OMBRE PESANTI

Appena arrivato a Teheran, Ismail divenne attivista di un movimento clandestino. Nessun contatto con suo padre era più possibile. Akbar dovette stare in piedi sulle sue gambe. O viceversa, Ismail dovette imparare a stare in piedi sulle sue.

Trovo sorprendente che perfino qui, nel polder, ci siano cose o fatti che sono direttamente, e a volte indirettamente, collegati con gli appunti di mio padre.

Così, per esempio, mi è venuto in aiuto il principe Willem–Alexander.

L’erede al trono olandese ha concesso un’intervista televisiva che è stata definita la più importante della sua vita. L’hanno seguita 3,1 milioni di olandesi. Il principe voleva dimostrare di essere diventato adulto e autonomo da sua madre, la regina. Voleva convincere gli olandesi che era pronto ad assumersi la responsabilità di questioni serie.

Gli tremava il labbro inferiore e si vedeva che l’autonomia non era una cosa tanto facile.

Per lui quell’intervista rappresentava un estremo tentativo, fatto davanti a più di tre milioni di spettatori, per uscire dall’ombra di una madre dominatrice.

Ha sottolineato di avere una sua personalità e di non essere affatto un cocco di mamma.

“È sua madre il suo consigliere più importante?” gli ha chiesto il giornalista.

“Sì”, ha risposto lui. “Perché riveste il ruolo che un giorno assumerò io.” “Quali sono le qualità di sua madre che vorrebbe fare sue?” “Io, io sono Willem–Alexander. Io sono me stesso. Non vorrei far mia nessuna delle sue qualità e inoltre non si possono far proprie le qualità degli altri.” Per quanto il principe cercasse di dare risposte brevi alle domande su sua madre per passare all’argomento successivo, il giornalista continuava a fargliene altre che la riguardavano.

Ciò che mi piacque di quella conversazione non fu il contenuto dell’intervista, ma ciò che stava dietro. In quella lunga conversazione il principe parlò pochissimo di suo padre, non una sola volta riuscì a pronunciare per intero il nome di suo padre. Era come se suo padre non fosse presente nella casa reale, o fosse solo una parvenza, un’ombra.

Ho visto spesso la regina in televisione e l’ho sentita diverse volte alla radio. So perfino a memoria molte sue parole.

“Membri degli Stati Generali, giunti alla fine di questo secolo possiamo tracciare un bilancio. Nei Paesi Bassi sono stati raggiunti molti traguardi importanti. E questo è stato possibile grazie al contributo di numerose persone. Coscienti della nostra forza e con occhio attento alle nostre debolezze, traiamo da ciò fiducia per il futuro. Anche nel nuovo secolo sarà necessario investire insieme nella qualità della nostra società e nella cooperazione internazionale. Il governo continuerà ad adoperarsi con l’impegno di sempre per una società vitale e intende farlo insieme a voi, agli altri governi e a tutti i cittadini. Esprimo il vivo augurio che adempiate con abnegazione alle vostre responsabilità, nella fiduciosa consapevolezza che molti, insieme a me, auspicano per voi saggezza e invocano la benedizione di Dio.” Di suo marito, il principe Claus, non ricordo nessuna parola. La mia memoria è vuota.

L’ho visto in TV, mentre teneva un discorso a una sfilata di moda. Per quanto lo ascoltassi attentamente, non lo sentivo, o meglio, lo sentivo ma le sue parole non mi raggiungevano, non mi entravano in testa, era come se non parlasse, ma facesse solo dei gesti.

L’avevo sempre conosciuto come un padre che taceva, un uomo che guardava soltanto, che osservava. Adesso che parlava, non gli si addiceva per niente.

Mi piace quell’uomo. Quando la famiglia reale appare in tv, per esempio il Giorno della Regina2, mi piace guardarlo, mi piace guardare il padre che, con le mani dietro la schiena, cammina piano, cautamente, dietro i suoi figli.

Mi piace anche la regina, quando prende a braccetto suo marito e, con la schiena diritta, cammina accanto a lui. Se un giorno, in preda alla rabbia, lo picchiasse con tutte e due le mani sulla testa urlando: “Sei una palla al piede. Crepa, crepa, crepa”, la troverei odiosa.

Tine l’aveva fatto una volta con mio padre. La sentii gridare. Corsi in casa e vidi che lo stava pestando con entrambe le mani sulla testa, urlando: “Crepa, crepa, crepa!” All’improvviso il suo sguardo cadde su di me e rimase con le braccia sospese in aria.

