monumenti medievali. Il contadino lasciò Jon sulla riva sinistra dell'Isère, in Place Grenette, una piazza molto animata e circondata da bar con tavolini all'aperto. Poco lontano sorgeva Place Saint-André, il cuore vero e proprio di Grenoble. Il sole tiepido aveva attirato la gente in strada, e i tavolini dei bar erano affollati di avventori che sorseggiavano caffè, tutti in maniche di camicia, ma ordinarissimi.
Osservandoli, Jon si rese nuovamente conto della condizione pietosa dei suoi vestiti. Erano lerci, mezzi affumicati, e non era neppure certo di essersi decentemente ripulito la faccia, al ruscello. Stava già attirando attenzioni quanto mai indesiderabili, e questa era l'ultima cosa di cui aveva bisogno. Aveva ancora con sé il portafoglio e, dopo aver telefonato a Fred Klein, sarebbe andato a comprarsi dei vestiti nuovi.
Si guardò intorno per orientarsi e si avviò verso Place Saint-André. Fu lì che trovò ciò che più gli serviva: una cabina telefonica, da cui chiamò Fred Klein.
Klein era sorpreso. «Allora, sei proprio vivo!»
«Sembri deluso.»
«Bando ai sentimentalismi, colonnello», disse Klein, secco. «Ci abbracceremo un'altra volta. Stanno accadendo alcune cose di cui devi assolutamente essere informato.»
Descrisse gli ultimi pesanti black out elettronici e l'accecamento dei satelliti. «Speravo che il computer molecolare fosse stato distrutto, e che la causa dei black out fosse un banale disservizio.»
«Non ci hai mai creduto veramente. Il danno era troppo esteso.»
«Era una speranza ingenua.»
«E Randi Russell si è salvata dall'esplosione del missile?»
«Non avremmo mai saputo quel che è accaduto in Algeria, se non fosse sopravvissuta. È tornata a Parigi. Tu dove sei? Raccontami tutto.»
Randi, dunque, ce l'aveva fatta. Jon esalò un sospiro di sollievo. Spiegò ciò che era successo dopo l'esplosione del missile e quel che aveva scoperto.
Klein imprecò. «Dunque, tu credi che anche lo Scudo della Mezzaluna sia un semplice paravento?»
«È un'ipotesi sensata. Non me lo vedo Darius Bonnard nei panni del terrorista islamico, indipendentemente dai suoi legami algerini. Ciononostante, era al posto giusto, e nel momento giusto, per fare quella telefonata dal quartier generale della NATO. Dev'essere stato lui, o forse Chambord, a uccidere il pilota dell'elicottero, allo chalet, prima del nostro arrivo; dopo di che, devono essersene andati con Thérèse. Abu Auda era sbalordito e furioso.
Temeva che anche Mauritania potesse essere stato ucciso.
Per come la vedo io, non si è trattato dell'improvviso ammutinamento dei deboli, bensì della soluzione messa in atto, come previsto, dai più forti.»
«Credi che all'origine di tutto ci sia Emile Chambord?»
«Forse. Il dominus, però, potrebbe anche essere il capitano Bonnard, che tiene in pugno Chambord utilizzando la figlia come arma del ricatto», rispose Jon, preoccupato per Thérèse. Osservò con attenzione la via, temendo che potessero comparire Abu Auda e i suoi uomini.
«Sai qualcosa di Peter Howell e di Marty?»
«Secondo i miei amici di Langley, sono tutti a Parigi.
Marty si è risvegliato.»
Jon sorrise. Era un sollievo sapere che Marty si era ristabilito.
«Ha rivelato qualcosa di utile sul conto di Chambord?»
«No, purtroppo. Nulla di cui non fossimo già al corrente.
Manderò Randi a prelevarti.»
«Dille che l'aspetto al Fort de la Bastille, dove arriva la funicolare.»
Dopo una pausa, Klein disse: «Sai una cosa, colonnello?
Potrebbe esserci qualcun altro dietro Bonnard e Chambord. Magari persino la figlia del professore».
Jon considerò l'ipotesi. No, era impossibile. Thérèse non ne sarebbe stata capace. Tuttavia, Klein non aveva tutti i torti. Nella mente di Jon cominciò a prendere forma un'idea. Un'idea da inseguire alla svelta.
«Tirami fuori di qui, Fred.»
Capitolo 32.
Parigi, Francia.
Al quartier generale della marina militare francese, in Place de la Concorde, l'anziano capitano Liberal Tassini, seduto alla sua scrivania, giocherellava con una stilografica Mont Blanc, scrutando al contempo Peter Howell con aria serissima. «Strana domanda, la tua, Peter. Posso sapere qual è il motivo di questa curiosità?»
«Diciamo che l'MI-6 mi ha chiesto di indagare sulla questione. Ci sarebbe un piccolo problema che coinvolge uno dei nostri giovani ufficiali.»
«E quale sarebbe questo piccolo problema?»
«Che resti tra noi, Libby. Ho detto all'MI-6 di sondare i canali ufficiali, ma a quanto pare è coinvolto il figlio di una persona importante.» Peter chinò il capo, a simulare imbarazzo. «Sono soltanto un ambasciatore. E questa è una delle ragioni per cui ho abbandonato il servizio effettivo. Per il mio carattere, e tutto il resto. Fammi il favore di darmi una risposta semplice e diretta, e ti prometto che mi schiodo e non mi faccio più vedere per un pezzo.»
«Impossibile, bon ami. La tua domanda riguarda una situazione per noi delicata e complessa.»
«Non vuoi dirmelo. Forse, devo mettermi in fila e aspettare il mio turno, vero? Scusami, io...»
Il capitano Tassini fece nuovamente ruotare la stilografica sulla scrivania. «Al contrario! Vorrei semplicemente capire come mai in questo, ehm, giovane ufficiale sia nata la curiosità di sapere se una recente riunione a bordo della De Gaulle fosse autorizzata o meno.»
«Be'...» Peter sogghignò con fare cospiratorio. «D'accordo, Libby. A quanto pare, questo giovane ufficiale ha presentato una richiesta di rimborso per le spese sostenute a causa della presenza alla riunione come pilota di scorta per uno dei nostri generali. Il suo diretto superiore vuole semplicemente verificare che la richiesta di rimborso sia legittima.»
Il capitano Tassini scoppiò a ridere. «Ah, davvero?
Santo cielo! E che cosa dice il generale?»
«Be', è una storia toccante. A quanto pare, è morto.
Pochi giorni fa.»
Tassini socchiuse gli occhi, improvvisamente serio.
«Davvero?»
«Temo di sì, ma non è tanto strano. I generali, di solito, sono piuttosto anziani.»
«Già», concesse Tassini. «D'accordo. Al momento, posso dirti soltanto che non risultano autorizzazioni per una riunione del genere sulla De Gaulle, anche se questo non esclude che la riunione si sia tenuta ugualmente. Stiamo approfondendo anche noi.»
«Mmm.» Peter si alzò in piedi. «Benissimo. A quei vecchi balordi dell'MI-6 risponderò con un classico "né conferme né smentite". Vedano loro se pagare il pilota o meno. Comunque, non otterranno informazioni ufficiali.»
«Mi dispiace per il giovane pilota», commentò Tassini, in un impeto di sensibilità.
Peter si avviò alla porta. «In ogni caso, che cosa ci faceva là fuori la De Gaulle? Che cosa dice il suo capitano, di questa riunione?»
Tassini si appoggiò all'indietro e riprese a scrutare Peter con attenzione. Dopo un po', rispose: «Afferma che non c'è stata alcuna riunione. Sostiene che la nave era in mare su ordine della NATO, per un'esercitazione sulle tattiche da adottare in notturna in acque territoriali nemiche.
E per noi questo è un bel problema, perché sembra che nessuno dalla NATO abbia mai diramato questo ordine».
«Ah! Be', sono contento di non avere questa gatta da pelare, vecchio mio.» Peter si sentì lo sguardo indagatore di Tassini sulla schiena. Howell dubitava di essere riuscito a ingannarlo, ma almeno avevano salvato le apparenze e, soprattutto, la possibilità di negare ogni addebito.
Berlino, Germania La Kurfürstendamm - o Ku'damm, come viene chiamata dai residenti in loco - è un grande viale trafficato che attraversa il centro di Berlino. Famosa in tutto il mondo, è delimitata da due file ininterrotte di negozi e di palazzi per uffici. Quelli che se ne intendono assicurano che la Ku'damm non dorme mai. In uno dei raffinati ristoranti che vi si affacciano, Pieke Exner si stava facendo largo tra le tovaglie bianche e l'argenteria lucidata per raggiungere l'uomo con cui aveva appuntamento a pranzo. Era il loro secondo incontro nelle ultime dodici ore, e lei sapeva che il giovane tenente era più che pronto: era bramoso.
Ciò risultò evidente dallo scatto con cui l'uomo si alzò in piedi e dal marziale sbattere dei tacchi che gli avrebbe procurato una secca reprimenda da parte del suo superiore, il generale Otto Bittrich. Era palese anche dalla casacca slacciata che indossava, segno della rilassata intimità a cui lei lo aveva indotto, lavorando duramente per tutta la sera precedente, quando lo aveva lasciato, se non senza fiato, perlomeno un po' ansimante. Erano i segni che lei sperava di cogliere. In ogni caso, aveva dell'altro lavoro da sbrigare, ma voleva che a «sbottonarsi» fosse lui, non la casacca della sua divisa.
Pieke sorrise e si sedette. Con un inchino, la aiutò a prendere posto. Quando anche lui si fu seduto, lei adottò un sorriso di sincera cordialità, come se non avesse fatto altro che pensare a lui dal momento in cui si erano separati.
Dopo che il giovane tenente ebbe ordinato una bottiglia del miglior Rheingau, lei riprese a chiacchierare dal punto in cui si erano interrotti, parlando dei sogni di viaggi e d'amore per tutte le belle cose straniere.
Pieke scoprì, ben presto, di aver fatto un buon lavoro, perché il tenente era troppo preso per potersi accorgere dell'amo che aveva gettato. Il pranzo andò avanti così, con uno schnitzel, una seconda bottiglia di Rheingau e uno strudel, fino al caffè e al brandy. Nonostante i sorrisi e le lusinghe, però, il giovane tenente non parlò mai del suo lavoro.
A un certo punto, lei perse la pazienza e lo guardò negli occhi a lungo e intensamente, a comunicargli un'intrigante varietà di emozioni: timidezza, nervosismo, un lieve timore, venerazione, estremo desiderio ed eccitazione sessuale. Era un suo talento, e uomini ben più smaliziati e anziani del tenente Joachim Bierhof ne erano rimasti vittime.
Lui reagì prontamente, pagando il conto; subito dopo, uscirono dal ristorante. Quando giunsero all'appartamento di lei, oltre la Porta di Brandeburgo e la Sprèa, nel quartiere orientale di Prenzlauer Berg, lui non era più in condizione di pensare ad altro che a lei, al suo magnifico appartamento e al suo letto.
Appena entrati, oscurò alla svelta le finestre contro il sole pomeridiano e si spogliò, cominciando ad accarezzare e baciare il seno di Pieke, che sospirava e si lamentava del freddo che faceva. Era un maggio particolarmente indolente, in Germania. Quanto le sarebbe piaciuto andare con lui nella soleggiata Italia, in Spagna o, meglio ancora, nel fantastico Sud della Francia.
Troppo occupato ad accarezzare il seno della donna e a sfilarle il perizoma verde, Joachim bofonchiò: «Ci sono appena stato, nel Sud della Francia. Cristo, come avrei voluto che ci fossi anche tu».
Lei rise giocosa. «Oh, ma eri con il tuo generale...»
«È stato su quella portaerei francese per quasi tutta la notte, con il nostro pilota. Io sono rimasto a terra, da solo. Ho mangiato da solo. E che bottiglia di vino che ho trovato! Ti sarebbe piaciuta. Dio, come avrei voluto... ma adesso siamo qui, e...»
Fu a quel punto che Pieke Exner cadde dal letto, urtando con violenza il ginocchio e la schiena. Non fu in grado di rialzarsi senza il riluttante aiuto dello stizzito tenente.
Quando la ebbe rimessa a letto, lei chiese di essere coperta, perché aveva i brividi. Ne era scossa, addirittura.
