16

Incesto

«Smetti di avercela con gli altri.

Prenditi le tue responsabilità.»

Ero seduta sul sedile posteriore dell’auto climatizzata e di tanto in tanto fissavo il mio riflesso nello specchietto retrovisore. Anche Jakub lo sbirciava furtivamente, come per caso. Un’infinità di volte abbassò la radio e si mise a parlare al cellulare di faccende che mi erano talmente estranee che non sono in grado di ripeterle. Sentivo fare dei nomi, alcuni li conoscevo dalla televisione. Ma non capivo molto chi fossero: della politica sapevo solo come si chiamavano il presidente, il premier e qualcuno dei deputati più grotteschi. Fissavo fuori dal finestrino, ascoltavo la musica e quando il telefono suonava di nuovo mi estraniavo, sprofondandomi in un piacevole letargo. Mi arrivava solo qualche frammento delle sue risposte. Jakub diceva che se era così era meglio cambiare portavoce o lavorare per correggere un po’ il progetto, perché altrimenti il presidente non l’avrebbe comprato. Era tutto talmente astratto che mi chiedevo che ci facesse questo tizio con noi. Con una donna di provincia ormai non più giovane e con sua figlia. Cosa voleva? Cosa ci guadagnava? Non ero stupida, capisci anche tu che la cosa mi sembrava perlomeno sospetta.

Ci fermammo in una stazione di servizio e ci sedemmo a bere un caffè sulle seggioline di metallo. Mia madre raccontò una storiella appartenente al passato ed entrambi scoppiarono in una risata sincera. Guardavo Jakub e senza volere pensai che per essere così vecchio se la cavava ancora niente male. Forse per via di quegli sport che praticava? Anche le sue zampe di gallina erano affascinanti, quando sorrideva strizzando gli occhi. La cameriera portò su un vassoio di plastica il caffè, un tè per me e dei dolci fatti in casa. Mia madre rifiutò, quindi mangiai anche la sua porzione. Chiesi se potevo prendere anche un succo, perché avevo una gran sete. Jakub andò al bancone e ordinò quello che volevo. Ovviamente lo fece per farmi piacere: sono quelle sottigliezze chiare solo per due che se la intendono. Per nessun altro. E di queste piccolezze ne avevamo accumulate un bel po’. Mia madre non ci faceva caso, era troppo concentrata su di lui. Non le venivano nemmeno dei sospetti del genere.

Non elencherò questi piccoli particolari, perché è una perdita di tempo, ma si può dire in generale che flirtavamo. Quando tornò, riuscì a lasciarsi cadere sulla sedia in modo così goffo che involontariamente il suo ginocchio si appoggiò al mio. Non mi spostai. Guardava concentrato mia madre, ma non tolse la gamba. Dopo un po’ premette più forte. Non lo guardavo e facevo finta che non stesse succedendo niente di particolare, anche se cominciai a sentire caldo. Poi presi un morso del suo pa˛ czki e feci una risata maliziosa.

«Ma che fame che hai, eppure a casa non mangi mai dolci» si meravigliò mia madre.

Alzai le spalle e andai in bagno. Sentivo che quel gioco mi prendeva sempre di più. Quando tornai, parlava al telefono, e mia madre si guardava le unghie.

«Purtroppo dovrò lavorare un po’» disse rivolto a lei, quando mi sedetti e mi misi a scuotere distrattamente il brik del succo. «Vi sistemo in hotel e ci vediamo la sera.»

Lei annuì tristemente.

L’hotel si rivelò una pensioncina proprio sulla spiaggia. Jakub però era da un’altra parte, insieme ai suoi colleghi. Ovviamente, per lui questo era un viaggio di lavoro. Tirò fuori i nostri bagagli e diede un bacio sulla guancia a mia madre. Vidi lo sguardo innamorato con cui lei lo accompagnò alla macchina. Mi sorpresi a fare lo stessa cosa. Sembravamo due Penelopi, una più vecchia e una più giovane, quindi per cancellare quell’impressione gridai: «Andiamo al mare. E stasera si balla!».

