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La nascita di Venere
«Non impedirti di essere felice.»
L’ultima volta che ho visto il suo viso, era contorto dalla rabbia e dall’odio. Ma io la ricordo diversa. Dolce e affettuosa. Ride. A quanto pare, è da lei che ho ereditato la mia bellezza fredda e i lineamenti regolari. Non l’altezza, però: io sono alta e magra, lei era piccolina, dalle forme femminili. Quindi puoi immaginartela: persino in salopette, intenta a ripulire le sue violette dalle erbacce davanti al nostro casermone al numero 13, sembrava una Lady Di in miniatura. Purtroppo, non c’era nessuno che le facesse foto, quindi posso solo descrivertela a memoria. Era coraggiosa, affascinante e... depressa. Piangeva senza motivo, crollava per delle stupidaggini, si preoccupava di ogni mio problema. Per addormentarsi prendeva pillole misteriose, per stare calma beveva uno sciroppo puzzolente. Aveva rinunciato alla carriera, era rimasta in quel buco marcio, anche se avrebbe potuto andare a Varsavia dalla sua famiglia. Aveva interrotto i rapporti con loro quando io stavo per venire al mondo e si era scoperto che mio padre era un ragazzo di un paesino della Podlachia con cui aveva studiato alla scuola superiore di economia rurale. Potrà suonare pomposo, ma aveva dedicato tutta la sua vita a me. Era rimasta come in esilio in quella piccola cittadina, dove nessuno la capiva e la gente le stava alla larga, anche se la rispettava. Ovviamente, allora non ero in grado di apprezzarlo. Solo adesso noto tutte queste somiglianze tra noi. In apparenza sono piccole cose, gesti, il modo di pensare, di prendere decisioni. A dire la verità, ho paura a guardarmi allo specchio, perché lentamente mi sto trasformando in lei. Persino i miei difetti e le mie stravaganze sono gli stessi.
Ricordo che quando avevo sette anni mi aveva iscritto a pianoforte perché, diceva, «un piano non starà mai nel fienile». Voleva che diventassi qualcuno. I genitori lo desiderano sempre per i loro figli. Mi riempiva le giornate di cose da fare: musica, pallavolo, inglese, tedesco. Andavo a tutte le gite scolastiche, colonie, campeggi, corsi di vela, di immersione, di arrampicata.
«Devi essere migliore degli altri. La bellezza non è tutto, devi essere intelligente» ripeteva.
E anche se lei era la prima ad avere una gran linguaccia, mi inculcava l’idea che il vitello umile succhia il latte di due madri. Era una cosa che mi irritava terribilmente. Sognavo che si facesse la permanente come le altre madri, ma lei era sempre diversa. E non usava l’ombretto verde che le avevo comprato per la festa della mamma. Ora sono orgogliosa che fosse così.
Mi ritenevo un’adolescente felice. Non ricordo nessun trauma durante l’infanzia. Anche se, a dire la verità, non ho ricordi precedenti al sesto anno di vita. Li ho rimossi. Ho solo dei flash dei miei genitori che litigano a tavola o di mio padre ubriaco che batte alla porta. Non ricordo neanche la miseria. Non andavo – come i bambini delle famiglie povere – a prendere la pagnotta e il latte gratis nell’aula di ricreazione a scuola. Eppure a casa non nuotavamo nell’oro. Mi mettevo abiti usati che dovevo riadattarmi da sola, e a volte per tutta la settimana a pranzo si mangiavano frittelle o involtini di cavolo. Non ricevevo una paghetta, ma quando partivo la mamma mi dava dei soldi. Mio padre mi dava il doppio o anche di più. Cercava di comprare il mio amore con regali e sorprese. Portavo sempre dei souvenir a tutti e due, ma la mamma in genere teneva il suo regalo nella confezione per molto tempo, prima di aprirlo. Forse era il suo modo di appropriarsi delle cose che costituivano una prova materiale del mio amore. E io la amavo, ovviamente.