Lui alzò il riscaldamento e le mise addosso un'altra coperta, lei gli porse mestamente la mano.
Era, ovviamente, mortificata, dispiaciuta e si sentiva in colpa fino alle lacrime: «Poverino. Dev'essere terribile, per te. Mi dispiace così tanto... ma tu... come farai? Cioè, eri così... così...».
Joachim Bierhof, in fondo, era pur sempre un ufficiale e un gentiluomo. Fu costretto a rassicurarla, a dirle che non c'era problema. Ciò che provava per lei andava ben al di là di quello.
Lei gli strinse la mano e gli promise che si sarebbero incontrati l'indomani, sul presto, se si fosse sentita un po' meglio. Lì, nel suo appartamento. «Ti chiamo domani!»
E si addormentò praticamente all'istante.
Il tenente non poté far altro che vestirsi e andarsene senza fare rumore, per non svegliarla.
Non appena la porta d'entrata si fu richiusa, lei saltò giù dal letto, si rivestì e compose un numero al telefono.
«Il generale Bittrich era nel Sud della Francia, come sospettavi», riferì. «Ha passato quasi tutta la notte su quella portaerei francese. Tutto qui, Peter? Serve altro?»
«Sei una meraviglia», disse Peter Howell da Parigi.
«Te ne ricordi, eh?»
Peter ridacchiò. «Spero che non ti sia costato troppo, Angie, vecchia mia.»
«Sei geloso, Peter?»
«Vista l'età che ho, mi lusinga il fatto che tu possa pensarlo.»
«L'età non ha alcuna importanza, nel tuo caso. Tu sei senza età.»
Peter rise. «Non tutte le parti del mio corpo ne sembrano sempre così convinte, ma ne riparleremo.»
«Devo considerarla una proposta, signor Howell?»
«Angie, tu sapresti risvegliare i morti. Per il momento, grazie.»
Angela Chadwick riagganciò, rifece il letto, prese la borsetta e lasciò l'appartamento, per tornare a casa sua, dall'altra parte della Porta di Brandeburgo.
Parigi, Francia Marty aveva un nuovo computer portatile, che Peter gli aveva comprato usando la carta di credito dello stesso Marty. Rimasto solo, sotto l'effetto dei farmaci, era curvo sul computer nella sua stanza, in clinica, seduto a gambe incrociate sul plaid a scacchi che copriva il letto. Aveva controllato il sito dell'OASIS - sigla che stava per Online Asperger Syndrome Information and Support - quindici volte nelle due ore precedenti, senza risultati.
Combattuto tra la disperazione e l'ottimismo più risoluto, sprofondato nella melma appiccicosa dell'effetto dei farmaci, Marty non si accorse dell'arrivo di Randi e Peter finché uno dei due non iniziò a parlare.
«Novità, Marty?» domandò Randi prima ancora di aver chiuso la porta.
Si intromise Peter. «L'MI-6 non ha saputo nulla, e la cosa è davvero snervante.» Poi, ancor più amareggiato, aggiunse: «Se almeno sapessimo per chi lavora Jon, potremmo rivolgerci direttamente a loro. Magari sanno qualcosa».
Con sguardo serissimo, Marty domandò a Randi: «E la CIA?».
«Non sanno nulla», ammise.
Marty si incupì e riprese a digitare sulla tastiera del computer. «Controllerò di nuovo sul sito dell'OASIS.»
«Quanto tempo è passato dall'ultima volta che hai verificato?» domandò Peter.
Le guance di Marty si tramutarono in due pomelli rossi di indignazione. «Se intendi dire che sono ossessionato, che cosa potremmo dire di te, con tutte quelle telefonate che fai?»
Peter annuì e sorrise sotto i baffi.
Marty borbottò qualcosa e si collegò al sito dell'OASIS.
Non appena lo schermo fu riempito dalla home page del sito, Marty cominciò a rilassarsi. Era un po' come tornare a casa. Creato per le persone affette dalla sindrome di Asperger e per i loro familiari, l'OASIS era ricco di informazioni e conteneva anche un web ring. Marty vi si collegava spesso, quando conduceva una vita normale... normale per i suoi parametri. Quel che era normale per il resto del mondo per lui era insopportabilmente noioso.
Non riusciva a capire come si potesse vivere in quel modo. D'altra parte, l'OASIS parlava chiaro. Le persone che lo gestivano conoscevano bene le cose di cui parlavano.
Che rarità, pensò. Non vedeva l'ora di leggere il nuovo libro di Patricia Romanowski Bashe e Barbara L.
Kirby, The Oasis Guide to Asperger's Syndrome. Era sulla scrivania di casa sua ad aspettarlo.
Diede un'occhiata ai messaggi sul sito, ma neanche questa volta trovò il segnale sperato. Si appoggiò all'indietro, chiuse gli occhi e sospirò.
«Niente?» domandò Peter.
«Niente, purtroppo.»
Restarono in silenzio, scoraggiati, finché non squillò il telefono. Fu Randi a rispondere. Era Doug Kennedy, il suo superiore di Langley. Mentre lo ascoltava, i suoi occhi presero poco a poco a spalancarsi e a luccicare entusiasti.
«Sì, so dov'è. Questa sì che è una bella notizia! Grazie, Doug! Non ti preoccupare, ci penso io.» Riagganciò e si voltò verso Marty e Peter, che la fissavano ansiosi di sapere.
«Jon è vivo! So dov'è!»
Grenoble, Francia Un freddo vento alpino scompigliava i capelli di Jon e gli gelava il viso, mentre se ne stava affacciato al parapetto del cinquecentesco Fort de la Bastille, che domina Grenoble, insieme a molti altri turisti. Nonostante l'aria fredda, sembravano tutti intenti a godersi quello strabiliante abbinamento di edifici medievali e, più in basso, di costruzioni ultramoderne. Nota per le industrie dell'alta tecnologia e le prestigiose università, Grenoble si estendeva per aggiunte successive a partire dalla confluenza tra il Drac e l'Isère, mentre sullo sfondo torreggiavano le Alpi dai manti nevosi che, in quel momento, luccicavano al sole pomeridiano.
Tuttavia, da quando era arrivato all'antico forte, Jon non aveva rivolto la sua attenzione al panorama, bensì alla funicolare che saliva fin lì dalla città sottostante.
Si trovava su quegli spalti da diverse ore, vestito con un paio di jeans nuovi, maglione verde, bomber di media pesantezza e occhiali scuri. Nelle ampie tasche anteriori del giubbotto aveva riposto il pugnale afghano e la pistola lanciarazzi, le sue sole armi. Stava ancora assaporando le buone notizie: Randi era viva, Marty si era risvegliato e stava bene.
Al contempo, però, era a disagio. Randi doveva già essere lì, a quell'ora, e Jon aveva la sensazione sempre più netta che anche Abu Auda e i suoi potessero arrivare da un momento all'altro. Era inevitabile che i terroristi estendessero le loro ricerche fino a Grenoble, l'unica città di una certa dimensione dalle parti dello chalet sul massiccio della Chartreuse. Jon aveva dimostrato di saperci fare ma c'era sempre la possibilità che non fosse ancora riuscito a mettersi in contatto con i suoi superiori.
Forse avevano trovato l'M16 e le munizioni che Jon aveva abbandonato nel sottobosco sul ciglio della strada che portava a Grenoble.
Era lì, esposto al freddo vento di montagna, gomito a gomito con altri turisti, pressoché invisibile tra le ombre sempre più lunghe del pomeriggio, appoggiato al parapetto, intento a studiare i vagoni della funicolare che a intervalli regolari trasportavano al forte i passeggeri saliti a bordo al Quai Stéphane Jay. Concepiti appositamente per rendere fruibile il panorama, i vagoncini erano trasparenti.
Questo, naturalmente, tornava a vantaggio di Jon, perché gli consentiva di osservare con attenzione ogni passeggero.
Erano quasi le cinque, ormai, quando scorse non Randi, bensì uno degli assassini dello Scudo della Mezzaluna. Il battito del suo cuore ebbe un'improvvisa accelerazione.
Non volendo attirare l'attenzione, conservò la sua posa rilassata da visitatore incantato come tutti gli altri, mentre in realtà analizzò rapidamente quel volto e riuscì a ricostruire dove l'aveva visto. Era un saudita senza barba che faceva parte del gruppo fuggito dalla villa ad Algeri.
Era in prima fila sul vagone della funicolare. Benché fosse l'unico terrorista da lui riconosciuto, Jon dubitava che fosse solo. Da quelle parti dovevano esserci anche altri elementi dello Scudo della Mezzaluna.
Quando ebbe la certezza che l'uomo sulla funicolare fosse proprio il saudita, Jon si voltò, infilando con aria incurante le mani nelle tasche del giubbotto e impugnando così le sue armi, per poi allontanarsi verso i vialetti che, inoltrandosi nel Pare Guy Pape, raggiungevano la città.
Non aveva voglia di allontanarsi, per non mancare all'appuntamento con Randi, ma dove si trovava un membro dello Scudo della Mezzaluna ce n'erano quasi sicuramente degli altri, e poi doveva considerare la possibilità che Randi non si facesse vedere.
Quando si fu allontanato a sufficienza dal parapetto, accelerò il passo. I turisti cominciavano a diradarsi. Si stava facendo tardi, e il vento tagliente che sibilava tra le ombre li aveva probabilmente scoraggiati. Senza più far caso al freddo, Jon lasciò il forte, si avviò verso uno dei sentieri in discesa e si mise a correre a ritmo sostenuto. Fu a quel punto che vide altri cinque terroristi dello Scudo della Mezzaluna.
Si nascose dietro un'alta siepe. I cinque stavano risalendo lungo la via che Jon stava per imboccare in discesa, e alla guida del gruppo c'era Abu Auda in persona.
Erano tutti vestiti all'occidentale. Abu Auda aveva in testa un basco e appariva a disagio, come uno squalo che cerchi di muoversi sulla terraferma. Jon invertì la marcia e corse verso la parte posteriore del forte, dove sorgeva un'altra area verde. Si ritrasse dietro un'alta quercia, scrutò l'area da cui era appena giunto e, poi, la città e i fiumi sottostanti.
Ascoltò con estrema attenzione. Sì, non si era sbagliato: alle sue spalle risuonavano passi affrettati in discesa da un'alta sopraelevazione. Passi leggeri, ma rapidi.
Estrasse la lanciarazzi e il coltello e si girò di scatto.
Randi trasalì. Si portò un dito alle labbra.
«Randi!» esclamò Jon in tono accusatorio.
«Shhh! Fai il bravo.»
Sorrise risollevato. «Autoritaria come al solito, eh?»
Alta, atletica e slanciata, Randi era una visione più che gradita. Indossava dei pantaloni scuri e un giubbotto la cui cerniera era chiusa solo per un terzo, in modo da consentirle di mettere mano alla pistola con più agio. Aveva di nuovo in testa un berretto nero, tirato sulle orecchie per nascondere i capelli chiari. Portava anche un paio di lenti scure integrali, assicurate sulla nuca così da non cadere, nel caso fosse dovuta entrare in azione.
Mentre si nascondeva nell'ombra accanto a Jon, Randi aveva un'espressione vigile, ma composta. «C'è anche Peter, qui. Sai com'è? È un lavoro che è meglio fare in due.» Estrasse una miniradio dal giubbotto e annunciò: «L'ho trovato. Stiamo arrivando».
«Anche loro stanno arrivando.» Jon fece un cenno verso il Fort de la Bastille, dove il saudita rasato stava indicando il punto in cui erano nascosti. Parlava in modo concitato con Abu Auda. I terroristi non sembravano armati.
Non ancora, almeno.
«Andiamo!»
«Dove?»
«Non c'è tempo per spiegare.» Randi partì di scatto.
I terroristi dello Scudo della Mezzaluna si misero a rincorrerli, sparpagliandosi secondo le indicazioni di Abu Auda. Jon contò sei uomini, e questo significava che dovevano essercene forse altrettanti da qualche altra parte, magari proprio lì intorno. Seguendo Randi per il parco e poi in salita, Jon si domandò dove potessero essere nascosti gli altri.