«Io non ne ho voglia, ma tu vai, se vuoi» rispose lei. «Però non tornare tardi.»

«Prima di mezzanotte.»

Avevamo un appartamento di due stanze. Mia madre andò a lavarsi per prima, io accesi il televisore e mi sedetti comodamente sul divano. Piazzai i piedi sul tavolo e mi misi a fare zapping. Quando squillò il telefono, mia madre era sotto la doccia, quindi risposi io.

«Pronto?»

«Aga?» si stupì Jakub. «Ho prenotato un tavolo al ristorante. Hai voglia di venire con noi?»

«Non vi disturberò, stasera vado in discoteca. Divertitevi. Però sta’ attento alla mamma, lei non regge l’alcol» scherzai. «Guarda come cambiano le cose. Un tempo era lei che si preoccupava per me. E ricordati che se le succede qualcosa di male, avrai a che fare con me» dissi fintamente minacciosa.

Lui rise. Avevamo un senso dell’umorismo molto simile. Prima di partire per Sopot ci eravamo già visti varie volte. Una volta ero persino andata a Varsavia perché Jakub mi aveva consigliato di provare a fare la modella, prima di diventare un’attrice famosa. Aveva mandato in giro le mie foto e sembravano interessati a me. Ero andata a fare un colloquio, volevano vedermi, prendermi le misure. Il capo dell’agenzia continuava a blaterare che quello della modella è un lavoro affascinante, ma che dovevo pensare alla scuola. Gli mostrai i miei voti e gli raccontai delle lezioni supplementari con cui continuava a torturarmi la mamma.

«Sei già un po’ troppo grandina, quasi diciassette anni. Però hai la testa sulle spalle» commentò l’agente e mi promise di procurarmi un servizio semplice per cominciare. Solo a quel punto si sarebbe visto se ero adatta. Se avevo talento, se la macchina fotografica mi amava.

Ma io ero già felice così. Varsavia. All’epoca mi era sembrato di essere finita in un formicaio. Soprattutto perché, dopo quella chiacchierata in agenzia, Jakub mi portò alla Galleria Centrum. Un’infinità di vestiti alla moda, dai prezzi folli. Correvo in tondo, girando la testa di qua e di là, e toglievo dalle grucce una scoperta dopo l’altra. Lui rideva, osservando la mia gioia. Mi disse di scegliere quello che mi piaceva e mi pagò i jeans, un vestito e qualche camicetta. Sentivo che la vita mi sorrideva e che ora il mondo si apriva davanti a me. Aspettavo impaziente la telefonata dell’agenzia. Mia madre, fino a quel momento scettica, si sarebbe occupata delle mie finanze.

«Be’, ciao» dissi, sentendo che i rumori nel bagno si erano acquietati.

«Ci vediamo» rispose, mi sembrò un po’ rattristato e mise giù.

Non mi aveva detto di salutare la mamma e non mi aveva chiesto di parlare con lei, anche se doveva immaginare che lei fosse impaziente di avere sue notizie. Saltai su per la gioia e feci una piroetta.

«I piccioncini innamorati vanno al ristorante!» informai la mamma, quando uscì tutta profumata dalla stanza satura di vapore. Lei si illuminò in un sorriso. «Bene, e adesso andiamo alla conquista della spiaggia!» gridai, sventolando un asciugamano e un reggiseno a fiorellini.

Fissavo la coppia che si baciava al centro della pista da ballo. Non pensavo ad altro che a mia madre che in quel momento beveva vino e guardava sdilinquita Jakub, mentre io me ne stavo lì tutta sola. Un ragazzo della mia età ballava davanti a me e mi strizzava l’occhio cercando di flirtare. Ci provava chiaramente con me e forse ancora tre mesi prima avrei accettato la sfida. Oggi aspettavo solo che passasse la mezzanotte per tornare al mio letto con la testa piena di sogni. Mi lisciavo la gonna di jeans e giocherellavo con un orecchino. Dal pozzo dei miei pensieri mi strappò il barman, mettendomi davanti un Breezer rosa.

