LA CAVERNA

Da Amsterdam ci vogliono più di cinque ore d’aereo per arrivare a Teheran. Poi bisogna fare altre quattro ore e mezza di treno prima di veder emergere, come un segreto antico di secoli, le magiche montagne della città di Senejan.

Senejan in sé non è una bella città ed è quasi priva di storia.

In autunno vi soffia un vento gelido e le cime innevate delle montagne le fanno da eterno sfondo.

La città non ha specialità gastronomiche né prodotti caratteristici. E l’antico fiume Shirpala è in secca, perciò i bambini possono giocare allegramente nel suo letto. Le madri controllano tutto il giorno che nessun estraneo attiri i loro figli in una delle fosse sul fondo.

L’unico poeta degno di nota di Senejan, morto ormai da tempo, ha scritto una volta dei versi sulla sua città. Parlano del vento che porta la sabbia e la sparge sopra la testa degli abitanti: Oh ah vento, Oh ah vento, ahi la sabbia negli occhi.

Oh mio cuore, oh mio cuore, già metà colmo di sabbia.

Ahi, c’è un granello di sabbia sul suo labbro.

Sabbia nei miei occhi, e, mio Dio, là, là, le sue labbra rosse (…)

E così continuano i versi.

Quando si teneva una serata di poesia in uno dei padiglioni del vecchio bazar, si ritrovavano solo vecchi a comporre rime sulle montagne e, soprattutto, su un antichissimo rilievo cuneiforme del tempo dei Sassanidi.

Una volta a Senejan diedero un film sulla Mecca in cui recitava Anthony Quinn. Fu un grande avvenimento. Migliaia di contadini e contadine che non avevano idea di cosa fosse un cinema attraversarono le montagne a dorso di mulo per venire fino in città ad ammirare Il Messaggio.

C’erano centinaia d’asini nella piazza del mercato. Il comune non sapeva più cosa fare. Per tre mesi le porte del cinema rimasero aperte giorno e notte, mentre gli asini mangiavano il fieno dalle mangiatorie lungo le mura della città.

Benché Senejan non contasse nella storia patria, i villaggi sulle montagne erano importanti, perché quei piccoli villaggini avevano sempre generato nomi di uomini che erano entrati nella storia. Come, per esempio, uno straordinario poeta, Ghaemmaghame Farahani, di cui tutti conoscono le poesie a memoria: Godaia rast guiand fetne az tost, wali az tars natwanam tiagidan.

Labo dandane torkane Gota ra be in gubi na baiad afridan (…)

Mio Dio, non oso dirlo ad alta voce ma è vero che tu stesso sei la causa dei problemi, non avresti altrimenti dato alle donne di Gota* bocca e denti così belli (…)

In quei villaggi nascono ragazze capaci di annodare i più bei tappeti persiani. Tappeti con cui si può volare. Volare davvero. E da lì che provengono i famosi tappeti volanti.

Neppure Aga Akbar era nato a Senejan, ma in uno di quei villaggi. A Zafferano, nel quartiere di Jeria. Un villaggio che in primavera è coperto di fiori di mandorlo e in autunno di mandorle.

Aga Akbar era nato sordomuto. I suoi familiari, e in particolare sua madre, gli parlavano in una semplice lingua di gesti. Una lingua che possedeva al massimo cento segni. Una lingua che in realtà funzionava soltanto in casa, tra i membri della famiglia, e che un po’ capivano anche i vicini. Ma la sua efficacia era soprattutto evidente nei dialoghi tra la madre e Aga, e, in seguito, tra Aga e Ismail.

Aga Akbar non sapeva niente del grande mondo, ma conosceva le cose semplici. Sapeva che il sole splendeva e lo riscaldava, ma non sapeva, per esempio, che era una grande palla di fuoco. E non sapeva che senza il sole non era possibile la vita. Non aveva neppure la più vaga idea che un giorno il sole si sarebbe spento, come una lampada rimasta senza olio.