Continuarono a correre, Randi davanti a Jon, cercando di allontanarsi il più possibile dal Fort de la Bastille e dalla funicolare, oltre che, naturalmente, dagli inseguitori dello Scudo della Mezzaluna. Ansimante, Jon si guardò indietro e non vide più nessuno dei terroristi. Poi, però, udì rumore di un elicottero. Maledizione!
«È il loro elicottero!» disse Jon scrutando il cielo. «Lo sapevo che erano più di quelli che abbiamo visto.»
«Corri!» gli urlò lei.
Proseguirono nella loro fuga, e a quel punto Jon lo vide: non era il Sikorsky dello Scudo della Mezzaluna, bensì un altro Hughes O-H6 Loach da ricognizione che gli parve un bombo gigantesco, quando si posò su uno spiazzo a una ventina di metri davanti a loro, verso destra. Randi deviò in quella direzione agitando le braccia, mentre Peter, in tenuta paramilitare nera, saltò giù dal portello aperto.
Accanto a Randi, Jon decise che quella era la visione più gradita di cui mai avesse goduto in vita sua. Peter aveva in testa un berretto nero e occhiali a specchio, e impugnava un fucile d'assalto britannico pronto a far fuoco.
Il sollievo di Jon ebbe vita breve. Alle loro spalle risuonarono urla rabbiose. Da sinistra, uno dei terroristi sbucò dal folto degli alberi. Era riuscito chissà come ad aggirarli più rapidamente dei suoi compagni. Sollevò l'arma e la puntò contro Randi, che si stava avvicinando all'elicottero vibrante. Peter saltò di nuovo a bordo.
Con un unico, fluido movimento, Jon si girò, puntò la lanciarazzi e fece fuoco. Lo sparo, benché molto rumoroso, fu soffocato dal rombo dell'elicottero. Il razzo partì lasciando una scia di fumo e colpì il terrorista in pieno torace.
Il proiettile gli arrivò addosso con una velocità tale da scaraventarlo all'indietro tra gli alberi. Il terrorista lasciò cadere il fucile e afferrò il razzo, che gli spuntava dalla cassa torácica. Le sue urla acute fecero rabbrividire Jon, perché entrambi sapevano quel che sarebbe successo di lì a un istante. La faccia dell'uomo era sfigurata dal terrore.
Il razzo esplose. Mentre il torace del terrorista volava in mille pezzi, Jon si tuffò a bordo dell'elicottero subito dopo Randi. Peter, per decollare, non aspettò che il portello fosse chiuso. Abu Auda e i suoi uomini abbandonarono ogni cautela e scaricarono una salva di colpi di pistola e raffiche di mitragliette. I proiettili bucarono l'elicottero in più punti, colpendo l'apparato di atterraggio e sforacchiandone le pareti, mentre Jon, disteso di pancia sul fondo del velivolo, si reggeva alle gambe dei sedili nel tentativo di non scivolare fuori dal portello aperto.
Randi lo afferrò per la parte posteriore della cintura.
«Ecco, ti ho preso!»
Jon aveva le mani fredde e sudate, e sentiva che le sue dita stavano cedendo. Neanche Randi sarebbe riuscita a salvarlo se lui avesse mollato la presa. A complicare le cose, Peter virò bruscamente verso destra, per cercare di sottrarsi al fuoco dei terroristi e allontanarsi. L'inclinazione del velivolo, però, fece scivolare indietro Jon verso il portello aperto e la morte certa.
Randi imprecò e con l'altra mano lo afferrò sotto l'ascella.
La caduta di Jon si arrestò. Ciononostante, l'inesorabile pressione della gravità e del vento non era cessata.
Inseguito dai colpi d'arma da fuoco, Peter portò l'elicottero verso i due fiumi. Jon sentì nuovamente di essere sul punto di perdere l'appiglio. Rantolando, si sforzò di rinsaldare la presa.
«Siamo fuori tiro!» gridò Peter. Poteva essere troppo tardi. Mentre Peter cercava di restituire il giusto assetto all'elicottero, le dita di Jon si staccarono dai sostegni del sedile.
Cercò di riafferrarli, ma le sue mani strinsero l'aria.
Randi gli si buttò sopra, cingendogli la vita con le gambe e afferrandosi a sua volta alle gambe del sedile. La posizione dell'elicottero, nel frattempo, era migliorata abbastanza da consentirle di rinsaldare la presa su Jon, il quale si rese vagamente conto della presenza di Randi su di sé, del suo peso rassicurante, dei muscoli delle gambe tesi e forti che lo stringevano, e in un qualche recesso della sua mente si scoprì a pensare che in circostanze diverse la cosa non gli sarebbe dispiaciuta. Quel pensiero lieve svanì in un attimo, nuovamente sostituito dal terrore.
Trascorsero alcuni lunghissimi secondi. La forza di gravità si attenuò, perché non si esercitava più solo sui suoi piedi, bensì su tutta la lunghezza del suo corpo. L'elicottero stava finalmente volando in orizzontale. Jon rimase immobile, stordito.
«Grazie a Dio, è finita.» La voce di Randi suonò come un gracidio roco quando, dopo essersi arrampicata su Jon e dopo averlo scavalcato, ebbe richiuso il portello. «Preferirei non ripetere questa esperienza.»
Nell'abitacolo, il rumore risultò improvvisamente più tenue. I muscoli di Jon tremavano. Si sentiva debole e si trascinò, quindi, fino al sedile posteriore, su cui si lasciò cadere.
Alzò gli occhi e vide il volto di Randi per la prima volta da quando si era tuffato a bordo dell'elicottero. Stava riacquistando colore. Doveva essere sbiancata per la paura.
«Allacciati la cintura di sicurezza», gli ordinò. Dopo di che, gli rivolse un enorme sorriso di sollievo che le illuminò il volto.
«Grazie.» Jon aveva un nodo in gola, e il cuore gli batteva come un martello pneumatico. «Certo, è inadeguato, ma sincero: grazie.» Si allacciò rapidamente la cintura di sicurezza.
«Per me è più che sufficiente. Non c'è di che.»
Quando fu sul punto di girarsi per guardare avanti, il suo sguardo incrociò quello di Jon. Per un lungo istante, restarono a fissarsi e, con gli occhi, si scambiarono comprensione e perdono.
Capitolo 33.
L'elicottero si lasciò Grenoble alle spalle, dirigendosi a nordovest, verso Parigi. Nel silenzio dell'abitacolo, ognuno ebbe modo di apprezzare e riconoscere quanto fossero stati vicini alla morte. Seduto da solo sul sedile posteriore, Jon aveva iniziato a emergere dalla trance dovuta allo sfinimento. Esalò un profondo sospiro, liberando la mente e il corpo dallo stress e dagli scampati pericoli degli ultimi giorni. Si slacciò la cintura di sicurezza e si sporse in avanti tra Peter e Randi, seduti sul doppio sedile dei piloti.
Randi sorrise e gli accarezzò la testa. «Bel cagnolone.»
Jon ridacchiò. Randi sapeva essere molto spiritosa, e in quel momento gli sembrò la persona più affascinante del mondo. Non c'è nulla di più prezioso degli amici, e due dei suoi amici migliori, in quell'istante, gli erano accanto.
Randi si era messa le cuffie sopra il berretto, e i suoi occhiali da sole ruotavano da una parte all'altra, mentre si guardava intorno alla ricerca di eventuali velivoli impegnati nel loro inseguimento.
Anche Peter aveva le cuffie alle orecchie e, da dietro gli occhiali, teneva sotto controllo l'indicatore del carburante e quelli relativi alla rotta. Il sole sempre più basso alla loro sinistra, una palla di fuoco dai cui raggi obliqui illuminava le chiome degli alberi e i campi innevati sotto e davanti a loro. In lontananza si intravedevano i primi squarci della magnifica valle del Rodano, con il suo caratteristico mosaico di vigne.
L'abitacolo del vecchio O-H6 era angusto, e i tre occupanti, quando Jon si sporse in avanti, si ritrovarono a stretto e intimo contatto. Alzò la voce per farsi sentire al di sopra del rombo dei rotori e annunciò: «Sono pronto: raccontatemi tutto. Come sta Marty?».
«Il ragazzo non solo è uscito dal coma, ma è già al lavoro», rispose Peter entusiasta. Descrisse la loro fuga dall'ospedale e spiegò che Marty si trovava da allora nascosto in una clinica privata. «È di ottimo umore, adesso, soprattutto dopo che gli abbiamo detto che eri vivo.»
Jon sorrise. «È un peccato che non sia riuscito a dare il suo contributo nella vicenda del computer molecolare di Chambord.»
«Già», disse Randi. «Ora tocca a te. Dicci che cosa è successo alla villa, in Algeria. Quando ho sentito le raffiche di mitra, ho creduto che ti avessero ucciso.»
«Chambord non è affatto stato rapito», rivelò Jon. «Il professore era in combutta con lo Scudo della Mezzaluna sin dall'inizio. Anzi, erano loro a collaborare con lui, se bisogna credere a quel che dice Chambord. Del resto, la cosa ha perfettamente senso, se si è al corrente di ciò che so io adesso. Ha costruito l'inganno del suo rapimento a beneficio di Thérèse. Non aveva idea che Mauritania l'avesse sequestrata: ecco perché era sorpreso di vederla almeno quanto lei era sorpresa di vedere lui.»
«Adesso molte cose risultano più chiare», disse Peter.
«Ma come diavolo hanno fatto a portar via il prototipo prima dell'arrivo del missile?»
«Non ci sono riusciti», rispose Jon. «Il missile l'ha sicuramente distrutto. Quel che non capisco è come abbia fatto Chambord a costruire un altro prototipo abbastanza evoluto da riuscire a impadronirsi di tutti i nostri satelliti.»
«Infatti», concordò Randi. «È sconvolgente, ma i nostri dicono che nessun altro computer ha la potenza, la velocità o la capacità di riprogrammare tutti i codici, i firewall e le altre protezioni dei nostri satelliti. Anzi, molti dei dispositivi di protezione erano ancora segreti e, presumibilmente, impossibili da scoprire e, ancor più, da forzare.»
Peter controllò l'ora, la distanza percorsa e il carburante rimasto. «Forse, avete ragione entrambi», disse, «ma non potrebbe esistere un secondo prototipo?»
Ton e Randi si scambiarono un'occhiata.
«E un'idea, Peter», disse Randi.
«Sì, Chambord potrebbe avere a disposizione un altro computer, magari concepito per essere programmato a distanza. O, forse, Chambord ha insegnato a qualcuno come funziona. Qualcuno di cui Mauritania, evidentemente, non sapeva nulla», disse Jon lentamente.
«Bene», borbottò Randi. «Un secondo computer molecolare.
Proprio quello di cui avevamo bisogno.»
«I conti tornano, soprattutto in considerazione di quello che ancora non vi ho detto.»
«A quanto pare, non dobbiamo aspettarci nulla di buono», disse Peter. «Sputa il rospo, Jon.»
Jon fissò lo sguardo oltre il parabrezza dell'elicottero sulla campagna francese, percorsa da piccoli fiumi e canali e punteggiata da ordinate fattorie. «Come dicevo, alla villa ho scoperto che Chambord fa parte del piano terroristico sin dall'inizio», disse, «e che, anzi, probabilmente, ha contribuito a pianificare gli attacchi contro i nostri sistemi elettronici militari e civili.»
«Sì, e allora?» incalzò Randi.
«Poche ore fa, prima che io potessi finalmente sfuggire ad Abu Auda, ha cominciato a farsi strada nella mia mente l'idea secondo cui lo Scudo della Mezzaluna, mentre usava i baschi come paravento, veniva usato a sua volta come copertura da Chambord e da Bonnard. Lo Scudo della Mezzaluna, evidentemente, dispone di un'organizzazione piuttosto estesa e flessibile, con notevoli capacità operative, ed era in grado di fare ciò che Bonnard e Chambord, da soli, non sarebbero mai riusciti a compiere.
Secondo me, però, lo Scudo della Mezzaluna è servito loro anche a un altro scopo: è il loro capro espiatorio, un gruppo su cui far ricadere la colpa degli orrori pianificati, in realtà, dai due francesi. E che cosa c'è di meglio, a questo proposito, di un gruppo estremista islamico guidato da un ex luogotenente di Osama bin Laden? Forse, anzi, la scelta di coinvolgere Mauritania aveva sin dall'inizio proprio questo obiettivo, quello di attribuirgli tutte le colpe.»