«Non l’ho ordinato!» scattai.

Lui indicò con un dito un uomo di circa venticinque anni che mi salutò con la mano.

Aveva un bel fisico, abbronzato e aveva un sorriso affascinante.

«Non bevo.» Spinsi la bottiglia verso il barman. E con la cannuccia bevvi un sorso del mio succo. Lui si strinse nelle spalle.

Dopo un momento il bel ragazzo venne da me e mi si sedette vicino.

«Così carina e tutta sola?»

Quell’approccio così banale mi diede la nausea.

«Aspetto qualcuno.»

Lui sorseggiava pigramente il suo drink.

«Balliamo un po’?» Fece scivolare lo sguardo lungo le mie gambe.

«E balla» sbottai ed esplorai con lo sguardo la pista da ballo.

«Hai dei begli occhi.» Non mollava.

«Come le stelle?» risi. «E poi sono bella anche dentro» aggiunsi.

Alla lunga diventava fastidioso. Volevo già spostarmi in un altro punto al bancone del bar, quando vidi sulla porta Jakub. Si guardava intorno. In mezzo a quella folla di giovani sembrava terribilmente vecchio. Immediatamente mi girai di nuovo verso il bel ragazzo.

«Dai, d’accordo, balliamo.»

Mi accompagnò tenendomi per mano al centro della pista, dove fino a un momento prima stavo osservando la coppietta di miei coetanei. Cominciò a ondeggiare al ritmo della musica, ma io lo guardavo indifferente e sentivo che il mio corpo era rigido e riluttante. Chiusi gli occhi e mi concentrai sulla voce roca della cantante. Lasciai che i suoni pigri punteggiati da forti beat dettassero l’armonia dei movimenti delle mie anche. Lentamente mi fondevo con la musica, iniziai persino a muovere le braccia e ogni tanto a sporgere le labbra verso il mio partner. E sai, solo quando aprii gli occhi e nella folla vidi Jakub che mi guardava, mi sentii come se qualcuno mi avesse dato la carica. Il mio corpo diventò flessuoso. Cominciai a sentirlo. Mi appoggiai con la schiena al bel ragazzo e cominciai a muovere in tondo le anche, però senza toccarlo. Lui faceva dei grugniti di soddisfazione e schioccava le labbra con approvazione. Non ci fu bisogno di provocarlo di più. Accettò la mia sfida e durante la canzone seguente la nostra danza si trasformò in una trance sensuale da cui non volevo affatto uscire. Lasciai che mi mettesse la mano sulla pancia, mi sentivo come una dea che regnava sul tempo e sullo spazio. Ma il tizio con cui ballavo per me non esisteva, ballavo da sola, per farmi vedere da Jakub. Il bel ragazzo a un certo punto mi girò, i nostri volti stavano quasi per toccarsi. La musica rallentò, la pista da ballo fu inondata da vibrazioni romantiche e la gente si dispose a coppie. A quel punto lui mi strinse a sé. Aveva preso prepotentemente il comando. Mi piaceva. Solo quando iniziò a sfiorarmi l’orecchio con la lingua e a sussurrare: «Sei divina, sei nata per ballare. Perché non usciamo?» lo respinsi.

Guardai con la coda dell’occhio il punto in cui un momento prima c’era Jakub. Non era più lì a trapassarmi da parte a parte con i suoi occhi. Fu come una doccia fredda. La magia scomparve. Mi scostai bruscamente dal bel ragazzo e fermai le anche frementi. Indietreggiando, urtai qualcuno con la schiena.

«Scusa.» Mi girai e per un momento la rabbia dipinta sul viso di Jakub mi paralizzò.

«Andiamo a casa.» Mi afferrò la mano.