Non capiva perché, a volte, la luna fosse giovane e poi, pian piano, invecchiasse di nuovo. Non sapeva niente della forza di gravità e non aveva mai sentito parlare di Archimede. Non si rendeva conto che la lingua persiana era formata da 32 lettere: alef, be, pe, te, se, jim, ce, hé, ghé, dal, zal, re, ze, zjé, sin, shin, sad, zad, ten, zen, een, gheen, fe, ghaf, kaf, lam, mim, nun, waw, ha, jé. La pe di parastu*, la ghé di ghorma* e la te di talebi*, la ‘een’ di eeshg*. Il suo mondo era il mondo del suo passato, di ciò che era trascorso, di ciò che aveva imparato e dei suoi ricordi.

Le settimane, i mesi e gli anni non sapeva cosa fossero. Per esempio, quand’era stata la prima volta che aveva visto quella strana cosa in cielo? Il tempo non aveva per lui significato.

Il villaggio di Aga Akbar era isolato. Non vi succedevano molte cose. Non vi era traccia del mondo moderno. Niente biciclette. Niente macchine da cucire.

Aga Akbar una volta, da piccolo, si trovava in un pascolo di montagna con le pecore di suo fratello, che era pastore. All’improvviso il cane saltò su una roccia e si mise a fissare il cielo.

Era la prima volta che un aereo sorvolava il villaggio. Forse era addirittura il primo aereo che attraversava il cielo persiano.

Dopo quegli aggeggi cominciarono ad apparire sempre più spesso sopra al villaggio. Allora i bambini salivano di corsa sui tetti e cantavano in coro: Ehi, ehi, strano uccello di ferro, vieni a posarti e a riposarti un po’, là sul vecchio mandorlo della piazza del villaggio.

“Che cosa cantano?” domandava da piccolo Aga Akbar a sua madre.

“Chiedono all’uccello di ferro di venire a posarsi sull’albero.” “Ma non è possibile.” “Sì, lo sanno benissimo anche loro, ma fantasticano.” “Che cosa vuol dire fantasticare?” “Semplicemente pensare. Nella loro testa vedono quell’uccello che si posa sull’albero.” Quando sua madre non riusciva a spiegarsi, Aga Akbar sapeva che non doveva fare più domande e accettare la cosa così com’era.

Aveva più o meno sei o sette anni quando un giorno sua madre, nascosta dietro un albero, gli indicò un cavaliere. Un nobile, che portava un fucile a tracolla.

“Quello è tuo padre.” “Quello?” “Sì. Quell’uomo è tuo padre.” “Allora perché non viene a casa?” Nella loro lingua dei gesti, sua madre si mise unacorona in testa, spinse il petto in fuori e disse: “È un principe, un nobile. Un uomo colto. Ha molti libri e una penna. Scrive.” Hajar, la madre di Aga, lavorava come cameriera nel castello del principe, dove il nobile viveva con sua moglie e i suoi undici figli. Ma poiché si era accorto che lei era diversa, il principe l’aveva portata nel piccolo castello sul Monte Lalezar, dove conservava i suoi libri e aveva il suo studio.

Era Hajar che riordinava lo studio, spolverava i libri, riempiva d’inchiostro il calamaio e teneva pulite le penne d’oca. Preparava da mangiare per il principe e si assicurava che in casa ci fosse sempre una scorta di tabacco sufficiente. Gli lavava il cappotto e il vestito e gli lucidava le scarpe. Quando il principe doveva partire, gli porgeva il cappello e teneva il cavallo per le redini mentre lui montava in sella.

“Hajar!” la chiamò un giorno il nobile, mentre sedeva al tavolo del suo studio intento a scrivere.

“Altezza?” “Portami del tè, poi voglio parlarti.” Hajar gli portò un bicchiere di tè su un vassoio d’argento. (Quel vassoio si trova ancora oggi sulla mensola del camino della moglie di Aga Akbar).

“Siediti Hajar!” le disse lui.

Ma Hajar non si sedette, rimase in piedi.

“Avanti, prendi una sedia. Puoi sederti.” Lei si sedette sulla punta della sedia.

“Hajar, devo farti una domanda. C’è un uomo nella tua vita?” Hajar tacque.

“Rispondi. Ti ho chiesto se c’è un uomo nella tua vita.” “No, altezza.” “Ti voglio come mia moglie–sige*. Lo vuoi anche tu?” Era una domanda imprevista.