Randi si rabbuiò. «Stai dicendo che dietro tutti gli attacchi elettronici contro gli Stati Uniti ci sarebbero Chambord e Bonnard. Perché? Che movente avrebbero uno scienziato di fama mondiale e un rispettato ufficiale dell'esercito francese?»
Jon si strinse nelle spalle. «Credo che il loro fine ultimo non sia quello di sganciare una testata nucleare tattica a medio raggio su Gerusalemme o Tel Aviv. Questo potrebbe avere un significato politico per lo Scudo della Mezzaluna, ma non per due francesi come Chambord e Bonnard. Ho la sensazione che stiano architettando qualcos'altro, molto probabilmente contro gli Stati Uniti, visto che ora si sono impadroniti dei nostri satelliti. La ragione per cui lo fanno, però, non l'ho ancora capita.»
I tre amici tacquero, mentre il vento soffiava loro incontro e i rotori dell'elicottero mantenevano un ritmo costante.
«E quelli dello Scudo della Mezzaluna non sanno nulla delle reali intenzioni di Chambord?» domandò Randi.
«Da quello che ho intuito ascoltando le loro conversazioni, gli uomini dello Scudo della Mezzaluna sono tuttora convinti che Bonnard e Chambord siano un loro strumento.
Capita spesso ai fanatici di non vedere nulla all'infuori di ciò che vogliono vedere.»
Le mani di Peter si serrarono sui comandi. «Credo che tu abbia ragione sulla storia del capro espiatorio. A prescindere dall'apocalisse che hanno in mente di provocare, quelli che si prenderanno la colpa di ciò che è stato fatto finora, passeranno dei guai. Come è successo dopo l'attentato al World Trade Center e al Pentagono, i nostri soldati e i nostri scienziati cercheranno l'equivalente dell'Afghanistan per andare a scaricare le loro bombe.»
«Esattamente», confermò Jon. «È probabile che Chambord abbia previsto che le nazioni, anche questa volta, si uniranno nella caccia ai responsabili. Perciò gli serve un paravento, qualcuno a cui il mondo intero sia pronto ad attribuire la colpa. A questo riguardo, Mauritania e lo Scudo della Mezzaluna rappresentano il bersaglio ideale. È un gruppo terroristico poco noto, e nessuno crederà alle loro smentite, soprattutto se verranno beccati con le mani apparentemente sporche di sangue. Inoltre, tutto sembra indicare che abbiano effettivamente rapito Chambord, il quale, peraltro, confermerà questa ipotesi. È abbastanza bravo a mentire: gli crederanno, ve lo assicuro.»
«E Thérèse?» domandò Randi. «Ormai, anche lei è al corrente della verità. Giusto?»
«Non sono sicuro che sappia proprio tutto, ma sa di suo padre. Ha scoperto troppe cose, e questo per Chambord potrebbe essere un problema. Se la situazione dovesse precipitare, potrebbe decidere di sacrificarla per salvare il suo piano. O, magari, sarà Bonnard a precederlo e a occuparsene.»
«Sarebbe capace di uccidere sua figlia?» Randi rabbrividì.
«O è uno squilibrato o è un fanatico», disse Jon. «Solo così si spiegherebbe questa incredibile metamorfosi, da illustre scienziato a terrorista sanguinario.»
Peter con il suo viso rugoso stava studiando il paesaggio, intensamente concentrato sulle strade. «Dovremo interrompere la nostra discussione per un po'.» Si stavano avvicinando a una piccola città in riva a un fiume. «Quella è Maçon, al confine della Borgogna. Il fiume è la Saône.
Sembra un posticino dall'aria tranquilla, eh? Be', lo è davvero. Randi e io ci siamo fermati qui a fare rifornimento mentre venivamo a prenderti, Jon. Siccome non abbiamo avuto problemi, ho intenzione di fermarmici di nuovo. Il serbatoio è vuoto. E tu, Jon? Quand'è stata l'ultima volta che hai mangiato?»
«Mi venga un colpo se me lo ricordo.»
«Allora, ci converrà rifornirci non solo di carburante.»
Tra le lunghe e ondulate ombre del tardo pomeriggio, Peter atterrò nel piccolo aeroporto locale.
Dintorni di Bousmelet-sur-Seine, Francia.
Emile Chambord, seduto alla sua scrivania, si appoggiò con la schiena all'indietro e si stiracchiò. Le pareti di pietra, le armi medievali dall'aspetto letale, le armature polverose e i soffitti dalle volte altissime conferivano a quel laboratorio senza finestre un'atmosfera cupa che lo spesso tappeto berbero steso a terra e la calda luce emessa dai lampadari non riuscivano a rasserenare. Aveva scelto di lavorare nell'armeria, proprio perché non c'erano finestre. Niente finestre, niente distrazioni, e quando alla mente gli si affacciavano le preoccupazioni per Thérèse si limitava a scacciarle.
Guardò affascinato il prototipo del suo computer molecolare sistemato sulla scrivania. Non esisteva nulla che non gli piacesse, in quella macchina, ma erano soprattutto la velocità e la potenza a impressionarlo. Il computer era in grado di verificare tutte le risposte possibili riguardo a un qualsiasi problema simultaneamente, a differenza dei più grandi e più rapidi tra i computer a chip di silicio che operano sequenzialmente. In altre parole, a paragone del computer a DNA, i supercomputer al silicio più veloci al mondo erano lenti, lentissimi. Questi erano comunque più veloci del cervello umano, ma la velocità del computer molecolare era praticamente inimmaginabile.
E il fondamento stava nei pacchetti di gelatina, nella speciale sequenza di DNA che aveva creato. L'elica del DNA che si attorciglia all'interno di ogni cellula vivente la chimica naturale insita in ogni essere vivente - gli era servita da tavolozza. E, come conseguenza, problemi insolubili come quelli che vincolavano i sistemi di intelligenza artificiale - nella costruzione di reti complesse quali le cosiddette autostrade informatiche o nella produzione di giochi complicati come gli scacchi 3-D, che risultavano impossibili anche per i computer più avanzati erano stati facilmente digeriti dalla sua meraviglia molecolare.
In fondo, era solo questione di selezionare la sequenza giusta tra la miriade di opzioni possibili.
Un'altra straordinaria caratteristica della sua creatura era la capacità di mutare di continuo la propria identità, pur utilizzando un centesimo della potenza disponibile.
Si limitava a mantenere un firewall che trasformava il suo codice di accesso a una velocità che un computer convenzionale non poteva raggiungere. In sostanza, la sua macchina molecolare si «evolveva» in corso d'opera, e quanto più veniva utilizzata, più si evolveva. Chambord sorrise, in quella fredda stanza di pietra, al ricordo della prima immagine che gli era venuta in mente quando aveva concepito questa particolare funzione della sua macchina. Il prototipo doveva essere un po' come il Borg della serie televisiva di Star Trek, che si evolveva istantaneamente alla ricerca di difese sempre nuove contro qualsiasi attacco. E ora stava utilizzando quella macchina in continua crescita per respingere l'attacco più insidioso di tutti: l'attacco contro l'anima della Francia.
Cercò nuovamente ispirazione nella riproduzione del nobile dipinto che sovrastava il suo tavolo e poi riprese, con determinazione, a cercare indizi sull'ubicazione del nascondiglio di Marty Zellerbach. Era riuscito a introdursi senza difficoltà nel computer che Marty aveva a casa sua, a Washington, e in pochi secondi aveva sfondato le difese ultrasofisticate appositamente concepite. Sfortunatamente, Marty non vi si era più collegato, dopo l'attentato al Pasteur, e Chambord, da quella via, non aveva scoperto nulla. Deluso, aveva lasciato un «regalino» e continuato le sue ricerche altrove.
Conosceva il nome della banca in cui Marty aveva il suo conto e fu facile per lui accedervi, ma neppure lì trovo tracce di attività. Rifletté, e subito gli venne un'altra idea: la carta di credito di Marty.
Quando sul video comparvero i dati relativi alle ultime transazioni di Marty, Chambord con il suo viso austero non poté fare a meno di sorridere, e i suoi occhi penetranti brillarono. Oui! Il giorno prima Marty aveva comprato un computer portatile a Parigi. Sollevò la cornetta del telefono che si trovava sul suo tavolo.
Vaduz, Liechtenstein.
Rannicchiato sui verdeggianti territori al confine tra Svizzera e Austria, il principato del Liechtenstein era spesso trascurato dai normali turisti e prediletto dagli stranieri bisognosi di un porto sicuro in cui depositare o nascondere denaro. Il Liechtenstein, infatti, era sì famoso per i suoi paesaggi mozzafiato, ma soprattutto per l'assoluta riservatezza del suo sistema bancario.
Nella capitale, Vaduz, il crepuscolo proiettava ombre scure sulla strada che costeggiava il Reno. E questo tornava a vantaggio di Abu Auda. Ancora vestito all'occidentale, camminava svelto, evitando di incrociare gli sguardi dei passanti, finché non giunse alla porta della piccola e anonima abitazione privata che gli era stata indicata. Bussò tre volte, attese e poi bussò altre tre volte.
Sentì aprirsi un chiavistello, e la porta si schiuse di una fessura.
In arabo, Abu Auda disse: «Breet bate». Mi serve una stanza.
Gli rispose una voce maschile. «May-fahhem-tiksh.» Non capisco.
Abu Auda ripeté il codice e aggiunse: «Hanno preso Mauritania».
La porta si spalancò, e un uomo piccoletto e scuro guardò il fulani dal basso in alto con aria preoccupata.
«Ah!»
Abu Auda entrò. Quella casa era un importante snodo europeo per la hawalala, un canale clandestino per la movimentazione, il deposito, il riciclaggio e il reinvestimento del denaro sporco utilizzato dai terroristi arabi.
Priva di regolazioni e totalmente segreta, nella più assoluta assenza di conti rintracciabili dagli investigatori, questa rete finanziava non solo gli individui, bensì anche determinate cause. Nell'anno appena trascorso, quella organizzazione aveva movimentato, nella sola Europa, quasi un miliardo di dollari americani.
«Dove li prende Mauritania tutti questi soldi?» domandò Abu Auda in arabo. «La fonte. Da quali tasche arrivano i finanziamenti?»
«Sai bene che non posso dirtelo.»
Abu Auda prese la pistola dalla fondina ascellare. La puntò contro il suo interlocutore e, quando questi cominciò a indietreggiare, Abu Auda lo seguì. «Mauritania è stato portato via dalle persone che lo finanziavano. Gente la cui causa diverge dalla nostra. Ho saputo che i soldi vengono da un certo capitano Bonnard e da un certo professor Chambord, ma non credo che agiscano per conto loro. Ora, perciò, tu parlerai... e cerca di essere preciso.»
In volo sopra la Francia Mezz'ora dopo il decollo da Maçon, Jon, Peter e Randi avevano già finito i sandwich comprati nel piccolo aeroporto ed erano tornati ad analizzare e a discutere la situazione.
Peter esordì: «Se vogliamo trovare Chambord e Bonnard, ci converrà decidere alla svelta, in un modo o nell'altro.
Non abbiamo molto tempo. Qualunque cosa abbiano in mente, ho l'impressione che vogliano metterla in pratica molto presto».
Jon annuì. «Mauritania, stamattina, aveva intenzione di attaccare Israele. Ora che sappiamo per certo che esiste, da qualche parte, un altro computer molecolare funzionante, e che Chambord e Bonnard sono vivi e in fuga, direi che siamo riusciti a guadagnare un po' di tempo, ma non molto.»
Randi rabbrividì. «Non abbastanza, forse.»
Il sole era tramontato, e la notte avanzava inghiottendo la terra. Davanti a loro, un oceano di luci risplendeva del grigio crepuscolo. Parigi. Mentre osservava la vasta distesa della metropoli, Jon ricordò l'Institut Pasteur e l'attentato che, in origine, l'aveva condotto nella capitale francese, da Marty. Gli sembrava che fosse trascorso un tempo lunghissimo, mentre Fred Klein, in realtà, solo il lunedì precedente si era presentato in Colorado, per chiedergli di accettare quell'incarico che l'aveva portato in due continenti.
In quel momento, però, il campo della sua attenzione era di gran lunga più circoscritto, e il prezzo di un loro eventuale fallimento restava un'incognita, benché tutti concordassero nel credere che sarebbe stato molto alto.
