Gli elettroni e gli atomi non si muovono con la linearità di palle da biliardo, secondo le leggi della fisica classica di Newton. Al contrario, sono più simili a entità ondulatorie anomale. A livello atomico, le onde possono comportarsi come particelle, e le particelle sono sempre associate a onde. Un elettrone può prendere simultaneamente molte direzioni diverse, quasi fosse davvero un fenomeno diffuso come un'onda. Analogamente, un computer atomico sarebbe in grado di operare seguendo simultaneamente molti percorsi diversi, magari addirittura in dimensioni diverse. Ciò proverebbe l'erroneità dei presupposti su cui si fonda il mondo attuale.
I computer moderni consistono essenzialmente di un insieme di cavi operanti in una sola direzione, di uno strato di interruttori, e di un secondo insieme di cavi operanti nella direzione opposta alla prima. I cavi e gli interruttori sono configurati in modo da creare porte logiche, ma le cose cambiano a seconda del tipo di cavi e di interruttori utilizzati. Chambord era riuscito a far funzionare molecole di DNA come porte logiche AND e OR, ossia sulla base del più elementare linguaggio dei computer elettronici. Uno dei problemi insormontabili incontrati da altri scienziati nel costruire macchine sperimentali a DNA era sorto dal fatto che le molecole di rotaxane utilizzate per realizzare le porte logiche potevano compiere una sola operazione: una caratteristica che le rendeva adatte per le ROM, ma non per le RAM, che richiedono un tipo di funzionamento continuo.
Chambord aveva superato quell'ostacolo: aveva creato una molecola diversa, capace di far funzionare un computer a DNA. Una molecola sintetica che aveva chiamato «francane», in onore della Francia.
Mentre Chambord distoglieva lo sguardo dal congegno per eseguire dei calcoli matematici sul proprio blocco per appunti, Thérèse comparve sulla soglia ad arco della stanza. «Perché li aiuti?» Guardava il padre con rabbia, ma la voce era controllata. Curvo sui suoi calcoli, il vecchio aveva un'aria molto stanca.
Sospirò, alzò la testa e si girò. «Che cos'altro posso fare?»
Le labbra carnose di Thérèse erano pallide, perché il rossetto acceso si era consumato già da giorni. Non spazzolati né acconciati, i suoi capelli neri non assomigliavano più a un velo di seta. Indossava ancora il sottile abito da sera bianco, ormai lacero e imbrattato. La camicetta di seta dal colletto alto era macchiata di sangue e sporcizia, mentre le scarpe avorio dal tacco alto erano scomparse.
Al loro posto indossava un paio di calzature da beduino.
Erano state l'unica concessione ai suoi rapitori: aveva rifiutato persino un cambio di vestiti.
«Potresti rifiutarti», ribatté lei stancamente. «Nessuno di loro è in grado di far funzionare il tuo computer molecolare.
Non potrebbero fare nulla.»
«E io sarei morto. E, soprattutto, tu saresti morta.»
«Ci ammazzeranno comunque.»
«No! Me l'hanno promesso!»
Thérèse colse la disperazione del padre, il suo tentativo di aggrapparsi a un'illusione. «Promesso?» La ragazza scoppiò a ridere. «E tu credi alle promesse di questi terroristi, rapitori e assassini}»
Chambord serrò la bocca e rinunciò a rispondere. Si rimise al lavoro, controllando i collegamenti del computer.
«Faranno qualcosa di orribile», disse. «Moriranno molte persone. Lo sai, vero?»
«Non so proprio niente.»
Fissò il profilo del padre. «Hai stretto un patto. Per me. Non è vero? La tua anima in cambio della mia vita.»
«Non ho stretto nessun patto.» Lui tenne lo sguardo basso.
Thérèse continuò a fissarlo, cercando di immaginare lo stato d'animo del vecchio, i pensieri che gli passavano per la testa in quel momento. «Però è esattamente ciò che farai: otterrai la mia liberazione e poi li aiuterai a mettere in atto il loro piano, quale che sia.»
Chambord tacque. Quindi disse piano: «Non permetterò che ti uccidano».
«Non tocca forse a me, la scelta?»
Il padre si girò di scatto sulla sedia. «No, questa scelta spetta a me!»
Si udì un rumore di passi leggeri alle spalle di Thérèse.
Lei sussultò quando Mauritania comparve inquadrato dall'arco di pietra e fissò lo sguardo prima su di lei, poi su Chambord e, infine, di nuovo su di lei. Armato e minaccioso, Abu Auda sorvegliava la scena poco più indietro.
Mauritania assunse un'aria solenne. «Si sbaglia, Mademoiselle Chambord. Quando la nostra missione sarà compiuta, non avrò più bisogno di suo padre, e noi annunceremo al mondo il nostro trionfo, affinché il Grande Satana sappia chi lo ha portato alla rovina. A quel punto, non sarà più un problema, se lei o suo padre deciderete di parlare. Non morirà nessuno, a parte coloro che si rifiuteranno di adempiere la loro missione.»
Thérèse sorrise sarcastica. «Forse, riuscirete a ingannare mio padre, ma non me. Le menzogne le riconosco all'istante.»
«La sua mancanza di fiducia nei nostri confronti mi addolora, ma non ho il tempo per persuaderla.» Mauritania guardò Chambord. «Quand'è che sarà di nuovo in funzione?»
«Avevo detto che avrei avuto bisogno di due giorni.»
Mauritania socchiuse gli occhi già piccoli. «I due giorni sono quasi passati.» Da che era comparso, Mauritania non aveva mai alzato la voce, ma questo non rendeva meno minaccioso il suo sguardo di fuoco.
Parigi, Francia La svettante Tour Montparnasse, con il suo corredo di altissimi e lussuosi edifici affacciati sul Boulevard omonimo, si allontanava sempre di più, mentre Smith, Randi e Hakim Gatta, un terrorizzato assistente di laboratorio dell'Institut Pasteur, si inoltravano per le stradine secondarie della capitale francese, dove nuovi bohemien vivevano e lavoravano nell'aleggiante spirito dei loro predecessori.
Il sole era tramontato, e gli ultimi bagliori del giorno conferivano al cielo una cupa sfumatura grigiogiallastra. Ombre nere si allungavano su ipertrofici giardini primaverili e sulle strade di acciottolato, mentre nell'aria si mescolavano i profumi di liquore, marijuana e tempera a olio.
Alla fine, il piccolo e nervosissimo Hakim, lo sciacquaprovette, biascicò in francese: «La via è questa. Posso... andarmene... adesso?». Era poco più alto di un metro e cinquanta, e aveva folti capelli neri e ricci, la pelle bruna e occhi neri che guizzavano furtivi. Abitava sopra il dottor Akbar Suleiman.
«Non ancora», rispose Randi, trascinandolo di nuovo nell'ombra, dove anche Jon si appostò con tre rapidi passi. «Qual è il numero civico?»
«Il... quindici.»
«E l'appartamento?» domandò Jon.
«Terzo piano. In fondo. Avevate promesso di pagarmi e di lasciarmi libero.»
«Il vicolo è l'unica altra via di fuga possibile?»
Hakim annuì, ansioso. «Sì. Non ci sono altre uscite.»
Rivolgendosi a Randi, Jon disse: «Sorveglia il vicolo. Io vado su».
«Chi l'ha deciso?»
Hakim fece per allontanarsi, ma lei lo afferrò per il colletto e gli mostrò la pistola che aveva in pugno; lui, dopo un ultimo sussulto, restò immobile.
Jon la guardò. «Scusami. Hai un'idea migliore?»
Randi scosse la testa, sia pur controvoglia. «No, hai ragione, ma la prossima volta ricordati di chiedermelo, okay? Hai presente la discussione che abbiamo avuto sull'importanza della cortesia? Comunque, sarà meglio muoversi. Non possiamo sapere quanto si tratterrà a casa, se scoprirà che abbiamo chiesto di lui al Pasteur. Ce l'hai il walkie talkie?»
«Certo.» Jon si tastò la tasca del trench nero. Si avviò in fretta per lo stretto marciapiedi. Le finestre illuminate dei palazzi a quattro, cinque o sei piani erano come fari proiettati sulla profonda vallata della strada. Giunto al portone contrassegnato dal numero quindici, si appoggiò con noncuranza di spalle al muro e si guardò intorno.
Per la via passeggiavano diverse persone dirette ai bar, ai bistrot oppure a casa. Alcune coppie, giovani e meno giovani, si tenevano per mano, godendosi il crepuscolo primaverile e la reciproca compagnia. Jon attese che non ci fosse nessuno negli immediati dintorni ed entrò in azione.
Il portone sulla via era appena socchiuso, e non c'era portineria. Jon estrasse la sua Walther, sgattaiolò all'interno e salì per le scale fino al terzo piano. La porta dell'appartamento in fondo era chiusa. Tese l'orecchio e dopo un po' udì il suono di una radio, accesa in una stanza da qualche parte in fondo all'appartamento. Qualcuno, poi, doveva aver aperto un rubinetto, perché Jon colse anche uno scrosciare d'acqua in un lavandino.
Provò ad abbassare la maniglia, ma la porta era chiusa a chiave. Fece un passo indietro e la osservò: aveva una normale serratura a scatto. Se avesse anche avuto un chiavistello chiuso, sarebbe stato molto più complicato, per lui, entrare. D'altra parte, la maggior parte delle persone non gli da importanza e non si preoccupa di tirare il chiavistello se non prima di andare a letto.
Estrasse la piccola custodia dei suoi grimaldelli e si mise al lavoro. Era ancora intento a trafficare quando l'acqua smise di scorrere. Si udì un rumore tonante, e dall'interno dell'appartamento una raffica di pallottole forò la porta pochi centimetri sopra la testa di Jon, proiettando in giro schegge di legno simili ad aghi. Jon sentì all'improvviso un dolore acuto a un fianco e si gettò a terra, cadendo sulla spalla sinistra. Lo avevano colpito. Fu colto da una violenta vertigine. Riuscì con fatica a rialzarsi a sedere e ad appoggiarsi di schiena al muro, di fronte alla porta sforacchiata verso cui teneva puntata la sua Walther. Il fianco gli pulsava dolorosamente, ma Jon si sforzò di ignorarlo. Aveva lo sguardo fisso sulla porta.
Visto che non ne usciva nessuno, si sbottonò l'impermeabile e sollevò la camicia. Un proiettile gli aveva trapassato i vestiti e la carne appena sopra l'anca, lasciando un cuneo rosso scuro. Sanguinava, ma non troppo, e la pallottola non aveva leso organi vitali. Se ne sarebbe occupato in seguito. Lasciò la camicia fuori dai pantaloni; la stoffa nera dell'impermeabile nascondeva alla perfezione il sangue e i buchi della pallottola.
Si alzò in piedi, la Walther spianata, fece un passo di lato e scagliò la custodia dei grimaldelli contro la porta. In risposta giunse un'altra raffica che colpì l'uscio proprio all'altezza della serratura, devastando ulteriormente il legno e il metallo. Grida di ogni tipo e imprecazioni si propagarono dall'alto e dal basso nella tromba delle scale.
Con la spalla destra, Jon sfondò definitivamente la porta. Si tuffò a terra e, rotolando su se stesso, si rialzò in piedi impugnando la pistola a due mani.
Una donna minuta, ma attraente, sedeva a gambe incrociate su un divano malconcio sistemato di fronte all'ingresso, con un enorme AK-47 tra le braccia, ancora puntatovi contro. In evidente stato di shock, fissava Jon come se non l'avesse visto fare irruzione nell'appartamento.
«Metti giù quell'arma!» le ingiunse Jon in francese. «A terra! Presto!»
La donna balzò in piedi all'improvviso, con un grido inarticolato, e puntò il Kalashnikov contro di lui. Con un calcio, Jon le tolse il fucile dalle mani. Prendendola per le braccia, la fece voltare e la spinse davanti a sé facendo il giro delle stanze.
Non c'era nessun altro. Premette la bocca della Walther contro la testa della donna e, sempre in francese, ringhiò: «Dov'è il dottor Suleiman?».
«Dove tu non riuscirai mai a trovarlo, chien!»
«Che cos'è? E per caso il tuo fidanzato?»
Lo sguardo della donna ebbe un guizzo. «Perché? Sei geloso?»
Jon prese il walkie talkie da una tasca del trench e parlò a bassa voce. «Suleiman non c'è. Però c'era. Tieni gli occhi aperti.»
Si rimise la ricetrasmittente in tasca, strappò un lenzuolo con cui legò la donna a una sedia e uscì in tutta fretta dall'appartamento, lasciando che la serratura a scatto si richiudesse alle sue spalle. Corse giù per le scale e uscì in strada.
Nel vicolo di acciottolato dietro il palazzo che puzzava di urina e di vino rancido, Randi alzò gli occhi verso le finestre del terzo piano, con la sua Beretta in pugno. Accanto a lei, Hakim Gatta saltellava nervosamente da un piede all'altro, come un coniglio terrorizzato il cui unico desiderio fosse un riparo sicuro. Erano in attesa sotto un tiglio che proiettava un'ombra fittissima. Sopra di loro era visibile un solo, piccolissimo spicchio di notte, e le stelle iniziavano a far capolino, come punture di spillo tra le nuvole.
Randi gli premette la Beretta nel fianco. «Sei sicuro che fosse in casa?»
«Sì, ve l'ho detto. C'era, almeno, quando sono uscito.»
Si passò prima una mano e poi l'altra nella nera matassa dei capelli ricci. «Non avrebbero dovuto dirvi che abitiamo nello stesso palazzo.»
Randi lo ignorò, assorta nei suoi calcoli. «E sei sicuro che questa sia l'unica via d'uscita oltre all'ingresso principale?»
«Ve l'ho già detto!» disse Hakim, quasi gridando.
« Taci!» Randi lo squadrò con aria truce.
Lui abbassò la voce, e stava borbottando qualcosa tra sé quando la prima raffica rimbombò nel vicolo.
«Giù!»
Il piccoletto crollò a terra piagnucolando. Anche Randi si acquattò e tese l'orecchio per captare ulteriori movimenti all'interno dell'edificio. Nulla, in un primo momento, ma poi una seconda fragorosa raffica echeggiò dai piani superiori, seguita da un rumore di legno frantumato.
Randi lanciò un'occhiataccia al tremebondo Hakim.
«Se scopriamo che c'è una terza via d'uscita, è peggio per te.»
«Vi ho detto la verità! Giuro! Io...»
Risuonò un nuovo rumore, di passi affrettati, e Randi alzò la testa per guardare. La porta posteriore del palazzo si spalancò, e un uomo ne uscì a tutta velocità. Dopo qualche passo, però, il tizio rallentò, una calibro 9mm in pugno, tenuta lungo il fianco, puntata a terra. Era nervosissimo e continuava a voltare la testa da ogni parte alla ricerca di eventuali pericoli.
La radio di Randi si mise a gracchiare. Lei tirò a sé Hakim, gli tappò la bocca con una mano e ascoltò quel che Jon aveva da dirgli. «Suleiman non c'è. Però c'era.
Tieni gli occhi aperti.»
«È qui, infatti. Ci vediamo davanti al palazzo, se puoi.»
Capitolo 22.
Sotto lo sguardo di Randi, l'uomo appena sbucato dal retro del palazzo si voltò e iniziò a correre verso l'estremità più lontana del vicolo, frenando di tanto in tanto il suo impeto, perché temeva, forse, che la sua fretta potesse attirare l'attenzione di qualcuno. Stava scappando, ma non era in preda al panico. Randi consegnò degli euro ad Hakim e gli consigliò di starsene zitto e a terra finché lei e il fuggiasco non fossero scomparsi. Hakim annuì con foga, gli occhi sbarrati per la paura.
Lei si rialzò in piedi e avanzò a passi felpati, estraendo al contempo da una tasca della giacca la microricetrasmittente con la mano sinistra. Nella destra stringeva la Beretta.
Il fuggitivo si fermò all'incrocio tra il vicolo e la via perpendicolare.
Guardò prima a destra e poi a sinistra. Randi si appiattì contro il muro, trattenendo il respiro. Alla luce dei fanali delle auto di passaggio, notò che quell'uomo era basso e magro, e portava i capelli neri e lisci lunghi sulle spalle. Poco meno di trent'anni, stimò Randi. Ben vestito, con un blazer blu alla occidentale, camicia bianca, cravatta a righe, ampi pantaloni grigi e scarpe basse e nere da passeggio. Aveva gli occhi neri, vivacissimi e attenti, e tratti filippino-malesi, con il viso allungato e dagli zigomi alti, tipico dei moro di Mindanao. Il dottor Akbar Suleiman, preoccupato e spaventato, continuò con pazienza a scrutare i dintorni, ma non si decideva a muoversi.
Randi parlò nel walkie talkie. «Sta aspettando qualcosa.
Avvicinati più che puoi a Rue Combray.»
Aveva appena interrotto la comunicazione, quando una piccola berlina Subaru nera inchiodò davanti al dottor Suleiman. Una portiera posteriore si aprì, e il filippino saltò a bordo. Prima ancora che la portiera fosse richiusa, la Subaru ripartì. Randi corse fino in fondo al vicolo, e subito un'altra auto - una Ford Crown Victoria, anch'essa nera - frenò con gran stridio di pneumatici. Jon sopraggiunse di corsa dal lato anteriore del palazzo e aggirò l'auto. Lui e Randi balzarono contemporaneamente sul sedile posteriore.
L'uomo alla guida si lanciò nella stessa direzione presa dalla Subaru. Randi si sporse in avanti. «Max ha individuato la Subaru?»
«Ce l'ha proprio nel mirino», le rispose Aaron Isaacs.
«Grande. Seguiamoli.»
Aaron annuì. «È Smith il tuo compare, o è Howell?»
Randi fece le presentazioni. «Tenente colonnello Jon Smith, dottore in medicina, momentaneamente in missione per i servizi d'informazione dell'esercito. Jon, ti presento Aaron Isaacs, capo del nostro ufficio a Parigi.»
Jon sentì gli occhi di Isaacs che lo scrutavano, la sua mente che analizzava ciò che gli occhi vedevano e valutava il grado di credibilità della sua storia. Il sospetto era il suo mestiere.
La radio di Isaacs si mise a crepitare, e una voce maschile riferì in tono assolutamente neutro: «La Subaru si sta fermando davanti all'Hotel Saint-Sulpice, vicino al Carrefour de l'Odèon. Ne stanno scendendo due uomini. Entrano nell'hotel. La Subaru se ne sta andando. Istruzioni?».
Randi si sporse in avanti, e Aaron le porse il microfono.
«Segui la Subaru, Max.»
«Ottima idea, signorina.»
«Va' al diavolo, Max.»
Aaron si girò verso di lei. «Vado all'hotel?»
«Mi hai letto nel pensiero», disse Randi.
Tre minuti dopo, la Crown Victoria accostò a mezzo isolato dall'Hotel Saint-Sulpice. Randi osservò l'edificio.
«Di' un po', Aaron: com'è questo albergo?»
«Squallido. Otto piani. Un tempo la clientela era composta perlopiù da bohemien del quartiere, poi sono subentrati i nordafricani e adesso viene frequentato soprattutto da turisti poco danarosi. Non ci sono uscite laterali o sul retro. L'unica è quella principale.»
La ricetrasmittente installata sull'auto crepitò nuovamente, e di nuovo risuonò la voce di Max: «La Subaru è stata presa a noleggio con tanto di autista. Prenotazione fatta per telefono. Nessuna informazione sul passeggero o sul luogo in cui è stato prelevato».
«Torna qui all'hotel a prendere Aaron. Noi terremo la Crown Victoria.»
«Devo dedurne che stasera non usciamo insieme, Randi?» replicò Max all'istante.
Randi stava per perdere la pazienza. «Bada a come parli, Max, altrimenti lo dirò a tua moglie.»
«Ah, già, hai ragione: sono sposato.» E la radio tacque.
Randi scosse la testa. Mentre lei e Aaron parlavano dei rispettivi incarichi, Jon pensava a Marty. E si intromise nella conversazione tra i due della CIA dicendo: «Marty, ormai, si sarà svegliato. E poi potremmo servirci anche di Peter, per questa operazione».
«Il dottor Suleiman potrebbe uscire da un momento all'altro», obiettò lei.
«Vero, ma se Max mi accompagna all'ospedale, posso andare e tornare alla svelta. Nel caso sorgano problemi, tu e Max potete comunicare tra voi via radio, mentre io mi porterò un walkie talkie in ospedale, così lui potrà informarmi di qualsiasi cosa in qualsiasi momento.»
«Non avevamo detto che si doveva evitare di comunicare senza fili?» domandò Randi.
Jon scosse la testa. «Non credo che il computer molecolare, dovunque si trovi, sia attualmente sintonizzato sulle comunicazioni radio della polizia parigina, che peraltro non utilizzano neppure il satellite. E poi non possono essere già al corrente della fuga del dottor Suleiman.
È praticamente impossibile che qualcuno ci intercetti o ci individui. Perciò, se Suleiman esce dall'hotel prima del mio ritorno, avvertimi. Peter, Max e io ci muoveremo di conseguenza.»
Randi acconsentì, mentre Aaron disse che sarebbe rimasto con Randi fino al ritorno di Jon e Max. I due agenti della CIA ripresero la loro discussione, e Jon, quando Max arrivò su una Chrysler Imperial, salutò e cambiò auto, prendendo posto, questa volta, sul sedile anteriore, accanto a Max.
«Hai qualcosa per il pronto soccorso, qui?» domandò Jon, mentre l'auto si faceva largo nel traffico in direzione sudovest, verso l'ospedale.
«Certo, nel cassetto del cruscotto. Perché?»
«Niente di grave. Solo un graffio.» Ripulì la ferita al fianco e vi applicò dell'antibiotico in pomata. Fissò una garza con del cerotto, si assicurò che fosse sistemata a dovere e ripose nel contenitore i medicinali e tutto il resto.
Quando sistemò nel cassetto il kit di pronto soccorso, erano ormai arrivati all'ospedale.
Jon percorse alla svelta il cavernoso atrio del mastodontico ospedale Pompidou, superando le palme e il negozio di articoli da regalo, per poi salire con la scala mobile fino al reparto rianimazione. Smaniava dalla voglia di vedere Marty e nutriva un certo ottimismo. Marty si era svegliato -Jon ne era certo - e forse era già tornato a essere il solito testardo di sempre. Al banco che controllava l'accesso al reparto rianimazione, su richiesta di un'infermiera che non aveva mai visto, Jon si qualificò.
«Il suo nome, effettivamente, è sull'elenco, dottore, ma il dottor Zellerbach è stato trasferito in una stanza privata al quarto piano. Non lo sapeva?»
«Sono stato fuori città. È ancora qui il professor Dubost?»
«Mi dispiace, dottore. Tornerà domani, a meno di imprevisti, ovviamente.»