Proprio come papà. Ma con lui era diverso: in realtà, ce l’avevo a morte con lui. Aveva messo su un’altra famiglia. Sua moglie era una donna un po’ rozza che aveva fatto le scuole professionali e avevano tre figli tremendamente stupidi che non facevano altro che giocare a carte o guardare la tv. Erano felici, cosa che mi indignava.
Chi era mai quella Hanka di papà in confronto a mia mamma – insegnante, per un periodo anche preside del liceo – dignitosa, orgogliosa, sempre sui libri. A volte, quando pensava che stessi studiando, si sedeva a bere un bicchierino di cognac e si metteva a guardare nel vuoto, chissà dove, al di là dei sordidi casermoni che aveva davanti. Vagava con il pensiero in un mondo tutto suo. Aveva i suoi segreti, di cui non mi metteva a parte. Per lei ero una bambina, persino quando non stavo più nei miei abitini e avevo iniziato a notare che lei si vestiva meglio, segno che nella sua vita era apparso un uomo. Ma non ne portò mai a casa nessuno. D’altra parte mia madre non aveva voluto concedere il divorzio a mio padre, nemmeno quando aveva scoperto che la sua nuova donna era incinta di lui. Diceva che aveva giurato in chiesa davanti a Dio (e per lui si era convertita dalla fede cattolica a quella ortodossa, cosa che le aveva provocato l’odio di tutta la famiglia) e che doveva attenersi a quella promessa. Anche se il destino era stato crudele con lei. Forse per questo mi proteggeva dalla vita adulta. Mi obbligava a tornare a casa prima delle dieci di sera. Invece di darmi alla pazza gioia il sabato sera in discoteca, dovevo fare un concerto di pianoforte al circolo musicale o aiutare la professoressa di violino a pulire l’aula di ricreazione, un baratto per pagare le tasse scolastiche quando la mamma non aveva soldi.
Andavo regolarmente alla filarmonica di Białystok e al cinema. Ero iscritta al teatro dei burattini e quando un giorno dissi che volevo fare l’attrice si arrabbiò da morire.
«Tu non capisci niente. Sono chimere! Devi studiare! Scegliere una professione come si deve, che ti darà l’indipendenza dagli uomini. Ancora nessuno di QUI ha fatto carriera in QUEL mondo. Bisogna avere delle conoscenze! Il talento non basta.»
Eppure, come tutte le vicine, passava le serate davanti alla tv. Piangeva per l’ennesima volta davanti a Via col vento.
La implorai di lasciarmi iscrivere al gruppo teatrale dell’istituto culturale. Dopo molte scenate e pianti acconsentì, a condizione che me lo pagassi da sola. Quindi cominciai a distribuire volantini davanti a un negozio di elettrodomestici.
Ma trasformarmi nei personaggi che avevano una vita diversa, per me, era come l’ossigeno. Mi rifugiavo in un mondo di fantasia. Mi sentivo eccezionale, migliore, e mi convincevo sempre di più che ce l’avrei fatta a fare quello che ad altri non era riuscito. Perché proprio io? E perché no?
Quando mi accorsi che mi cresceva il seno, tagliai i miei jeans preferiti e ne feci dei pantaloncini stracciati che coprivano a malapena le natiche. I ragazzi del vicinato fischiavano vedendo le mie gambe abbronzate. Da allora iniziai a condurre un’altra vita. Completamente diversa da quella controllata da mia madre.