«Ehi, paparino! Questa è la mia ragazza!» Il bel ragazzo evidentemente aveva ritenuto appropriato fare la parte del mio cavaliere.

«Cosa vuoi?» chiesi a Jakub.

«Ti sei ubriacata!» mi rimproverò come se fossi la sua donna.

«Vattene!» dissi a entrambi.

«Vedi? Non vuole venire con te. È meglio se te ne vai con le buone.» Il mio loverboy saltellava come un galletto inferocito.

Si preparava una rissa.

Jakub lo ignorò e mi afferrò per una spalla, poi mi tirò verso l’uscita. Allora il bel ragazzo scattò e strattonò la maglietta di Jakub. Lui reagì e lo colpì in faccia.

«Sfigato» sentii dire, mentre correvo fuori dal club. Senza fermarmi, m’incamminai verso la pensione.

«Aga, aspetta!» sentii dopo un po’ di tempo alle mie spalle.

Jakub mi aveva raggiunto a metà strada. Ormai camminavo piano, reggendo in mano i sandali. Avevo scelto di passare per la spiaggia, perché il percorso era più corto, anche se era buio e la mamma diceva che era pericoloso.

«Ma cosa ti credi?» gli gridai in faccia. «Di essere mio padre? Pensa per te!»

«Vai in giro con degli estranei. Poteva darti da bere qualcosa e violentarti nel bagno!» Era davvero arrabbiato, respirava a fatica.

«Lasciami!» Gli strappai via la mano. «Ma senti chi parla!»

«Ero preoccupato» aggiunse con voce più bassa e, mi sembrò, premurosa. Allora vidi che aveva la guancia un po’ gonfia. Mi sentii stupida.

«Non sono affari tuoi» dissi più gentilmente. «E poi non ho bevuto alcol.»

«Aspetta, parliamo un po’.»

«Di cosa?» Ero ancora stizzita, ma mi fermai. Non so neanch’io perché.

Mi propose di sederci sul tronco di un albero caduto.

«Be’?» lo incalzai.

«Lo so che è strano. È difficile spiegarlo, ma avevo davvero paura per te. Sono le undici e mezza. Dovevi tornare... è buio.»

«Mi sono messa d’accordo con la mamma di tornare prima di mezzanotte. È stata lei a mandarti?»

«Dorme.»

«Cosa? La mamma dorme? Stai scherzando! Non è mai successo che si addormentasse prima del mio ritorno!»

«Ha bevuto un po’ troppo vino.» Jakub fece un gesto con la mano e mi si strinse vicino.

Capii che non era un caso se aveva bevuto troppo. Pensai che l’avesse fatta ubriacare per correre da me, anche se mi sembrava assurdo. Avevo sentimenti contrastanti. Da una parte era una cosa meschina, ma dall’altra solleticava la mia vanità. Sentivo il suo sudore. Alzai lo sguardo.

«Ma tu cosa ci fai qui?» chiesi con voce tagliente, ma la rabbia mi era già passata. Sentivo che la tensione tra di noi cresceva.

«Non lo so neanch’io.»

«Lo sai benissimo» dissi strascicando il “benissimo”.

«E quindi lo sai anche tu.»

Feci una risata sgradevole.

«No, io non lo so. Sei l’uomo di mia madre, potresti essere mio padre. Vuoi forse violentarmi? Devo avere paura?»

Lui chinò la testa.

«Smettila di dire stupidaggini.»

«Io?» sbuffai. «Va bene, non ho paura che tu mi violenti. Mia madre non te lo perdonerebbe mai.»

Non so neanch’io perché gli sorrisi, ma aveva cominciato a farmi pena. Aveva la faccia di un animale punito. Invece del vincitore circondato da un alone di mistero, che a prima vista faceva un’impressione notevole, con la sua auto di lusso, il laptop, le carte di credito gold, avevo davanti a me semplicemente un uomo infatuato. E devo riconoscere che la cosa mi piaceva molto.