«Ovviamente. Allora, può dirmi, per cortesia, il numero della stanza del dottor Zellerbach?»
Al quarto piano, non appena vide la porta della stanza privata di Marty, Jon ebbe un tuffo al cuore. A piantonarla non c'erano guardie. Smith diede un'occhiata in giro, ma non vide nessuno intento a sorvegliare la stanza.
Dov'era la Sûreté? E l'MI-6? Infilò una mano nell'impermeabile e impugnò la Walther, tenendola pronta, ma nascosta.
Temendo il peggio, sfilò accanto a infermiere, medici, visitatori e pazienti, che neppure sfiorarono la sua attenzione, concentrata sulla porta della stanza di Marty.
Vi appoggiò una mano e verificò che fosse chiusa. Con la mano sinistra, allora, girò lentamente la maniglia, finché non la sentì scattare. Impugnando la pistola a due mani, sospinse leggermente la porta con un piede di quel tanto che gli bastò per intrufolarsi nella stanza, con la Walther spianata.
Il respiro gli si bloccò in gola. Era deserta. Le lenzuola che coprivano Marty erano gettate ai piedi del letto, il lenzuolo di sotto stropicciato come da un paziente inquieto.
Nessuna traccia di Marty né di Peter né delle guardie. Nessun agente della polizia in borghese o dell'MI-6 camuffato.
Con i nervi che vibravano per la tensione, avanzò all'interno della stanza, per fermarsi subito dopo. Dall'altra parte del letto c'erano due cadaveri. Jon non dovette neppure esaminarli per sapere che per quelle persone non poteva fare più nulla. Giacevano in un lago di sangue che, per quanto in via di coagulazione ai margini, appariva ancora relativamente fresco. Erano entrambi vestiti da medici, con tanto di soprascarpe e di mascherina. Dalla loro sagoma fu subito certo che non si trattava né di Marty né di Peter.
Sospirò di sollievo e si chinò. Erano stati entrambi pugnalati con un coltello a doppio taglio maneggiato da un esperto. Quel duplice omicidio poteva benissimo essere opera di Peter. Ma dov'erano finiti lui e Marty? Dov'erano le guardie? Jon si alzò in piedi lentamente. Evidentemente, nessuno all'ospedale si era reso conto dell'accaduto.
Non c'era agitazione, non c'era allarme; nessuno sembrava essersi accorto che Marty non si trovava più dove doveva essere. Le guardie erano sparite, due uomini erano stati uccisi e Peter e Marty erano svaniti, il tutto senza provocare il minimo trambusto e senza che qualcuno lo notasse.
Il walkie talkie fissato alla cintura emise un segnale acustico.
Jon lo accese. «Qui è Smith. Che succede, Max?»
«Randi dice che l'uccellino ha un amico e se ne sta andando.
Lei e Aaron li seguiranno. Dice che dobbiamo muoverci. Ci darà indicazioni strada facendo.»
«Sto arrivando.»
Con sguardo attonito, osservò un'ultima volta quella stanza d'ospedale. Peter era in gamba, abbastanza in gamba da riuscire a fare tutto quel casino senza che nessuno se ne accorgesse, anche se Jon non aveva idea di come avesse fatto, esattamente, a nascondersi e a fuggire con un paziente ammalato come Marty. E poi che ne era stato dei due legionari che piantonavano la porta? E di tutti gli agenti in borghese che di certo erano appostati in zona?
Se poteva essere stato Peter, tanto più ne sarebbero stati capaci i terroristi. Poteva darsi che questi avessero in qualche modo attirato altrove i sorveglianti e le guardie, per poi ucciderli tutti; contemporaneamente, potevano aver catturato Peter e Marty, per poi ammazzarli in separata sede. Per un lunghissimo istante, Jon restò immobile.
Non poteva lasciarsi sfuggire il tramite che avrebbe potuto condurli al computer a DNA. Avrebbe informato la polizia di Parigi, la CIA e Fred Klein di ciò che aveva visto all'ospedale, nella speranza che almeno loro riuscissero a rintracciare Marty e Peter.
Si rimise il walkie talkie in tasca, rinfoderò la pistola e corse fuori, dove Max lo attendeva a bordo della Chrysler con la portiera già aperta.
Il piccolo furgone da panettiere svoltò a destra sul Boulevard Saint-Michel. Al volante della Crown Victoria, Aaron rallentò e lasciò che il furgone guadagnasse qualche metro, ma senza perderlo di vista. Questo proseguì senza esitazioni in direzione sud.
«Sta andando verso il Boulevard Périphérique», ipotizzò Randi. Alludeva alla gran via che circondava la città di Parigi. Comunicò la propria congettura a Max, Jon e Peter, che a quel punto dovevano già essere in strada, sempre più vicini.
«Credo tu abbia ragione», concordò Aaron. Ridusse la distanza dal furgoncino, temendo che, con una svolta improvvisa, potesse sfuggirgli.
Da dieci minuti, ormai, stavano seguendo questa nuova pista. Tutto era iniziato quando il furgoncino si era fermato davanti all'Hotel Saint-Sulpice. Il guidatore era saltato giù e aveva aperto la portiera sulla fiancata come per consegnare del pane, ma in quel momento, dall'albergo, erano sbucati di corsa il dottor Akbar Suleiman e un altro uomo, che vi erano saliti a bordo. Il guidatore, allora, aveva guardato furtivo da una parte e dall'altra e aveva richiuso bruscamente la portiera. Dopo di che, sempre con circospezione, aveva fatto il giro del furgoncino e, risalito a sua volta a bordo, era ripartito.
«Maledizione!» imprecò Randi.
Aaron si irrigidì. «Che cosa vuoi fare?»
Non abbiamo scelta. Dobbiamo continuare a seguirli.
In effetti, il furgone raggiunse il Boulevard Périphérique e lo imboccò in direzione ovest. Aaron lo controllava a vista, mentre Randi, via radio, comunicava ogni cambio di direzione a Max, alla guida dell'altra auto. In breve, il furgone prese l'autostrada A10 e ignorando, molti chilometri dopo, il raccordo con la A11 che piega a ovest verso Chartres e, in generale, verso l'oceano, proseguì diritto sulla A10 in direzione sud.
Il cielo notturno era una cappa nera carica di presagi e le stelle erano nascoste dietro le nuvole. Il furgone, intanto, proseguiva senza soste verso l'antica città di Orléans, al di là della leggendaria Loira. Erano ore, ormai, che viaggiavano.
A un certo punto, il furgoncino svoltò a destra, prendendo la D51, una strada locale a due corsie. D'improvviso, senza curarsi di rallentare, deviò bruscamente a destra per una strada secondaria, seguendola per diversi chilometri, fino a un vialetto oscurato da alberi e cespugli rigogliosi, che imboccò a velocità elevata.
Solo grazie all'abilità di Aaron nella guida erano riusciti a stargli dietro senza farsi individuare. Quando Randi gli fece i complimenti, si strinse nelle spalle con modestia.
Aaron si fermò su una stradina laterale. «E adesso?»
«Ci avviciniamo e diamo un'occhiata.» Stava già scendendo dall'auto.
«Forse è meglio aspettare Max e i tuoi amici. Non sono lontani.»
«Tu resta qui. Io vado.»
Ignorò le proteste di Aaron. Vedeva le luci di una casa di campagna, tra gli alberi. Muovendosi con cautela, si inoltrò nella boscaglia e si fece strada tra la vegetazione finché non trovò un sentierino simile a quelli usati dagli animali. Con sollievo lo seguì. Diversamente dalla fattoria di Toledo, questa aveva poco spazio sul davanti. Pareva piuttosto un casino di caccia, un piccolo rustico da weekend per qualche abitante di città bisognoso di riposo.
Non c'erano elicotteri, ma due auto e due uomini armati sostavano agli angoli di quella casetta di campagna.
Dietro le tende che coprivano le finestre illuminate, Randi notò delle sagome in movimento, che camminavano avanti e indietro e gesticolavano concitate. Evidentemente, era in corso un'accesa discussione. All'orecchio le giungevano fievoli echi di voci alterate.
Una mano le si posò sulle spalle, e una voce bisbigliò: «Quanti sono?».
Randi si voltò. «Ciao, Jon. Arrivi al momento giusto.
Sul furgone del panettiere erano in tre, altre due auto si trovavano qui ad attenderli. Due uomini sono di guardia davanti alla casa, e all'interno ci sarà almeno un'altra persona... di chiunque si tratti.»
«Ci sono altre due auto? Allora, probabilmente, ci sarà stata più di una persona ad attendere il trio dei fuggiaschi.»
«È possibile.» Randi guardò al di là di Jon. «Dov'è Peter?»
«Vorrei saperlo anch'io.» Le raccontò di quel che era successo all'ospedale, e Randi restò di sasso. Lui proseguì.
«Se c'erano solo due terroristi, e se Peter li ha uccisi, può darsi che poi abbia trovato il modo di portar via Marty, e che adesso siano entrambi in un posto sicuro. Le pistole dei due uomini morti non avevano sparato, e in giro non ho trovato bossoli. Perciò, non lo escluderei.»
Scosse la testa, preoccupato. «Se i terroristi erano più di due, però, è possibile che abbiano messo fuori combattimento Peter o usato i coltelli, magari. Se così fosse, non voglio neanche pensare a quel che potrebbe essere capitato a Marty e a Peter.»
«Neanch'io voglio pensarci.» La porta della casa si aprì. «Guarda. C'è movimento.»
Un rettangolo di luce vivida si aprì nella notte. Il dottor Akbar Suleiman uscì dalla casa in preda alla furia, voltandosi per continuare a discutere con qualcuno alle sue spalle. Parlava in francese, e la sua voce si propagò nel silenzio della notte. «Ti ho detto che la fuga è andata bene.
Escludo che siano riusciti a seguirmi. Anzi, non so neanche come abbiano fatto a sapere di me!»
«È proprio questo che mi preoccupa.»
Jon e Randi riconobbero la seconda voce e si guardarono in faccia.
L'interlocutore di Suleiman seguì il dottore all'aperto.
Era Abu Auda. «Come fai a essere sicuro che non ti abbiano seguito?»
Suleiman fece un ampio gesto a indicare i dintorni.
«Li vedi forse da qualche parte? No? E sai perché non li vedi? Perché non mi hanno seguito.»
«Se fossero riusciti a seguirti, moro, non si farebbero certo vedere.»
Suleiman fece una smorfia. «E allora? Dovevo forse farmi arrestare?»
«No, avresti raccontato tutto. Sarebbe stato meglio se avessi seguito la normale procedura e ti fossi messo in contatto con noi per poter concordare un piano più sicuro, prima che ti saltasse in mente di correre dai tuoi amici come un cucciolo in preda al panico verso il suo branco.»
«D'accordo», disse Suleiman sarcastico. «Non l'ho fatto.
E allora? Se sei così sicuro che da un momento all'altro ci salteranno addosso, non ha senso restare qui tutta la notte a parlare.»
Il terrorista lo guardò con occhi di fuoco. Berciò alcuni ordini in arabo. L'uomo che era uscito dall'hotel di Parigi insieme a Suleiman sbucò dalla casa e si unì ai due, seguito dall'autista del furgoncino e da un terzo uomo armato: un uzbeko, a giudicare dai tratti del suo viso e dal copricapo tipico dell'Asia centrale. L'autista del furgoncino salì a bordo del suo automezzo e si avviò per la stradina sterrata che congiungeva la casa alla strada asfaltata.
«Andiamo», sussurrò Randi.
Lei e Jon tornarono di corsa dove Aaron e Max attendevano seduti nelle rispettive auto, nascoste nella boscaglia e invisibili dalla stradina.
«Che cosa succede?» domandò Aaron, uscendo.
Anche Max li raggiunse e si mise a guardare Randi con un'aria da troglodita affamato di fronte al primo pezzo di carne adocchiato dopo un anno di astinenza.
Randi lo ignorò. «Nessuno di voi due può tornarsene a casa. Loro hanno due auto, e non possiamo sapere su quale delle due sia salito Suleiman.» Tralasciò di aggiungere che, per lo stesso motivo, sarebbe stato impossibile, per loro, stabilire su quale veicolo fosse salito Abu Auda.
E quest'ultimo era forse la preda più ambita. «Dobbiamo dividerci.»
«E dobbiamo fare molta attenzione», aggiunse Jon.
«Abu Auda teme che qualcuno possa aver seguito Suleiman, ed è già sul chi vive.»
Aaron e Max borbottarono qualcosa a proposito del loro lavoro e della notte di sonno sfumata, ma la missione di Randi aveva la priorità assoluta.
Jon salì in auto accanto a Max, mentre Randi andò con Aaron. Nel giro di qualche istante, le due auto dei terroristi abbandonarono lo sterrato per immettersi sulla strada asfaltata di campagna. Dopo un po', Aaron e Max si misero al loro inseguimento, ma a una certa distanza, perdendo di vista, ogni tanto, i fanalini di coda. Si trattava di un'operazione difficile e rischiosa: sarebbe stato facile per i terroristi far perdere le loro tracce. Quando le due auto della CIA imboccarono infine la A6, le auto dei terroristi tornarono a essere visibili in permanenza. In autostrada sarebbe stato più semplice seguirli.
Subito, però, una delle auto imboccò la rampa in direzione sud, mentre l'altra prese la direzione opposta.
Aaron e Max si separarono, come concordato. Jon si mise comodo accanto a Max. Era già molto stanco, e la notte prometteva di essere lunga.
Capitolo 23.
Washington, D. C.
Quella mattina, il teso incontro tra il presidente, i suoi più alti consiglieri e lo stato maggiore congiunto fu interrotto dall'improvviso spalancarsi della porta che separa la Sala Ovale dall'ufficio della segreteria esecutiva del presidente. La segretaria - la signorina Pike, una donna dai capelli crespi, nota per le sue maniere spicce - fece capolino con aria interrogativa nella stanza.
La fronte di Sam Castilla si corrugò per l'irritazione, ma se Estelle aveva deciso di interromperli, doveva esserci un motivo più che valido. Da qualche giorno, del resto, i suoi nervi erano stati messi a dura prova, e di notte non riusciva a dormire, cosicché sbottò: «Mi pareva di aver chiesto di non essere disturbato, Estelle».
«Lo so, signore. Mi dispiace, ma ho in linea il generale Henze.»
Il presidente annuì, a mo' di silenzioso perdono, e sollevò la cornetta del telefono. «Carlos, come va da quelle parti?» Aveva gli occhi fissi sui presenti che, seduti o in piedi, tacevano in ansiosa attesa.
«Quasi niente di nuovo, qui in Europa, signor presidente», rispose il generale Henze con una voce risoluta in cui il presidente colse una sfumatura di rabbia. «Sono più di ventiquattr'ore che non si registrano black out o disservizi di sorta.»
Il presidente decise di ignorare, per il momento, la rabbia. «Un ben pallido raggio di sole, ma è pur sempre qualcosa. Avete capito dove si sono rifugiati i terroristi?»
«Per ora, non ci sono novità, neanche a questo riguardo.»
Henze ebbe un'esitazione. «Posso parlare apertamente, signore?»
«Certo. Anzi, te ne prego. Qual è il problema, Carlos?»
«Ho incontrato il colonnello Jon Smith, il medico dell'esercito che lei ha mandato qui a condurre le ricerche.
Non è stato per nulla rassicurante. Sta brancolando nel buio, signor presidente. Non solo sospetta che in tutta la faccenda sia coinvolto uno strettissimo e fidato collaboratore del generale La Porte, ma ha osato affermare che neppure io sarei al di sopra dei suoi sospetti. In poche parole, non sa un accidenti.»
Il presidente, tra sé, sospirò. «A me sembra che abbia fatto progressi notevoli.»
«Si è dato da fare, è vero, ma non credo sia granché vicino a recuperare quell'aggeggio. La sta tirando in lungo.
Fa tentativi alla cieca, e io sono veramente preoccupato.
Dovevamo proprio puntare tutto su di lui, su un uomo solo, per quanto bravo?»
Al presidente parve che se fosse dipeso da lui, Henze avrebbe mandato tutta l'Ottantaduesima Divisione Aerotrasportata e tutto il Primo Cavalleria dell'aria a perlustrare il Medioriente casa per casa, alla ricerca dei terroristi.
Certo, questa scelta avrebbe comportato come effetto collaterale la Terza guerra mondiale, ma il generale non si era spinto tanto in là nel calcolo delle conseguenze.
«Terrò conto del tuo parere e delle tue obiezioni, Carlos, e ti ringrazio», disse il presidente. «Se deciderò di cambiare tattica, te lo farò sapere. Non dimenticare, però, che nell'operazione sono coinvolti anche la CIA e l'MI-6.»
Calò un silenzio plumbeo. Poi, Henze rispose: «Sì, signore.
Certo».
Il presidente annuì tra sé, soddisfatto. Il generale se ne sarebbe stato buono per un po'. «Continua a tenermi informato, Carlos. Grazie.»
Dopo aver riagganciato, il presidente Castilla incurvò le spalle, si afferrò il mento con le dita curate e, attraverso le lenti con montatura al titanio, scrutò fuori dalla finestra l'incessante temporale di quel mattino. Il cielo era così tetro e grigio che il presidente non riusciva a vedere al di là del Rose Garden, e questo non contribuì certo a rasserenarlo. Anche lui si sentiva a disagio - spaventato, persino - all'idea che Covert-One non avesse ancora trovato il computer molecolare.
Non poteva, però, lasciar trapelare la sua incertezza.
Non ancora, almeno. Tornò a rivolgere l'attenzione ai suoi consiglieri e ai capi militari, che erano seduti su poltrone e divani o in piedi presso il caminetto, in attesa. Il presidente appuntò lo sguardo sul Gran Sigillo degli Stati Uniti intessuto nel tappeto posto al centro della sala e disse a se stesso che l'America non era ancora - e non sarebbe stata - sconfitta.
Con calma asserì: «Come avrete capito, era il generale Henze della NATO. Anche in Europa è tutto tranquillo.
Nessun attacco nelle ultime ventiquattro ore».
«Non mi piace», disse il capo dello staff presidenziale Charles Ouray: «Perché mai i terroristi in possesso del computer a DNA dovrebbero smettere di aggredirci e di minacciarci? Hanno forse ottenuto quel che volevano?».
Poco più che sessantenne, aveva una faccia triangolare quasi priva di rughe e una voce bassa e roca. Incrociò le braccia e si scurì in volto. «Ne dubito seriamente.»
«O forse le nostre contromisure li hanno frenati», ipotizzò speranzosa la consigliera dell'NSA, Emily PowellHill. Slanciata, pratica e serissima come al solito, era anche impeccabilmente vestita nel suo completo di Donna Karan. «Può anche darsi che i sistemi di emergenza che abbiamo installato siano serviti a ostacolarli.»
Il generale Ivan Guerrero, capo di stato maggiore dell'esercito, si sporse in avanti e annuì vigorosamente in segno di assenso. Aveva le mani dalle dita tozze intrecciate davanti ai ginocchi e si guardava in giro studiando i presenti con un'espressione fredda e calcolatrice, di estrema fiducia: un'ostentazione di sicurezza troppo spesso preferita alla riflessione, nell'ambiente dei comandi militari.
«Abbiamo installato i sistemi di emergenza sui sistemi di puntamento a bordo dei nostri carri armati. Secondo me, li abbiamo fregati, quei bastardi, chiunque essi siano...
Loro e quel diabolico computer molecolare.»
«Concordo in pieno», disse il generale dell'aeronautica Bruce Kelly, in piedi accanto al caminetto. Con la sua faccia paffuta osservava immobile il generale Guerrero e gli altri. Benché apprezzasse forse un po' più del dovuto il liquore che stava bevendo, era anche scaltro e instancabile quando aveva di mira un obiettivo.
Il capo dei marines, il generale Clason Oda, da poco nominato a quella carica e ancora in piena «luna di miele» con l'opinione pubblica, si disse a sua volta convinto: le contromisure adottate avevano sicuramente ottenuto l'effetto sperato di creare intoppi ai terroristi. «Il buon vecchio know-how americano ha funzionato», concluse, sorridendo compiaciuto per il luogo comune appena pronunciato.
I presenti continuarono a discutere dei nuovi sistemi di emergenza appena installati, ma il presidente Castilla ascoltava, senza prestare attenzione, le voci, cui il rumore della pioggia contro le finestre faceva da contrappunto tambureggiante e di pessimo auspicio all'ottimismo diffuso.
Quando tutti ebbero detto la loro, Castilla si schiarì la gola. «Signore e signori, i vostri sforzi e i vostri pareri sono incoraggianti. Tuttavia, mi sento in dovere di sottoporvi una diversa spiegazione che, ne sono certo, non vi piacerà, ma che merita di essere considerata. Le nostre fonti di intelligence in Europa suggeriscono uno scenario totalmente diverso: secondo loro, la mancanza di altri attacchi non è dovuta al ripristino delle difese, bensì più semplicemente a una decisione autonoma dei terroristi.»
L'ammiraglio Brose, il capo dello stato maggiore congiunto, si incupì. «E secondo lei, signor presidente, che cosa significa? Che stanno ripiegando? Che hanno ottenuto quel che volevano e se ne tornano, perciò, nelle loro tane?»
«Mi piacerebbe, Stevens. Ne sarei felicissimo. Temo, però, che non sia così. In parte, potrebbe dipendere dai provvidenziali successi dei nostri agenti in missione. Ora, perlomeno, conosciamo il nome del gruppo che si è impossessato del computer a DNA: si chiama Scudo della Mezzaluna. E i nostri agenti potrebbero aver interferito con i loro piani.»
«Scudo della Mezzaluna?» ripeté Emily Powell-Hill.
«Mai sentito. Sono arabi?»
Il presidente scosse la testa. «È un gruppo panislamico. Nessuno lo conosce. Sembra spuntato dal nulla, anche se ne fanno parte molti veterani e gente ben nota.»
«E gli altri motivi della loro temporanea inattività, signore?» domandò l'ammiraglio Brose.
L'espressione del presidente si fece più seria. «Non hanno più bisogno di fare pratica. Hanno già fatto tutti i test necessari, scoprendo tutto ciò che desideravano sapere sul loro computer e sui nostri sistemi. E ci hanno messo fuori combattimento, come dimostra la nostra fretta nell'approntare sistemi di difesa alternativi per casi di emergenza. Anzi, finora hanno sicuramente ottenuto tutto quello che si erano prefissi. La mia opinione è che siano ormai pronti a tornare in azione. È la quiete che precede l'uragano assassino: ci stanno illudendo, prima di scatenare un attacco letale, o più d'un attacco, sul nostro territorio.»
«Quando, secondo lei?» domandò l'ammiraglio Brose.
«Non prima di otto ore, non più tardi di due giorni.»
Seguì un lungo e tesissimo silenzio, durante il quale nessuno alzò lo sguardo.