In seguito seppi da Campanellina che lo faceva spesso.

“L’ho vista con i miei occhi”, piangeva Campanellina al telefono.

Non riesco ancora a perdonare Tine. Eppure ha fatto molto per mio padre. In ogni caso ha dato stabilità alla sua vita. Ha molto sofferto e dimostrato spesso di avere un carattere forte.

Il principe Willem–Alexander non l’ha detto nell’intervista, ma io ho visto chiaramente che soffriva per l’ombra pesante di sua madre. Anch’io soffro per l’ombra pesante di mio padre. Il principe si sbagliava se pensava di essere uscito dalla sua ombra. Non si esce mai dall’ombra di quel genere di persone, neanche quando muoiono.

Anzi, quando muoiono è peggio, tornano nella tua vita più forti che mai. Ti dominano perfino nei sogni.

Benché mio padre sia morto, la sua ombra è caduta sul mio computer. All’università decisi di prendere le distanze da lui, ma non funzionò, ripresi contatto con lui in un altro modo, più intenso che mai.

Quando me ne andai di casa ero convinto che fosse mio padre quello che doveva imparare a stare in piedi sulle sue gambe. Ma all’improvviso mi resi conto che io stesso non riuscivo a cavarmela bene da solo. Avevo bisogno del peso di mio padre, altrimenti perdevo l’equilibrio. Mi presentavo come un giovane forte, ma non lo ero.

Mio padre era diventato la mia debolezza e la mia forza. Rispetto agli altri studenti ero un uomo maturo, per questo feci strada molto in fretta nel partito. D’altro canto ero preoccupato per la mia famiglia. E questa paura mi impediva di spingermi oltre.

Alla fine del terzo anno di università il mio contatto mi disse che dovevo interrompere ogni legame con la mia famiglia. Fino ad allora, ogni tanto tornavo a casa, adesso non potevo più nemmeno telefonare.

Mi dissero che avrei dovuto lasciare l’università, perché prevedevano che la rivoluzione fosse vicina e dovevamo prepararci.

Avevo un forte senso di colpa, pensavo di aver piantato in asso i miei famigliari. Perdevo fiducia in me stesso a furia di preoccuparmi per loro. Così non potevo andare avanti, dovevo parlarne con il mio contatto.

Prima di continuare, voglio parlare brevemente del movimento di rivolta clandestino di allora. Studiare all’università di Teheran era ed è il sogno di ogni alunno persiano, ma c’è un detto che dice: “Entri, ma non sai se ne esci.” Era in effetti nel terreno dell’università che crescevano le radici del movimento di guerriglia di sinistra che combatteva la scià. Il movimento aveva tre motti fondamentali: “Abbasso lo scià! Pane per tutti! Viva la libertà!” “Libertà o morte!” era scritto a caratteri rossi sul giornale clandestino del partito. Quando iniziai l’università le strade di Teheran erano teatro di decine di sparatorie tra membri armati del partito e la polizia segreta dello scià. Scoprivano di continuo i nascondigli segreti dei dirigenti. Allora la polizia cercava di catturarli con gli elicotteri e i carri armati, ma non ci riusciva perché loro combattevano fino all’ultima pallottola. Inoltre i capi avevano sempre una pastiglia mortale in bocca. Appena i poliziotti si avvicinavano per arrestarli, la ingoiavano. Ogni volta che uno di noi moriva in un conflitto a fuoco, all’università esplodeva la violenza.

In quel periodo turbolento mi ammalai.

Presi appuntamento con il mio contatto in una casa del tè, in un quartiere isolato alla periferia della città. Per la prima volta gli parlai di mio padre. “Non posso rompere i rapporti con la mia famiglia, devo restare in contatto con mio padre. È indispensabile sia per lui che per me, altrimenti non riesco a funzionare bene nel partito.” La mia era una richiesta impossibile. Il rischio che gli agenti del servizio segreto mi arrestassero a casa dei miei genitori era troppo grande e avrei messo in pericolo il partito.

In quel momento mi venne un’idea. Dissi: “Mio padre, il suo negozio, il suo handicap, i suoi rapporti con gli abitanti della zona di confine, e… posso chiedergli, come dire? Potrebbe essere di grande aiuto al partito, intendo dire, il suo negozio, le sue conoscenze sulle montagne… potrebbero essere determinanti per il partito.” Così il discorso cambiava, ma il mio contatto non approfondì la questione, il partito mi avrebbe fatto sapere.