Studiavo la mia sessualità e verificavo l’effetto che facevo agli uomini. Sperimentavo sui treni, sugli autobus, in barca, sugli sci. Seducevo insegnanti di educazione fisica, camerieri, rappresentanti di tv via cavo. Mettevo in pratica i miei trucchetti e miglioravo i metodi. Stavo attenta. Lo facevo solo quando mia madre non poteva vedermi. Avevo l’impressione che avesse paura del giorno in cui finalmente sarei diventata donna. Per lei era l’inizio di un percorso costellato di pericoli, quindi si sforzava in tutti i modi di farmi restare bambina il più a lungo possibile. Ma purtroppo era inevitabile. Già da molto tempo mi sentivo una donna. Erano stati i ragazzi durante le vacanze a rendermi tale. Mi ficcavano la lingua in gola, palpeggiavano e sbavavano sui miei piccoli seni. Mi tenevano per mano, mi sussurravano parolette tenere per trascinarmi in qualche posto appartato. Mi portavano sulle loro moto sportive e i tubi di scappamento roventi mi scottavano le caviglie. Ma quando uno di loro si spingeva troppo oltre – fino a infilarmi una mano nelle mutande, o per lo meno a provarci – mi irrigidivo. Vedevo gli occhi spaventati, pieni di rimprovero di mia madre e dicevo che per me era ora di tornare.
La mia amica Regina, che aveva già fatto da molto tempo ciò che nei miei sogni era un romantico mistero, mi avvertiva: «Aga, tutta questa faccenda del sesso... Devi sapere che non è come nei film. Ma agli uomini piace». Lo diceva con un’espressione da cortigiana da strapazzo. «Ma se vuoi trovare marito, bisogna che stringi i denti. Devi saper soffrire. Be’, e trattenere il vomito.»
Ammiravo il suo coraggio, la sua esperienza e le sue tette enormi, che teneva in un reggiseno sudato con il ferretto. E mi spaventavo al solo pensiero di quel dolore e di quei conati. Non le credevo fino in fondo. Com’era possibile? Lo facevano in tanti, perché le donne lo accettavano? Ovviamente mia madre non voleva parlarne. Il sesso era un argomento tabù. Se veniva fuori, era solo come male necessario e come forza capace di distruggere un matrimonio, riducendo il sentimento alla sola fisiologia. E chi vi trovava soddisfazione erano le persone rozze o semplicemente ignoranti. Le puttane, i pervertiti e poi, be’, gli uomini. Ma più sentivo dire cose brutte, più desideravo unirmi alla cerchia di quei depravati. Cercavo risposte su «Cosmopolitan» e imparavo a memoria tutti i punti su come provvedere al proprio orgasmo. Regina rideva e diceva: «L’orgasmo? E che cos’è? Del resto non è importante, purché il ragazzo sia bravo con te. Purché non ti picchi e non ti costringa a, sai...». Si infilava un dito in bocca e lo muoveva nella guancia. Per lo schifo di solito cambiavo argomento.
Durante un campo estivo di vela decisi che era arrivato il momento di provare. L’insegnante di letteratura polacca ripeteva: «Se vuoi liberarti da una paura, affrontala a viso aperto. Misurati con lei».
Quindi mi misi il rossetto e mi sfidai allo specchio: «Dici che non ce la faccio? Vedrai!».
Scelsi la mia vittima. Artur era un biondo mingherlino qualunque, che stava crescendo e aveva la voce acuta come il cinguettio di un passerotto, ma a soli diciassette anni mostrava già sintomi di calvizie. Sapevo che non lo avrei rivisto mai più. Sapevo che davanti a lui non mi sarei vergognata, perché non mi piaceva neanche. E lui mi sbavava dietro sempre di più. Fischiava, quando passavo sul molo, mi gridava: «Micia, micia». Mi veniva il voltastomaco a guardare i suoi occhietti porcini, ma lui era più debole di me. Non poteva minacciarmi. Non ci eravamo mai neanche baciati. Non volevo che mi toccasse. In discoteca non ballavamo insieme. Nessuna traccia della magia che avevo sognato, ma se dovevo sopportare quel dolore e quei conati, volevo provare qualcosa per lui. Solo che in quel caso era qualcosa di negativo: disgusto, antipatia e disprezzo.