Alla fine, l'ammiraglio Brose ammise: «Il suo ragionamento non fa una grinza, signore. Che cosa propone?».
Il presidente, facendosi forza, disse: «Propongo di rimetterci al lavoro e di tentare il tutto per tutto. Senza esclusione di colpi. Ricorrendo, se necessario, anche ai sistemi di difesa meno sperimentati e potenzialmente più pericolosi. Dobbiamo essere pronti, qualunque tipo di attacco decideranno di scatenare, da quello batteriologico a quello nucleare».
Le sopracciglia perfettamente disegnate di Emily Powell-Hill si sollevarono di scatto. «Con tutto il rispetto, signore», obiettò, «abbiamo a che fare con dei terroristi, non con una superpotenza nucleare. Dubito che possano lanciare attacchi di quella portata.»
«Tu dici, Emily? Sei disposta a giocarti la vita di milioni di americani, compresa la tua e quella dei tuoi familiari?»
«Sì, signore. Ne sono convinta», ribadì lei, irremovibile.
Il presidente si osservò nuovamente le dita delle mani e, posandovi poi il mento, sorrise, ma non troppo.
«Sei una donna e una consigliera coraggiosa. Mi compiaccio della mia scelta. Il presidente, però, sono io, Emily, e non posso permettermi il lusso del coraggio cieco o dell'azzardo. I costi potenziali sono semplicemente troppo alti.» Fissò uno a uno tutti i presenti, quali che fossero le loro opinioni. «Si tratta del nostro Paese, e siamo tutti sulla stessa barca. Abbiamo una grave responsabilità, ma anche alcune opportunità di difenderci e di contrattaccare. Saremmo sciocchi e irresponsabili se facessimo meno di quel che possiamo fare.
E ora, al lavoro!»
Mentre i consiglieri e i militari uscivano dalla sala, già intenti a discutere delle iniziative che avrebbero adottato, l'ammiraglio Brose si trattenne un po' più a lungo.
Quando la porta fu richiusa, si rivolse al presidente in tono scoraggiato: «I media cominciano a nutrire dei sospetti, signor presidente. Ci sono state alcune fughe di notizie, e le inchieste si fanno sempre più insistenti. Vista l'incombente minaccia di un grave attacco, non sarebbe il caso di convocare i mezzi di informazione per cominciare a prepararli? Se vuole, posso pensarci io. Così lei ne resterà fuori. Si sa come funziona, no? "Un'autorevole fonte interna all'amministrazione..." Potremo valutare la reazione dell'opinione pubblica e prepararla al peggio, che non è una cattiva idea».
L'ammiraglio osservò il presidente, che aveva un'aria non meno scoraggiata dell'ammiraglio. Le spalle ampie di Sam Castilla erano incurvate, e sotto il mento gli erano comparse come dal nulla delle pieghe che lo invecchiavano di dieci anni almeno. Preoccupato per il futuro e per il suo capo di Stato, Stevens Brose restò in attesa di una risposta.
Sam Castilla scosse la testa. «Non ancora. Dammi un altro giorno. Poi, sì, sarà indispensabile. Non voglio scatenare il panico. Non ancora, almeno.»
«Capisco. Grazie per averci dato ascolto, presidente.»
«Non c'è di che, ammiraglio.»
Con un'espressione incerta, il capo dello stato maggiore congiunto aprì la porta e se ne andò. Non appena il presidente Castilla fu solo, si alzò da dietro la sua scrivania in legno di pino e si mise a passeggiare avanti e indietro. Fuori, sotto il portico, una guardia dei servizi segreti guardò indietro, messo in allarme dal movimento.
Appurato che non vi era pericolo, il suo sguardo tornò a perlustrare i terreni circostanti e il cielo grigio e piovoso.
Il presidente si accorse di quell'attenzione, dello sguardo tranquillo della guardia, segno della più assoluta normalità, e scosse mestamente la testa. Non c'era nulla di normale.
Tutto stava andando a rotoli nel modo più tranquillo possibile.
Da quando un anno e mezzo prima aveva creato Covert-One, Fred Klein e i suoi non avevano mai fallito. Sarebbe stata quella la prima volta?
Parigi, Francia.
Acquattato nella breve Rue Duluth, XVI Arrondissement, l'edificio sembrava la tipica residenza cittadina della Parigi haussmanniana. La facciata, però, elegante, benché priva di fronzoli, nascondeva una delle più esclusive e costose cliniche private di Parigi. Lì, persone ricche e patetiche si recavano per sottoporsi a interventi di chirurgia plastica, più per recuperare una giovinezza idealizzata che per combattere il passare degli anni. Discreta e abituata a soddisfare le esigenze di assoluta riservatezza e sicurezza dell'elitaria clientela, la clinica era il nascondiglio più adatto, purché si riuscisse a convincere le persone giuste.
La stanza privata di Marty Zellerbach era ariosa e confortevole, con un vaso di fresche peonie rosa posato su un tavolino basso davanti alla finestra. Peter Howell sedeva accanto al letto occupato da Marty, che si trovava però con la schiena rialzata e gli occhi aperti e svegli, anche se un po' affaticati, come sempre accadeva poco dopo la somministrazione di una dose di Mideral, il meraviglioso farmaco a effetto immediato che gli consentiva di starsene tranquillo e svolgere onerosi compiti quali cambiare una lampadina, pagare le bollette o conversare con un amico. Le persone colpite dalla sindrome di Asperger sono spesso etichettate come «nerd» o «geek», cioè persone originali ed eccentriche o con qualche turba comportamentale.
Secondo alcuni scienziati, questa sindrome colpirebbe, sia pur in modo lieve, una persona su duecentocinquanta.
Non esisteva una cura per la sindrome di Asperger, e l'unico rimedio per gente affetta dalle sue forme più gravi, come quella di Marty, era rappresentato dai farmaci, spesso stimolanti del sistema nervoso centrale come il Mideral.
Lo shock degli ultimi eventi era un po' passato, e Marty, ora, aveva un atteggiamento cortese, benché cupo.
Il suo fisico morbido e paffuto era accasciato all'indietro, come una bambola di pezza contro la bianca montagna di cuscini. Aveva delle bende sulla fronte e sulle braccia per le ferite che aveva subito al momento dell'esplosione all'Institut Pasteur.
«Santo cielo, Peter!» Gli occhi di Marty guizzavano da una parte all'altra della stanza, evitando di incrociare lo sguardo di Peter. «È stato terribile. Tutto quel sangue nella stanza d'ospedale. E se non ci fossero state le nostre vite in gioco, ne sarei rimasto ancora più impressionato.»
«Potresti almeno dire grazie, Marty.»
«Non l'ho fatto? È davvero imperdonabile da parte mia. Tu, comunque, sei una macchina da guerra, Peter.
L'hai detto tu stesso. Evidentemente, ti ho preso alla lettera.
Una normale giornata di lavoro per te e per quelli come te.»
Peter si irrigidì. «Quelli come me?»
Marty ignorò l'occhiataccia di Peter. «Immagino che il mondo civile abbia bisogno di voi, anche se spesso non riesco a capire perché...»
«Marty, vecchio mio, non dirmi che sei un pacifista.»
«Eh, già, Bertrand Russell, Gandhi, William Penn. Ottima compagnia. E interessante, per giunta: uomini che pensavano davvero. Potrei citarti una quantità di brani dei loro discorsi. Lunghi brani.» Guardò Peter con i suoi occhi verdi beffardi.
«Non ti disturbare. Devo forse ricordarti che anche tu, ormai, sai usare un'arma? Un fucile automatico, per giunta.»
Marty rabbrividì. «Touché.» Quindi, sorrise e diede a Peter la sua parte di ragione. «Be', direi che ci sono casi in cui combattere è giusto.»
«Poco, ma sicuro. Me ne sarei potuto andare e lasciare che quei due sicari all'ospedale ti facessero a pezzettini.
Noterai, invece, che non l'ho fatto.»
L'espressione sul viso di Marty cambiò completamente.
Fissò l'amico con gli occhi sbarrati. «Hai perfettamente ragione, Peter. Grazie.»
«Così va bene. Possiamo passare alle questioni pratiche?»
Peter aveva una guancia, il braccio sinistro e la mano sinistra bendati per effetto della cruenta e silenziosa battaglia avvenuta nella stanza di Marty all'ospedale Pompidou.
Marty si era svegliato appena in tempo per assistervi.
Dopo aver ucciso i due aggressori, Peter aveva trovato una divisa da inserviente e un carrello da lavanderia, aveva convinto Marty a nascondervisi dentro e l'aveva ricoperto di lenzuola appallottolate. Quindi, aveva indossato la divisa da inserviente. I legionari di piantone erano scomparsi, e Peter immaginò che fossero stati corrotti o assassinati, o che fossero essi stessi dei terroristi. Ma dov'erano finiti l'MI-6 e la Sûreté? Non aveva avuto il tempo per pensarci.
Temendo che nelle vicinanze potessero esserci altri estremisti, aveva spinto Marty fuori dall'ospedale fino all'auto che aveva preso a noleggio e poi lo aveva portato in quella clinica privata, diretta dal dottor Lochiel Cameron, vecchio commilitone di Peter ai tempi delle Falkland.
«Certo, come vuoi. Ti interessava sapere ciò che è successo nel laboratorio all'Institut Pasteur...» Marty si prese le guance tra le mani, abbandonandosi ai ricordi. «Mio Dio, è stata un'esperienza terribile! Emile... Conosci Emile Chambord?»
«So chi è. Va' avanti.»
«Emile disse che quella sera non avrebbe lavorato, perciò neanche io avevo in programma di passare dal laboratorio.
Poi, però, mi sono ricordato di aver lasciato lì un mio studio sulle equazioni differenziali e quindi ci sono tornato.» Fece una pausa e la sua faccia grassoccia ebbe un fremito. «Terrificante!» I suoi occhi si spalancarono a esprimere uno strano miscuglio di paura e sollievo.
«Aspetta! C'era qualcos'altro. Sì. Voglio raccontarti... tutto.
Ho cercato di dirvelo...»
«Lo sappiamo che ci hai provato, Marty. Jon è stato al tuo fianco quasi ogni giorno. E anche Randi è venuta a trovarti. Che cos'è che volevi dirci?»
«Jon? E anche Randi?» Marty afferrò Peter per un braccio e lo attirò a sé. «Peter, ascolta, devo dirti che Emile non c'era nel laboratorio, ma questo me l'aspettavo. Il fatto è che non c'era neanche il prototipo! E in più c'era un corpo a terra. Un cadavere! Sono corso fuori e avevo quasi raggiunto le scale quando», proseguì Marty con lo sguardo sempre più spaventato, «si è sentito questo rumore assordante, e mi è parso di essere come sollevato da una mano e scaraventato via... Mi sono messo a urlare.
Sono sicuro di aver urlato...»
Peter strinse il piccolo genio in un abbraccio orsino.
«Va tutto bene. È tutto finito. E tu sei a posto, perfettamente al sicuro.» Forse fu l'abbraccio, o quelle sue parole rassicuranti, o forse Marty era semplicemente riuscito ad accettare quello che per quattro giorni aveva cercato di dire, sta di fatto che a Peter parve che Marty fosse perfettamente calmo.
Allo stesso tempo, Peter era profondamente deluso.
Marty non gli aveva detto niente di nuovo; aveva semplicemente confermato alcune cose che già sapevano, e cioè che Chambord e il computer a DNA non erano nel laboratorio al momento dell'esplosione della bomba, mentre invece c'era un cadavere. Se non altro, però, l'amico era vivo, stava recuperando, e Peter era più che felice per questo. Quando smise di stringerlo, Marty sprofondò nuovamente nel suo letto.
Fece un sorriso stralunato. «Credo che il trauma sia più grave di quello che credessi. Non si può prevedere come si reagirà, vero? Dicevi che sono stato in coma?»
«Da subito dopo l'attentato, amico mio.»
L'espressione di Marty si fece improvvisamente preoccupata. «Dov'è Emile, Peter? È venuto anche lui a trovarmi?»
«A questo riguardo, devo darti una brutta notizia. I terroristi che hanno fatto saltare in aria il Pasteur lo hanno rapito e hanno portato via il computer a DNA. Hanno rapito anche la figlia di Chambord. Mi sai dire, per caso, se quel prototipo di computer molecolare davvero funzionava?
Secondo le informazioni da me raccolte, potrebbe darsi. Abbiamo indovinato?»
«Oh, Cristo! Quei pagani hanno preso Emile, Thérèse e anche il computer! La situazione è preoccupante.
Émile e io lo consideravamo finito. Esistevano alcuni aspetti di secondaria importanza da testare prima di poter dare l'annuncio ufficiale. Avevamo in programma di svolgerli l'indomani mattina. Sono preoccupatissimo, Peter. Hai idea di ciò che si potrebbe fare con quel computer, soprattutto se a farlo funzionare è Émile? Oh, santo Dio! Che ne sarà di Émile e Thérèse? È una cosa così spaventosa che non riesco neppure a pensarci!»
«Abbiamo avuto una chiara dimostrazione di ciò che quel computer è in grado di fare.» Peter informò Marty dei vari attacchi elettronici che si erano verificati. Mentre lo ascoltava, Marty avvampò di rabbia e, lui che odiava la violenza, serrò i pugni con forza, un gesto che Peter non gli aveva mai visto fare.
«È orribile! Dobbiamo fare qualcosa. Dobbiamo salvare gli Chambord! Dobbiamo recuperare il prototipo del computer! Prendimi i pantaloni...»
«Ehi, piano, ragazzo mio. Non ti sei ancora completamente ripreso. E poi qui non hai altro che la tua graziosa vestaglia da ospedale.» Marty fece per protestare, ma Peter lo precedette, risoluto. «Ora, stenditi, amico mio.
Tra qualche giorno, magari. Okay?» E dopo una pausa, aggiunse: «Ho da farti una domanda fondamentale. Non saresti in grado di costruire un altro computer molecolare per reagire agli attacchi?».
«No, Peter. Mi dispiace. Il fatto è che... non sono saltato su un aereo, all'improvviso, presentandomi senza preavviso al laboratorio di Chambord. È stato lui a telefonarmi a Washington e mi ha attirato qui con il suo grande segreto, il suo computer molecolare. Voleva che gli spiegassi come utilizzarlo al massimo delle potenzialità. È stata questa la mia parte, nella vicenda. È stato Émile a concepire e a creare la macchina. Era tutto scritto nei suoi appunti. Li avete voi, gli appunti?»
«Nessuno è riuscito a trovarli.»
«Proprio come temevo.»
Peter rassicurò Marty dicendogli che c'era già chi stava adoperandosi per fare tutto il possibile; poi, telefonò due volte dall'apparecchio fisso sistemato sul comodino di Marty e, infine, riprese a conversare con l'amico.
Quando fu il momento di andare, Peter disse: «Ti lascio in ottime mani, Marty. Lochiel è una persona eccezionale, come medico e come soldato. Farà in modo che nessuno ti disturbi e controllerà il tuo stato di salute. Un coma non è uno scherzo. Persino le teste d'uovo come te lo sanno. Intanto, ho del lavoro da sbrigare, ma sarò di ritorno prima che tu possa dire Jack lo Squartatore».
«Jack lo Squartatore... Molto divertente.» Marty annuì, in segno di apprezzamento. «Io, però, preferirei Pete l'Infilzatore.»
«Eh?»
«È molto più adatto. In fondo, quel tuo orribile stiletto acuminato ci ha salvato la vita, all'ospedale. Perciò: Pete l'Infilzato re.»
«Come vuoi.»
Peter ricambiò il sorriso, e quando i loro sguardi si incontrarono, quel loro sorriso si allargò. Subito, però, guardarono altrove.
«Mi rimetterò presto, vedrai», borbottò Marty. «Qui dovrei essere più al sicuro che con te, considerando tutti i guai in cui vai sempre a cacciarti.» Poi, gli venne in mente qualcosa. «Dimenticavo. C'è una cosa che mi tormenta.»
«Che cosa?»
«Il dipinto. Cioè, non era un vero dipinto... solo una stampa, la riproduzione di un dipinto. Era di Emile, e mancava anche quella. Mi domando perché. Perché dei terroristi dovrebbero essere interessati a una cosa del genere?»
«Quale stampa, Marty?» Peter cominciava a dar segni di impazienza. Stava già pensando al da farsi. «Mancava da dove?»
«Dal laboratorio di Émile. Era una stampa del famoso dipinto che raffigura l'esercito francese durante la ritirata dalla Russia. Lo conosci di certo. Lo conoscono tutti.
È quello in cui Napoleone procede a cavallo, con il capo chino sul petto, mentre le sue truppe prostrate lo seguono arrancando nella neve. Sono reduci da una pesante sconfitta. Credo si tratti della campagna di Russia.
Perché dei terroristi dovrebbero rubare una cosa del genere?
Era una banale riproduzione, non il dipinto originale.
Non ha nessun valore.»
Peter scosse la testa. «Non saprei, Marty...»
«Strano, però, eh?» disse Marty, pensieroso. Si massaggiò il mento, in cerca di una risposta.
Washington, D.C.
Fred Klein era seduto nella stanza da letto presidenziale, intento a rosicchiare il bocchino della sua pipa spenta. In alcuni frangenti, negli ultimi giorni, la sua mascella vi si era serrata intorno fin quasi a spezzarlo. Aveva affrontato altre crisi gravi e apparentemente disperate; mai però la tensione e l'incertezza avevano raggiunto tali estremi. La cosa peggiore era il senso di impotenza, la consapevolezza del fatto che, se il nemico avesse deciso di usare il computer a DNA, per loro non ci sarebbe più stato nulla da fare. Tutte le loro potentissime armi, costruite e immagazzinate a caro prezzo nell'ultimo mezzo secolo, erano inutili, anche se davano un senso di sicurezza a chi era poco informato o poco fantasioso. In definitiva, non potevano contare che sui servizi segreti. Una manciata di agenti impegnati a seguire una pista vaga, come un unico cacciatore in una boscaglia vasta quanto tutto il pianeta.
Il presidente Castilla arrivò dalla sala conferenze, tolse la giacca del completo, allentò la cravatta e si lasciò cadere in una massiccia poltrona in pelle. «Era Pat Remia, dal 10 di Downing Street. Pare che abbiano perso un alto generale, il generale Moore, e credono sia stato ucciso dai terroristi che noi stiamo cercando.» Si abbandonò all'indietro, posando la testa allo schienale, e chiuse gli occhi.
«Lo so», disse Klein. La luce alle sue spalle si rifletteva sul suo volto, mettendo in evidenza la stempiatura e i solchi sempre più profondi che gli segnavano la pelle.
«Hai sentito l'opinione del generale Henze sulle nostre tattiche e sui nostri progressi?»
Klein annuì.
«Ebbene?»
«Si sbaglia.»
Il presidente scosse la testa e serrò le labbra. «Sono preoccupato, Fred. Secondo il generale Henze, Smith non ha molte probabilità di ritrovare queste persone, e io inizio a essere seriamente inquieto, anche in considerazione di quel che mi hai riferito tu.»
«Nelle operazioni segrete, Sam, i progressi sono spesso difficili da valutare. Abbiamo messo in campo tutte le nostre risorse di intelligence, che si occupano dei vari aspetti del problema. Inoltre, Smith sta collaborando con un paio di suoi preparatissimi colleghi. Una agente della CIA e uno dell'MI-6. La collaborazione, ovviamente, è del tutto informale, ma grazie a questi contatti può contare anche sulle risorse di queste altre agenzie. Con tutti i problemi di comunicazione che ci sono stati, non sono riuscito a essergli d'aiuto come di consueto.»
«E i due agenti sono a conoscenza di Covert-One?»
«Assolutamente no.»
Il presidente incrociò le mani sulla sua pancia non indifferente.
Nella stanza calò il silenzio. Dopo qualche istante, volse lo sguardo in direzione di Klein. «Grazie, Fred. Teniamoci in contatto. A stretto contatto.»
Klein si alzò in piedi e si avviò alla porta. «Senz'altro.
Grazie, signor presidente.»
Capitolo 24.
Es Caló, isola di Formentera. venerdì 9 maggio.
Dal luogo in cui era sdraiato, sulla collinetta imbiancata dal sole, Jon sollevò la testa di quel tanto che gli bastò per intravedere il Far de la Mola, il faro che si stagliava a est nel punto più alto di quell'isola spazzata dai venti. Tutt'intorno si estendevano spiagge intatte, acque incontaminate. Poiché l'isoletta non solo aveva poche costruzioni, ma era anche piattissima, lui e Max, per avvicinarsi furtivamente ai tre terroristi che avevano seguito per tutta la notte, avevano sfruttato come nascondiglio ogni più piccola protuberanza o arbusto di quella terra aspra.
I tre terroristi - ossia il dottor Akbar Suleiman, l'uomo che era uscito con lui dall'Hotel Saint-Sulpice e uno dei due che erano stati messi di guardia davanti alla casa di campagna la sera prima - avevano parcheggiato la loro auto sopra una stretta striscia di sabbia e passeggiavano impazienti, fissando una grossa lancia dall'aria molto veloce che stava gettando l'ancora a un centinaio di metri dalla riva.
Nelle prime ore della notte, i terroristi avevano proseguito il loro viaggio verso sud oltre il confine spagnolo, con Jon e Max alle costole. Era stato un lungo viaggio. All'alba erano giunti in vista di Barcellona, con le guglie della grandiosa Sagrada Familia di Gaudi sulla destra e il secentesco castello sulla collina del Montjuic sulla siniStra.
L'auto dei terroristi aveva proseguito fino all'aeroporto di El Prat, oltre i terminal principali. Avevano infine rallentato e svoltato in una zona utilizzata da piccole compagnie aeree specializzate in voli privati e charter a basso costo. Si erano fermati davanti a un'agenzia di voli charter in elicottero.
Quando i terroristi erano entrati nel terminal dell'eliporto, Jon e Max si erano tenuti a distanza e avevano atteso con il motore in folle. Della seconda auto e di Abu Auda non avevano ancora visto traccia.
«La CIA ha un ufficio a Barcellona, giusto?» aveva domandato Jon.
«È probabile», aveva ammesso Max.
«Allora, fa' in modo che ci mandino qui un elicottero, e alla svelta», aveva concluso Jon.
Poco dopo, il dottor Suleiman e gli altri si erano levati in volo su un Bell 407 civile. Quindi, era arrivato un elicottero Seahawk, e Jon e Max avevano così potuto inseguire il Bell sopra il Mediterraneo fino alla più meridionale delle Isole Baleari, dove ora erano appostati tra le pietre e la sterpaglia, sopra quella striscia di spiaggia.