Una settimana dopo ebbi, inaspettatamente, un incontro confidenziale con Homajun. Homajun era uno dei leggendari capi del movimento. Dopo aver parlato a lungo di mio padre, delle sue conoscenze nella regione di confine e della sua dimestichezza con i sentieri di montagna, ottenni il permesso di incontrarlo, in segreto, alcune volte all’anno. In quelle circostanze dovevo anche prepararlo “per l’eventualità che avessimo bisogno di lui.” Che cosa ciò significasse non lo sapeva nessuno dei due. La direzione del partito sapeva soltanto di avere al proprio servizio un uomo sordomuto e affidabile, pronto a fare qualsiasi cosa per suo figlio.

Adesso avevo il permesso di andare a trovare di nascosto mio padre, che non vedevo da molto tempo.

Stava bene e soprattutto le cose in negozio andavano bene. Era stata un’ottima idea quella di aprirgli un’attività tutta sua. Campanellina aveva comprato una buona stufa di seconda mano e con l’aiuto di un ragazzo l’aveva sistemata in negozio. Per tutto l’anno mio padre raccoglieva, come un vecchio uccello, rami secchi per l’inverno. E Tine si arrabbiava tantissimo. Ogni volta che telefonavo a casa, si lamentava: “Figlio mio, mi vergogno da morire di tuo padre. Non fa altro che cose stupide. Ovunque lo vedi, ha una fascina di rami secchi sulle spalle. Si arrampica perfino sugli alberi per prendere un ramettino. Quando lo incontro in città, vorrei nascondermi sottoterra.” E io ridevo, immaginandolo mentre saliva su un albero a prendere qualche ramo secco per la sua stufa.

Tine si arrabbiava: “Ridi, ridi, tu. Tu non sei qui, tu non lo vedi, sono io quella che deve sciogliersi come una candela dalla vergogna. Tu sei lontano, tutto questo non ti riguarda più, ma io sono una madre, ho tre figlie in casa, devo…” “Tine, lo sai com’è fatto, non devi prendertela così per queste cose. Lo sai che non possiamo cambiarlo.” “Perché no? Sei tu che non vuoi ed è colpa tua, perché l’hai abbandonato. A te dà ascolto ma tu non gli dici niente. Figlio mio, torna a casa, per carità. Fa’ vedere alla gente che noi, che le mie figlie non hanno solo un padre sordomuto, ma anche un fratello che ha studiato. Dammi retta! Vieni a trovarci! È importante per il futuro delle tue sorelle!” Tine aveva ragione. Mi resi conto che mio padre cominciava a perdere qualche colpo. Adesso gli capitava più spesso di fare delle cose stupide, no, stupide non è la parola giusta, ma non riesco a trovarne un’altra. Come potevo fargli perdere l’abitudine di arrampicarsi sugli alberi a prendere i rami secchi? Non potevo stare sempre con lui e correggerlo.

Era fatto così e dovevamo accettarlo com’era. Ma Tine non ci riusciva.

Benché all’inizio non ne fosse particolarmente entusiasta, venni poi a sapere che mio padre era molto orgoglioso del suo negozio. Ovunque andasse tirava fuori di tasca la chiave e la mostrava a tutti: “Guarda, la chiave del mio negozio. L’ha aperto Ismail per me. Ismail studia nella città dello scià. Studia gli aerei. Se qualcuno ti tiene la mano davanti la bocca e ti chiude il naso muori, perché l’aria è molto importante.” Il negozio l’aveva salvato. Non vagava più per la città alla ricerca di clienti e quando d’inverno non aveva lavoro, non doveva più restare in casa: andava in negozio. Per questo raccoglieva i rami secchi che gli davano tranquillità e sicurezza.

Restava in negozio fino a notte fonda, perché, chissà, poteva arrivare un cliente o magari, inaspettatamente, Ismail.

Sul cammino per il negozio comprai una fascina di legna da ardere. La neve ghiacciata scricchiolava sotto i miei piedi. Il quartiere taceva, le luci erano spente dietro le finestre, le tende tirate, tutto era immerso in un sonno profondo, tranne il camino di mio padre. Il suo camino fumava ancora.

Una lucina gialla brillava fioca dietro la sua piccola finestra. Guardai cautamente all’interno. Era seduto sul tappeto, accanto alla stufa, chino su un libro posato su un tavolinetto.