Dovevano trovare Emile Chambord e il suo computer molecolare.
E quando l'avessero trovato, avrebbero avuto bisogno di Marty nel pieno delle sue facoltà mentali e fisiche.
Capitolo 34.
Parigi, Francia.
Il dottor Lochiel Cameron vedeva chiaramente che Marty era nervoso e frustrato: l'effetto dei farmaci era svanito, e camminava avanti e indietro con il suo passo rigido e goffo, mentre il dottore, seduto in una comoda poltrona, lo osservava sorridendo divertito. Era un uomo di mondo, estremamente alla mano, e aveva visto così tante guerre e devastazioni che la prospettiva di riportare indietro l'orologio di certe bellezze sfiorite di entrambi i sessi, nella sua clinica specializzata in chirurgia estetica, gli era parsa in fin dei conti passabile.
«Lei, insomma, è preoccupato per i suoi amici», buttò lì il dottor Cameron.
Marty si fermò e agitò platealmente le sue braccia paffute: «Chissà che cosa diavolo stanno facendo! Mentre io resto qui a decompormi nella sua sfarzosa clinica, i cui prezzi, ne sono certo, sono usurari se non addirittura delinquenziali.
Dove si saranno cacciati, loro? Quanto tempo occorre per arrivare a Grenoble e tornare? Si trova forse su Plutone, Grenoble? Non credo!».
Riprese a muoversi per la stanza come un animale in gabbia. Le tende erano chiuse, e nel locale regnava un'atmosfera estremamente raccolta, anche per merito dell'arredamento e della luce calda: niente a che vedere con le luci al neon che rendono impietosa l'illuminazione di gran parte delle stanze d'ospedale. Si sentiva persino il profumo fresco di un mazzo di peonie appena recise. Dell'intimità dell'atmosfera, però, Marty non sapeva che farsene. La sua mente era concentrata su un'unica domanda: dov'erano Jon, Randi e Peter? Temeva che a Grenoble, invece di salvare Jon, potessero essere morti tutti e tre.
Il dottor Cameron, suadente, disse: «Dunque, lei è contrariato».
Marty si bloccò a metà di un passo e si voltò disgustato verso il suo interlocutore. «Contrariato? Le sembro contrariato?
Io sono terrorizzato. Quei tre sono nei guai, lo so. Feriti. Stesi a terra da qualche parte, in una pozza di sangue!» Congiunse le mani e iniziò ad agitarle davanti a sé, ma subito nei suoi occhi brillò una luce. «Li salverò io.
Ecco! Arriverò in picchiata e li strapperò dalle grinfie dei malvagi. Però dovrei prima capire dove si trovano. È così frustrante...»
La porta si aprì e Marty si voltò, pronto a scagliare qualche epiteto pungente contro chiunque avesse osato interrompere la sua sofferenza.
Sulla porta, però, c'era Jon, alto, muscoloso e imponente nel suo bomber nero. Benché il suo viso bruno fosse malconcio, rivolse a Marty un sorriso grande quanto l'Oceano Atlantico. Alle sue spalle c'erano Peter e Randi, anche loro sorridenti. Da ragazzino, Marty non era in grado di interpretare le emozioni delle persone. Per imparare che gli angoli sollevati di una bocca corrispondevano a un sorriso e significavano perciò contentezza, e che un aggrottarsi delle sopracciglia poteva significare tristezza, rabbia o una vasta gamma di altri sentimenti meno gioiosi, ci aveva impiegato un bel po' di tempo. In quel caso, però, Marty capì non solo che i tre amici erano felici di trovarsi lì, bensì che erano anche animati da una qualche urgenza, come se fossero già pronti per ripartire.
Le cose non andavano bene, ma loro cercavano di fare buon viso a cattivo gioco.
Irruppero nella stanza, e Jon disse: «Stiamo tutti bene, Mart. È un piacere vederti. Non devi assolutamente preoccuparti per noi».
Marty lanciò un grido, ma poi si ritrasse e si rabbuiò.
«Be', alla buon'ora! Spero che voialtri tre vi siate divertiti.»
Raddrizzò la schiena, protendendosi il più possibile verso l'alto. «Io, invece, sono rimasto qui a vegetare, e indovinate con chi?» disse, squadrando il dottor Cameron seduto in poltrona. «Con il cerusico scozzese.»
Cameron ridacchiò. «Come vedete, è in ottima forma.
Ormai sulla strada della più completa guarigione. In ogni caso, sarebbe meglio che evitasse ulteriori traumi. E ovviamente, se proverà un senso di nausea o di vertigini, dovrà farsi visitare da un neurologo.»
Marty fece per protestare, ma Jon, ridendo, gli mise un braccio sulle spalle. Marty, allora, sorrise e guardò Jon, Randi e Peter da capo a piedi. «Be', se non altro, siete tornati.
E, a quanto pare, siete tutti interi.»
«Puoi scommetterci, amico», confermò Peter.
«Grazie a Randi e a Peter», aggiunse Jon.
«Per fortuna, Jon era dell'umore di farsi salvare», spiegò Randi.
Jon stava quasi per togliere la mano dalla spalla di Marty, ma l'amico si voltò rapidamente e lo abbracciò. Allontanandosi da lui dopo quest'ultimo gesto d'affetto, Marty disse sottovoce: «Cavolo, Jon, mi hai fatto prendere una strizza tremenda. Sono così felice di vederti sano e salvo. Non sarebbe più stata la stessa cosa senza di te. Per molto tempo ho davvero creduto che fossi morto. Non potresti darti a una vita più sedentaria?».
«Una vita come la tua?» Gli occhi blu di Jon luccicarono.
«Sei stato tu a essere rimasto ferito nell'attentato all'Institut Pasteur, non io.»
Marty sospirò. «Sapevo che l'avresti detto.»
Il dottor Cameron salutò e si congedò, mentre i tre agenti segreti, stanchi e arruffati, si abbandonarono sulle poltrone. Marty tornò a letto, sbatacchiò e risistemò i suoi cuscini a formare una montagna bianca contro cui poi posò la schiena, come un paffuto sultano su un trono di cotone. «Ho l'impressione che siate di fretta», disse agli amici. «Significa forse che non è finita? Speravo che mi diceste che ora si poteva finalmente tornare a casa.»
«Magari», disse Randi. Tolse l'elastico che teneva raccolti i suoi capelli e li scosse. Si massaggiò la testa con entrambe le mani. Sotto i suoi occhi neri trasparivano i segni della stanchezza. «Siamo convinti che cercheranno di colpire di nuovo e molto presto. Speriamo soltanto di avere il tempo di fermarli.»
Marty, con le sopracciglia aggrottate, domandò: «Dove, quando?».
Per risparmiare tempo, Jon gli riferì solo i più importanti tra gli eventi accaduti dal momento della sua cattura nella villa di Algeri, fino a quando avevano dedotto che Emile Chambord e il capitano Bonnard stavano usando lo Scudo della Mezzaluna non solo per fare gran parte del lavoro sporco, bensì anche per nascondere il loro coinvolgimento nel piano che prevedeva l'uso del prototipo a DNA. Infine, gli dissero che i due erano scomparsi insieme a Thérèse Chambord.
«Secondo me», concluse Jon, «sono in possesso di un secondo prototipo. È possibile?»
Marty si raddrizzò a sedere. «Un secondo prototipo?
Certo! Emile ne possedeva due, per poter testare simultaneamente l'efficienza, la velocità e le capacità delle varie sequenze molecolari. Sai, i computer molecolari operano codificando il problema da risolvere nel linguaggio del DNA, i cui elementi, che formano un sistema a base quattro, sono A, T, C e G. Utilizzandoli come sistema numerico, la soluzione di un qualsiasi problema concepibile può essere tradotta in un filamento di DNA e quindi...»
Jon lo interruppe. «Ti ringrazio, Marty, ma continua il discorso che stavi facendo a proposito del secondo prototipo di Chambord.»
Marty sbatté le palpebre. Guardò l'espressione vacua di Peter e Randi e sospirò platealmente. «Ah, va bene.»
Senza perdere colpi, riattaccò da dove si era interrotto.
«Il secondo apparecchio di Emile, però, a un certo punto è svanito. Pof! Nel nulla! Emile diceva di averlo smantellato perché ormai eravamo così vicini al traguardo che non c'era più bisogno di un altro sistema. A me non pareva avesse molto senso, ma la decisione spettava a lui.
Avevamo già eliminato tutti i difetti; si trattava solo di apportare le ultime rifiniture al sistema.»
«E quando è scomparso il secondo prototipo?» domandò Randi.
«Meno di tre giorni prima dell'attentato, anche se gli ultimi grossi problemi erano già stati risolti una settimana prima.»
«Dobbiamo trovare immediatamente questo secondo computer», disse Randi. «Chambord, prima dell'esplosione al Pasteur, si era per caso assentato per periodi di tempo più o meno lunghi? Un weekend, magari, o una vacanza?»
«Non mi pare. Spesso dormiva addirittura in un letto che aveva sistemato in laboratorio.»
«Pensaci bene, amico», incalzò Peter. «Magari si è allontanato per poche ore.»
Marty contrasse il viso per la concentrazione. «Be', sai, io di solito andavo a dormire un paio di ore a notte nella mia stanza d'hotel.»
Marty, però, non smise di riflettere, attingendo alla sua memoria più o meno come fanno i computer. La sua mente cominciò a risalire all'indietro, monitorando minuto per minuto, giorno per giorno, a partire dall'attentato al Pasteur, operando con i suoi circuiti neurali una cronologia a ritroso incredibilmente precisa, finché a un certo punto non annuì con forza. Aveva trovato.
«Sì, due volte! La sera in cui il computer è scomparso Emile voleva della pizza, ma Jean-Luc non c'era, e non ricordo esattamente dove fosse. Perciò fui io ad andare. Restai fuori per un quarto d'ora circa, e al mio ritorno non lo trovai. Rientrò un quarto d'ora dopo, e la pizza fummo costretti a riscaldarla nel microonde.»
«Dunque», disse Jon, «si è assentato per almeno mezz'ora.»
«Sì.»
«E la seconda volta?» lo incalzò Randi.
«La sera successiva a quella in cui mi ero accorto della scomparsa del secondo computer, Emile si è allontanato per sei ore, più o meno, dicendo di essere stanco e di aver voglia di tornarsene a casa per andare a dormire nel suo letto. Era davvero sfinito. Lo eravamo entrambi.»
Randi analizzò la risposta. «Insomma, la sera in cui è scomparso il computer, Chambord è mancato per poco tempo. La sera successiva, invece, è stato via per circa sei ore. Io direi che la prima sera l'ha probabilmente portato a casa, mentre la sera dopo l'ha trasportato su strada in qualche luogo segreto a non più di tre ore di distanza da Parigi.»
«Perché proprio su strada?» domandò Peter. «Perché non in elicottero o in treno?»
«Il prototipo è troppo grosso, troppo ingombrante, ed è formato da troppi elementi», rispose Jon. «Io ne ho visto uno, ed è decisamente poco maneggevole.»
«Jon ha ragione», concordò Marty. «Ci vuole perlomeno un furgone per trasportarlo, anche se è smontato.
Ed Emile non avrebbe mai ammesso che fosse qualcun altro a spostarlo.»
Sospirò mestamente. «È tutto così incredibile. Orribilmente incredibile. Incredibilmente orribile.»
Peter si incupì. «Potrebbe essere andato ovunque, in tre ore, da Bruxelles alla Bretagna, ma se anche stessimo cercando un posto a meno di due ore di distanza da qui, si tratterebbe comunque di centinaia e centinaia di chilometri quadrati.» Si rivolse a Marty. «Non esiste un modo di usare i tuoi aggeggi elettronici per individuare quel maledetto prototipo e risolvere, così, il problema?»
«Temo di no, Peter, mi dispiace.» Marty scosse la testa.
Prese il suo nuovo computer portatile dal comodino e lo posò sulle proprie gambe incrociate. Il modem era già collegato alla linea telefonica. «Anche se Émile avesse lasciato al suo posto il software di sicurezza che abbiamo concepito per il computer, io non avrei comunque gli strumenti necessari per introdurmi nel sistema. Émile ha avuto tutto il tempo per cambiare ogni cosa, codici d'accesso compresi. Non dimenticate che abbiamo a che fare con il più rapido e potente computer mai esistito, capace di far evolvere i suoi codici per sfuggire a qualsiasi tentativo di localizzarlo, e con una rapidità tale che gli strumenti a nostra disposizione non potranno mai rintracciarlo.»
