Prologo.

Parigi, Francia. domenica 4 maggio.

I primi tiepidi venti di primavera soffiavano per gli stretti vicoli e gli ampi Boulevard di Parigi, invitando i cittadini stanchi dell'inverno a trascorrere la serata fuori. La gente riempiva i marciapiedi, passeggiava, si prendeva sottobraccio, sedeva ai tavolini dei caffè all'aperto, era in vena di chiacchiere e sorrisi. Persino i turisti avevano smesso di lamentarsi: quella era esattamente la Parigi da favola promessa dalle guide turistiche.

Intenti a sorseggiare vin ordinaire, gli adoratori della primavera che affollavano Rue de Vaugirard non notarono il grosso furgone Renault nero dai finestrini oscurati che partì da quella strada gremita alla volta del Boulevard Pasteur. Il furgone fece il giro dell'isolato, percorse Rue du Docteur Roux e piegò infine nella tranquilla Rue des Volontaires, completamente deserta, fatta eccezione per due giovani che si baciavano all'interno di un portone seminascosto.

Il furgone nero frenò dolcemente davanti all'Institut Pasteur il motore si arrestò e i fari si spensero. Rimase lì, fermo, finché la giovane coppia, dimentica di tutto nella sua privata beatitudine, non scomparve in un edificio dall'altra parte della strada.

Le portiere del furgone si aprirono e ne fuoriuscirono quattro uomini interamente vestiti di nero e con il viso coperto da passamontagna. Armati di mitragliette Uzi e con uno zainetto in spalla, sgusciarono pressoché invisibili nell'oscurità.

Tra le ombre dell'Institut Pasteur si materializzò una sagoma che li guidò nei giardini dell'edificio, mentre la strada dietro di loro rimase silenziosa e deserta.

Fuori, in Rue de Vaugirard, un sassofonista aveva cominciato a suonare un motivo languido e struggente. La brezza della sera, attraverso le finestre aperte, trasportava la musica, le risate e il profumo dei fiori di primavera in molti edifici di Rue Pasteur. Il celebre centro di ricerca ospitava, tra scienziati, tecnici, studenti e amministratori, oltre 2500 persone, molte delle quali ancora al lavoro.

Gli intrusi non si aspettavano tanta attività. Con la massima circospezione e l'orecchio teso, evitarono tutti i vialetti, tenendo d'occhio finestre e spazi aperti, avanzando a ridosso degli alberi e degli edifici, mentre i gioiosi schiamazzi provenienti da Rue de Vaugirard si facevano via via più forti.

L'eccitazione primaverile, però, non sfiorava neppure il professor Emile Chambord, intento a lavorare al computer, al secondo piano della palazzina a lui riservata, dove disponeva di un laboratorio enorme, degno di uno dei ricercatori più insigni dell'istituto. Poteva contare su alcuni strepitosi macchinari, tra cui un lettore robotizzato di chip genici e un microscopio con sonda di scansione, in grado di misurare e spostare singoli atomi. Tuttavia, quella sera, la sua attenzione era focalizzata su qualcosa di personale e per lui molto più rilevante, ossia le cartellette impilate accanto al suo gomito sinistro e un taccuino rilegato a spirale alla sua destra, su cui stava meticolosamente riportando dei dati.

Le sue dita si fermarono impazienti sulla tastiera, collegata a un bizzarro apparato molto più simile a un polipo che a un IBM o a un Compaq. Il centro nervoso di questo apparato era contenuto in un vassoio di cristallo termoregolato, i cui lati trasparenti lasciavano intravedere dei pacchetti di gel blu metallizzato, simili a ovuli, immersi in una sostanza gelatinosa e schiumosa. I pacchetti, collegati tra loro da tubature ultrasottili, erano sormontati da un coperchio.

Questo, nel punto in cui entrava in contatto con i pacchetti di gel, era costituito da una lastra metallica, sormontata da una macchina grande quanto un iMac, dotata di un complicato pannello di controllo su cui, come occhietti impulsivi, brillavano delle lucine intermittenti. Da quella macchina altri tubicini confluivano verso il vassoio con i pacchetti di gel, mentre fili e cavi collegavano il vassoio e la macchina alla tastiera, al monitor, a una stampante e a una serie di altre apparecchiature elettroniche.

Il professor Chambord digitava comandi, guardava lo schermo, leggeva i dati sulla macchina simile a un iMac e controllava di continuo la temperatura dei pacchetti di gel nel vassoio. Stava lavorando e riportando dati sul suo taccuino quando, d'un tratto, si appoggiò allo schienale e osservò attentamente l'intero sistema. Poi annuì bruscamente e, dopo aver digitato un paragrafo in un linguaggio apparentemente incomprensibile, fatto di lettere, numeri e simboli, attivò un timer.

Batteva nervosamente un piede a terra e tamburellava con le dita sul tavolo del laboratorio. Esattamente dodici secondi dopo, la stampante prese vita e sputò un foglio.

Controllando la propria eccitazione, il professore fermò il timer e prese un appunto. Dopo di che si concesse di prendere in mano lo stampato.

Mentre leggeva, gli spuntò un sorriso. «Mais oui.»

Il professor Chambord inspirò a fondo e digitò brevi serie di comandi. Sul monitor comparvero sequenze di dati molto più rapide delle dita che pure correvano sulla tastiera. Mentre lavorava, borbottava tra sé. Alcuni istanti dopo si irrigidì, si avvicinò allo schermo e bisbigliò in francese: «Ancora uno... uno solo... ecco!».

Rise forte, trionfante, e si girò a guardare l'orologio alla parete. Segnava le 21,55. Registrò l'ora e si alzò in piedi.

Con il viso leggermente congestionato, infilò le cartellette e il taccuino in una valigetta malconcia e prese il cappotto dall'antiquato armadio stile Impero vicino alla porta. Mentre indossava il cappello, diede un'altra occhiata all'orologio e tornò alla sua macchina. Rimanendo in piedi, digitò un'ultima serie di comandi, controllò e spense tutto. Si diresse in fretta alla porta, l'aprì sul corridoio e vide che era buio e deserto. Per un attimo ebbe un brutto presentimento.

Se lo scrollò di dosso. «Non», disse tra sé. Doveva godersi appieno quel momento: aveva ottenuto un grande risultato. Con un ampio sorriso in volto, uscì nel corridoio buio. Prima che potesse chiudere la porta alle sue spalle, si ritrovò circondato da quattro figure vestite di nero.

Trenta minuti dopo, il capo degli intrusi, un uomo asciutto e muscoloso, montava la guardia, mentre gli altri tre finivano di caricare il furgone, fermo in Rue des Volontaires.

Non appena la portiera laterale venne richiusa, il capo diede un'ultima occhiata alla strada e saltò sul sedile anteriore. Fece un cenno al guidatore, e il furgone partì alla volta dell'affollata Rue de Vaugirard, dove scomparve nel traffico.

Sui marciapiedi, nei caffè e nei tabacs continuava l'allegra baldoria. Erano arrivati altri musicisti di strada e il vin ordinaire scorreva come la Senna. Poi, senza alcun preavviso, l'edificio che ospitava il laboratorio del professor Chambord, all'interno del leggendario Institut Pasteur, esplose con una vampata roboante. La terra tremò, e le fiamme giallo-rosse, visibili a chilometri di distanza, parvero eruppere da tutte le finestre per librarsi nel nero della notte, spandendo attorno un calore terrificante.

Mentre dal cielo piovevano mattoni, scintille, vetro e cenere, la gente accalcata nelle strade circostanti correva gridando in cerca di un riparo.