“Dio! Che cosa sta leggendo?” Il suo atteggiamento era l’atteggiamento di uno studioso, anzi no, l’atteggiamento di un imam intento a leggere un libro nella moschea. No, neanche quello, forse più l’atteggiamento di un operaio, di un tessitore di tappeti che non leggeva il libro, ma voleva ripararlo. Sul tavolo c’erano i persiani arrotolati di alcuni clienti e, alla parete, era appeso un grande ritratto incorniciato dello scià in uniforme militare.

Mi spaventai: perché aveva appeso in negozio il ritratto di quel dittatore? Per un attimo mi arrabbiai, ma subito dopo pensai che anzi, forse era meglio così.

Aprii piano piano la porta, il cardine fece un cigolio secco. Avrei dovuto metterci un po’ d’olio, mi dissi. Scivolai dentro. La mia ombra cadde sul suo libro. Lui sollevò la testa, mi guardò, ma non mi riconobbe. Mi tolsi il cappello. Spuntò il suo sorriso timido.

“Hai i baffi, non ti avevo riconosciuto”, gesticolò e si alzò in piedi.

Pensai che volesse abbracciarmi, ma non lo fece. Continuò a guardarmi, guardò il mio cappello, i miei occhiali, i miei baffi. Gli porsi la mano: “Perché non mi dai la mano, papà? Guarda, ti ho portato della legna per la stufa.” Mi indicò un po’ vergognoso una catasta di rami secchi appoggiata alla parete, poi mi strinse cautamente la mano. Il fascio di legna lo appese con riverenza a un chiodo nel muro, dopo di che non lo toccò più.

“Perché mi guardi così?” gli chiesi. “Non mi offri un bicchiere di tè?” “Oh, sì, siediti.” Indicò il tappeto, ma poi si corresse. “No, non lì, aspetta.” Mi offrì una sedia. “Accomodatevi qui.” Pensava che fossi diventato un signore, un signore con un cappello. Rimisi a posto la sedia e mi sedetti per terra, vicino alla stufa. Lui mi versò un bicchiere di tè e poi rimase in piedi davanti a me, come un cameriere. “Perché non ti siedi?” Si sedette, ma a una certa distanza e con le mani sulle ginocchia. Era lui a volere così, perciò non insistetti.

“Di’ un po’, come stai?” gli chiesi. “Sei contento del negozio?” “Bene, contento, vi ringrazio”, rispose lui, chinando la testa.

“E Tine come sta?” “Bene anche lei, vi ringrazio.” Gli indicai il ritratto incorniciato dello scià e dissi: “Hai fatto appendere in negozio una fotografia dello scià.” Lui arrossì a quella mia osservazione e avrebbe voluto dire qualcosa, spiegarmi qualcosa, ma tacque e rimase seduto composto sul tappeto. Dopo un breve silenzio, gesticolò timidamente: “Tu come stai? Tutto bene?” “Sì, bene. Grazie mille”, risposi.

“Dove sei stato?“ proseguì. ”Perché non torni più a casa? Perché non telefoni? Campanellina aspetta le tue telefonate. È diventata grande. Vorrebbe vederti. Mi ha chiesto di dirtelo.

Io lo capisco. Tu non hai tempo. Tu devi leggere molti libri, ma telefona ogni tanto.“ “Va bene, lo farò, ma tu devi sapere che è diventato tutto difficile.” “Che cosa è diventato difficile? I libri?” “No, non i libri. Cioè sì, i libri. Anche i libri sono difficili. Quel ritratto sul muro, per esempio, lo sai chi è quell’uomo?” Lui gesticolò con orgoglio: “È il figlio di Reza Khan. Lo sai anche tu, è una persona importante. Si mette una corona d’oro in testa. Ha anche molti cavalli e fucili. E porta una pistola. Molto importante. Tutti i tessitori di tappeti della città hanno la sua fotografia in negozio. Anch’io. L’ho comprata, no, non comprata, me l’ha portata un tizio del comune e io l’ho fatta incorniciare. Bella, non trovi?” Non risposi. Stava per aggiungere ancora qualcosa, ma all’improvviso capì che io ero contrario al fatto che avesse appeso quel ritratto in negozio. Perciò si corresse e disse: “Trovi forse che non va bene?” “Sì, no, mi riferisco a un’altra cosa.” “Ma piace a tutti i tessitori di tappeti”, gesticolò lui timidamente. “La sua fotografia è appesa in tutti i negozi. È una brava persona, sai.” “Io la penso diversamente”, risposi.