Jon lo stava osservando. «Perché, allora, hai acceso il tuo computer? Ho l'impressione che tu stia per collegarti in rete.»
«Sei sveglio, Jon», disse Marty, allegramente. «Hai visto giusto. Sto cercando di collegarmi al supercomputer che ho a casa. Posso utilizzarlo attraverso questo computer portatile. Sfruttando il software che ho creato personalmente, spero di smentire quel che ho appena affermato, e cioè che è impossibile rintracciare il computer di Chambord. Non abbiamo nulla da perdere, e sarà comunque un divertimento provare a...» Marty tacque all'improvviso e spalancò gli occhi sbalordito. E poi sconsolato.
«Oh, santo cielo, che subdolo trucco! Accidenti a te, Émile, hai approfittato della mia generosità!»
«Che cosa c'è?» domandò Jon, avvicinandosi in tutta fretta al letto per vedere lo schermo del computer di Marty. Vi compariva un messaggio in francese.
«Che cos'è successo?» domandò Randi preoccupata.
Marty fissava il monitor, e la sua voce si levò indignata.
«Come osi violare la sacra privacy del mio computer personale!
Tu... maledetto satrapo! La pagherai, per questo, Emile. La pagherai!»
Mentre Marty vaneggiava, Jon tradusse ad alta voce il messaggio a beneficio di Peter e Randi.
Martin, devi fare più attenzione con il tuo software di protezione.
Era geniale, ma non abbastanza per me e per la mia macchina.
Ti ho scollegato, ho chiuso tutti i tuoi accessi, per impedirti qualsiasi intervento. Sei disarmato. L'apprendista deve inchinarsi al maestro.
Emile Marty sollevò il mento con aria di sfida. «Non potrà mai sconfiggermi. Io sono il Paladino, e il Paladino è dalla parte della verità e della giustizia. Io lo batterò! Io... io...»
Jon si allontanò dal letto, e Marty iniziò a digitare furiosamente sulla tastiera, con lo sguardo sempre più duro e concentrato, intento a convincere il suo computer domestico a riavviarsi. Jon, Peter e Randi osservavano con aria preoccupata. Il tempo sembrava trascorrere troppo rapidamente. Dovevano trovare Chambord e il prototipo.
Le dita di Marty rallentarono, e sul suo viso comparvero goccioline di sudore. Alzò gli occhi in preda allo sconforto.
«Lo troverò ugualmente, ma non in questo modo.»
Dintorni di Bousmelet-sur-Seine, Francia.
Nel suo silenzioso laboratorio senza finestre, Émile Chambord esaminò il messaggio comparso sul monitor del suo computer. Come previsto, Zellerbach aveva tentato di collegarsi al computer di casa sua a Washington e, così facendo, aveva ricevuto il messaggio che gli aveva lasciato.
Dopo di che, il supercomputer di Marty si era spento da solo. Chambord scoppiò a ridere fragorosamente.
Aveva umiliato quel piccolo americano arrogante, e ora che aveva una pista da seguire, l'avrebbe trovato in men che non si dica. Si mise a digitare come un forsennato, dando inizio alla fase successiva della sua ricerca.
«Professor Chambord...»
Lo scienziato alzò gli occhi. «Ci sono novità?»
Brusco ed energico, il capitano Bonnard prese posto sulla sedia accanto alla scrivania di Chambord. «Ho appena ricevuto un rapporto da Parigi.» La sua faccia squadrata era tutt'altro che felice. «I nostri uomini hanno mostrato la foto del dottor Zellerbach al commesso del negozio, il quale ha riferito che Zellerbach non era neanche in compagnia dell'uomo che ha usato la carta di credito per comprare il computer portatile. Dalla descrizione del commesso, abbiamo ritenuto che il compratore potesse essere uno dei compari di Jon Smith. Quando, però, un mio uomo ha controllato i dati della transazione, l'acquirente ha fornito un indirizzo di Washington, D.C. Non c'erano riferimenti a indirizzi o numeri telefonici di Parigi.
Naturalmente, dato che Zellerbach potrebbe avere semplicemente mandato un'altra persona dentro il negozio, i nostri uomini hanno mostrato la foto dell'americano a un po' di persone, ma anche in questo caso nessun risultato: nessuno ha riconosciuto Zellerbach.»
Chambord gli sorrise. «Non si abbatta, amico mio. Ho appena imparato una cosa: la potenza del computer a DNA è così illimitata che dobbiamo ripensare il concetto di ciò che è possibile.»
Bonnard accavallò le gambe, facendo dondolare un piede con impazienza. «Esiste, forse, un altro modo per rintracciarlo? Sarebbe fondamentale. Lui e i suoi amici hanno capito troppe cose. Non riusciranno a fermarci, per il momento, ma più avanti è probabile. E questa sarebbe una catastrofe per i nostri piani. Dobbiamo eliminarli alla svelta.»
Chambord nascose il fastidio che provava. Sapeva meglio di Bonnard quale fosse la posta in gioco.
«Fortunatamente, Zellerbach si è collegato al suo computer di casa. Avevo previsto che avrebbe preso delle precauzioni, facendo rimbalzare da un Paese all'altro il segnale del numero telefonico utilizzato dal suo modem; e che avrebbe magari cercato di camuffare ulteriormente i suoi movimenti passando per un gran numero di server e nascondendosi sotto altrettanti pseudonimi.»
«E come è possibile scovarlo, in tutta questa confusione?» domandò Bonnard. «Camuffare le tracce elettroniche è un classico. Ed è un classico perché funziona.»
«Non contro la mia macchina molecolare.» Con aria sicura, il professor Chambord tornò a concentrarsi sulla sua tastiera. Tra qualche minuto avremo il numero telefonico di Parigi, e a quel punto sarà facile scoprire l'indirizzo corrispondente. Dopo di che ho in mente un piccolo piano che metterà fine, per sempre, a qualsiasi inseguimento.»
Capitolo 35.
Parigi, Francia.
«La situazione, dunque, è la seguente», stava dicendo Jon a Randi, Peter e Marty. «Le nostre agenzie sono tutte impegnate in questa missione. I nostri governi sono in stato di massima allerta. A noi tocca fare quel che a loro non è concesso. Da quanto ci ha riferito Marty a proposito del secondo prototipo, Chambord e Bonnard devono avere un covo a due o tre ore di auto da Parigi. Ora, che altro sappiamo? E che cosa, invece, ignoriamo?»
«Sono una strana coppia: uno scienziato da torre d'avorio e un giovane ufficiale francese», disse Randi. «Mi domando se possano aver fatto tutto da soli.»
«Me lo domando anch'io.» Jon, seduto su una poltrona, si sporse in avanti, l'espressione corrucciata. «Tutta questa trama ha l'aria di essere manovrata da qualcun altro. Il capitano Bonnard operava intorno a Parigi senza apparenti legami con l'attentato al Pasteur, mentre l'istituto veniva fatto saltare in aria, e il professor Chambord veniva "sequestrato" dai baschi. I baschi trasportano in tutta fretta a Toledo il professor Chambord, e lo consegnano allo Scudo della Mezzaluna, dopo di che tornano immediatamente a Parigi, rapiscono Thérèse e portano a Toledo anche lei. Intanto, anche Mauritania fa la spola tra Parigi e Toledo, mentre in apparenza Chambord e Bonnard non comunicano tra loro fino all'incontro nella villa di Algeri. Mauritania, fino al momento della loro partenza da Grenoble, è convinto di essere socio paritario di Bonnard e Chambord. Chi sovrintende, allora, a tutta l'organizzazione, chi orchestra e coordina i vari gruppi e i vari aspetti dell'operazione? Deve trattarsi di qualcuno che è a stretto contatto con i due francesi.»
Peter aggiunse: «Qualcuno che ha molti soldi. L'operazione, nel complesso, mi pare piuttosto costosa. Chi paga le spese?».
«Di certo non Mauritania», disse Randi. «La CIA sostiene che, da quando ha rotto con bin Laden, le sue risorse finanziarie si sono notevolmente ridotte. E poi, se si servivano dello Scudo della Mezzaluna, Chambord e Bonnard sono sicuramente i promotori della collaborazione, perciò è probabile che loro stessi presentassero il conto a qualcuno. Dubito che un capitano dell'esercito o uno scienziato puro come Chambord abbiano i soldi necessari per un piano di questo genere.»
Marty si riebbe. «Émile non li ha di certo.» Scosse la sua testa rotonda. «Proprio no. Émile è tutt'altro che ricco.
Dovresti vedere l'austerità in cui vive. Inoltre, fatica a tenere in ordine la sua scrivania. Dubito seriamente che possa aver coordinato così tante persone e attività.»
«Per un po' ho creduto che l'organizzatore di tutto potesse essere Bonnard», disse Jon. «In fondo, ha fatto carriera dalla gavetta, cosa difficile e ammirevole. Certo, non è un Napoleone, ma comunque... Stando al dossier sul suo conto, l'attuale moglie di Bonnard viene da una stimatissima famiglia francese, gente danarosa, ma non al punto da poter finanziare piani del genere. Quindi, a meno che non mi sia sfuggito qualcosa, sia Chambord sia Bonnard sono da scartare.»
Mentre Jon, Randi e Peter continuavano a discutere, Marty incrociò le braccia e tornò a sprofondare nei suoi cuscini. Chiuse gli occhi e lasciò vagare la mente tra i ricordi delle ultime settimane, sorvolando un mosaico tridimensionale di immagini, suoni, odori. Sfruttando il trampolino della memoria, si inoltrò nel passato, rievocando con gioiosa chiarezza il lavoro con Émile, l'entusiasmo dovuto ai loro continui successi, le sedute di brainstorming, i pasti recapitati a domicilio, i giorni e le notti, l'odore delle sostanze chimiche e dei macchinari, il progressivo dilagare del tempo trascorso nel laboratorio-ufficio, che era diventato sempre più simile a una casa...
E all'improvviso ebbe un'illuminazione. Sciolse le braccia conserte, si rialzò a sedere e aprì gli occhi. Si era ricordato l'esatta disposizione del laboratorio-ufficio di Chambord.
«Ho trovato!» annunciò esultante.
I tre amici lo guardarono. «Che cosa hai trovato?» gli domandò Jon.
«Napoleone!» Marty spalancò platealmente le braccia.
«Tu hai nominato Napoleone. È stato questo a evocare in me il ricordo. Ciò che stiamo cercando è un'anomalia, qualcosa che non quadra con tutto il resto. Una stranezza che allude all'incognita dell'equazione. Lo sanno tutti che esaminando di continuo una certa informazione da una prospettiva sempre identica, si finisce per ottenere sempre la stessa risposta. Una perdita di tempo assoluta.»
«E allora, Marty? Quale sarebbe questa incognita?» domandò Jon.
«L'incognita è il perché», rispose Marty. «Perché Émile sta facendo tutto questo? Forse, la risposta è Napoleone.»
«Vuoi dire che lo sta facendo per Napoleone?» domandò Peter. «Sarebbe questa la tua scoperta inestimabile?»
Marty guardò Peter con aria torva. «Potevi ricordartene anche tu, Peter. Te ne avevo parlato.» Mentre Peter si sforzava di rammentare ciò a cui Marty alludeva, questi prese ad agitare le mani al di sopra della testa. «La stampa. All'inizio sembrava una cosa trascurabile, ma adesso ho capito quanto sia importante. È quella, l'anomalia.»
«Quale stampa?» domandò Jon.
«Alla parete del suo laboratorio, Émile teneva appesa un'eccellente riproduzione di un dipinto», spiegò Marty.
«Credo che l'autore del dipinto sia Jacques-Louis David, famoso artista francese vissuto a cavallo tra Sette e Ottocento.