“Questo non lo decido io, altezza”, rispose Hajar. “Dovete chiederlo a mio padre.” “Sì, sì, certo lo chiederò a tuo padre. Ma voglio sapere se anche tu lo desideri.” Hajar rifletté alcuni istanti con la testa china sul petto. Poi disse chiaramente: “Sì, altezza, lo voglio.” Quella sera stessa l’imam del villaggio accompagnò suo padre allo studio del principe. Lesse una breve sura dal libro sacro, Aan kahto wa zawagto (…)* e dichiarò Hajar moglie di Aga Hadi Mahmude Gazanwiie Gorasani. Quindi le spiegò che poteva restare incinta, ma che i suoi figli non avrebbero portato il nome del padre. Inoltre non avrebbero avuto diritto alla sua eredità. Il padre di Hajar ricevette un giardino con alberi di mandorlo, di cui avrebbe dovuto dividere il ricavato con lei. Una metà era per lui, l’altra per Hajar e i figli che negli anni avrebbe avuto. E alla sua morte l’intero giardino sarebbe diventato di Hajar e dei suoi figli.

Dieci minuti dopo, l’imam e il padre se ne andarono. Hajar restò.

Indossava un chador verdazzurro che aveva ereditato da sua madre.

Quel mattino presto era andata ai bagni del villaggio. In segreto si era rasata tutti i peli del corpo. Poi aveva immerso le dita dei piedi nell’henné e la punta delle dita delle mani nella linfa rossa della runas*, perché la sua pelle l’assorbisse e le dita si colorassero.

“Hajar, questa notte dormirò qui”, disse il principe.

Hajar preparò il letto.

Aga Hadi Gorasani prese posto accanto a lei. Lei lo accolse.

Hajar partorì sette figli. Aga Akbar fu l’ultimo e nacque sordomuto.

Hajar se ne accorse fin dal primo mese. Vedeva che il bambino non reagiva. Ma non voleva crederci. Non lo lasciava mai solo e non permetteva a nessuno di restare con lui a lungo. Resistette per sei mesi. In realtà tutti sapevano che il bambino era sordo, ma nessuno poteva dire niente. Alla fine Kazem Gan*, il fratello più vecchio di Hajar, decise che era ora di occuparsi della faccenda. Kazem Gan era un uomo libero che andava sempre a cavallo sulle montagne. Era un poeta e viveva solo su una collina fuori dal villaggio, ma aveva sempre una donna. Nella luce della sua finestra gli abitanti del villaggio vedevano ogni volta una donna diversa.

Nessuno sapeva che cosa facesse e dove andasse in groppa al suo cavallo.

Quando la luce era accesa, sapevano che era in casa. Il poeta è in casa, dicevano allora.

Altro non sapevano di lui, ma quando il villaggio aveva bisogno di lui, Kazem Gan era sempre pronto a dare il suo aiuto. In quei momenti era la voce del villaggio. Se una piena improvvisa inondava il letto asciutto del fiume e l’acqua entrava nelle case, lui arrivava subito in groppa al suo cavallo e sapeva come fermare la piena. Se all’improvviso morivano dei bambini e le altre madri cominciavano a temere per la vita dei loro figli, lui spuntava dal nulla in groppa al suo cavallo con un dottore seduto dietro. Ed era un onore per la sposa e per lo sposo del villaggio se faceva una breve comparsa alla loro festa.

Questo Kazem Gan entrò a cavallo nel cortile della casa di Hajar. E senza smontare di sella, all’ombra del vecchio albero, chiamò: “Hajar! Sorella mia!” Hajar aprì la finestra.

“Benvenuto, fratello. Perché non entri?” “Vieni a trovarmi questa sera con il bambino? Voglio parlarti.” Hajar sapeva che voleva parlarle del figlio e capì che non avrebbe più potuto tenerlo nascosto.

Verso sera Hajar si legò il bambino sulla schiena e salì sulla collina dove sorgeva la casa che gli abitanti del villaggio chiamavano un gioiello caduto tra i vecchi noci.