Mentre Jon era di guardia, dalla lancia ancorata al largo venne gettato in mare un grosso gommone. Jon ebbe pochi minuti per decidere il da farsi. Se avesse perso di vista i terroristi, ci sarebbero probabilmente voluti diversi giorni - settimane, forse - per scoprire la destinazione di quella veloce imbarcazione, che aveva tutta l'aria di una motosilurante riadattata. Seguire un elicottero a bordo di un altro non era di per sé un'attività sospetta.
Del resto, era stato proprio questo il sistema con cui avevano pedinato i terroristi fino a Formentera. Non era così assurdo che due elicotteri si dirigessero più o meno contemporaneamente verso uno stesso luogo. Inoltre, il velivolo degli inseguitori, in caso di bel tempo, poteva tenersi a una certa distanza e risultare pressoché invisibile. Infine, il rumore dei suoi motori avrebbe finito per essere coperto da quello dell'elicottero inseguito, senza contare il problema del carburante, che neppure si poneva. Un elicottero al seguito di una barca, invece, costretto a girare in tondo a causa della sua velocità di molto superiore, non avrebbe potuto evitare di causare un immediato allarme. Inoltre, non potevano essere sicuri che l'elicottero avesse carburante a sufficienza.
«Salirò a bordo di quella barca», disse a Max. «Tu coprimi, e aspetta che arrivi Randi. Se non la vedi arrivare, torna in elicottero a Barcellona e trovala, dovunque sia.
Spiegale quel che ho intenzione di fare e dille di gettare una rete per intercettare la lancia. Se non ci riesce, non fare nulla; sarò io, a quel punto, a mettermi in contatto con lei.»
Max annuì e tornò subito a rivolgere l'attenzione alla veloce imbarcazione. «Mi sembra pazzescamente rischioso.»
«Non si può fare altrimenti.»
Jon arretrò strisciando finché non si fu allontanato abbastanza da risultare invisibile dalla spiaggia. Quindi, di corsa, aggirò un promontorio roccioso, si mise in mutande e legò in vita i pantaloni, insieme alla Walther e allo stiletto che aveva con sé, per mezzo della cintura. Di lì raggiunse la spiaggia e si immerse nel mare scintillante.
L'acqua era piuttosto fresca, dato che non era ancora estate. Si immerse e avanzò il più possibile sotto la superficie, per poi riemergere cauto e circospetto. Il gommone era alla sua sinistra, a metà strada tra lui e la spiaggia; c'era un solo membro dell'equipaggio, a bordo, che guidava il fuoribordo verso il trio in attesa sulla riva. Da quel che Jon riusciva a vedere, il ponte della lancia era deserto.
Inspirò a fondo e tornò a immergersi.
Mentre nuotava sott'acqua, riemergendo di tanto in tanto per respirare, considerava le possibilità a sua disposizione.
Quella lancia, oltre al capitano, non poteva avere più di cinque uomini di equipaggio. Uno di questi era in viaggio verso la spiaggia, mentre sul ponte non c'era nessuno.
Dov'erano gli altri? Doveva assolutamente salire a bordo, trovare abiti asciutti e un nascondiglio sicuro.
Non sarebbe stato facile, ma non aveva scelta.
Riemerse accanto all'imbarcazione, che oscillava al ritmo del mare. La parte anteriore, abbassandosi, schiaffeggiava l'acqua creando una piccola onda che lo allontanava dallo scafo. Con un ultimo tuffo, Jon passò sotto la lancia e sbucò dall'altro lato, verso il largo, invisibile dalla spiaggia. Si avvicinò a una scaletta fatta di corda e di assicelle di legno e restò lì a galla con l'orecchio teso, per cogliere eventuali voci o movimenti a bordo. I soli rumori che udì, però, furono le grida dei gabbiani in volo verso l'isola e il regolare sciabordio della barca.
Aveva i nervi tesi allo stremo. Pareva che sulla lancia non ci fosse nessuno, ma Jon non poteva esserne certo.
Con lo stiletto tra i denti, studiò il movimento delle onde e, nel momento in cui l'imbarcazione si abbassò, si arrampicò sulla scaletta con una notevole dimostrazione di equilibrio e, facendo spuntare solo la testa, diede un'occhiata sul ponte.
In vista, non c'era nessuno. Ascoltò per qualche istante il battito del proprio cuore e poi salì ulteriormente, andando ad appiattirsi sul ponte, a pancia in giù, nella speranza di risultare invisibile agli eventuali uomini a bordo e anche a quelli sulla spiaggia. Si guardò in giro e fece il punto della situazione. Notò, per prima cosa, che dalla lancia non solo il gommone era partito verso terra, bensì anche la normale scialuppa. Ottima notizia.
Con estrema cautela, avanzò strisciando fino all'oblò principale, passandovi sotto. Nella luce fioca si fece strada lungo una stretta passerella tra piccoli cubicoli simili a quelli degli ufficiali nei sottomarini. In attesa di cogliere voci umane o rumori di passi, Jon registrò ogni minimo cigolio e stridio della lancia.
Vi erano cinque cubicoli identici, uno per ogni membro dell'equipaggio, e un sesto, grande il doppio, per il capitano.
Trovò un paio di scarpe da ginnastica che gli andavano bene. A giudicare dagli oggetti personali sparsi in giro, tutti i cubicoli erano occupati. Uno spazio personale per ogni membro dell'equipaggio era un lusso su una barca di quelle dimensioni, costruita per andare veloce. La presenza di così tanti cubicoli poteva essere indice di lunghi periodi di navigazione e di attività rischiose. E ciò lasciava presumere che ci fosse anche una lavanderia. Anche i terroristi hanno bisogno di fare il bucato, soprattutto i musulmani, per i quali l'igiene è un dovere religioso.
A poppa, Jon trovò una minuscola lavanderia, con lavatrice-asciugatrice estremamente compatta e relativo mucchio di indumenti sporchi. Quei capi abbandonati erano sicuramente quelli di cui meno sarebbe stata avvertita la mancanza. Prese una camicia e dei calzini da aggiungere ai pantaloni che si era portato. Si vestì alla svelta e tornò rapidamente a prua, dove scoprì un altro elemento assolutamente necessario in caso di lunghe permanenze in mare: schiere di bidoni pieni di gasolio. Poco più in là, la spiegazione: un'ampia stiva munita di supporti e cinghie alle pareti per tenere fermo il carico in caso di mare grosso. C'erano tracce di polvere bianca, sulle assi di legno disposte sul fondo in modo da tenere il carico asciutto anche in caso di allagamento. Quella polvere aveva tutta l'aria di essere eroina o cocaina. Molto probabilmente, quella imbarcazione veniva usata per contrabbandare droga e, a giudicare dalle pesanti cinghie, anche armi, magari.
Tutte queste scoperte erano assai eloquenti, ma la cosa più significativa era il fatto che la stiva fosse vuota: la missione di quel giorno era speciale, non uno dei soliti traffici.
Jon si bloccò. Udì il debole ma inconfondibile rombo del motore di una barca che si stava avvicinando. Gli serviva un nascondiglio. La stiva era inservibile, perché era vuota. E i cubicoli erano fuori discussione, perché occupati dall'equipaggio. A prua era passato davanti a una piccola cambusa, che rappresentava una possibilità.
Prima o poi, però, per quanto breve potesse essere il tragitto, a qualcuno sarebbe sicuramente venuta fame.
Tornò indietro, allora, lungo lo stretto passaggio. Il rumore di piedi posati sul ponte, sopra di lui, gli fece accelerare il battito cardiaco. Le voci risuonavano sgradevolmente vicine.
Con il torace stretto in una morsa, Jon trovò infine, a prua, uno spazioso magazzino. Era pieno di cordame, catene, tela, portelli di oblò, pezzi di motore e altro materiale necessario alla manutenzione di un natante d'altura in condizioni estreme. Tendendo l'orecchio verso le voci dei membri dell'equipaggio che tornavano a bordo, si mise a spostare roba finché non riuscì a ricavare una nicchia sufficientemente comoda. Appena fuori dal suo nascondiglio, nel corridoio, echeggiarono dei passi. Jon si infilò nella nicchia e tirò a sé il portello di un oblò a mo' di chiusura. Incrociò le gambe e abbassò la testa, i nervi scossi, la schiena contro una paratia. I suoi pantaloni erano bagnati e viscidi.
Dall'alto giunsero delle grida concitate, e due paia di piedi si fermarono esattamente davanti alla porta dietro cui Jon aveva trovato rifugio. I due cominciarono a parlare tra loro in arabo. All'improvviso, uno dei due scoppiò a ridere, subito imitato dal suo interlocutore, e Jon sospirò di sollievo quando sentì che si allontanavano. Mentre le voci sfumavano, i potenti motori della lancia - truccati, evidentemente - si animarono con un ruggito, facendo vibrare l'intera imbarcazione. L'ancora, risalendo a bordo, sferragliò contro una fiancata, e Jon sentì la lancia oscillare.
Lo spostamento causato dall'ancora lo sospinse contro una massa di funi che aveva accanto, e l'accelerazione lo scaraventò indietro contro la paratia. La barca non fece quasi in tempo a prendere velocità che Jon cominciò a sentirsi tutto indolenzito. Ciononostante, sorrise. Era vivo, aveva la sua Walther e al termine di quel viaggio avrebbe probabilmente trovato le risposte che cercava.
Randi si trovava ai piedi del Far de la Mola, non lontano dalla statua di Jules Verne, il celebre scrittore francese.
Guardava il mare, verso la sempre più vaga sagoma della lancia che sfrecciava in direzione sud. «È salito su quella barca, allora?»
«Sì», confermò Max. «Dopo che tutti sono tornati a bordo e la lancia ha levato l'ancora, non ho notato movimenti strani. Né turbolenze né colluttazioni. Perciò immagino che sia riuscito a trovare un nascondiglio a bordo. Com'è andata con il SUV che stavate seguendo?»
«Sono entrati anche loro a Barcellona, ma in città li abbiamo persi.»
«Vi hanno seminato deliberatamente?»
«Sì, sicuramente si sono accorti di noi», rispose con un'espressione sdegnata. «A quel punto Salinger, il capo dell'ufficio CIA di Madrid, ci ha riferito che avevi chiesto un elicottero. È stato necessario del tempo per individuare l'agenzia giusta e farci dire dove vi eravate diretti.
Dopo di che siamo volati qui anche noi.»
«Jon potrebbe essere nei guai.»
Randi annuì ansiosa e guardò verso il mare, dove la veloce imbarcazione stava scomparendo tra la grigia foschia all'orizzonte. «Lo so. E continuerebbe a essere nei guai anche nel caso riuscisse ad arrivare sano e salvo a terra, quale che sia la destinazione.»
«Che cosa facciamo?»
«Riempi i serbatoi del Seahawk. Raggiungeremo la costa del Nord Africa.»
«I serbatoi sono abbastanza capienti, e la cosa è fattibile, ma i terroristi, se seguiremo la lancia, si accorgeranno sicuramente di noi.»
«Non la seguiremo», decise Randi. «La localizzeremo e voleremo diritti fino in Africa. Loro ci vedranno, questo è sicuro, ma quando passeremo oltre senza mostrare il minimo interesse, penseranno che sia un elicottero qualsiasi in rotta da quelle parti.»
«Perché dovremmo sorvolarli?»
«Per avere la certezza che stiano andando davvero in Africa, e non da qualche altra parte in Spagna o, magari, in Corsica.»
«E poi?» domandò infine Max.
«E poi sguinzagliamo tutti gli uomini e i mezzi che abbiamo per trovarli.» Gli occhi scuri di Randi si volsero preoccupati verso il mare.
Marsiglia, Francia La taverna dei pescatori sorgeva tra altri malconci edifici vicino ai pescherecci ormeggiati l'uno accanto all'altro lungo le banchine. Era calato il crepuscolo, e il lungomare era affollato dai soliti sciami di persone schiamazzanti, segno che le barche da pesca erano rientrate, e il mercato del pesce era in piena attività. All'interno della vecchia taverna, nel frastuono di voci, il francese e l'arabo erano le lingue più parlate.
Un uomo basso e grassottello si stava facendo largo nella coltre di fumo grigio di sigaretta. Aveva il passo ondeggiante del marinaio appena sceso a terra. Indossava dei jeans, una maglietta sporca che metteva in evidenza i suoi muscoli, un berretto da mercantile da cui spuntava una morbida corona di capelli bianchi, e aveva la mascella profilata da una barba sottile che culminava sul mento in un lucente pizzetto nero.
Raggiunse il bancone ricoperto di rame, vi si appoggiò, sporgendosi verso il barista e parlò in un francese zoppicante. «Dovrei incontrare il capitano di una nave, un certo Marius.»
Il barista si accigliò per via del francese smozzicato.
Squadrò il forestiero e infine domandò: «Sei inglese?».
«Oui, sì.»
«Sei sceso da quella nave container arrivata ieri dal Giappone?»
«Sì.»
«Ti conviene imparare un po' meglio il francese, prima di tornare qui la prossima volta.»
«Lo terrò presente», disse l'inglese, impassibile. «E questo Manus?»
Il barista, il tipico marsigliese burbero, continuò a fissarlo per poi volgere il capo verso una tenda di perline che separava la più rumorosa sala principale da una saletta riservata.
Il «marinaio» inglese, che si chiamava Carsten Le Saux, parlava, in realtà, un ottimo francese e non era affatto un marinaio, ringraziò il barista e si avviò verso la saletta.
Scostò la tenda e andò a sedersi a un tavolo solcato da profonde incisioni, di fronte all'unico altro occupante.
Come per miracolo, il francese di Le Saux migliorò nettamente. «Capitano Marius?»
L'uomo che lo attendeva era magrissimo, di altezza media, con il classico taglio gallico, i capelli folti e neri lunghi fino alle spalle e apparentemente tagliati con un coltello. La sua camicia senza maniche mostrava un corpo che sembrava fatto di ossa e muscoli soltanto. Scolò un mare, brandy di pessima qualità, e mise da parte il bicchiere, per poi appoggiare la schiena all'indietro, come in attesa di un qualche evento significativo.
Le Saux sorrise con la bocca, ma non con gli occhi, quando richiamò l'attenzione di un cameriere in grembiule bianco, che stava ripulendo un tavolo. «Deux marcs, s'il vous plaît.»
«Sei tu quello che ha chiamato?» domandò il capitano Marius.
«Sì.»
«Dicevi che c'erano dei dollari... Cento dollari.»
Carsten Le Saux infilò una mano in una tasca ed estrasse una banconota da cento dollari. La posò sul tavolo, e il capitano, pur annuendo, evitò di raccoglierla.
Arrivarono i marcs che Le Saux aveva ordinato. Il capitano prese il bicchiere che gli spettava.
I due sorseggiarono lentamente il liquore. Dopo un po', Le Saux disse: «Ho saputo che tu e la tua barca avete sfiorato il disastro in mare, qualche notte fa».
«Dove l'hai saputo? Da chi?»
«Da una fonte piuttosto convincente. Mi ha detto che stavate per essere speronati da una grossa nave. Un'esperienza spiacevole, immagino.»
Il capitano Marius fissò lo sguardo sulla banconota posata sul tavolo. Quindi, la raccolse e dopo averla ripiegata la infilò in un vecchio borsellino di cuoio, spuntato come dal nulla. «Due notti fa. La pesca era andata male, allora ci siamo spinti un po' più al largo verso un banco che conosciamo in pochi, in un posto dove andava sempre mio padre quando non riusciva a pescare nulla sotto costa.»
Prese da un taschino della sua camicia un pacchetto di sigarette arabe mezzo accartocciato e ne tolse due algerine, puzzolenti e tutte piegate.
Le Saux ne prese una, Marius gli diede da accendere e accese a sua volta, sbuffando una nube tossica nella saletta appartata. Quindi, si sporse in avanti. Parlò con voce tesa, come se fosse ancora scosso dall'episodio. «È sbucata dal nulla, grossa come un grattacielo o come una montagna.
Come una montagna, direi, solo che si muoveva. Quel mostro spaventoso puntava diritto verso la mia misera barchetta.
Era completamente buia, sia fuori sia dentro. Più scura della notte. Quando è passata, ho visto che alcune luci erano accese, ma chi poteva vederle, alte com'erano?»
Tornò ad appoggiarsi all'indietro, come se la cosa non avesse più importanza. «Ci ha sfiorati a babordo. A momenti sfondava la barca, e invece sono ancora qui.»
«Era la Charles De Gaulle?»
«Magari era l'Olandese Volante, no?»
Anche Carsten Le Saux si appoggiò allo schienale, con aria pensierosa. «Perché procedeva al buio? C'era qualche cacciatorpediniere? Altre navi?»
«Io non ho visto nient'altro.»
«Che rotta seguiva?»
«Dalla scia che lasciava, sud-sudovest, direi.»
Le Saux annuì. Fece nuovamente cenno al cameriere e ordinò un altro paio di marcs. Allontanò la sedia dal tavolo, si alzò in piedi e sorrise al capitano. «Merci. E faccia attenzione, là fuori.» Pagò il conto al cameriere e se ne andò.
Il crepuscolo si era tramutato in una notte color indaco.
Sull'affollato lungomare, l'aria era impregnata di odore di pesce e di liquore. Le Saux si fermò a guardare la schiera degli alberi delle barche e ad ascoltare il fioco rumore del cordame che sbatacchiava contro gli scafi in legno. Il vecchio porto aveva alimentato la città sin dai tempi dell'antica Grecia, dal VII secolo a.C. Girò su se stesso e si guardò intorno come se fosse un turista, per poi avviarsi celermente lungo le banchine. Alla sua sinistra, su una collina che dominava Marsiglia, si ergeva la bella basilica di Notre-Dame-de-la-Garde, a guardia della città moderna, circonfusa di luce.
A un certo punto, entrò in un vecchio edificio di mattoni su una stradina laterale e salì le scale fino a un appartamento di due stanze al quarto piano. Entrato nel bilocale si sedette sul letto, prese la cornetta del telefono e compose un numero.
«Qui è Howell.»
Le Saux borbottò. «Che ne diresti di aggiungere un cortese "buonasera"? Anzi, no: mi correggo. Considerando il tuo caratteraccio, mi accontenterei anche di un semplice "salve".»
Dall'altro capo del filo giunse uno sbuffare lontano.
«Dove diavolo sei, Carsten?»
«A Marsiglia.»
«E allora?»
«La De Gaulle era in mare a sudovest di Marsiglia poche ore prima che il generale Moore ritornasse a Gibilterra.
Prima di parlare con il capitano del peschereccio, ho fatto un controllo e ho scoperto che non erano in corso esercitazioni navali della NATO o francesi in quei giorni. Anzi, non ce ne sono in programma per tutta la settimana. La De Gaulle procedeva verso sudovest, verso la costa spagnola e, senti questa, procedeva a luci spente.»
«A luci spente? Interessante. Ottimo lavoro, Carsten.
Ti ringrazio.»
«Mi è costato duecento dollari.»
«Scommetto che ne avrai spesi al massimo cento, ma ti manderò cento sterline.»
«La generosità è di ricompensa a se stessa, Peter.»
«Magari... Tieni le orecchie aperte; cerca di capire che cosa faceva la De Gaulle in mare.»
Capitolo 25.
Mare Mediterraneo, nei pressi della costa algerina.
Per ore la veloce lancia sbatté contro le onde. Intrappolato come un animale in gabbia, Jon si mantenne vigile giocando tra sé e sé, scoprendo di essere ancora in grado di ricostruire il suo passato alla perfezione, fino al più piccolo dettaglio. Il tempo troppo breve con Sophia... Il lavoro come cacciatore di virus dello USAMRIID... Le ristrettezze patite, ancora prima, quando era agente in incognito a Berlino Est. E poi c'era l'errore fatale commesso in Somalia, quando non era riuscito a identificare il virus che aveva ucciso il fidanzato di Randi, un ottimo ufficiale dell'esercito. Si sentiva ancora in colpa, per questo, benché sapesse che quell'errore diagnostico avrebbe potuto commetterlo chiunque, e più di un medico, infatti, lo aveva commesso.
Gli anni trascorsi si affollavano nella mente di Jon che, con il passare delle ore, sbatacchiato com'era dai movimenti della barca, cominciò a domandarsi se quel viaggio sarebbe mai finito. Sprofondò in un sonno scomodo.
Quando la porta del magazzino si aprì, però, si ritrovò sveglio e pronto in un istante. Tolse la sicura alla sua Walther.
Entrò qualcuno che si mise a frugare in giro. Trascorsero alcuni interminabili minuti, e Jon sentì un rivolo di sudore scendergli lungo un fianco. Quell'uomo, contrariato, cominciò a borbottare qualcosa in arabo. Jon si sforzò di capire e alla fine si rese conto che stava cercando una particolare chiave inglese.
Sforzandosi di controllare un accesso di claustrofobia, Jon visualizzò mentalmente il magazzino in cui si trovava, domandandosi se non fosse stato, per caso, lui stesso a spostare la chiave inglese. Dentro di sé imprecò, e quasi simultaneamente anche l'arabo fece lo stesso, ma ad alta voce. E la voce di quell'uomo era esultante, non contrariata, perché finalmente aveva trovato l'utensile. In breve, i suoi passi si allontanarono e uscirono dal magazzino.
Quando la porta fu richiusa, Jon esalò un lunghissimo sospiro. Passò un avambraccio sulla fronte, rimise la sicura alla pistola e si abbandonò con la schiena contro la paratia. Un attimo dopo, la lancia andò a urtare una nuova onda.
Consultò più volte l'orologio. Alla sesta ora di viaggio, improvvisamente, i rombanti motori della lancia scesero di giri, e l'imbarcazione rallentò, per poi fermarsi. Uno stridio metallico segnalò il rilascio dell'ancora. La catena cominciò a srotolarsi, ma l'ancora impiegò pochissimo tempo per toccare il fondo. Evidentemente, erano in acque basse. Gli acuti strilli dei gabbiani gli annunciarono che erano ormai vicini alla costa.
Sul ponte si percepiva una certa attività, ma nessuna concitazione. Una serie di lievi tonfi in acqua, seguiti da uno sciame di strofinii attutiti su un fianco della lancia.
Tutto avveniva senza ordini gridati. L'equipaggio si muoveva più silenziosamente che poteva. Jon udì un cigolio di scalmi e i rumori controllati dei remi nell'acqua che poco a poco sfumarono. Erano stati calati in mare sia il gommone sia la scialuppa? Jon lo sperava vivamente.
Attese per un po'. La barca beccheggiava ritmicamente; se non altro, però, il continuo e violento urto delle onde era finito. Mentre il mare sciaguattava dolcemente contro lo scafo, l'imbarcazione sembrava sospirare, come se i suoi elementi e pannelli di legno e di metallo si stessero predisponendo al riposo. Il natante era immerso nel silenzio.