«Quando ti ho visto per la prima volta... È stato come se ti conoscessi già. Chissà quando, forse in un’altra vita. So che suona stupido, ma è come se tra noi ci fosse una fratellanza spirituale» balbettò come uno studentello.

Tacqui. Un vero e proprio melodramma, non potevo crederci.

«Adesso piango» non nascosi la mia ironia, ma lo provocai anche ad andare avanti. «E cosa pensi di fare?» gli chiesi con tono di sfida.

«Ti penso continuamente.»

«Vai a letto con mia madre. E ora cerchi di incantare me. Ti sembra normale?»

Mi accarezzò il collo. Sentii un fremito. Avvicinò il suo viso al mio.

«Aga, io non so cosa mi sta succedendo. Amore, scappiamo ai confini del mondo» mi pregò.

Non ho idea se scherzasse o parlasse sul serio. Tremavo. E, parola d’onore, non sapevo come comportarmi. Sentivo che era sull’orlo di un abisso, che avrebbe fatto tutto quello che gli chiedevo. Era una sensazione simile a quella di controllare il timone e la vela quando c’è burrasca. Pericolosa, ma esaltante. Devi tenere continuamente la situazione sotto controllo. Basta un errore e rovesci la barca.

«Sei carino» dissi e mi scostai.

«Tu sei... sei bellissima. Sei la donna più bella che abbia mai visto in vita mia. Morivo di gelosia mentre ballavi con quell’allocco.»

Sbuffai, fingendo di non sapere di cosa parlava.

«Un tizio qualunque. Irrilevante.»

Si chinò e mi sfiorò con le labbra l’angolo della bocca. Non infilò la lingua, non premette. Era un tipo raffinato, non come tutti quei pretendenti che avevo avuto fino a quel momento, che facevano esperimenti sul mio corpo. Con la mano tremante mi toccò la nuca. Chiusi gli occhi e aspettai. Di colpo mi sentii bene e al sicuro. Il calore invase il mio corpo. Anche se era già freddo, la pelle d’oca sparì.

«Ti accompagno in camera» disse di colpo e mi coprì con il suo giubbotto.

Mi sorpresi a sentirmi delusa che non fosse successo qualcosa di più serio.

Camminavamo per la spiaggia tenendoci per mano e ascoltavo le sue parole come incantesimi. Quando fummo davanti alla pensione, mi abbracciò e mi strinse a sé.

«Vorrei solo averti vicina, nient’altro. Non so se mi credi. Mi prenderò cura di te. Sempre. Voglio proteggerti. Se me lo permetterai, ovviamente. Vedrai, diventerai una grande star!» Sorrise e mi baciò di nuovo delicatamente.

Questa volta restituii il bacio. Ma ebbi subito paura che qualcuno ci osservasse dalla reception. Gli diedi il giubbotto e corsi su per le scale nella nostra stanza.

Effettivamente mia madre dormiva. La guardai e istintivamente mi avvicinai a lei per coprirla, ma poi mi ritrassi. Mi sentivo addosso l’odore di Jakub, di cui era intrisa la mia camicetta. Entrai nel bagno e chiusi accuratamente la porta. Mentre mi lavavo ripensavo a quello che mi aveva sussurrato nel salutarmi: «Ti amo. Non avere paura».

Non avevo risposto niente. Non ancora, quella volta. Continuai a giocare con lui in quel modo per tutta la durata della vacanza. Mia madre un giorno sì e uno no andava a letto presto e Jakub veniva da me sulla spiaggia. Stavamo seduti insieme, chiacchieravamo, e alla fine venne il momento della prima volta. Scoprì il mio corpo e si estasiò per ogni suo minuscolo particolare. Ma non lo facemmo al mare. Era stato un periodo troppo bello. La romanticissima spiaggia, come nei film di cattivo gusto. Gli dissi che ero vergine. Non mi credette, quindi gli raccontai tutte le mie avventure con i maschi, senza tralasciare la storia di Artur. All’inizio impallidì, poi scoppiò in una risata. Mi strinse a sé e mi promise che avrebbe aspettato che io fossi pronta, avrei deciso io stessa quando sarebbe stato il momento adatto.