“Che cosa vuol dire, diversamente?” “A me non piace.” “Perché no?” “Non è una brava persona.” Gesticolò rivolto al ritratto e fece per dire qualcosa. Ma poi tacque e posò le mani sulle ginocchia.

“È un po’ complicato da spiegare”, dissi. “Ti farò un esempio. Ti ricordi i poliziotti che quel giorno a scuola ti hanno picchiato in testa con i loro bastoni?” “Sì… sì, mi ricordo.” “Erano gli agenti della polizia dello scià. Anche a Teheran, all’università dove studio, ci sono molti di quegli agenti. Picchiano gli studenti, li arrestano e li mettono in prigione. Vogliono arrestare perfino me.” “Arrestare te? Perché? Che cos’hai fatto?” “Niente, per lo meno niente di particolare. Loro non vogliono che io legga certi libri. Che dica certe cose. Quei poliziotti vogliono che io onori lo scià, ma a me lui non piace. Mi perseguitano, mi vogliono prendere. Per questo non posso venire a trovarvi.” “Ah”, lessi nel suo gesto.

“E lo sai qual è la cosa grave? A Teheran i poliziotti non indossano l’uniforme. Portano dei vestiti normali, come te, come me. Tu non sai chi è un poliziotto e chi no. Io metto il cappello per non essere riconosciuto. Per questo i baffi e gli occhiali.” “Come puoi studiare i libri sulla luce e sull’aria se ci sono tutti quegli agenti?” Avrei voluto spiegarli che in quel momento non stavo studiando nessun libro sulla luce e sull’aria, ma non glielo dissi. L’avrei fatto soffrire e basta.

“Voglio dirti anche un’altra cosa. Ti ricordi il dottor Pur Bahlul? Il dentista?” “Sì, certo che me lo ricordo, il dottore…” “Lo sai chi l’ha arrestato? Lo scià, gli agenti dello scià. Ed è ancora in prigione. Gli sono marciti tutti i denti in prigione. Capisci che cosa intendo dire? Per questo odio lo scià. Tutte le persone importanti… tutte le persone che leggono i libri… come quel dottore, odiano lo scià.” Avevo il diritto di spiegargli quelle cose complicate con dei semplici esempi? Era proprio giusto che gli insegnassi le mie idee? Avrei dovuto lasciare a lui la scelta e accettare semplicemente le sue idee e la sua visione del mondo?

Adesso che ripenso a quegli anni con distacco, a volte un po’ mi dispiace e a volte no. Non poteva essere altrimenti, non potevo insegnargli le opinioni di un altro. Dovevamo essere una cosa sola, avere un’unica ideologia. Dovevo avvicinarlo a me, alla realtà che avevo imparato a conoscere, altrimenti si sarebbe perso nel mondo per lui sconosciuto di suo figlio. Mettiamo che mi arrestassero, che nel cuore della notte, all’improvviso, la polizia forzasse la porta di casa sua e la perquisisse per via delle attività di suo figlio, e che lui non ne sapesse niente.

Ritenevo che fosse mio compito spiegargli com’era fatto il mondo. Visto che la mia famiglia, i vicini, i conoscenti e perfino la natura mi avevano cresciuto perché gli facessi da guida, dovevo guidarlo e accompagnarlo a modo mio.

Devo dirlo una buona volta chiaramente, almeno a me stesso: forse se avessi avuto un padre diverso non avrei avuto bisogno di entrare in contatto con il movimento, o non mi sarei spinto così avanti, così in profondità. Fu l’essere figlio di un padre così a portarmi, a condurmi, a spingermi in quella direzione. Così stavano le cose. Dovevamo adattare il nostro passo l’uno all’altro. Lui doveva avvicinarsi a me e quindi al movimento di sinistra di cui ero attivista. Adesso dovevo informarlo che noi, i miei compagni e io, avremmo potuto avere bisogno di lui.

“I miei amici e io non vogliamo lo scià”, gli spiegai a gesti. “Lo scià deve andarsene.” Sulle prime lui non capì di cosa stessi parlando, continuò semplicemente a guardarmi in silenzio. Poi all’improvviso capì. Gli tremarono leggermente le mani.

“Che significa che deve andarsene? Che cosa intendi dire?” “Che deve andarsene e basta. Via, abbasso lo scià!” “Ma lui ha una pistola alla cintura.” Riflettei alcuni istanti. Dovevo farlo o no?

Ero indeciso, ma poi infilai la mano destra sotto il cappotto ed estrassi una pistola.