Se non ricordo male, il quadro rappresentava il ritorno della Grande Armée da Mosca. Comunque», aggiunse Marty, accantonando il computer portatile e saltando giù dal letto, incapace di star fermo, «raffigurava un Napoleone con il morale sotto i piedi. In fondo, aveva conquistato Mosca per scoprire, subito dopo, di doversi ritirare, perché qualcuno aveva bruciato gran parte della città e, giunto ormai l'inverno, non c'era più nulla da mangiare. Era partito con più di quattrocentomila soldati, e al ritorno a Parigi, glien'erano rimasti meno di diecimila.
Il dipinto, perciò, lo ritrae con il mento affondato nel petto.» Marty inscenò il broncio. «È in groppa al suo grande cavallo bianco, mentre i leali soldati della Vecchia Guardia arrancano miseramente alle sue spalle nella neve, come dei veri straccioni. È una scena tristissima.»
«E questo quadro è scomparso dal laboratorio di Chambord?» domandò Jon. «Quando?»
«La sera dell'attentato non c'era. Quando sono arrivato per recuperare le mie carte, il primo shock è stato la vista del cadavere. Poi, ho notato che il prototipo del computer a DNA era sparito. E, come ultima cosa, ho visto che anche la stampa di David era scomparsa. Al momento, l'assenza del quadro mi era parsa irrilevante. Un fatto incidentale, come si può immaginare. Ora, invece, risalta per la sua stranezza. Dobbiamo assolutamente tenerla presente.»
Randi era perplessa: «Perché mai dei terroristi baschi, quelli della Fiamma Nera, avrebbero dovuto rubare una stampa raffigurante un triste episodio della storia francese risalente a circa due secoli fa?».
Marty si fregò le mani, entusiasta. «Non è detto che l'abbiano rubato.» Fece una pausa alla ricerca dell'effetto.
«Potrebbe essere stato Émile a portarlo con sé!»
«Sì, ma perché?» insistette Randi. «Non era neanche l'originale!»
Fu Jon a risponderle. «Credo che Marty intenda dire che la ragione per cui Chambord ha portato con sé quel quadro getta una certa luce sui pensieri che il professore coltivava al momento di sparire con i terroristi e, forse, anche sul motivo per cui ha deciso di fare ciò che sta facendo.»
Peter si avvicinò alla finestra. Scostò di poco la tenda che la oscurava e osservò la strada sottostante. «Non vi ho mai parlato di un'altra grana che l'MI-6 mi ha rifilato. Abbiamo perso un generale piuttosto importante, alcuni giorni fa: Sir Arnold Moore. Credo che qualcuno abbia messo una bomba sul suo Tornado. Il generale stava rientrando a casa per riferire personalmente al primo ministro inglese informazioni riservatissime, a cui aveva voluto accennare solo vagamente.»
«E in che cosa consiste questo vago accenno?» domandò subito Jon.
«Le informazioni che intendeva riferire riguardavano i problemi avuti nei sistemi di comunicazione americani.
Il primo attacco, cioè: quello di cui voi yankee avete parlato solo a noi.» Peter lasciò ricadere la tenda. Si voltò con un'espressione serissima in volto. «Be', sono riuscito a ricostruire i movimenti di Moore attraverso alcune mie fonti, le quali concordano nell 'affermare che ha avuto luogo una riunione segreta di militari di altissimo grado su una portaerei francese, la Charles De Gaulle. C'era Moore, ovviamente, in rappresentanza della Gran Bretagna, e con lui altri generali: un francese, un italiano, uno spagnolo e un tedesco. Conosco il nome del generale tedesco: Otto Bittrich. Ora, però, viene la parte intrigante: a quanto pare, la riunione era estremamente confidenziale, e fin qui nulla di strano, sennonché ho saputo che a organizzarla è stato il più importante generale francese di stanza alla NATO, "l'amico" di Jon, il conte Roland La Porte. A questo si aggiunga che l'ordine di far salpare la portaerei è pervenuto, apparentemente, dal quartier generale della NATO, ma nessuno è riuscito a trovare l'ordine originale firmato.»
«Roland La Porte è il vice comandante supremo della NATO», disse Jon.
«Eccome!» confermò Peter, con un'aria tesa e solenne allo stesso tempo.
«E il suo assistente personale è il capitano Bonnard.»
«Proprio così.»
Jon elaborò in silenzio l'informazione. Poi, disse: «Sono stupito. Credevo che fosse il capitano Bonnard ad approfittare di La Porte, ma potrebbe anche darsi il contrario.
La Porte ha ammesso che l'alto comando francese, e forse lui, aveva osservato da vicino il lavoro di Chambord. E se proprio La Porte l'avesse seguito più da presso di chiunque altro, tenendo per sé quel che aveva scoperto? Ha persino affermato che lui e Chambord sono buoni amici».
Marty si fermò di colpo. Peter prese ad annuire lentamente.
«L'ipotesi mi pare terribilmente sensata», osservò Randi.
«E a Roland La Porte non mancano i soldi», aggiunse Marty. «Emile mi ha parlato più volte del generale La Porte. Lo stimava in quanto vero patriota che ama la Francia e ne promuove il prestigio futuro. Secondo Emile, il generale è spaventosamente ricco.»
«Tanto ricco da poter finanziare un'operazione come questa?» domandò Jon.
Jon, Randi e Peter puntarono gli occhi su Marty. «Così mi è sembrato.»
«Che mi venga un accidente!» disse Peter. «Il vice comandante della NATO in persona.»
«Incredibile», disse Randi. «E tramite la NATO ha sicuramente potuto contare su ogni altro genere di risorse, compresa una grossa nave da guerra come la Charles De Gaulle.»
A Jon tornò in mente quel maestoso francese, il suo orgoglio, la sua aria sospettosa. «Secondo Chambord, La Porte sarebbe un "vero patriota che ama la Francia e ne promuove il prestigio futuro", e Napoleone, quanto a questo, è stato imbattibile. Ora, a quanto pare, l'unica cosa che Chambord ha portato via dal suo laboratorio al Pasteur prima dell'attentato, a parte il prototipo del suo computer molecolare, è una stampa che raffigura Napoleone all'inizio della sua fine. L'inizio della fine della grandeur francese. State pensando anche voi quello che ho in mente io?»
«Credo proprio di sì», disse Peter, che non aveva ancora smesso la sua espressione solenne. «La gloria della Francia.»
«A questo punto, però, avrei un'altra anomalia da introdurre nel problema», disse Jon. «L'ho notata di sfuggita, ma mi pareva irrilevante. Ora, però, ho dei dubbi.»
«Di che si tratta?» domandò Marty.
«Un castello», rispose Jon. «Di un rosso bruciato, probabilmente costruito con una pietra di quel colore. L'ho visto dipinto nella casa parigina del generale La Porte. E poi l'ho rivisto in fotografia, nel suo ufficio alla NATO.
Per lui, evidentemente, è importante, al punto da tenerne sempre con sé una raffigurazione.»
Marty si precipitò verso il suo letto e afferrò il computer.
«Vediamo se riesco a rintracciarlo, e a scoprire se Emile diceva il vero a proposito della ricchezza del generale.»
Randi guardò Peter. «Di che cosa hanno discusso alla riunione a bordo della De Gaulle? Questa informazione potrebbe esserci di grande aiuto.»
«Dobbiamo scoprirlo, non credete?» disse Peter, avviandosi alla porta. «Ti dispiacerebbe, Randi, sentire se a Langley, per caso, sanno qualcosa? E tu, Jon, non potresti fare altrettanto con i tuoi superiori?»
Mentre Marty si collegava a Internet attraverso l'unica linea a disposizione nella stanza, gli altri tre corsero fuori per cercare dei telefoni.
Nell'ufficio del dottor Cameron, Jon compose il numero della linea criptata e sicura di Fred Klein.
«Avete trovato Emile Chambord e la sua dannatissima macchina?» domandò Klein senza preamboli.
«Magari! Ho bisogno di altre informazioni sul conto del capitano Darius Bonnard e del generale La Porte.
Qual è, esattamente, la natura del loro rapporto?»
«Un rapporto di antica data, che dura nel tempo, te l'ho già detto.»
«Non c'è proprio nulla che lasci presumere un possibile plagio del generale da parte del capitano Bonnard?
Non potrebbe essere Bonnard a manovrare La Porte?»
Klein si soffermò a pensarci. «Nel corso dell'operazione Desert Storm, il generale ha salvato la vita a Bonnard, il quale a quei tempi non era che un sergente, sia pure di alto livello. Bonnard deve tutto al generale, come ti ho già detto.»
«Che cosa non mi hai detto, allora?»
Dopo una pausa di riflessione, Klein aggiunse alcuni dettagli.
Mentre Klein parlava, il quadro, agli occhi di Jon, cominciò ad assumere contorni sempre più chiari. Quando ebbe finito, Klein aggiunse: «Che diavolo succede, Jon? Il tempo stringe, dannazione! Mi sembra di avere un cappio al collo. Che cosa significa tutto questo improvviso interesse per il rapporto tra Bonnard e il generale La Porte? Avete scoperto qualcosa che io ignoro? Avete in mente qualcosa? Lo spero vivamente».
Smith gli parlò del secondo prototipo.
«Che cosa? Un secondo computer molecolare?» sbottò Klein. «Perché non hai ucciso Chambord quando ne hai avuta la possibilità?»
Anche Jon iniziava a sentire la tensione e rispose secco: «Cristo! Nessuno poteva supporre che esistesse un secondo prototipo. Credevo di poter salvare Chambord in modo che potesse continuare il suo lavoro per il bene di tutti. Mi sono trovato a dover decidere e, sulla base di quel che sapevo allora, ho creduto di fare la cosa più giusta. Non potevo immaginare che fosse tutto un imbroglio per tenerci all'oscuro del fatto che il vero dominus della situazione era Chambord... neanche tu l'avresti immaginato».
Klein si calmò. «D'accordo. Ormai è andata così. Ora dobbiamo trovare il secondo computer. Se hai una vaga idea di dove possa essere e, magari, un piano, voglio esserne informato.»
«Non ho alcun piano, né so esattamente dove sia quella maledetta macchina, ma so che è in Francia, da qualche parte. Se ci sarà un attacco, avverrà entro breve.
Avverti il presidente. Fidati di me: mi farò vivo non appena saprò qualcosa di preciso.»
Jon interruppe la comunicazione e tornò di corsa nella stanza di Marty.
Nell'ufficio amministrativo della clinica, Peter era esasperato, ma continuava a incalzare l'altezzoso tedesco.
«Generale Bittrich, lei non capisce! Qui si tratta di...»
«Io ho capito soltanto che l'MI-6 vuole da me informazioni che non posseggo, Herr Howell.»
«Generale, so per certo che ha partecipato alla riunione a bordo della De Gaulle. E so che c'era anche un generale britannico che è morto qualche giorno fa: Sir Arnold Moore. Ciò di cui forse lei non ha conoscenza è che la sua morte non è stata un incidente. Moore è stato assassinato da qualcuno. E io credo che questa stessa persona intenda ora utilizzare il computer a DNA per rendere inoffensivi gli Stati Uniti e, quindi, attaccare. È fondamentale che lei mi dica di che cosa si è discusso in quella riunione segreta con il generale La Porte.»
All'altro capo ci fu un breve silenzio. «Dunque, Moore è stato davvero assassinato?»
«Una bomba. Stava tornando in patria per riferire personalmente al primo ministro una cosa di vitale importanza da lui appresa in quella riunione. Ed è proprio questo che vorrei sapere da lei: che cosa aveva scoperto di tanto importante il generale Moore, da giustificare un attentato al suo aereo personale per evitare che andasse a riferirla?»
«È sicuro che si sia trattato di una bomba?»
«Certo. Abbiamo recuperato la fusoliera dell'aereo.
Abbiamo fatto tutte le verifiche del caso. Non c'è il minimo dubbio.»
A quel punto, Otto Bittrich disse: «D'accordo». Parlò con estrema prudenza, soppesando attentamente ogni singola parola. «Il generale francese, La Porte, spinge per la creazione di un esercito europeo totalmente integrato che sia indipendente da quello americano. La NATO è inadeguata a questo scopo, così come la Forza di dispiegamento rapido dell'Unione Europea. Lui prefigura una vera Europa Unita, una vera potenza continentale capace, un giorno, di sovrastare gli Stati Uniti. Da questo punto di vista, è stato esplicito: l'egemonia americana, a suo parere, va contrastata. Afferma che l'Europa è già ottimamente posizionata per diventare una superpotenza mondiale. Se non assumerà questo ruolo di rilievo che le spetta di diritto, secondo lui, finirà per diventare un satellite statunitense come tutti gli altri o, al massimo, la colonia favorita, ma pur sempre asservita agli interessi americani.»