Kazem Gan fumava l’oppio, cosa che era generalmente accettata e perfino considerata un segno della sua nobiltà poetica.

Aveva preparato il fornelletto con il fuoco acceso, la pipa era posata sulla cenere calda, l’oppio giallobrunastro, tagliato sottile, era pronto su un piattino. Il samovar bolliva.

“Siediti, Hajar. Tra poco potrai scaldarti qualcosa da mangiare. Dammi un attimo il bambino. Come hai detto che si chiama? Akbar? Aga Akbar?” Titubante Hajar consegnò il figlio a suo fratello.

“Quanto ha? Sette, otto mesi? Tu va’ pure a mangiare qualcosa, voglio restare un po’ solo con lui.” Hajar sentiva un grosso peso sulle spalle. Non riusciva a mangiare e si mise a piangere.

“No, no, non devi piangere. Non fare quella faccia triste. Se continui a nasconderlo, se ti rassegni, crescerà stupido. In questi sei, sette mesi non ha visto né fatto niente, non ha avuto nessun vero contatto con il mondo esterno. In tanti villaggi, sulle montagne, mi capita di vedere bambini sordi e muti. Tutto quello che ci serve è una lingua, una lingua di gesti. E dobbiamo inventarla noi. Ti aiuterò io. Da domani affiderai il bambino anche ad altre persone. Lascia che entrino in contatto con lui, ciascuno a suo modo.” Hajar prese il bambino e lo portò con sé in cucina. Lì scoppiò di nuovo in lacrime. Lacrime di sollievo.

Più tardi, dopo aver fumato alcune pipe d’oppio che l’avevano reso leggero e allegro, Kazem Gan andò a sedersi vicino a lei.

“Ascoltami, Hajar. Non so perché, ma sento di dover esercitare un’influenza sulla vita di questo bambino. Non ho mai avuto una sensazione del genere con gli altri tuoi figli. Soprattutto perché sono figli di quel principe. E io non voglio avere niente a che fare con lui. Ma prima che tu vada via, devo dirti ancora alcune cose, cose importanti per il futuro del bambino. Anche quel principe deve sapere che sono lo zio di Akbar.” Il giorno dopo Hajar portò Akbar al castello. Mai prima di allora aveva mostrato uno dei suoi figli al loro padre. Bussò alla porta dello studio ed entrò con Akbar in braccio. Esitò un attimo, poi posò il bambino sulla scrivania e disse: “Mio figlio è sordomuto.” “Sordomuto? Che cosa posso fare per te?” Ci volle un po’ prima che Hajar riuscisse a guardare il principe diritto negli occhi.

“Date a mio figlio il vostro nome.” “Il mio nome?” disse il principe e tacque.

“Se gli darete il vostro nome, non tornerò mai più al castello”, aggiunse Hajar.

Il principe continuò a tacere.

“Una volta mi avete detto che provavate simpatia per me, e altre volte che avevate rispetto per me. Dicevate che mi sarei sempre potuta rivolgere a voi. Non l’ho mai fatto, perché non avevo bisogno di niente. Adesso vi chiedo, lasciate che mio figlio porti il vostro nome. Soltanto il vostro nome. Non chiedo un’eredità. Fate mettere per iscritto il nome di Akbar.” “Dagli da mangiare”, disse il principe dopo un po’. “Non farlo piangere così.” Poi si alzò, aprì la finestra e chiamò il suo servo.

“Fa’ venire l’imam. Adesso. Lo aspetto.” Poco dopo l’imam arrivò. Hajar dovete attendere in un’altra stanza. Il colloquio avvenne a porte chiuse. L’imam scrisse alcune frasi sul suo libro. Poi redasse un atto e il principe lo firmò. Fu presto fatto. L’imam tornò al villaggio col suo mulo.

“Ecco, Hajar, questo è ciò che volevi. Ma ricordati una cosa: nascondi questo foglio e tienilo segreto. Quando morirò potrai mostrarlo agli altri.” Hajar nascose il foglio sotto i vestiti e fece per baciargli la mano.