Jon tolse da sopra la testa il portello dell'oblò con cui si era coperto e si rialzò lentamente, per poi attendere che le sue membra riprendessero vita. Si stiracchiò tenendo gli occhi fissi sulla sottile fessura di luce sotto la porta di quel magazzino. Dopo un po' uscì dal nascondiglio e, mentre muoveva verso la porta in quel locale buio, urtò con un ginocchio un non meglio precisato pezzo di metallo che cadde sul pavimento con un clangore.
Jon si bloccò e tese l'orecchio. Dal ponte della lancia non giunse alcun rumore. Ciononostante restò immobile.
Aspettò. Un minuto. Due. Da sopra, lungo la passerella sottocoperta, non arrivò nessuno.
Smith inspirò a fondo, aprì la porta e guardò da una parte e dall'altra. Il corridoio era sgombro. Uscì dal magazzino, chiuse la porta e si diresse verso la passerella. In quel momento non ne era consapevole, ma aveva abbassato la guardia, confidando che la barca, avvolta dal silenzio, fosse priva d'equipaggio come quando vi era salito a bordo.
Fu a quel punto che un uomo dall'aria poderosa sbucò da uno dei cubicoli con brandina puntandogli una pistola contro. Aveva un fez in testa e una faccia cattiva con la barba incolta.
«Chi cazzo sei? Da dove sei arrivato?» Il suo inglese aveva un vago accento mediorientale. Egiziano?
Esasperato e furioso, Jon si protese. Afferrò con la mano sinistra il polso del terrorista che reggeva l'arma, mentre con la destra estrasse lo stiletto.
Sorpreso dalla rapidità della reazione, l'arabo cercò di divincolarsi, arretrando, in equilibrio precario. Jon sferrò un pugno per colpirlo alla mascella, ma l'uomo, nel frattempo, aveva recuperato e, schivando il colpo, spinse la bocca da fuoco contro il fianco di Jon, il dito sul grilletto.
Jon si spostò appena in tempo. L'arabo premette il grilletto, e lo sparo tuonò come un colpo di cannone in quello spazio chiuso. La pallottola sfiorò Jon e si infilò in uno dei cubicoli andando a sbattere contro la parete della lancia. Prima che il suo assalitore potesse sparare di nuovo, Jon gli affondò lo stiletto nel torace.
Il terrorista si accasciò rumorosamente sulle ginocchia, con gli occhi scuri fiammeggianti e, con un rantolo, poi, cadde di faccia in avanti.
Jon, con un calcio, tolse la pistola - una Glock calibro 9mm - dalla mano dell'arabo ed estrasse al contempo la propria, indietreggiando. L'assalitore giaceva immobile e da sotto il suo corpo uscivano rivoli di sangue.
Jon si chinò per sentirgli le pulsazioni. Era morto.
Rialzandosi, si rese conto di essere scosso. Dopo lunghe ore di inattività forzata, i suoi nervi e i suoi muscoli erano stati improvvisamente sollecitati con violenza. Ora vibrava come un'auto da corsa che, mentre viaggia a velocità elevata, sia costretta a fermarsi di colpo. Non aveva intenzione di uccidere quell'uomo. Uccidere, in generale, non gli piaceva, ma non aveva avuto scelta.
Quando il tremito gli fu passato, scavalcò il cadavere e, lungo la passerella, risalì sul ponte, accolto dal sole pomeridiano.
Con gli occhi appena schiusi, osservò la situazione.
Non si vedeva nessuno. Benché concepita per essere veloce, la lancia disponeva anche di alcuni mezzi per sfruttare il vento. Il ponte era piatto e interamente sgombro fino alla plancia, che era a sua volta deserta. La scialuppa e il gommone erano spariti.
Con cautela, Jon proseguì verso la plancia di comando, dove poté osservare il resto del natante. Era completamente deserto. Trovò un binocolo. A ovest, nel cielo, il sole era una palla di fuoco giallo limone. L'aria stava rapidamente rinfrescando; del resto, secondo il suo orologio, regolato sull'ora di Parigi, erano le sei passate, e considerando la durata e la velocità del viaggio, il fuso orario non doveva essere cambiato o era cambiato di poco.
Con il binocolo scrutò la spiaggia, immersa nella luce più fresca del tardo pomeriggio: una bella spiaggia liscia, punteggiata da una serie di piccole costruzioni che parevano serre di plastica. Alle spalle di queste ne sorgevano diverse altre schiere, che si spingevano verso l'entroterra.
Poco lontano dalla costa, si estendeva verso l'interno un vastissimo agrumeto. Jon riusciva a scorgere le arance che maturavano sugli alberi frondosi. C'era anche un grosso promontorio che si proiettava in mare, apparentemente circondato per intero da un lungo muro bianco alto almeno tre metri. Fu la vetta altissima del promontorio, però, a impressionarlo: ulivi e palme si stagliavano cupi contro quel muro bianco, dietro al quale Jon riuscì a vedere alcuni edifici dal tetto a cupola.
Spostò il binocolo e, all'estrema destra, vide alcune automobili moderne che sfrecciavano su una strada apparentemente in buone condizioni, a poca distanza dalla riva del mare. Spostò ulteriormente il binocolo, rivolgendolo questa volta in lontananza. Alle spalle di tutto si ergeva una fila di colline, mentre ancora più in là incombevano cime più alte.
Jon posò il binocolo, rimuginando sugli indizi raccolti.
Di certo, non era la costa francese. Poteva essere quella del Sud della Spagna, ma ne dubitava. No, quello sembrava il Nord Africa, e il rigoglio della natura, le serre, le grandi spiagge sabbiose, le palme, le colline, quella strada, le auto moderne e, in generale, l'atmosfera di prosperità che vi regnava, insieme alla durata e alla velocità del viaggio su quella lancia, lo indussero a credere di essere ancorato davanti alle coste algerine, non lontano da Algeri.
Tornò a scrutare con il binocolo quel muro lontano. I raggi del sole pomeridiano si erano ormai abbassati al punto da rimbalzare contro quell'alta barriera bianca quasi fosse stata di metallo, abbagliandolo. La luce si rifletteva anche sulle particelle di polvere fluttuanti che rendevano fosca e indistinta quella parte del muro che riusciva a vedere. Pareva quasi ondulato. Con tutte quelle interferenze ottiche, gli fu impossibile distinguere chiaramente gli edifici retrostanti. Osservò la spiaggia, ma non vide, a riva, né la scialuppa né il gommone.
Serrando le labbra, posò nuovamente il binocolo e guardò il panorama. Era incuriosito da quell'alto e solido muro che pareva cingere il promontorio.
Tornò di corsa sottocoperta nel magazzino in cui si era nascosto, perché si ricordò di avervi visto un secchio di plastica. Si rimise in mutande e ripiegò con cura i vestiti, infilandoli insieme alla Walther e allo stiletto dentro al secchio. Tornò sul ponte e, con il secchio al braccio, si calò nel mare sempre più cupo scendendo per l'oscillante scaletta di corda. Si mise a nuotare verso la costa spingendo davanti a sé il secchio e cercando di creare meno increspature che poteva, dato che la schiuma delle onde rifletteva la luce del sole e poteva, quindi, attirare l'attenzione.
Si sentiva stanco, affaticato dallo stress degli ultimi giorni oltre che dalle scomode condizioni di quel viaggio, ma quando si fermò nell'acqua, per osservare meglio quel muro bianco, fu pervaso da una nuova energia. Il muro era più alto di quel che aveva inizialmente creduto e raggiungeva quasi i cinque metri. Ancora più interessante fu la scoperta degli acuminati rotoli di filo spinato che ne profilavano la sommità come una corona di spine.
Qualcuno, evidentemente, teneva moltissimo a scoraggiare eventuali ficcanaso.
Meditando su questi dati, riprese a nuotare con prudenza verso la punta del promontorio, mentre la temperatura dell'acqua e dell'aria scendevano con l'avanzare del crepuscolo che si stendeva come una mano nera. L'estremità del promontorio era coperta da una massa di vegetazione e di palme apparentemente impenetrabile. Jon la aggirò nuotando, ma non vide traccia di edifici.
A quel punto, però, sorrise tra sé: sulla spiaggia scorse la scialuppa e il gommone, tirati a riva fino al limitare della fitta vegetazione. Quello sì che era un passo avanti.
Intensificò il ritmo della sua bracciata e proseguì oltre, fino a un punto in cui la vegetazione giungeva così a ridosso del mare da dare quasi l'impressione di tuffarvisi, e dove il muro bianco si interrompeva come a cedere il passo alla densità di quell'altro muro verde e naturale.
Jon di nuovo si fermò nell'acqua per scrutare la costa e individuare eventuali movimenti. Quando si sentì sicuro, spinse il secchio a riva verso la fitta vegetazione e strisciò sulla sabbia ancora tiepida per il sole della giornata appena conclusa. Restò lì sdraiato per un minuto abbondante, a sentire il suo cuore che batteva contro la sabbia e ad assorbire quel confortevole tepore.
Dopo un po' si rialzò in piedi e corse scalzo tra gli alberi, dove trovò ben presto una piccola radura buia e ombrosa pervasa dagli aromi di quel terreno ricco e delle piante che vi crescevano. Sotto una palma da dattero si vestì alla svelta, si infilò la Walther nella cintura dei pantaloni, fissò il proprio stiletto inguainato al polpaccio per mezzo di un velcro e nascose il secchio.
Avanzò tra gli alberi e i cespugli, senza perdere di vista la spiaggia, finché non incontrò un piccolo sentiero sterrato.
Si chinò per osservarlo da vicino. Trovò impronte che avevano il caratteristico disegno delle scarpe da ginnastica come quelle che lui stesso aveva ai piedi. Le impronte più recenti - un sovrapporsi di svariate paia di piedi - sembravano allontanarsi dal punto in cui erano stati legati la scialuppa e il gommone.
Rincuorato, impugnò la Walther e seguì il sentiero verso l'interno per una quindicina di metri, sbucando, infine, in un vasto spazio aperto immerso nelle ombre sempre più fitte della notte. Ulivi e palme da dattero si spingevano fino a un leggero pendio in salita. Sulla sommità del rilievo, sorgeva una grande villa bianca coronata da una cupola con inserti a mosaico. Era la cupola che aveva visto dalla barca.
La gigantesca villa sembrava completamente isolata e, a prima vista, deserta. Non c'era nessuno al lavoro o a passeggio nel giardino, e nessuno occupava le sedie azzurre in ferro battuto artisticamente disposte sul lungo terrazzo. Non si vedeva anima viva neppure al di là delle portefinestre spalancate. Non c'erano auto né altri veicoli.
L'unico movimento era quello delle tende velate alle finestre, che si gonfiavano per effetto della brezza. A quel punto, però, Jon udì delle voci in lontananza. Si levavano all'unisono, come a scandire un passo di marcia, e da qualche parte, ogni tanto, risuonava debolmente l'eco di uno sparo. Evidentemente, in quella villa, vi era più di quel che un normale visitatore si sarebbe aspettato di trovare.
A conferma di questa conclusione, sull'angolo più lontano dell'edificio comparve un uomo in divisa mimetica dell'esercito britannico e con un copricapo afghano in testa. Con aria poco marziale teneva in spalla un AK-47.
Jon sentì improvvisamente aumentare la propria pulsazione cardiaca. Si accucciò dietro un cespuglio e vide comparire da dietro l'angolo opposto una seconda guardia.
Questo secondo uomo aveva il capo scoperto, indossava un paio di jeans e una camicia di flanella e, a giudicare dai tratti somatici, pareva un orientale. Con il braccio sinistro reggeva una mitraglietta M60E3 di fabbricazione americana. I due si incrociarono davanti ai gradini del terrazzo e proseguirono in direzioni opposte, evidentemente impegnati a sorvegliare la casa.
Jon non si mosse. Qualche istante dopo, una terza guardia fece la sua comparsa, questa volta dall'interno della villa. Armato di tutto punto come gli altri, quest'uomo uscì sul terrazzo e scrutò i dintorni, per poi rientrare.
Cinque minuti dopo, i due che giravano intorno alla villa, riapparvero, subito seguiti da un quarto uomo che sbucò anche lui sul terrazzo dall'interno dell'edificio.
Le guardie, insomma, erano quattro. Visto che Jon aveva intuito il loro schema di sorveglianza, non restava che intrufolarsi nella villa. Aggirò la fitta vegetazione finché non trovò, vicino alla facciata anteriore dell'edificio, una porticina appartata. In quel punto, la sontuosa residenza era quanto mai prossima a quella sorta di giungla. Non vide traccia di auto né di passi carrabili, che si trovavano probabilmente sull'altro lato. Le voci lontane, levatesi in coro, gli fecero correre un brivido lungo la schiena. Riuscì a riconoscere alcune delle parole arabe che venivano gridate: era una litania di odio nei confronti di Israele e dell'America, il Grande Satana. Non appena la guardia di passaggio ebbe aggirato l'angolo della facciata posteriore, scomparendo alla vista di Jon, questi sbucò dal suo riparo e corse fino all'angolo nascosto della casa. La porta non era chiusa a chiave. Vista la miriade di finestre spalancate, Jon ne fu ben poco sorpreso. Ciononostante, non abbandonò la cautela e aprì quella porta un centimetro alla volta. Attraverso la fessura sempre più ampia vide un pavimento di piastrelle lucide, costosi mobili arabi, dipinti moderni astratti e tutt'altro che tradizionali, ma che non offendevano la sensibilità islamica, piccole nicchie chiuse da tende in cui ritirarsi a leggere e a meditare, e neanche l'ombra di un essere umano.
Si avventurò all'interno, impugnando la Walther a due mani. Al di là di un tradizionale arco moresco, Jon vide chiaramente un'altra stanza simile alla prima. In quella terra, dominata e occupata da una lunga serie di conquistatori e colonizzatori, erano stati gli arabi a esercitare l'influenza più duratura. Lì, anzi, rappresentavano ancora la maggioranza. Nonostante la tenacia delle tribù berbere e il potere dei burocrati e dei residenti francesi, alcuni arabi tentavano ancora di riportare l'Algeria sotto il pieno controllo dell'Islam, obiettivo che si era rivelato assai difficile da conseguire e che aveva causato gravi spargimenti di sangue. Questo spiegava perché così tanti musulmani sostenevano e persino ospitavano gli assassini fondamentalisti.
La seconda stanza era deserta come la prima, e Jon proseguì per locali sempre più freschi e in penombra.
Non incontrò nessuno. Poi, udì delle voci davanti a sé.
Raddoppiando la cautela, si avvicinò, tanto che le parole risultavano sempre più chiare. Alla fine riconobbe la voce di Mauritania. Jon aveva scoperto un covo dello Scudo della Mezzaluna. Forse addirittura il quartier generale.
Teso ed eccitato, si imboscò in un angolo e rimase in ascolto. L'echeggiare delle voci lasciava supporre che Mauritania si trovasse in una grande sala dal soffitto alto, ancora più alto di quelli visti nelle altre stanze.
Smith si rimise in movimento finché non individuò con certezza l'arco oltre il quale avevano origine quelle voci. Si appiattì contro il muro in cui si apriva quell'arco e sbirciò nella sala, scorgendo le schiene di una dozzina di uomini riuniti sotto la grande volta a cupola.
Erano un gruppo quanto mai variegato: beduini dalle lunghe tuniche, indonesiani che sfoggiavano jeans Levi's ultimo modello e magliette firmate, afghani nel loro caratteristico pigiama e copricapo. Erano tutti in possesso di armi, che andavano dai più moderni fucili d'assalto agli AK-47 vecchi e malconci. In fondo alla sala, il piccolo Mauritania, dall'aria fintamente innocua, era appollaiato su una grossa scrivania di quercia, vestito di una lunga tunica bianca. Parlava in francese, e i presenti lo ascoltavano rapiti.
«Il dottor Suleiman è arrivato e sta riposando», annunciò.
«Presto si presenterà da me a rapporto, e quando anche Abu Auda sarà arrivato, lanceremo il conto alla rovescia.»
I terroristi riuniti esultarono in una miriade di lingue, che a Jon risultavano perlopiù incomprensibili. Sollevarono e agitarono le armi in aria.
Mauritania riprese: «Ci chiameranno terroristi, ma non lo siamo. Siamo guerriglieri, soldati al servizio di Dio, e con l'aiuto di Dio trionferemo». Alzò le mani per placare il trambusto. «Abbiamo già messo alla prova il macchinario del francese. Abbiamo sviato l'attenzione dell'America. E ora l'accecheremo e la zittiremo, per impedirle di avvertire i suoi lacchè ebrei del furto del missile tattico russo che verrà spedito a cancellare dalla nostra terra santa ogni traccia dei sionisti!»
Si levarono grida di entusiasmo e urla così feroci e violente, che la cupola soprastante sembrò vibrarne.
Quando il tumulto fu sedato, lo sguardo di Mauritania si incupì, e l'espressione si fece solenne. «Sarà una grande esplosione», promise. «Li distruggerà tutti. I tentacoli del Grande Satana, però, sono lunghi, e anche molti dei nostri moriranno. E questo mi rattrista. La perdita anche di un solo fratello è una ferita profonda, per me, ma dobbiamo farlo, per purificare la Terra, per mettere fine a questa impura nazione di Sion. Cancelleremo il cuore di Israele.
Quelli dei nostri che periranno saranno martiri e finiranno direttamente tra le braccia di Dio, per l'eternità.»
Di nuovo scoppiarono le grida. Jon, acquattato nella stanza adiacente, si sentì gelare il sangue. Avevano in mente un attacco nucleare, e l'obiettivo non era l'America, bensì Israele. Da quel che aveva detto Mauritania, Jon comprese che il piano consisteva nel riprogrammare, mediante il computer a DNA, un vecchio missile nucleare tattico dell'arsenale ex sovietico per lanciarlo su Gerusalemme, «il cuore di Israele», uccidendo milioni di persone nei territori palestinesi e nelle nazioni circostanti, Paesi arabi sacrificati sull'altare dei sogni malati di Mauritania.
Jon decise di muoversi. Doveva trovare il professor Chambord e distruggere il computer molecolare. Dovevano trovarsi entrambi, l'uomo e la macchina, in qualche angolo di quel gigantesco palazzo. E potevano esserci anche Peter, Marty e Thérèse. Con la speranza di ritrovarli tutti, si inoltrò per altre stanze vuote e iniziò a cercare.
Tolone, Francia, base navale della marina francese.
Nel crepuscolo primaverile, il maître principal Marcel Dalio lasciò la base navale di Tolone per un'uscita di sicurezza.
Era un uomo per molti versi anonimo: altezza e peso nella media, contegno assai circospetto. Il viso segnato, però, era degno di nota. Nonostante fosse un virile cinquantenne, dimostrava almeno vent'anni di più. Dipendeva dagli anni trascorsi in mare, esposto al sole, al vento e all'aria salmastra. Gli agenti atmosferici avevano inciso il suo viso come un Grand Canyon di burroni, crepacci e dirupi.
Mentre Dalio camminava, quel volto, bello nella sua intensità, continuava a voltarsi da ogni parte e osservava ogni aspetto del porto di Tolone, con le sue barche da pesca, gli yacht privati e le prime navi da crociera che inauguravano la nuova stagione. Poi, il suo sguardo si spostò sulla sua nave, la potente portaerei Charles De Gaulle, ancorata poco lontano. Era fiero di essere un maître principal, qualcosa di simile a un sottufficiale, e ancora di più di servire su quella maestosa portaerei.
In breve, Dalio raggiunse il suo bistrot preferito, in una stradina secondaria dalle parti del Quai Stalingrad. Il proprietario lo salutò per nome, fece un inchino e lo accompagnò cerimoniosamente al tavolo appartato sul retro del locale.
«Che cosa c'è di buono, César?» domandò Dalio.
«Oggi, Madame si è superata con la sua daube de bœuf, maître principal.»
«E allora portamene un piatto, con una buona bottiglia di Côte du Rhône.»
Dalio si accomodò e si guardò intorno. Come aveva previsto, data la stagione non troppo avanzata, il ristorante non era ancora affollato. Nessuno mostrò interesse per lui o per la sua uniforme. Quando invece Tolone era invasa da turisti, che arrivavano soprattutto per vedere la base navale, i francesi in divisa venivano osservati con insistenza perché capitava, magari, che portassero qualcuno a bordo delle navi da guerra, offrendo, in casi eccezionali, dei giri di prova.
Quando gli fu servito da mangiare e da bere, Dalio gustò la daube de bœuf con molta calma, assaporando il gusto sapido dello stufato di carne bovina preparato come solo la padrona di quel bistrot sapeva fare. Finì alla svelta anche il Côte du Rhône, che luccicava come sangue nel bicchiere. Concluse il pasto con una tarte au citron e indugiò sulla sua tazza di caffè. Infine, si alzò e raggiunse il pissoir sul retro. Come per tutti i bistrot dalle parti del Quai Stalingrad, anche la clientela di quel locale era costituita, per la maggior parte dell'anno, da turisti.
Per venire incontro alla sensibilità dei tanti americani di passaggio, erano stati creati non solo bagni separati per uomini e donne, bensì anche dei cubicoli.
Dalio notò con sollievo che all'interno del pissoir, apparentemente, non c'era nessuno. Si chinò per verificare che anche i cubicoli fossero vuoti. Quando ne fu certo, si chiuse in quello che gli era stato detto di utilizzare, si calò i pantaloni e si sedette. Attese.
Pochi attimi dopo, un altro uomo entrò nel cubicolo accanto al suo e, a bassa voce, disse: «Marcel?».
«Oui.»
«Rilassati, amico, non dovrai rivelare segreti di Stato.»
«Sai bene che non lo farei comunque, Peter.»
«Vero», ammise Peter Howell. «Che cos'hai scoperto?»
«A quanto pare...» Dalio si interruppe, perché nel gabinetto degli uomini era entrato qualcuno. Quando costui, dopo essersi lavato le mani, se ne fu andato, il francese riprese: «Secondo la giustificazione ufficiale, la NATO ci avrebbe ordinato di dimostrare la nostra capacità di navigare a luci spente a una commissione formata da generali della stessa NATO e dell'UE».
«Chi sono questi generali della NATO?»
«Uno è il nostro vice comandante supremo, il generale Roland La Porte.»
«E gli altri?»
«Non li ho riconosciuti», rispose il maître principal, «ma ho visto uniformi di Germania, Spagna, Gran Bretagna e Italia.»
Altri due uomini fecero il loro ingresso nel gabinetto ridendo sguaiatamente con la voce stridula e forte da ubriachi. Nei cubicoli, Peter e Marcel Dalio tacquero, finché quella pausa forzata, fatta di inciampi e biascichii, non ebbe fine. Peter si domandò se non fosse tutta una messinscena a beneficio suo e di Marcel.
Quando i tizi mezzi sbronzi se ne furono andati, dopo aver finalmente deciso chi dei due avrebbe tentato di rimorchiare la rossa seduta accanto a loro al bancone del bistrot, Peter sospirò: «D'accordo, Marcel. Questa è la versione ufficiale. Ma la verità qual è?».