«Sta dicendo che vuole far guerra agli Stati Uniti?»
«Lui sostiene che per molti versi noi siamo già in guerra con gli Stati Uniti.»
«E lei che cosa ne pensa, generale?»
Bittrich si concesse un'altra pausa. «Su molte cose, sono perfettamente d'accordo con La Porte, Herr Howell.»
Peter ebbe una lieve esitazione. «E per il resto? Che cosa voleva dire il generale Moore al primo ministro inglese?»
Bittrich restò per un attimo in silenzio. «Sospettava, credo, che il generale La Porte volesse dimostrare la sua tesi, secondo cui non dovremmo dipendere dagli americani, mostrando l'incapacità degli americani di difendersi.»
«E come?» domandò Peter. Attese la risposta con crescente allarme.
Nell'atrio della clinica, nella stessa cabina telefonica che aveva già usato in precedenza, Randi sbatté giù la cornetta.
Era arrabbiata e preoccupata. Da Langley non avevano saputo dirle niente di nuovo su La Porte e Bonnard.
Riattraversò di corsa l'atrio per tornare al piano superiore, sperando che gli altri fossero stati più fortunati.
Quando entrò nella stanza di Marty, Jon era di guardia presso l'unica finestra e sorvegliava la via sottostante, mentre Marty era ancora seduto sul suo letto alle prese con il suo computer.
«Nada», disse Randi, richiudendo la porta. «Langley non mi è stato di nessun aiuto.»
«Io ho scoperto qualcosa di interessante», disse Jon.
«Il generale La Porte ha salvato la vita al capitano Bonnard durante l'operazione Desert Storm, in Iraq. E Bonnard, da allora, è assolutamente fedele al generale e ostenta una considerazione esagerata per le virtù del suo superiore.» Lanciò un'occhiata lungo la strada. Per un attimo, gli parve di vedere una sagoma furtiva a un isolato di distanza. «Bonnard farebbe qualunque cosa per La Porte: è a sua totale disposizione.» Scrutò in lontananza alla ricerca di quella figura elusiva. Era svanita. Jon studiò il traffico e il movimento dei pochi pedoni nelle vicinanze dell'ingresso della clinica privata.
«Ehi, guardate qua! Che abbondanza!» Marty distolse l'attenzione dal computer. «La risposta è che il generale La Porte e la sua famiglia valgono centinaia di milioni, calcolando in dollari. Nel complesso, una cifra prossima al mezzo miliardo di dollari.»
Jon emise un fischio. «Con una cifra del genere non sarebbe impossibile organizzare un piccolo attacco terroristico.»
«Già», concordò Marty. «Il generale La Porte corrisponde perfettamente al nostro profilo, e più ci penso più mi ricordo che Émile, a un certo punto, si è messo a parlare ossessivamente della Francia, dicendo che non le si porta il rispetto che merita e che, con la storia grandiosa che si ritrova alle spalle, potrebbe avere un futuro ancora più luminoso, se salissero al potere le persone giuste.
Ogni tanto dimenticava che fossi americano e diceva cose davvero irritanti su di noi. Una volta, mentre tesseva le lodi di La Porte, ha cominciato a dire che è troppo sacrificato nella posizione che occupa e che è una vergogna che debba stare agli ordini di un americano.»
«Sì», disse Jon. «Si riferiva al generale Carlos Henze. È il comandante supremo della NATO.»
«Sì, ma il problema non è tanto il generale Henze come persona, quanto piuttosto il fatto che è americano.
Vedete? L'anomalia da me individuata spiega un mucchio di cose. Ormai è evidente che Émile ha portato con sé quella riproduzione di David, perché è la sua fonte d'ispirazione: la Francia risorgerà.»
«Hai trovato i dati sul patrimonio dei La Porte, su Internet?» domandò Randi.
«Sì, è stato facile come bere un bicchier d'acqua», rispose Marty. «Non è stato difficile stabilire qual è la sua banca... Francese, ovviamente. E alla fine, grazie anche ad alcuni programmi che conosco piuttosto bene, sono riuscito a sfondare il firewall e, con la classica tattica del "mordi e fuggi", ho estorto una certa quantità di dati.»
«E sul castello rosso sei riuscito a scoprire qualcosa?» domandò Jon.
Marty restò di sasso. «Me n'ero dimenticato. La storia di La Porte era così affascinante... Adesso, però, lo cerco.»
Peter entrò nella stanza di Marty praticamente di corsa.
La sua faccia spigolosa era tesa. «Ho appena parlato con il generale Bittrich. La riunione sulla De Gaulle era stata indetta da La Porte per promuovere la sua idea di una forza militare europea totalmente integrata, con l'obiettivo finale, secondo Bittrich, di costruire un'Europa davvero unita, un'unica nazione. Bittrich era piuttosto guardingo, ma quando gli ho riferito che il generale Moore era stato assassinato, si è deciso a sputare il rospo. Moore, come Bittrich, a quanto pare, si era allarmato per l'insistenza con cui La Porte aveva riportato l'attenzione dei presenti sui black out dei sistemi elettronici e delle telecomunicazioni militari negli Stati Uniti, paventando la possibilità che se ne verificassero di nuovi, a dimostrazione dell'incapacità americana di difendere il loro territorio.»
Jon sollevò le sopracciglia. «Al momento della riunione sulla De Gaulle, il generale La Porte non poteva in alcun modo sapere dei problemi alle reti di distribuzione e di telecomunicazione.
Solo gli americani e le più alte cariche militari e istituzionali britanniche ne erano informati.»
«Appunto. La Porte ne era al corrente perché era tra i responsabili di quegli attacchi. Allora, Bittrich aveva liquidato i propri dubbi come una reazione eccessiva: non voleva farsi influenzare dall'antipatia personale nei confronti di quel "borioso fru-fru" del generale La Porte.
Così l'ha definito.» Peter scrutò in volto gli amici. «In sostanza, Bittrich sospetta che La Porte abbia intenzione di lanciare un attacco contro voialtri yankee, non appena i vostri sistemi di difesa verranno neutralizzati.»
«Quando?» domandò Jon.
La voce di Peter si fece più amara e dura. «Secondo Bittrich "se questa ipotesi assurda dovesse in qualche misura rivelarsi fondata, cosa a cui non credo neppure per un istante", l'attacco potrebbe avvenire stanotte... come temevamo.»
«Perché proprio stanotte?» domandò Randi.
«Perché lunedì prossimo il Consiglio delle Nazioni Unite si riunirà in sessione segreta per decidere se creare o meno una struttura militare paneuropea. La Porte ha molto insistito affinché questa seduta si tenesse e restasse segreta, come anche l'esito del voto.»
L'unico rumore era il ticchettio dell'orologio posato sul comodino accanto al letto di Marty.
Guardando fuori dalla finestra, Jon notò due uomini.
Gli parve di averli già visti passare davanti alla clinica un paio di volte.
«Stanotte, d'accordo. Ma quando, di preciso?» domandò Randi.
«Ah!» esultò Marty, seduto sul letto. «Château la Rouge. È per caso questo?»
Jon si allontanò dalla finestra per controllare il monitor.
«Sì, è proprio il castello che ho visto nel dipinto e nella foto in possesso di La Porte.» Tornò alla finestra e, rivolto agli amici, disse: «Volete sapere quando verrà lanciato l'attacco? Se fossi La Porte, agirei sabato, quando a New York sono le sei del pomeriggio, cioè l'ora del massimo trambusto, e in California le tre, con tutti gli eventi sportivi in corso e, se il tempo è bello, con le spiagge affollate e le strade intasate di traffico, mentre in Francia è mezzanotte e tutto tace, avvolto nell'oscurità. La notte è l'ideale. Per colpire gli Stati Uniti e cercare di nascondere le mie responsabilità lancerei l'attacco dalla Francia intorno alla mezzanotte».
Peter domandò: «Dov'è questo Château la Rouge, Marty?».
Marty stava leggendo sul monitor. «È antico, medievale, fatto di... Normandia! È in Normandia!»
«A due ore da Parigi», disse Peter. «Il computer molecolare potrebbe trovarsi lì.»
Randi guardò l'orologio appeso alla parete. «Sono quasi le nove. Se Jon ha ragione...»
«Conviene sbrigarci», disse Peter con calma.
«Io ho promesso di informare i servizi segreti dell'esercito.»
Jon fece per allontanarsi dalla finestra. Doveva avvertire Fred immediatamente, ma lanciò un'ultima occhiata giù in strada. E imprecò. «Abbiamo visite. Uomini armati. Due di loro stanno entrando dall'ingresso principale della clinica.»
Randi e Peter misero mano alle pistole, e Randi corse alla porta della stanza.
«Oh, mio Dio!» disse Marty. Spalancò gli occhi, spaventato.
«È terribile! La connessione Internet è saltata.
Che cosa succede?»
Peter staccò il cavo telefonico dal computer e provò il telefono. «Non da nessun segnale!»
«Hanno tagliato le linee del telefono!» Marty sbiancò in volto.
Randi aprì di un filo la porta e si mise in ascolto.
Capitolo 36.
Fuori dalla porta della stanza di Marty, il corridoio era tranquillo. «Andiamo!» disse Randi sottovoce. «Ho visto un'altra via d'uscita, prima, mentre cercavo il telefono.»
Marty recuperò i suoi farmaci, mentre Jon agguantò il computer portatile. Con Randi alla testa, il gruppetto scivolò silenzioso in corridoio, sfilando davanti alle porte chiuse di altre stanze della clinica. Davanti a una di queste, si trovava un'infermiera in camice bianco inamidato che aveva appena bussato. Vedendoli si bloccò perplessa, con la mano sulla maniglia. Loro le passarono accanto senza dir nulla.
Dalla tromba delle scale giunse la voce indignata del dottor Cameron, che in francese urlò: «Fermatevi! Chi siete? Come osate entrare armati nella mia clinica!».
Jon, Randi e Peter accelerarono il passo. Marty aveva il viso congestionato a causa dello sforzo compiuto per non perdere terreno. Passarono davanti a un paio di ascensori, e in fondo al corridoio Randi prese la porta antincendio uscendo dall'edificio, proprio mentre dalle scale alle loro spalle proveniva un rumore di passi.
«Oh-oh! D-da che parte, adesso?» domandò Marty.
Randi lo zittì, e i quattro scesero di corsa lungo la grigia scala esterna. Giunti in fondo, Randi fece per aprire la porta, ma Jon la fermò.
«Che cosa c'è qui fuori?» domandò.
«Siamo sotto il pianterreno, perciò credo sia una specie di seminterrato.»
Jon annuì. «Adesso tocca a me.»
Randi si strinse nelle spalle e fece un passo indietro.
Jon porse il computer a Marty ed estrasse il pugnale ricurvo che aveva sottratto all'afghano. Aprì la porta di qualche centimetro, aspettandosi un cigolio dei cardini.
Non udendo nulla, aprì ancora un po' e vide un'ombra in movimento. Si sforzò di controllare la respirazione. Si voltò verso gli amici e si portò un dito davanti alla bocca.
Loro gli risposero annuendo in silenzio.
Cercò nuovamente l'ombra, guardò verso la luce che dall'alto l'aveva proiettata, colse di nuovo un movimento e uscì dalla porta.
Si sentiva un vago odore di benzina. Erano in un piccolo garage sotterraneo pieno di auto. Gli ascensori erano poco lontano; da quella parte si aggirava, di spalle, un uomo dalla carnagione chiara e in abiti civili con una Uzi tra le mani.
Jon lasciò la porta e, quando questa accennò a tornare indietro, si slanciò in avanti. L'uomo con la Uzi si voltò e i suoi occhi azzurri si socchiusero. Si era girato troppo presto. Jon sperava di avere il tempo di saltargli addosso.
Quel tizio, con il dito sul grilletto, sollevò l'arma. Non c'era tempo. Jon lanciò il coltello. Non era fatto per essere lanciato, perché non era bilanciato, ma non aveva nient'altro. Mentre il coltello roteava, Jon con un colpo di reni si slanciò in avanti.