“Non occorre, Hajar. Torna pure a casa. E vieni a trovarmi regolarmente. L’ho sempre detto e lo ripeto anche adesso: provo davvero affetto per te e voglio continuare a vederti.” Hajar si legò di nuovo il figlio sulla schiena e se ne andò. Quando scese dalla montagna, sapeva di portare con sé un bambino con un nome antico e importante: Aga Akbar Mahamude Gazanwiie Gorasani.

L’atto si rivelò un foglietto senza valore, perché, quando il principe morì, i suoi eredi corruppero l’imam del villaggio e lui cancellò il nome di Aga Akbar dal testamento. Ma questo non aveva importanza per Hajar, perché non si era mai aspettata un’eredità per suo figlio, il nome bastava. Aveva un padre famoso e le sue radici erano là nell’antico castello sul monte Lalezar.

Quando Akbar diventò adulto, si sposò ed ebbe dei figli. E benché fosse un semplice annodatore di tappeti, fu sempre orgoglioso delle sue origini. Portava il foglio con il suo lungo nome sempre con sé.

Parlava spesso di suo padre e voleva che soprattutto suo figlio Ismail sapesse che suo nonno era un uomo importante, un cavaliere con un fucile a tracolla.

Il principe era stato ucciso da un russo. Ma da chi, di preciso, nessuno lo sapeva. Un soldato? Un gendarme? O un ladro che aveva varcato di nascosto il confine?

Le montagne su cui Aga Akbar e i suoi antenati vivevano confinavano con la Russia, allora ancora Unione Sovietica. Il versante meridionale apparteneva all’Iran, quello settentrionale, sempre coperto da uno spesso strato di neve, alla Russia.

Ma che cosa ci facesse quel soldato, o l’esercito dei russi, su quelle montagne, nessuno lo sapeva.

L’unica cosa che rimase dell’omicidio fu una storia che, grazie ad Aga Akbar, continuò a vivere.

Non appena restavano soli in casa, Akbar la raccontava a Ismail, che poi doveva recitare la parte del cavaliere. Lui invece faceva il soldato russo, con un lungo cappotto militare e un berretto su cui si vedeva chiaramente una piccola figura rossa.

Ismail cavalcava con un cuscino tra le gambe e un fucile di legno a tracolla. Aga Akbar indossava il cappotto, metteva il berretto e si nascondeva dietro il grande armadio. Una roccia del monte Zafferano*.

A quel punto Ismail doveva avanzare in groppa al suo cavallo. Non troppo forte, non troppo piano, ma composto come un principe. Passava davanti all’armadio e, in quel momento, da dietro il mobile spuntava una testa. Il cavaliere doveva proseguire per un metro o due, fino a quando, all’improvviso, sbucava il soldato con un coltello in mano e, in due o tre balzi, raggiungeva il cavaliere e gli piantava il coltello nella schiena. Il cavaliere cadeva a terra morto.

Quel racconto sarà anche stato frutto della sua fantasia, ma alla morte della madre Aga Akbar assistette davvero.

“Quanti anni avevi quando Hajar morì?” gesticolò Ismail.

Aga Akbar non aveva la nozione del tempo.

“Hajar morì quando uno stormo di misteriosi uccelli neri si posò sul nostro vecchio mandorlo.” “Misteriosi?” “Non li avevo mai visti prima.” “E quanti anni avevi quando quegli uccelli neri si posarono sull’albero?“gesticolò Ismail.

“Avevo freddo alle mani e l’albero non aveva più le foglie e Hajar non mi parlava più.” “No, intendo dire quanti anni: quanti, quanti anni avevi tu quando tua madre morì?” “Io, Akbar. La mia testa arrivava al petto di Hajar.” Aveva circa nove o dieci anni, raccontò in seguito Kazem Gan. Hajar era a letto, gravemente malata. E Akbar si infilò sotto le coperte e si strinse a lei.

“L’hai tenuta stretta finché è morta?” gesticolò Ismail.