«Lo sapevo che me lo avresti domandato. Un paio di steward mi hanno detto che i generali non sono mai usciti sul ponte. Sono rimasti per tutto il tempo in riunione supersegreta sottocoperta, dopo di che hanno lasciato la nave.»
Peter ebbe un'intuizione. «E come hanno lasciato la nave?»
«In elicottero.»
«Sono arrivati e se ne sono anche andati ognuno con il proprio, giusto?»
Dalio annuì. Poi, però, si ricordò che Peter non poteva vederlo. Perciò disse: «Così mi hanno riferito gli steward.
Io sono rimasto quasi sempre di sotto, perciò non ho visto niente».
Ecco, dunque, dov'era il generale Moore, pensò Peter.
Ma perché? «E qualcuno degli steward ha saputo dirti qual era l'argomento della riunione?»
«No.»
Peter si stropicciò il naso. «Cerca di scoprirlo. Se ci sono novità, fammelo sapere a questo numero.» Fece scivolare sotto la parete divisoria un biglietto da visita su cui aveva trascritto il numero di telefono di una casella vocale dell'MI-6.
«D'accordo», disse Dalio.
«Merci beaucoup, Marcel. Sono in debito con te.»
«Me ne ricorderò», disse il maître principal. «Spero di non trovarmi mai nella necessità di riscuotere.»
Peter se ne andò per primo, mentre Dalio, uscì con più calma e tornò al suo tavolo per godersi una seconda tazza di caffè. Si guardò intorno pigramente. Non vide nessuno che conosceva né altri individui sospetti. E neanche Peter, ovviamente, era più in vista.
Mediterraneo occidentale, a bordo dell'incrociatore lanciamissili statunitense Saratoga Il centro di informazione e di comando dell'incrociatore, dotato del sistema d'arma AEGIS, era una specie di tana buia e ingombra di macchinari. Vi si respirava l'aria quasi inodore e superfìltrata tipica delle sedi del governo statunitense in cui si trovavano in funzione apparecchiature elettroniche costate milioni di dollari ai contribuenti.
Randi era seduta alle spalle di un tecnico delle telecomunicazioni e osservava mani meccaniche che incombevano sugli schermi luminosi di radar e sonar, mentre ascoltava via radio la voce di Max che sbraitava più forte dei rotori del Seahawk su cui si trovava.
L'elicottero stava perlustrando la costa algerina, e Max si era messo in contatto con Randi per annunciarle che avevano visto la lancia su cui Jon si era nascosto.
«È proprio quella», berciò.
«Ne sei sicuro?» Randi serrò le labbra e studiò il puntino luminoso sullo schermo del radar, che segnalava la posizione dell'elicottero.
«Assolutamente. Ho avuto modo di studiarla a lungo, dopo che Jon ha deciso di raggiungerla a nuoto e di salirci a bordo.»
«Hai visto qualcuno? Jon, magari...»
«No, nessuno», rispose Max a squarciagola.
«Sta facendo buio. A che distanza ti trovi?»
«Più di un miglio, ma ho un binocolo, e ci vedo benissimo.
La lancia è priva di scialuppa e di gommone.»
«Dove possono essere andati?»
«C'è una grossa villa su un lingua di terra che si protende sul mare. Un chilometro circa più all'interno c'è un mucchio di bassi edifici che potrebbero accogliere delle reclute. C'è anche una piazza d'armi, a quanto pare. Il complesso, nell'insieme, sembra piuttosto isolato.
La strada principale devia ben prima di avvicinarsi a quel luogo e passa decisamente più a sud.»
«Vedi qualcuno? Noti dei movimenti?»
«Nulla.»
«Okay, torna indietro.» Randi rimuginò sulle informazioni appena ottenute. Poi si rivolse al giovane sottufficiale che le avevano assegnato a mo' di assistente. «Ho bisogno di parlare con il capitano.»
Trovò il capitano Lainson che stava prendendo un caffè nel suo alloggiamento in compagnia del comandante Schroeder, l'ufficiale con mansioni esecutive a lui assegnato. Avevano ricevuto l'ordine di staccarsi dalla loro flottiglia per appoggiare quella che sembrava una poco importante operazione segreta della CIA, e la cosa non li aveva messi di buon umore. Quando Randi descrisse il piano che aveva in mente e ciò di cui aveva bisogno, i due ufficiali si raddrizzarono sulla sedia e la ascoltarono con estremo interesse.
«Possiamo aiutarla a infiltrarsi e stare pronti per qualsiasi evenienza, agente Russell», le assicurò il comandante Schroeder.
«Immagino che Washington e la NATO abbiano già fornito le necessarie autorizzazioni», osservò il capitano Lainson.
«Da Langley me l'hanno garantito», rispose Randi con sicurezza.
Il capitano annuì, ma con l'espressione di chi non vuole prendere impegni. «La aiuteremo a infiltrarsi: per questo non ci sono difficoltà. Per il resto, invece, dovrò chiedere al Pentagono.»
«Fate alla svelta. Non sappiamo esattamente quale genere di disastro stia per accadere, ma le assicuro che non sarà di poco conto. Se non eliminiamo la minaccia, la perdita di una sola portaerei con relativa scorta potrebbe persino essere una vittoria.» Randi vide, negli occhi degli ufficiali, la dura lotta tra lo scetticismo e il timore. Li lasciò al loro dovere e tornò al suo improvvisato alloggio per cambiarsi.
Capitolo 26.
Dintorni di Algeri.
Dopo un'accurata ricerca per la sontuosa e vastissima villa, Jon trovò quella che sembrava l'ala riservata alle camere da letto, dove alcuni archi erano chiusi per mezzo di vere e proprie porte di legno massiccio intagliato, con maniglie e cardini di ottone che parevano risalire ai tempi delle prime dinastie arabe o berbere.
Jon si fermò in prossimità di un corridoio laterale ornato da magnifici mosaici che cominciavano sul pavimento e risalivano lungo le pareti fino a occupare tutto il soffitto. Ogni centimetro quadrato era coperto di schegge di pietre semipreziose e di ceramiche invetriate o lavorate a foglia d'oro disposte con la massima cura. Le stanze che si trovavano oltre quel corridoio erano appartate, isolate, e dovevano essere appartenute - e forse appartenevano ancora - a una persona molto importante.
Si mosse con cautela in quell'androne tempestato di gioielli. Sembrava di essere all'interno di un cofanetto portagioie dalla forma allungata. Giunto in fondo, Jon si fermò. Si trovava davanti all'unica porta di quel corridoio, ed era non solo chiusa, bensì anche bloccata dall'esterno per mezzo di un antico chiavistello che sembrava aver conservato la solidità delle origini. La porta stessa era filigranata e coperta di elaborati intagli, elegante e massiccia al tempo stesso. Smith vi appoggiò l'orecchio. E il rumore che udì lo fece trasalire: il ticchettio di una tastiera di computer.
Fece scorrere il chiavistello e abbassò la maniglia con una pressione lenta e costante, finché non sentì scattare la molla. Spinse la porta, aprendola di qualche centimetro, e scorse una stanza confortevolmente arredata con poltrone superimbottite all'occidentale, tavoli semplici, un letto e una scrivania. C'era anche un arco che immetteva in un corridoio interamente dipinto di bianco.
Tuttavia, il centro di gravità, il cuore di quel locale, il punto in cui lo sguardo di Jon rimase fissato, era la schiena sottile di Emile Chambord, che se ne stava curvo sulla scrivania, intento a digitare sulla tastiera collegata a uno strano apparato dall'aspetto bizzarro. Jon lo riconobbe all'istante: era il computer a DNA.
Si dimenticò di dov'era, dei rischi che stava correndo.
Folgorato dalla scienza, prese a studiare quella macchina: era dotata di un vassoio di vetro sul quale trovavano posto alcuni pacchetti di una sostanza gelatinosa di un blu metallizzato, concepiti probabilmente per contenere gli essenziali polimeri di DNA. Connessi tra loro per mezzo di tubicini ultrasottili, i pacchetti di gelatina erano immersi in una sostanza schiumosa e viscida che serviva a evitare le vibrazioni e a mantenere stabile il flusso dell'output. Il vassoio doveva avere un dispositivo di termoregolazione, perché le interazioni molecolari sono estremamente sensibili alla temperatura. C'era un piccolo dispositivo digitale per la regolazione manuale.
Accanto a questo apparato era stata posizionata un'altra macchina, dalla faccia anteriore di vetro incolore, collegata per mezzo di altri tubicini ai pacchetti di gelatina.
Attraverso il vetro scorse una serie di piccole pompe e di recipienti anch'essi di vetro. Doveva trattarsi del sintetizzatore del DNA, la centrale di alimentazione per i pacchetti di gelatina. Sul pannello di controllo lampeggiavano alcune lucine.
Jon, come in trance, divorò con gli occhi ogni particolare della miracolosa creatura di Chambord. Sopra il vassoio era sistemato un «coperchio», e a mo' di interfaccia tra questo e i pacchetti di DNA vi era un elemento che pareva una sottile lastra di metallo leggero rivestita da un biofilm, forse a base di un altro tipo di polimero molecolare.
Jon concluse che doveva essere un sensore, capace di assorbire l'energia chimica del DNA, di mutare la propria conformazione e, per effetto di ciò, di emettere luce.
Un'idea geniale: un interruttore molecolare a regolazione ottica. Chambord utilizzava le molecole di DNA non solo per la computazione. Nel sensore, infatti, c'era un'altra classe di molecole che monitorava la computazione.
Una soluzione brillante a un problema che era sempre parso insolubile.
Strabiliato, Jon inspirò a fondo e distolse sia pur a fatica l'attenzione. Si sforzò di far presente a se stesso la vera ragione per cui era arrivato sull'isola: la minaccia che quella macchina costituiva per il mondo. Dato che il computer a DNA si trovava ancora in territorio nemico, Fred Klein avrebbe preteso la sua distruzione istantanea, ma il prototipo di Chambord non era solo scientificamente bellissimo, bensì rappresentava un progresso epocale. Avrebbe rivoluzionato il futuro e avrebbe contribuito a migliorare le condizioni di vita di moltissime persone. Per molti anni a venire nessuno si sarebbe mai neanche avvicinato a creare ciò che in quella stanza aveva ormai preso corpo.
Argomentando tra sé, Jon sospinse ancora un po' la porta e si intrufolò all'interno. Abbassando la maniglia, richiuse l'uscio senza fare rumore. In quell'istante, decise di provare seriamente a recuperare il prototipo senza distruggerlo.
Se gli fosse andata male, in mancanza di alternative... l'avrebbe distrutto.
Avrebbe voluto chiudere la porta a chiave dall'interno, ma non c'era modo di farlo. Si guardò intorno e studiò quella stanza ariosa, illuminata elettricamente. Le finestre erano aperte, e le tende sottili ondeggiavano alla lieve brezza, ma dietro le tende si intravedevano sbarre di ferro.
Osservò il passaggio ad arco che sembrava immettere sull'ennesimo corridoio, in fondo al quale si intravedeva una porzione di un altro arco che si apriva probabilmente su un'altra stanza. La disposizione degli spazi faceva pensare a un complesso di locali raggiungibile solo attraverso la porta, chiusa dall'esterno, che Jon aveva appena varcato. Evidentemente, quelle dovevano essere le stanze della favorita di un nobile berbero o magari della regina di un serraglio, dell'harem di un funzionario turco dell'impero ottomano.
Decise di avanzare allo scoperto verso Chambord, ma all'improvviso lo scienziato si voltò. La pistola stretta nella sua mano ossuta era puntata contro Jon.
Dall'arco giunse un grido in francese: «No, papà! Non lo riconosci? È il nostro amico, il dottor Smith. Ha cercato di farci fuggire a Toledo. Metti via quella pistola, papà!».
La pistola, però, non si mosse. Chambord aggrottò le sopracciglia, il volto cadaverico improntato al sospetto.
«Non ti ricordi?» riprese Thérèse. «È l'amico del dottor Zellerbach. È venuto a trovarmi a Parigi. Stava indagando sull'attentato al Pasteur.»
La mano che impugnava la pistola ebbe un'esitazione.
«Lui non è solo un medico. Si è capito da come si è comportato nella fattoria vicino a Toledo.»
Jon sorrise e in francese rispose: «Sono davvero un medico, professor Chambord, ma sono qui anche per salvare lei e sua figlia».
«Ah, sì?» Una ruga di perplessità comparve tra gli occhi di Chambord, ma il suo viso ampio e spigoloso appariva ancora improntato al sospetto. «Queste potrebbero essere bugie. Prima dice a mia figlia che è solo un amico di Marty, e ora ammette di essere qui per salvarci.»
La pistola tornò a puntare minacciosamente contro Jon.
«Come ha fatto a trovarci? E per ben due volte! Lei è uno di loro. È una trappola!»
«No, papà!»
Thérèse si slanciò in avanti frapponendosi tra suo padre e Jon, e questi ne approfittò per tuffarsi dietro un grande divano coperto da un tappeto orientale, sbucandone poi con la sua Walther impugnata a due mani.
Thérèse lo guardò incredula.
«Non sono uno di loro, professore, ma non sono stato completamente sincero con Thérèse, a Parigi, e di questo mi scuso. Sono anche un ufficiale dell'esercito americano: tenente colonnello Jon Smith, dottore in medicina. E mi trovo qui per aiutarvi. Proprio come ho tentato di fare a Toledo. È la verità, lo giuro, ma dobbiamo sbrigarci. I terroristi sono quasi tutti nella stanza dalla volta a cupola, e non so per quanto tempo ci resteranno.»
«Un colonnello americano?» disse Thérèse. «Ma allora...»
Jon annuì. «Sì, la mia vera missione, l'ordine che ho ricevuto, era quella di trovare tuo padre e il suo computer.
Per impedire che i sequestratori potessero servirsene.»
Thérèse si voltò verso il padre. Il suo viso magro e sporco di terra aveva un'espressione risoluta. «È venuto ad aiutarci!»
«Da solo?» Chambord scosse la testa. «Impossibile.
Come può aiutarci da solo?»
Jon si rialzò lentamente. «Troveremo il modo di uscire di qui tutti insieme. Vi chiedo di fidarvi di me.» Abbassò la pistola. «Con me siete al sicuro.»
Chambord soppesò le sue parole. Guardò il viso determinato della figlia. Alla fine, abbassò l'arma. «Avrà, immagino, qualche prova da fornirci...»
«Temo di no. Troppo rischioso.»
«D'accordo, giovanotto, ma mia figlia sa dirmi soltanto che lei è amico di Marty, e questo lo ha confermato lei stesso. Il che non mi da molta fiducia sulla sua capacità di aiutarci a fuggire. Questa gente è pericolosa. Devo pensare a Thérèse.»
Jon disse: «Io sono qui, professor Chambord. Questo vorrà pur dire qualcosa. Inoltre, come lei ha sottolineato, vi ho già rintracciati due volte. Se sono riuscito a entrare qui, so anche come uscirne. Dove ha trovato quella pistola?
Potrebbe tornare utile».
Chambord gli rivolse un sorriso per nulla divertito.
«Tutti mi credono un vecchio innocuo. Loro, perlomeno, la pensano così. Perciò non sono attenti come dovrebbero.
In una delle auto che hanno utilizzato per trasportarmi, qualcuno ha lasciato una pistola, e io, naturalmente, l'ho presa. Da allora non hanno avuto motivo di perquisirmi.»
Thérèse si mise una mano davanti alla bocca. «Che cosa avevi intenzione di farne, papà?»
Chambord evitò il suo sguardo. «Lasciamo perdere.
Ora abbiamo la pistola, e potremmo averne bisogno.»
«Mi aiuti a smantellare il suo computer, professore, e risponda alle mie domande, alla svelta», disse Jon.
Mentre Chambord spegneva la macchina, Jon domandò: «Quante persone si trovano in questa villa? Come si entra? Esiste una via di fuga? Auto? Che tipo di sorveglianza, oltre alle guardie all'esterno?».
L'analisi delle informazioni era un territorio ben noto a Chambord. Mentre staccavano cavi e tubicini, rispose: «L'unica via d'accesso che ho visto è un vialetto di ghiaia che unisce la villa alla litoranea. Questa congiunge Algeri alla Tunisia, ma passa a quasi due chilometri da qui, verso l'interno.
All'estremità opposta, il vialetto termina presso un terreno che ha l'aria di essere un piccolo campo d'addestramento per nuove reclute. L'auto che ci ha scortato qui è parcheggiata da quelle parti, insieme a un certo numero di automezzi militari che appartenevano un tempo alle forze armate britanniche. Ho visto un eliporto accanto al campo d'addestramento, con due elicotteri. Non saprei dire quanti sono i terroristi presenti nella villa. Le guardie che la sorvegliano sono almeno una mezza dozzina. Vanno e vengono di continuo. A questi, ovviamente, vanno aggiunte le nuove reclute e gli istruttori del campo d'addestramento».
Jon ascoltava cercando di tenere a freno l'impazienza, mentre Chambord lavorava lentamente al sistematico smontaggio del prototipo del suo computer. Troppo lentamente.
Jon considerò le opportunità a disposizione. Le auto parcheggiate presso l'eliporto sarebbero forse tornate utili, se solo fossero riusciti a raggiungerle senza farsi individuare.
Rivolto a entrambi, Jon disse: «Okay, ora vi spiego come ci muoveremo...».
Sotto l'alta cupola della grande sala della villa, i faretti sommergevano i mosaici in un tiepido bagliore, e Mauritania interrogava un esausto dottor Suleiman. Parlavano in francese, dato che il filippino non conosceva l'arabo.
Suleiman era in piedi davanti a Mauritania, che invece se ne stava seduto su un grosso tavolo con le gambe a penzoloni, simile a un bambino adagiato su un ramo. Si compiaceva della propria corporatura, dell'ingannevole aspetto paffuto e della stupidità di chi credeva alla superficialità della forza fisica.
«Mi sta dicendo, insomma, che questo Smith avrebbe fatto irruzione in casa sua senza preavviso?»
Suleiman scosse la testa. «No, no! Un mio amico del Pasteur mi ha avvertito, ma con un anticipo di appena mezz'ora. Ho dovuto fare le mie chiamate d'emergenza e consigliare la mia fidanzata sul da farsi; ecco perché non sono riuscito a fuggire subito.»
«Lei doveva farsi trovare pronto o almeno avvertire noi: non doveva cercare di sbrigarsela da solo. Sapeva bene quali fossero i rischi.»
«Chi poteva immaginare che mi avrebbero rintracciato?»
«E come hanno fatto?»
«Non saprei...»
«Il suo indirizzo, nei dati clinici al Pasteur, era stato falsificato come previsto?»
«Certo.»
«Allora, Smith è stato imbeccato da qualcuno che conosceva il suo vero recapito. È sicuro che non ci fosse nessun altro? Era proprio da solo?»
«Non ho visto né sentito nessuno, a parte lui», ripeté Suleiman stancamente. Il viaggio era stato lungo, e lui soffriva di mal di mare.
«È sicuro che nessuno l'abbia seguita quando è fuggito da casa sua?»
Suleiman borbottò: «Me l'ha già domandato il suo amico nero, e gli ho risposto quello che ho detto anche a lei. Ho preso precauzioni a prova di bomba. Nessuno avrebbe potuto seguirmi».
Si udì un improvviso trambusto, e nella sala fece bruscamente il suo ingresso il capitano Darius Bonnard, con un'aria furiosa, seguito da due beduini e, subito dopo, dal torreggiante Abu Auda. Mauritania si avvide immediatamente della rabbia di Bonnard e dello sguardo furente di Abu Auda puntato sul dottor Suleiman.
Il fulani ringhiò: «Il suo "amico nero" non potrà più farti delle domande, moro. Un'auto mi ha seguito fino a Barcellona, e solo a quel punto, con grande difficoltà, sono riuscito a seminarla. Fino a quel momento, nessuno mi aveva mai seguito. Dunque, da dove spuntava quell'auto?
Da casa tua, Suleiman. Evidentemente, quando sei fuggito da Parigi qualcuno ti ha seguito e grazie a te è arrivato fino alla casa di campagna. E tu, come uno stupido, non te ne sei nemmeno accorto!».
La rabbia di Bonnard, intanto, era ulteriormente aumentata.
Aveva il viso congestionato quando disse, rivolto a Mauritania: «Ne siamo certi: Suleiman li ha portati non solo fino a Barcellona, ma anche a Formentera, e addirittura qui. Siamo compromessi!».
Suleiman sbiancò in volto, e Mauritania domandò a Bonnard: «Li ha portati qui? Come fai a saperlo?».
«Non è uno scherzo, Khalid.» Abu Auda squadrò Suleiman.
Il capitano Bonnard disse: «Uno dei nostri uomini è stato trovato morto sulla lancia, e di certo non si è suicidato con una coltellata. Suleiman trasportava un passeggero extra, che ora non è più sulla lancia».
«Jon Smith?»
Bonnard si strinse nelle spalle, ma non smise la sua espressione rabbiosa. «Lo scopriremo presto. I soldati stanno già setacciando la zona.»
«Ne manderò altri.» Mauritania schioccò le dita, e tutti i presenti uscirono in fretta dalla sala.
A notte fonda, l'elicottero Seahawk SH-60B sorvolava a luci spente un ampio spiazzo adiacente all'agrumeto che sorgeva a circa un chilometro e mezzo dalla villa. L'aria sferzava il viso di Randi, che era in piedi davanti al portellone aperto del velivolo, intenta ad assicurare una fune alla sua imbracatura. Indossava pantaloni mimetici per il combattimento notturno, con un berretto nero a nasconderle la chioma bionda. Portava una gran quantità di attrezzature appese alla speciale cintura e in spalla aveva uno zaino pieno di molto altro materiale. Guardò giù e pensò a Jon, domandandosi dove potesse essere e se stesse bene. Poi, però, si concentrò sulla missione vera e propria, perché in fondo era questa la cosa più importante.
Più importante della sua vita e di quella di Jon. Il computer a DNA doveva essere distrutto, per impedire che i terroristi potessero mettere in atto il loro piano, quale che fosse.
Strinse saldamente l'imbracatura e fece cenno di essere pronta. L'addetto all'argano guardò il pilota che, dopo un po', fece segno di essere in posizione. A quel punto, Randi si gettò nel buio e nel vuoto. L'addetto all'argano la calò lentamente. Cercò di non pensare alla paura di precipitare, al rischio che il suo equipaggiamento non funzionasse, provò a scacciare ogni timore dalla sua mente, finché non toccò terra; a quel punto, piegò le ginocchia e si lasciò rotolare. Subito sganciò l'imbracatura.
Non c'era bisogno di nasconderla. Entro breve si sarebbero comunque accorti della sua presenza.