Accadde quando tornai dal mio primo servizio fotografico. Era andato bene. La macchina fotografica mi amava! E anche lui mi amava, o almeno così diceva. Per quattro mesi andai a Varsavia. Lui aveva spostato mia madre su un binario morto. A volte capitava nella nostra piccola città con fiori e regali, anche per me. Osservavo inquieta come reagiva quando lei tentava di sedurlo. Goffamente, con disperazione, con un’espressione implorante sul viso. E inutilmente. Lui se ne andava prima che facesse buio, mi salutava con un bacio in fronte. A volte sgattaiolavo fuori di casa per andare a raggiungerlo nella sua macchina in un’area di sosta nel bosco. Quando accorrevo, i sedili erano già tirati giù e lui fumava una sigaretta. A volte era tenero e incredibilmente dolce, a volte violento, come se avesse paura che me ne andassi da un momento all’altro. La cosa strana era che non faceva male. Non era schifoso, come aveva detto Regina. Stavo bene, mi sembrava di volare.

Per mia madre, invece, era il contrario. La vedevo ritrarsi e chiudersi in se stessa, invecchiare sempre di più. A volte, quando pensava che stessi dormendo, gli telefonava e piangeva nel ricevitore. Cominciò a prendere farmaci per dormire, a bere. Nel cestino della spazzatura spesso trovavo bottiglie vuote, accuratamente avvolte in sacchetti di plastica. Beveva di nascosto, per non farsi vedere da me, e al mattino andava a scuola e si sfogava sugli alunni. Guardavo tutto questo spaventata, ma non pensai mai, nemmeno una volta, di essere stata io a trasformarla in quella donna lamentosa e frustrata.

Io e Jakub eravamo diventati così abili a nascondere il nostro amore che con il tempo mi sentivo sempre più impunita. Fiorivo. Una volta oltrepassata una barriera, superare le altre diventa sempre più facile. Mentivo e recitavo davanti a lei. Fu quello il mio primo ruolo. Oggi posso dire che il mio fu un debutto magistrale. Nessuno indovinò niente. Portavo persino a casa a pranzo dei ragazzi della scuola, perché mia madre pensasse che ero un’adolescente normale. A volte si metteva a farmi scenate, disperata perché non eravamo più così vicine come un tempo. Allora mi chiudevo nella mia stanza e mettevo la musica a tutto volume. Mi rinfacciava che ero cambiata, che non mi riconosceva. Ero insensibile, fredda, le faceva paura il mio sguardo estraneo. E che non mi facessi illusioni, perché comunque non sarei arrivata da nessuna parte. Mi interessavano solo i miei stracci e le mie creme. Per la rabbia mi rovesciava fuori dall’armadio i vestiti eleganti e i cosmetici che ricevevo da Jakub e dopo i servizi che facevo per le riviste.

«Chi è che paga le bollette?» le gridavo dritto sul muso. «Con quali soldi vivi adesso?»

E quando volevo darle il colpo di grazia, aggiungevo: «Sono già maggiorenne. Posso toglierti l’accesso al conto. Basta la mia firma».

Ammutoliva e piangeva in cucina. Non sopportavo di sentirla, ma non provavo dispiacere per lei. Ci eravamo allontanate. Vivevamo una accanto all’altra, come su due isole deserte circondate da un oceano di dolore.

Costruivo ostinatamente la mia fortezza di silenzio e solo a volte, in preda al senso di colpa, mi svegliavo coperta di sudore, spaventata, rendendomi perfettamente conto che mi comportavo male. Avevo persino paura ad aprire le finestre della stanza, a uscire da quell’oscurità rassicurante dove in realtà nascondevo l’altro mio viso, quello oscuro. A volte, quando aprivo gli occhi, non sapevo che ora fosse e nemmeno se fosse mattina o sera.