Era una notte calda. Stavamo andando a prendere le sigarette – per lui, perché io non fumavo – quando di colpo mi afferrò la mano e mi trascinò verso un fienile lì vicino.
Avevo un vestito con le balze e un collettino bianco. Non si prese il disturbo di spogliarmi. Mi tirò semplicemente su la gonna e ansimando febbrilmente, con mani tremanti, cercò di tirarmi giù le mutande. Mi palpava le natiche come se stesse accarezzando un animale sotto gli occhi del suo padrone. Non mi disse niente di carino. Più che altro ansimava e basta. Mi concentrai sulle sue mani e mi misi a pensare alle ultime regate. In quel momento il vento mi frustò le spalle e mi fece rabbrividire.
«Non porti il perizoma?» chiese Artur. Aveva in mano le mie mutandone bianche con su fissato l’assorbente insanguinato e me le mise sotto gli occhi. «Ah, bene, hai le tue cose. Così non rimani incinta!» si rallegrò sinceramente e tirò fuori dalla patta il suo minuscolo uccellino.
Fu come se qualcuno mi avesse colpito in faccia. Rinsavii di colpo. Mentre lo guardavo maltrattare brutalmente il suo pene, sottile come il mio pollice, che non voleva affatto drizzarsi ed era sempre molle come gelatina, pensai che stavo per vomitare.
Alla fine mi allargò le gambe e tentò goffamente di entrarmi dentro. Sentii un leggero gemito. Artur si schiarì la gola e ansimò: «Più larghe! Allarga di più le gambe!».
Girai la testa verso la porta e nel buio vidi una figura che veniva verso di noi.
«C’è qualcuno» dissi in un sussurro.
«Zitta, vengo» rantolò Artur.
Mi stupii, perché non avevo sentito niente. Né fitte, né dolore, come se fossi congelata. Allora vidi che il suo piccolo pene, fino a quel momento gelatinoso, si era indurito e stava sfregando solo sulle mie cosce. Dopo qualche momento mi sprizzò addosso qualcosa e ricadde inerte. Probabilmente era la sua prima volta.
«Che state facendo qui?» chiese un uomo con la faccia da pervertito, che senza farsi notare era apparso di colpo vicinissimo. Vidi che si sbottonava i pantaloni. Ero sicura che il suo arnese fosse più minaccioso dell’uccellino appena violentato di Artur. Non stetti a pensarci due volte. L’adrenalina fece effetto all’istante. Afferrai le mutande e mi slanciai in fuga. Ma quando arrivai alla porta, scoprii che era chiusa. “Oddio” pensai. Sentivo il respiro dell’intruso dietro di me. Non so neanch’io come, ma mi arrampicai sulla maniglia e saltai giù dal cancello alto due metri. Caddi a terra con uno schianto e sentii un dolore alla caviglia. Ero sicura di essermela slogata. Ma mi misi a correre. Sempre più veloce. Come a un test per i sessanta metri piani. Fino a restare senza fiato. Mi fermai solo davanti all’entrata della scuola di vela.
Le mie scarpe da tennis bianche erano tutte coperte di fango, avevo le ginocchia graffiate, mi colava il sangue dal gomito. Mi guardai intorno per controllare che non ci fosse nessuno e m’infilai in bagno. Misi le mutande, lavai via il sangue e il fango, poi lentamente mi diressi alla mia stanza. Mi addormentai dopo pochi minuti. Il giorno seguente feci lo zaino e andai dall’istruttore di vela. Dissi che avevo ricevuto un telegramma: dovevo tornare urgentemente a casa. Chiese cos’era successo, quindi feci una faccia da povera orfanella.
«La mamma deve operarsi. Sa, cose femminili. Ho il treno tra un’ora.»
Mi diede il punteggio più alto, come se avessi portato a termine il campo. Guardò l’orologio.
«Vai, altrimenti non farai in tempo. È tardi!»