Si chinò a parlare in una piccola ricetrasmittente. «Saratoga, mi sentite? Saratoga! Passo.»
Con un segnale chiaro e pulito, una voce rispose dal centro di informazione e comando della nave da guerra.
«Ti sentiamo forte e chiaro, Seahawk 2.»
«Potrebbe volerci un'ora o forse più.»
«Ricevuto. Restiamo in attesa.»
Randi spense la radio e la infilò in una tasca dei pantaloni mimetici, si tolse dalla spalla la mitraglietta MP5K e prese ad avanzare con circospezione. Evitò la strada principale e la spiaggia, inoltrandosi invece nell'agrumeto e superando le serre, i cui tetti di plastica cigolavano al vento. La luna sembrava sospesa poco sopra la linea dell'orizzonte, e la sua luce lattiginosa produceva un riflesso inquietante sulla plastica. Da lontano giungeva il rumore della risacca che percuoteva la spiaggia, ritmato come il battito di un cuore. Sopra di lei erano spuntate le stelle, ma il cielo sembrava più cupo del solito. Dalla strada e dal mare non arrivavano altri suoni, e non c'erano case in vista. Solo gli spettrali alberi d'arancio e di limone, e il luccichio ondeggiante dei tetti delle serre.
Dopo un po' sentì due auto che sfrecciavano lungo la strada, aggredendo con i fragorosi motori il silenzio della notte. Passarono oltre, ma a un certo punto imboccarono bruscamente, con gran stridio di pneumatici, quella svolta verso l'entroterra che Max aveva individuato dall'alto.
In breve, i motori si spensero, come se su di essi fosse calata una pesante coltre. Randi sapeva che l'unica residenza nei dintorni era la villa. A giudicare dalla velocità delle auto, c'era qualcuno che doveva avere molta fretta di arrivarvi.
Si mise a correre e di lì a poco si ritrovò presso l'alto muro bianco sormontato da spirali di filo spinato. Tra il muro e la vegetazione circostante era stato ricavato uno spazio di una decina di metri, cosicché l'idea di scavalcare il muro aiutandosi con i rami di qualche albero risultava impraticabile. Si tolse dalle spalle lo zaino che sul Saratoga aveva riempito con il materiale inviatole appositamente dalla CIA ed estrasse una pistola ad aria compressa, una minuscola freccia di titanio dotata di rostri e un rotolo di sottile filo rivestito di nylon. Fissò il filo a un anello posto all'estremità posteriore della freccetta, inserì la freccetta nella canna della pistola e guardò con attenzione al di là del muro, finché non scorse, a una distanza di circa tre metri da esso, un vecchio e resistente ulivo.
Si allontanò dal muro e sparò. La freccetta andò a conficcarsi nel punto sperato, al centro del tronco dell'ulivo.
Randi ripose la pistola nello zaino, indossò un paio di guanti di cuoio imbottiti e, afferratasi al filo, si arrampicò, una mano davanti all'altra, fino in cima al muro. Lì, agganciò il filo alla sua cintura, rimise i guanti nello zaino e prese un paio di piccole cesoie, aprendo un varco di circa un metro nella recinzione di filo spinato. Quindi, rimise a posto anche le cesoie e scavalcò il muro.
I sistemi di sicurezza all'avanguardia erano estremamente costosi: difficile che dei terroristi potessero dotarsene. I fondamentalisti che entravano in clandestinità erano così sensibili alla questione della segretezza che, per paura di essere individuati, non si arrischiavano a cercare di procurarsi materiale la cui vendita era sicuramente oggetto di controlli troppo rigorosi per i loro gusti. Questa, perlomeno, era la teoria di Randi, e lei poteva solo sperare che fosse corretta... e muoversi con la massima prudenza.
Con questo pensiero in mente, staccò il filo di nylon dalla freccetta, recuperò il filo rimasto al di là del muro e tornò a riporre ogni cosa nello zaino, per poi inoltrarsi nella vegetazione alla volta della villa ancora invisibile.
Il professor Emile Chambord si bloccò, le mani posate sul coperchio del vassoio di vetro. «Sì, è possibile. Credo che lei abbia ragione, colonnello. Per quella via dovremmo farcela. Evidentemente, lei è ben più di un semplice medico.»
«Dobbiamo muoverci subito. Non possiamo prevedere quanto ci impiegheranno ad accorgersi della mia presenza in loco.» Fece un cenno al computer, che era stato solo parzialmente smontato. Non abbiamo più tempo. Porteremo via i pacchetti di gelatina e lasceremo qui il resto...»
Dal corridoio giunsero dei rumori, la porta si spalancò, e nella stanza fecero irruzione Abu Auda e altri tre terroristi con le armi spianate. Thérèse lanciò un grido, e il professor Chambord tentò di mettersi davanti a lei, per difenderla con la sua pistola. Così facendo, però, prese un inciampo e rovinò addosso a Jon, pregiudicando anche il suo equilibrio.
Jon reagì, impugnò la Walther e si girò di scatto. Era troppo tardi per distruggere il prototipo al DNA, ma poteva almeno danneggiarlo, così da rendere necessaria una manutenzione che si sarebbe protratta per diversi giorni. Randi e Peter, nel frattempo, lo avrebbero trovato, quand'anche lui non fosse più stato in condizioni di dare una mano.
Tuttavia, prima che la pistola di Jon potesse prendere di mira i pacchetti di gelatina, Abu Auda e i suoi uomini gli saltarono addosso, lo disarmarono e lo costrinsero a terra.
«Sarò sincero, professore.» Mauritania aveva seguito i suoi uomini nella stanza. Tolse la pistola dalle mani di Chambord. «Non la credevo capace di gesti simili. Non so se essere ammirato o indignato.»
Abu Auda balzò in piedi e puntò un fucile d'assalto alla testa di Jon, che era disteso a terra. «Ci hai procurato fin troppi guai.»
«Fermo!» ordinò Mauritania. «Non ucciderlo. Rifletti, Abu Auda. Un medico dell'esercito è una cosa, ma il colonnello americano che abbiamo visto in azione a Toledo e che, ora, è riuscito a trovarci per la seconda volta è tutt'altro paio di maniche. Potremmo aver bisogno di lui, prima che tutto sia finito. Chissà quanto lo considerano prezioso gli americani...»
Abu Auda non si mosse, il fucile sempre puntato alla testa di Jon. Dalla sua postura eretta e rabbiosa traspariva la smania di uccidere. Mauritania lo richiamò. Lui guardò Mauritania. Sbatté le palpebre pensieroso, e la furia del suo sguardo, lentamente, si smorzò.
Alla fine, si decise. «Sarebbe un peccato sprecare una risorsa.»
«Già.»
Abu Auda fece un gesto sdegnoso, e i suoi uomini fecero rialzare in piedi Smith. «Fammi dare un'occhiata alla pistola del professore.» Mauritania gli passò la pistola tolta a Chambord e la osservò. «È una delle nostre. Qualcuno pagherà per questa negligenza.»
Mauritania rivolse nuovamente la sua attenzione a Smith. «Distruggere il computer sarebbe stato comunque un gesto inutile, colonnello Smith. Avrebbe semplicemente costretto il professor Chambord a costruirne un altro.»
«Non lo farà mai!» esclamò Thérèse, allontanandosi da Mauritania.
«La ragazza non ha mostrato la benché minima amicizia nei nostri confronti, colonnello Smith. È un vero peccato.»
La squadrò. «Sottovaluti il tuo potere, mia cara.
Tuo padre ne costruirà un altro, eccome. Del resto, abbiamo te e abbiamo anche lui. Disponiamo della tua vita, della sua e di tutto il lavoro che svolgerà in futuro. Un prezzo un po' troppo alto per poterlo convincere a risparmiare una giornata infausta a una manciata di persone, no? In fondo, gli americani, non si farebbero tanti scrupoli, se si trattasse di te o di me. Saremmo calcolati tra le vittime inevitabili, un "effetto collaterale", e loro si prenderebbero quel che vogliono.»
«Mio padre non costruirà mai un altro computer!» sbottò Thérèse. «Perché, altrimenti, vi avrebbe rubato quella pistola?»
«Ah...» Mauritania scrutò lo scienziato con sopracciglia indagatrici. «Un gesto da antico romano, professore?
Si sarebbe infilzato sulla sua stessa spada piuttosto che aiutarci nel portare a termine il nostro vile attacco?
Che sciocchezza! Eppure ci vuole coraggio a prendere in considerazione una simile istanza. Mi congratulo.» Si voltò verso Jon. «E lei è altrettanto sciocco, colonnello, se crede di poter frenare il nostro slancio semplicemente sparando un paio di pallottole contro la creatura del professor Chambord.» Il capo terrorista sospirò con aria quasi mesta. «Ci conceda almeno il credito di un briciolo d'intelligenza. Gli incidenti sono sempre possibili, e dunque abbiamo a disposizione tutto il materiale necessario per la costruzione di una nuova macchina, nel caso lei decidesse di immolarsi.» Scosse la testa. «Questo è forse il peccato più grave di voialtri americani: la hybris.
La vostra presunzione di superiorità in ogni campo, a cominciare dalla vostra tecnologia presa a prestito fino al mai verificato presupposto della vostra presunta invulnerabilità.
Una presunzione che spesso estendete ai vostri amici ebrei.»
«Il problema, con te, non è religioso né culturale, Mauritania», replicò Jon. «Non sei diverso da tutti gli altri aspiranti dittatori. Guardati. Il problema è personale. Sei un individuo disgustoso.»
Gli occhi chiari di Mauritania parvero illuminarsi di una luce particolare, e il suo corpo piccolo e paffuto fremette di energia. Aveva un'aura di invincibilità semidivina, come se lui solo avesse visto il paradiso e ricevuto la missione non solo di diffondere il verbo divino, bensì anche di farlo rispettare.
«Senti chi parla», lo schernì Mauritania. «Il tuo avido Paese ha trasformato il Medio Oriente in una serie di monarchie-fantoccio.
Voi vi ingozzate con le nostre risorse, mentre gran parte del mondo fatica a mettere insieme il pranzo con la cena. Questa è la regola, dappertutto. Gli Stati Uniti sono la nazione più ricca mai esistita sul pianeta, ma voi mentite e ammassate ricchezze e poi vi domandate come mai nessuno vi ringrazia e tanto meno prova simpatia nei vostri confronti. A causa vostra, una persona su tre nel mondo non ha cibo a sufficienza, e sono un miliardo le persone a rischio di morte per fame.
Dobbiamo dunque esservi grati?»
«Vogliamo parlare, allora, di tutti gli innocenti che moriranno per il vostro attentato contro Israele?» ribatté Jon Smith. «Il Corano dice: "Non devi uccidere colui che Dio ti ha proibito di uccidere, se non per una giusta causa".
Così recitano le scritture che ti sono sacre, Mauritania.
Non c'è nulla di giusto nella tua causa: solo gelida ed egoistica ambizione. Non inganni nessuno, a parte quei pochi poveracci che hai trasformato in tuoi seguaci.»
Thérèse rincarò la dose: «Ti nascondi dietro un Dio inventato da te».
Mauritania la ignorò. Rivolto a Jon, disse: «Da noi, l'uomo protegge le sue donne. Non le mette pubblicamente in mostra, a disposizione dello sguardo di chiunque».
Jon, però, non lo stava più ascoltando, né guardando, come non guardava Thérèse. Il suo sguardo, invece, era fisso sul professor Chambord, che non aveva proferito parola da quando Mauritania, Abu Auda e gli altri terroristi avevano fatto irruzione nella stanza. Lo scienziato era rimasto fermo nella posizione assunta a protezione di Thérèse. Taceva e non guardava nessuno, neppure la figlia.
Sembrava quasi distratto. Forse era sotto shock, traumatizzato.
O forse, ormai, il suo pensiero non era più concentrato su ciò che avveniva in quella stanza, bensì su un futuro tranquillo, sgombro da preoccupazioni. La vista di Chambord mise Jon profondamente a disagio.
«Qui si parla troppo», tagliò corto Abu Auda, e fece cenno ai suoi uomini di muoversi. «Portateli via e chiudeteli in cella di rigore. Se ve li fate scappare, anche uno solo di loro», minacciò, «vi cavo gli occhi con le mie stesse mani.»
Mauritania però intervenne. «Lascia qui Chambord, Abu Auda. Abbiamo del lavoro da svolgere, o no? Caro professore, domani il mondo sarà diverso. Una nuova alba attende l'umanità!» Il piccolo terrorista sghignazzò, sinceramente compiaciuto.
Capitolo 27.
Randi osservò le due sentinelle armate incrociarsi davanti alla villa, subito seguite da un'altra guardia uscita dall'ingresso principale. I due sul davanti camminavano con scioltezza, rilassati, e ridacchiavano tra loro. La sentinella giunta dall'interno si fermò sul terrazzo antistante l'ingresso dell'edificio e scrutò con ammirazione quella notte di luna, godendosi la brezza fragrante di agrumi, l'aria fresca e le poche nuvole che fluttuavano dolcemente nel cielo stellato.
Avevano un'aria indolente, forse da troppo tempo impegnati in quell'attività senza che mai accadesse nulla.
Quegli uomini, anzi, erano convinti che nulla sarebbe successo. Da ciò Randi dedusse che lo Scudo della Mezzaluna non si era accorto né del suo arrivo né della sua intrusione.
Come aveva sperato, intorno al perimetro della villa non c'erano fotocellule né telecamere a circuito chiuso o altri dispositivi ottici. Quanto all'edificio vero e proprio, le cose potevano anche stare diversamente.
Aveva perlustrato la zona, trovando alloggiamenti e un campo d'addestramento paramilitare, una strada che muoveva in direzione est-ovest verso la litoranea, nonché un eliporto con un vecchio Huey scuro dell'esercito americano e uno Hughes O-H6 Loach da ricognizione altrettanto vecchio, sorvegliati da un unico assonnato terrorista dal turbante bianco. Aggirò il fronte della villa tra la vegetazione, che servì a coprire i suoi movimenti sia dal lato del mare sia dalla zona arida dell'uliveto. Si fermò nuovamente a osservare la sontuosa abitazione, che giaceva come un fantasma bianco addormentato, con le sue finestre perlopiù buie e la sola cupola a mosaico che risplendeva come un'astronave aliena. Randi era alla ricerca di un punto debole.
Vide, invece, una quarta guardia, in piedi davanti all'uscita posteriore, rilassata come i suoi tre compari.
A un certo punto, un piccoletto in jeans - Levi's, a quanto pareva - e una vistosa camicia a scacchi sbucò di corsa dal retro della villa. Sembrava originario del Sudest asiatico, probabilmente malese, e aveva una gran fretta.
Parlò brevemente e con concitazione alla sentinella che, subito, si guardò in giro con aria vigile, nervosa, mentre il piccoletto rientrò immediatamente di corsa. La sentinella scrutò nella notte, con il fucile d'assalto spianato e, muovendosi avanti e indietro, guardò con attenzione tra gli alberi e i cespugli.
Era accaduto qualcosa. Stavano cercando Jon? L'avevano trovato?
Muovendosi alla svelta, Randi proseguì tra la vegetazione fino al lato occidentale del terreno circostante la villa, dove scoprì che quell'edificio disponeva di un'ala che in principio non aveva notato. Spuntava da quell'edificio che, per il resto, appariva assolutamente simmetrico, e risultava invisibile da est perché nascosta dalla villa medesima.
Quest'ala era priva di porte esterne, e le finestre erano sbarrate per mezzo di grate di ferro battuto assai elaborate, probabilmente vecchie di secoli. L'unico accesso doveva trovarsi all'interno della villa, e Randi provò una repentina sensazione fisica, un piccolo brivido involontario in cui si mischiavano il presagio e il disgusto.
Capì immediatamente qual era stata la funzione di quella parte dell'edificio: erano le stanze anticamente riservate alle donne, l'harem. Le sbarre alle finestre e l'assenza di porte non servivano solo a tener fuori gli estranei, bensì anche a tenere le donne rinchiuse, prigioniere.
Avvicinandosi, sentì giungere dall'interno alcune voci.
Proseguì nei suoi spostamenti e vide tre finestre illuminate.
Le voci provenivano da lì, rabbiose, ed erano di uomini che parlavano ora in francese ora in arabo. Le parole erano indecifrabili, ma una delle voci apparteneva a una donna. Thérèse Chambord? Randi aveva visto una sua fotografia ed era, quindi, in grado di riconoscerla. Si avvicinò alla prima finestra e si sollevò con ansia per sbirciare al di là delle sbarre.
Mauritania, Abu Auda e due terroristi armati erano al centro della stanza con le armi spianate. Persino da fuori si percepiva la tensione che regnava nella stanza. Mauritania stava parlando con qualcuno, ma Randi non riusciva a vedere chi fosse. Si acquattò e si spostò verso la finestra successiva, per poi rialzarsi con prudenza. Fu con una certa emozione che vide Thérèse Chambord e suo padre. Si spostò leggermente e con sollievo vide anche Jon. La gioia di averli ritrovati, però, scomparve di fronte al terribile pericolo in cui tutti e tre si trovavano, sotto il tiro delle armi di Mauritania e dei suoi uomini.
Mentre Randi osservava, Abu Auda fece un gesto brusco e in francese annunciò: «Qui si parla troppo. Portateli via e chiudeteli in cella di rigore. Se ve li fate scappare, anche uno solo di loro, vi cavo gli occhi con le mie stesse mani».
Gli uomini di Abu Auda sospinsero i tre prigionieri verso la porta.
Mauritania disse: «Lascia qui Chambord, Abu Auda.
Abbiamo del lavoro da svolgere, o no? Caro professore, domani il mondo sarà diverso. Una nuova alba attende l'umanità!».
La risata del terrorista fece correre i brividi lungo la schiena di Randi. Mai, però, come il brivido causatogli dalla decisione che lei sapeva di dover prendere. Jon e Thérèse Chambord erano stati portati via. Nella stanza rimasero solo Mauritania e il professore, in piedi accanto a un apparato che poteva essere il computer a DNA, oppure no. Randi osservò le sbarre alle finestre. Erano solide come già le erano apparse da lontano.
Conosceva il suo mestiere. In pochi secondi valutò le opzioni a sua disposizione: i due uomini erano perfettamente a tiro, ma quell'apparato alle loro spalle era un bersaglio più difficile. Non appena lei avesse ucciso uno dei due, l'altro si sarebbe gettato a terra. Persino uno come Chambord era in grado di farlo. Una raffica di mitraglietta avrebbe potuto danneggiare l'apparato, ma Randi non aveva sentito dire nulla, né aveva cognizioni sufficienti a conferma del fatto che quello fosse proprio il prototipo del computer a DNA.
Se anche fosse stato il computer, Chambord avrebbe forse potuto ripararlo o ricostruirlo rapidamente. La scelta più logica, dunque, sarebbe stata quella di uccidere il professore; d'altra parte, però, Mauritania poteva anche disporre di persone competenti e preparate, capaci di far funzionare quella macchina, anche se, magari, incapaci di costruirne una. Il dilemma, dunque, era il seguente, uccidere Mauritania o danneggiare il prototipo?
Qual era la scelta migliore? Quale delle due avrebbe dato l'esito più utile?
Se Chambord fosse sopravvissuto, il mondo, o forse i soli Stati Uniti, sarebbero riusciti a disporre del computer a DNA. Molto dipendeva da chi l'avrebbe liberato. La CIA voleva quel computer con tutte le sue forze.
D'altra parte, se Randi avesse attaccato, Thérèse Chambord e Jon avrebbero rischiato la vita. E se quell'apparato non fosse stato il vero computer molecolare, gli spari le avrebbero attirato addosso tutti quanti, pregiudicando qualsiasi possibilità di salvare la situazione o, almeno, la vita degli ostaggi.
Randi abbassò la sua MP5K. In ogni caso, aveva un piano di riserva che era sì pericoloso, ma teneva conto di tutte le necessità. Avrebbe di certo distrutto il computer, in qualunque angolo della villa si trovasse. L'unico problema era che poteva comportare la morte di tutti i presenti.
Doveva correre il rischio. Tenendo d'occhio le sentinelle, corse accucciata verso la parte anteriore dell'edificio.
In lontananza, si udivano le onde che percuotevano la spiaggia e sembravano riecheggiare il battito del suo cuore. Giunta all'angolo, osservò la terrazza e l'ingresso principale. Abu Auda e due dei suoi uomini stavano conducendo Jon e Thérèse lungo la terrazza in direzione del campo d'addestramento. Quando si furono allontanati a sufficienza, Randi li seguì.
Jon scrutò tra gli alberi scuri, in cerca di una via di fuga per sé e per Thérèse. Abu Auda e i suoi uomini li avevano condotti per un agrumeto fino a uno squadrato edificio di legno al centro di una radura, una cinquantina di metri più indietro degli alloggiamenti. L'aroma degli agrumi era intensissimo, stordente.
Uno dei beduini aprì una pesante porta, e Abu Auda con una pedata sospinse Jon in una stanza buia. «Ci hai creato troppi guai, americano. In altre circostanze, ti avrei già ucciso. Devi solo ringraziare Khalid, che pensa più in grande di me. Qui, comunque, di guai non potrai più crearne, e la donna avrà tempo per pensare ai suoi peccati.»
Le guardie spinsero anche Thérèse nella stanza e richiusero la porta. La chiave girò nella toppa, e subito dopo si udì un ulteriore clangore come di chiavistello tirato e bloccato con un lucchetto.
«Mon Dieu», sospirò Thérèse.
In inglese Jon disse: «Non era esattamente lo scenario che mi aspettavo per il nostro nuovo incontro tête-à-tête».
Guardò lo spazio indiviso della cella. Da una finestra sbarrata, posta molto in alto sul muro, pioveva all'interno la luce della luna, che proiettava un pallido disegno rettangolare sul pavimento di cemento armato. Il cemento era chiaro, colato di recente. Non c'erano altre finestre e la porta era di legno massiccio.
«Già», concordò lei. Nonostante l'abito lacero e il viso sporco, la sua bellezza e la sua dignità erano perfettamente integre. «Speravo che tu venissi a vedermi in teatro; che mi invitassi a cena.»
«Sarebbe piaciuto anche a me.»
«Vedermi recitare o cenare con me?»
«Tutt'e due le cose... la cena, qualche drink... e ancor di più mi sarebbe piaciuto il resto.» Sorrise.
«Sì.» Thérèse ricambiò il sorriso, ma poi la sua espressione si fece solenne. «È strano come la vita possa mutare all'improvviso.»
«Eh, già.»
Lei lo guardò incuriosita. «Si direbbe che tu abbia già perduto qualcosa di importante.»
«Davvero?» Non aveva voglia di parlare di Sophia. Non lì, non in quel momento. Quella cella semibuia odorava di secco, di sabbia, come se il torrido sole algerino ne avesse prosciugato le pareti in legno, privandole di qualsiasi traccia di umidità. «Dobbiamo uscire di qui. Non possiamo lasciare il computer di tuo padre nelle mani di quella gente.»
«Come facciamo?»
In quella cella non c'era nulla di utilizzabile. L'unica brandina era fissata alla parete sbagliata, e di altri arredi non c'era neppure l'ombra. Tornò a concentrarsi sulla finestra e stimò che si trovasse a poco meno di tre metri.
«Ti aiuto ad appenderti alle sbarre, per verificarne la tenuta.
Magari non sono fissate benissimo. Sarebbe una bella fortuna.»
Fece scrocchiare le dita delle mani e la aiutò a salirgli in spalla.
Lei si aggrappò alle sbarre, le osservò e annunciò mestamente: «Sono conficcate in tre assi orizzontali saldamente unite tra loro e poi fissate a delle piastre di ferro.
Non sono nuove».
Vecchie sbarre, in una prigione costruita molto tempo addietro, forse per punire gli schiavi arabi o i prigionieri dei pirati che un tempo spadroneggiavano da quelle parti insieme al locale bey dell'impero ottomano.
«Non senti neppure un minimo cigolio?» domandò Jon speranzoso.
«No, sono perfettamente stabili.»
Jon la fece scendere, e insieme rivolsero l'attenzione alla porta di legno. Il fatto che fosse piuttosto vecchia poteva essere un vantaggio. Neanche quella, però, mostrava punti deboli, ed era chiusa a doppia mandata dall'esterno.
Persino i cardini si trovavano all'esterno. Evidentemente, i proprietari degli schiavi e i pirati temevano che i prigionieri potessero aprirsi una via di fuga dall'interno, mentre ritenevano meno probabile che qualcuno arrivasse dall'esterno ad aprir loro la porta. Perciò, neanche Jon e Thérèse sarebbero riusciti a evadere senza aiuti dall'esterno.
A quel punto, udì uno strano rumore: un fruscio insistente, come di animale intento a rosicchiare il legno. Si mise in ascolto, ma non riuscì a identificare la fonte.
«Jon!»
Il sussurro, in origine, era così lieve che Jon l'aveva creduto un'allucinazione, l'illusione prodotta dal suo disperato desiderio di fuga.
«Jon, maledizione!»
Si voltò e alzò gli occhi verso la finestra. Non vide altro che il cielo scuro.
Di nuovo quel sussurro: «Idiota! Sono alle tue spalle».
Fu allora che riconobbe la voce. Attraversò di corsa la cella e si accucciò contro la parete. «Randi?»
«E chi, se no? I marines?»
«Magari... Perché stiamo bisbigliando?»
«Perché in giro ci sono Abu Auda e i suoi uomini. È una trappola, tu sei l'esca, e io sono la preda. Io o chiunque abbia intenzione di tirarti fuori da questa prigione del cavolo.»
«Come hai fatto ad arrivare fin qui?» Si sorprese nuovamente ad ammirarla: ci sapeva fare, conosceva tutti i trucchi del mestiere.
Dopo una breve esitazione, il sussurro tornò a farsi sentire. «Ho dovuto uccidere due degli uomini di Abu Auda. La notte è abbastanza scura, e questo ha aiutato.
Presto, però, Abu Auda si accorgerà della loro scomparsa, e allora saranno guai, per noi.»
«Sempre meglio che starsene qui dentro. Sono aperto a ogni suggerimento.»
«Il lucchetto è solido, ma la serratura fa schifo. I cardini sono vecchi, ma non abbastanza arrugginiti, e sono viscidi, perciò impossibili da sfilare. Le viti che tengono ferma la sbarra sono all'esterno. Se le tolgo, dovresti essere in grado di spingere e aprire la porta da dentro.»
«Sì, è possibile. Un metodo tradizionale, ma sempre valido.»
«Già. È quello che pensavo anch'io, quando ancora non avevo ucciso quei due uomini. Sono nell'agrumeto, non tanto all'interno. Perciò ho dovuto elaborare un piano alternativo. C'è un mucchio di marciume, qui.»
Jon udì nuovamente il fruscio che aveva annunciato l'arrivo di Randi, attutito. «Stai cercando di scavarlo via?»
«Sì, ho sondato con il mio coltello e il marciume è abbastanza profondo: forse riesco ad aprire un bel buco. Farei senz'altro meno rumore e, forse, anche più alla svelta.»
All'interno della cella, Jon e Thérèse ascoltavano quel crepitio simile al rosicchiare di un piccolo animale, che proseguiva sempre più frenetico.
Randi, dopo un po', disse, sussurrando: «Okay, omaccione, prova a dare una spinta, ma forte!».
Thérèse si inginocchiò accanto a lui e insieme fecero pressione contro la porta, nel punto in cui avevano sentito scavare. Per alcuni secondi non accadde nulla; poi, però, il legno cedette sotto le loro mani, esplodendo in una nuvola di segatura. Pezzi di legno secco, traforati dalle termiti e da altri insetti scavatori, si trasformarono in polvere, e altri frammenti caddero a terra.
Jon e Thérèse sgattaiolarono fuori nella languida luce notturna, tra gli alberi di agrumi che frusciavano al vento.
Randi era acquattata all'interno dell'agrumeto, il viso tirato, l'MP5K pronta a far fuoco. Aveva lo sguardo fisso al di là della cella e dello spiazzo erboso verso un altro frutteto. Lo spiazzo era tetro e indistinto, la vegetazione lontana e impenetrabile. Fece loro segno di seguirla.
Si sdraiò sulla pancia e sui gomiti, la mitraglietta tenuta nel cavo delle braccia, e avanzò strisciando nell'erba.
Cercando di imitare Randi, anche Thérèse si avviò, mentre Jon chiudeva la fila. Proseguirono in silenzio, con una lentezza esasperante. La luna era sempre più alta e già cominciava a splendere tra le fronde degli alberi che circondavano la cella.
Raggiunsero, infine, le ombre degli alberi più vicini.
Non si fermarono a riposare, ma continuarono a strisciare oltre i cadaveri dei due terroristi uccisi da Randi, finché non giunsero in prossimità di un gruppo di palme da dattero, ben oltre il punto in cui Abu Auda aveva piazzato la sua trappola.
Randi si rialzò a sedere, appoggiando la schiena a un tronco di palma. «Qui dovremmo essere al sicuro per un paio di minuti, non di più. Hanno sguinzagliato gente in giro dappertutto.»
Lì intorno era tutto un frinire di insetti, sopra di loro di tanto in tanto luccicava una stella facendo capolino tra le fronde delle palme.
«Ottimo salvataggio.» Jon si rialzò, mettendosi accovacciato.
«Merci beaucoup.» Thérèse si sedette a terra a gambe incrociate.
Quando i tre si ritrovarono faccia a faccia, Randi sorrise a Thérèse. «Finalmente ci incontriamo. Sono felice che tu sia viva.»
«Anch'io, come puoi immaginare», rispose Thérèse con riconoscenza. «Grazie per essere venuta. Ora, però, dobbiamo recuperare mio padre. Chissà quali cose terribili hanno in mente di fargli fare!»
Jon sorrise a Randi con aria ingenua. «Immagino che tu non abbia una pistola da darmi, vero?»
Randi lo guardò con aria di disapprovazione. Jon osservò i suoi occhi neri, il viso scolpito, un ciuffo di capelli biondi che sbucava da sotto il basco.
«Non so ancora per chi lavori, veramente, ma noi della CIA siamo sempre ben forniti», disse lei, estraendo una Sig Sauer calibro 9mm identica a quella che Jon era stato costretto a lasciare nel cestino dei rifiuti all'aeroporto di Madrid, con tanto di silenziatore.
«Grazie», disse lui sinceramente. Mentre controllava il caricatore, per accertarsi che fosse pieno, raccontò alle due donne di quel che aveva sentito, origliando fuori dalla stanza dalla volta a cupola.
«Mauritania ha intenzione di lanciare un attacco nucleare contro Gerusalemme?» Randi era scioccata.
Jon annuì. «Pare che utilizzeranno una testata nucleare tattica russa di media potenza, probabilmente per ridurre al minimo i danni arrecati ai Paesi arabi circostanti, i quali, però, resteranno ugualmente colpiti. Orribile.
La ricaduta radioattiva sarà probabilmente peggiore di quella di Chernobyl.»
«Mon Dieu», mormorò Thérèse, inorridendo. «Tutta quella povera gente!»
Gli occhi di Randi luccicarono. «Sono arrivava qui su un incrociatore lanciamissili che si trovava a un centinaio di chilometri dalla costa: il Saratoga. Ho una ricetrasmittente per comunicare con loro, e loro sono in attesa di una mia chiamata. È per questo che disponiamo di un piano vero e proprio. Non è un granché, ma impedirà a queste persone di lanciare attacchi nucleari, contro Gerusalemme, New York City o Bruxelles. Abbiamo un paio di opzioni a disposizione. Se riusciamo a mettere in salvo Chambord e il computer, verranno a prelevarci tutti, e questa sarebbe la soluzione migliore.»
Domandò se l'apparato da lei visto nella stanza in cui Jon e gli Chambord erano tenuti sotto tiro da Mauritania e Abu Auda fosse il prototipo del computer molecolare.
Quando Jon glielo confermò, lei annuì. «Nella peggiore delle ipotesi...» Esitò e guardò Thérèse.
«Per quanto brutta, questa ipotesi non può essere peggio di ciò che abbiamo già passato e di quello che Mauritania ha in mente di fare.»
«Non possiamo lasciare il computer a DNA nelle loro mani», disse Randi in tono grave. «Su questo non abbiamo margini di scelta. Non abbiamo alternative.»
Thérèse socchiuse gli occhi e la guardò accigliata. «E allora?»
«Se le cose si metteranno male, il Saratoga dispone di un missile SM-2 puntato diritto contro la cupola della villa. Il suo scopo è quello di distruggere il computer a DNA.»
«E i terroristi?» sospirò Thérèse. «Moriranno anche loro?»
«Se saranno lì, sì. Chiunque si troverà sul posto morirà.»
Non c'era la minima emozione nel tono di voce di Randi.
Jon aveva osservato le due donne e, rivolto a Randi, disse: «Thérèse ha capito benissimo».
Thérèse deglutì e annuì. «Mio padre, però, non c'entra.
Lui era pronto a fermarli. Aveva persino rubato una pistola.» Si voltò verso il sentiero che conduceva alla villa.
«Non potete ucciderlo!»
«Noi non vogliamo uccidere né lui né altri...», cominciò a dire Randi.
Fu Jon, a quel punto, a parlare: «Propongo di combinare le due opzioni. Non intendo perdere tempo per tentare di portar via il computer, ma possiamo salvare il professor Chambord e poi farci venire a prendere dai tuoi amici».
«Sì, buona idea», disse Thérèse. «Sono d'accordo, ma se le cose si mettono male», aggiunse, mentre alla luce della luna il suo viso sembrò impallidire, «bisognerà procedere comunque, per impedire una catastrofe.»
Randi consultò l'orologio. «Posso concederti dieci minuti.»
Estrasse dal suo zaino un walkie talkie a breve raggio.
«Prendi questo. Quando hai recuperato Chambord e stai per uscire dalla villa, chiamami. Io avvertirò il Saratoga di intervenire.»
«D'accordo.» Jon agganciò il walkie talkie alla cintura.
«Io vengo con te», disse Thérèse a Jon.
«Non dire sciocchezze. Non sei addestrata, saresti soltanto...»
«Potresti aver bisogno di me con mio padre, e comunque non puoi impedirmelo. Che cosa farai per trattenermi?
Mi sparerai?» Si voltò verso Randi. «Dammi una pistola: so come si usa e anch'io farò la mia parte.»
Randi la guardò inclinando il capo e rifletté sulle sue parole. Alla fine, annuì. «Prendi la mia Beretta. È silenziata.
Eccola... e ora andate!»
Jon calcolò il tempo impiegato dalle guardie a compiere il loro giro e, quando queste svoltarono l'angolo, prese per mano Thérèse e si mise a correre velocissimo. Giunsero alla porta principale della villa e si appiattirono contro il muro ai due lati della soglia. La guardia che sorvegliava l'interno sbucò sul terrazzo. Bastò un unico colpo sferrato con il calcio della nuova Sig Sauer di Jon ad abbattere quell'uomo.
Jon trascinò il terrorista privo di sensi all'interno della casa, mentre Thérèse richiuse con attenzione la porta, facendo pochissimo rumore. Dalla zona della stanza a cupola giungevano gli echi di un'accesa discussione. Sembrava che fosse in corso un consiglio di guerra.
Fece segno a Thérèse, e insieme attraversarono di corsa l'ampio ingresso piastrellato diretti verso l'ala occidentale della vecchia villa e si fermarono solo quand'ebbero raggiunto la brusca svolta in fondo a quella stanza.
Jon sbirciò dietro l'angolo e sussurrò all'orecchio di Thérèse: «Non ci sono guardie. Andiamo!».
Con la pistola in pugno, pronti a sparare nel caso fossero stati scoperti, si lanciarono a perdifiato per quel corridoio laterale interamente rivestito di magnifici mosaici.
Poi, si fermarono di nuovo, davanti alla porta che introduceva agli alloggi anticamente riservati alle donne.
Jon era perplesso. «Anche qui, niente guardie? Come mai?» bisbigliò.
«Forse, c'è n'è una all'interno della stanza con mio padre.»
«Sì, probabilmente hai ragione.» Jon provò ad abbassare la maniglia. «È aperta. Entra tu per prima. Di' che sei stata liberata e rimandata da tuo padre per spronarlo a lavorare con ancora più impegno. Magari la guardia ti crede.»
Lei annuì, convinta. «Ecco, tieni la pistola. Non è il caso di farli insospettire.»
Jon ci pensò su, poi prese la Beretta.
Lei si sforzò di darsi un contegno e spalancò la porta.
Entrò nella stanza e, correndo verso il padre da consumata attrice, si mise a piagnucolare in francese: «Papà, stai bene? Monsieur Mauritania mi ha detto di tornare...».
Emile Chambord si girò sulla sua poltroncina e guardò Thérèse come se fosse un fantasma. Poi, vide Jon intrufolarsi nella stanza con le due pistole in pugno che lanciava occhiate nervose alla ricerca di eventuali guardie.
Di guardie, però, non ce n'erano.
Sbalordito, Jon si rivolse a Chambord. «Perché non c'è nessuno a sorvegliarla?»
Lo scienziato si strinse nelle spalle. «Che bisogno avrebbero di controllarmi? Ormai vi tenevano prigionieri e sapevano che non avrei mai distrutto il prototipo né cercato di fuggire lasciando mia figlia nelle loro mani.»
Jon fece un brusco cenno. «Ora dobbiamo andarcene.
Sbrighiamoci.»
Chambord esitò. «E il mio computer? Lo lasciamo qui?»
«Lascialo, papà», gridò Thérèse. «Sbrighiamoci.»
Jon consultò l'orologio. «Ci restano solo cinque minuti.
Non abbiamo tempo.» Prese il professore per un braccio e cominciò a trascinarlo finché Chambord non decise di mettersi a correre a sua volta. Attraversarono un corridoio dopo l'altro finché non furono nuovamente nel grande foyer. All'esterno dell'ingresso principale, risuonavano voci accusatorie. La guardia tramortita doveva essersi riscossa o forse era stata semplicemente ritrovata priva di sensi.
«Verso il retro!» ordinò Jon.
Erano giunti a metà strada quando udirono altre voci concitate provenire dalla lontana stanza con la volta a cupola, seguite dal trapestio di molti piedi. Jon si infilò la Sig Sauer nei pantaloni accanto alla Beretta di Thérèse.
Prese il walkie talkie a corto raggio e sospinse i due Chambord verso una finestra aperta su un lato della villa.
«Usciremo da questa parte. Sbrighiamoci!» Sospingendoli avanti, accese il walkie talkie, e in un sussurro riferì con urgenza le novità a Randi. «Abbiamo recuperato Chambord. Stiamo bene e saremo fuori dall'edificio entro un paio di minuti. Di' al Saratoga di lanciare il missile.»
Randi si era portata più a ridosso della villa ed era acquattata sotto una volta frondosa all'ombra del fragrante agrumeto. Guardò di nuovo l'orologio, sempre più ansiosa con il procedere incessante delle cifre digitali. Maledizione!
Con il cuore in tumulto, vide che i dieci minuti concessi a Jon erano scaduti. La luna era nascosta dietro una nuvola scura, e la temperatura stava scendendo. Ciononostante, Randi era madida di sudore. Le luci erano accese dietro le tre finestre dell'ala dell'antico harem e sotto la torreggiante cupola, ma Randi non vide né udì nulla di rilevante.
Consultò per l'ennesima volta l'orologio. Undici minuti.
Strappò un ciuffo d'erba con tanto di radici e terra, e lo scagliò nel buio.
A quel punto il walkie talkie emise una scarica cupa, e il cuore di Randi accelerò carico di speranza nel momento in cui Jon, finalmente, si fece vivo e sussurrò: «Di' al Saratoga di lanciare il missile».
Con un brivido di sollievo, Randi gli spiegò dov'era nascosta.
«Avete cinque minuti. Dopo che avrò chiamato...»
«Capisco.» Ci fu un'esitazione. «Grazie, Randi. Buona fortuna.»
La voce di Randi sembrava rotta dall'emozione. «Anche a te, soldato.»
Interruppe la comunicazione, si rivolse al cielo buio e nuvoloso, chiuse gli occhi e formulò una silenziosa preghiera di ringraziamento. Dopo di che, si mise al lavoro: si chinò sulla sua ricetrasmittente e inviò il messaggio al Saratoga.
Jon era in piedi presso la finestra della villa, in attesa che Thérèse la scavalcasse. Lei si bloccò, fissando suo padre. Jon fece altrettanto.
Chambord aveva estratto una pistola. La stava puntando contro Jon. «Allontanati da lui, bambina», disse Chambord, la pistola all'altezza del torace di Jon. «Metta giù la sua arma, colonnello.» L'aveva nascosta nella tasca della giacca.
«Papà! Che cosa stai facendo?»
«Shhh. Non ti preoccupare, sto rimettendo le cose a posto.» Prese un walkie talkie da un'altra tasca. «Non sto scherzando, colonnello Smith. Metta giù la pistola o sarò costretto a spararle.»
«Professor Chambord...», cercò di dire Jon, sbalordito.
Abbassò leggermente l'arma, ma senza abbandonarla.
Chambord parlò nel walkie talkie. «Lato ovest. Manda tutti qui fuori.»
Jon vide una strana luce negli occhi di Chambord, il luccichio dell'eccitazione. Erano gli occhi di un fanatico.
Gli venne in mente l'espressione distaccata e quasi sognante che aveva notato sul viso del professore quando Mauritania li aveva scoperti. Fu a quel punto che Jon intuì la verità. «Lei non è stato rapito. Lei è in combutta con loro. Così si spiegano anche tutti gli accorgimenti per tentare di farla sembrare morto. Ecco perché non c'erano guardie a sorvegliarla. Era tutta una sceneggiata concordata con Mauritania per indurre Thérèse a credere che lei fosse prigioniero dei terroristi.»
Il professor Chambord rispose con sdegno: «Non sono in combutta con loro, colonnello Smith. Sono loro a essere al mio servizio».
«Papà!» esclamò Thérèse, con una smorfia di incredulità.
Prima che Chambord potesse risponderle, però, sopraggiunsero di corsa Abu Auda, tre dei suoi uomini e Mauritania. Jon tornò a sollevare l'arma ed estrasse dalla cintura anche la pistola di Thérèse.
Randi controllò l'orologio. Quattro minuti. All'improvviso, dalla villa giunsero dei rumori: grida e passi affrettati.
Trattenne il respiro quando sentì esplodere dei colpi d'arma da fuoco, seguiti da raffiche di armi automatiche.
Jon e Thérèse non avevano armi automatiche. L'idea non le piaceva, ma esisteva una sola spiegazione possibile: Jon e gli Chambord dovevano essere stati in qualche modo scoperti. Scosse la testa, come per negarselo, ma altre due raffiche di mitraglietta si propagarono fragorose in lontananza.
Balzò in piedi e percorse trafelata la distanza che la separava dalla villa. Poi, altri orribili segnali dall'interno dell'edificio: risate trionfanti, urla di vittoria e ringraziamenti ad Allah. Gli infedeli erano morti! Randi raggelò.
Incapace di pensare, di provare alcunché. Non poteva essere vero. Eppure, tutti i colpi d'arma da fuoco, dopo i primi due di pistola, erano stati sparati da mitragliette. I terroristi avevano ucciso Jon e Thérèse.
Randi fu investita da un'enorme tristezza e da una rabbia furibonda. Ricordò severamente a se stessa che non aveva tempo né per l'una né per l'altra. Il problema era il computer a DNA. Non doveva rimanere nelle mani dei terroristi... La posta in gioco era troppo alta. Troppe le vite umane coinvolte.
Si voltò e corse lontano dalla villa, come se fosse inseguita da tutti i cani dell'inferno. Si sforzò di non pensare al viso di Jon, ai suoi occhi azzurri, alla sua risata, alla sua indignazione e a tutta la sua intelligenza. Quel suo bel viso dagli zigomi alti e piatti. La sua mascella che si tendeva quando era arrabbiato...
Quando il missile raggiunse il bersaglio, l'esplosione le fece fare un volo di tre metri. L'onda d'urto si ripercosse nella sua testa e la raggiunse come un vento caldo alle spalle. Le pareva di essere stata scagliata lontano da un demone infuriato, e mentre nell'aria schizzavano detriti che piovevano pericolosamente tutt'intorno, Randi si rifugiò strisciando sotto i rami di un ulivo e si coprì la testa con le braccia.
Randi era seduta con la schiena appoggiata al muro perimetrale e guardava le fiamme rosse e gialle che si proiettavano nel cielo scuro nel punto in cui fino a poco prima sorgeva la villa bianca. Via radio, disse: «Informate il Pentagono. Il computer a DNA è distrutto, il professor Chambord è morto. Il pericolo è scongiurato».
«Ricevuto, agente Russell. Ottimo lavoro.»
La voce di Randi si fece più mesta. «Di' che nell'esplosione è morto anche il tenente colonnello Jonathan Smith, dottore in medicina dell'esercito degli Stati Uniti, insieme a Thérèse, la figlia del professor Chambord. E sbrigatevi a venirmi a prendere.»
Spense la ricetrasmittente e osservò il lento passaggio delle nuvole. In cielo tornò a spuntare il disco argenteo della luna, ma subito scomparve. L'aria era pervasa dal fetore di morte e di detriti in fiamme. Randi pensò a Jon.
Sapeva quali erano i rischi e aveva deciso di correrli. Gli era andata male, ma non avrebbe avuto modo di lamentarsi.
Randi scoppiò a piangere.