“Oh, sì… Ma come fai a saperlo?” “Me l’ha detto zio Kazem Gan.” “Mi infilai sotto le coperte. Quando era malata mi parlava e mi teneva la mano. Ma adesso non mi parlava più e non muoveva più neanche la mano. Avevo paura, tanta paura, rimasi sotto le coperte e non osavo più uscire. Poi qualcuno mi afferrò, una mano dall’esterno, e cercò di portarmi via. Io mi aggrappai al corpo di Hajar. Ma Kazem Gan mi staccò da lei. Piansi.” Il giorno dopo, la donna più anziana della famiglia coprì il volto di Hajar con un telo bianco. Vennero alcuni uomini con una bara e la portarono al cimitero.

Dopo il funerale Kazem Gan prese il piccolo Akbar e si allontanò con lui sul suo cavallo.

“Volevo che facesse conoscenza con la morte“, raccontò più tardi a suo nipote Ismail. ”Lo portai con me su in montagna, alla ricerca di qualcosa che gli facesse capire che la morte è parte della vita.

Cercai in mezzo alla neve un uccello morto, una volpe morta o magari un lupo, ma quel giorno d’inverno gli uccelli volavano più vitali che mai e i lupi saltavano sulle rocce. Mi fermai, lo feci sedere su un sasso e gli mostrai le piante della montagna, sepolte dalla neve. Guarda! Anche queste piante sono morte. Ma non era un buon esempio. Poi vidi un vecchio camoscio, che saltava faticosamente da una roccia all’altra. Lo vedi? Uno di questi giorni anche quel camoscio morirà. No, neanche quello era un buon esempio.

Avrei voluto che un uccello smettesse improvvisamente di volare e cadesse a terra. Ma quel giorno non c’era verso che ne cadesse uno.

Ripresi Akbar a cavallo con me e proseguimmo.

A un certo punto vidi in lontananza il castello del principe. Era disabitato dal giorno della sua morte. Mi diressi là.

Perché in realtà?

Non lo sapevo. Pensai: poi vedremo.

Cautamente condussi il cavallo sul retro. Aga Akbar non capiva cosa volessi fare. Mettiti in piedi sul cavallo, gesticolai, e arrampicati sul muro!

Perché? gesticolò lui.

Non voleva. Così lo feci io, salii in piedi sul muro. Poi mi sdraiai. Avanti, su, dammi la mano.

Lo afferrai, lo tirai su e lo aiutai a salire sul muro. Così, avanzando carponi, arrivammo fino alla scala.

Non guardarmi così stupito, gli dissi quando fummo arrivati. Non voleva scendere.

Che cosa facciamo? gesticolò.

Niente, diamo solo un’occhiata in giro. Avanti. Questo castello è anche tuo.

Cautamente scendemmo la scala. Per qualche istante dimenticò sua madre. Lo vidi perfino sorridere.

Arrivammo così nel cortile. Nemmeno io ero mai stato in quel castello. Pensavo fosse tutto chiuso a chiave, invece le porte erano aperte. Pensavo che le camere fossero vuote e invece no, ogni cosa era ancora al suo posto. Il vento aveva spalancato la porta che dava sul cortile e la neve era arrivata fino a metà corridoio. Cautamente entrammo.

Tutto era polveroso, perfino i preziosi tappeti persiani erano coperti da un velo di sabbia. Camminandoci sopra restavano le impronte. Da quelle impronte si capiva che un uomo e un bambino erano entrati in quelle stanze.

Dammi la mano, Akbar. Lo vedi? Questo è morto.

Cercai lo studio, la biblioteca del principe. Akbar osservava stupito gli oggetti, i candelabri alle pareti, gli specchi, i quadri. Guarda bene, gli dissi, osserva quei ritratti, quegli uomini sono tuoi antenati. Vieni, guarda, oh Allah, Allah, guarda quanti libri.

Non pensavo che sul monte Zafferano potessero esserci così tanti libri. Ehi, Akbar, vieni un po’ qui, guarda questo libro, è scritto a mano. Vediamo un po’ cosa dice: Godaia rast guiand fetne az tost, wali az tars natwanam tiagidan.

Labo dandane torkane Gota ra Be in gubi na baiad afaridan (…)

Estrassi una delle pergamene del libro. Vi era disegnato un antico albero genealogico. Vedi questi nomi? Tutti questi uomini hanno un libro. Anche tu puoi scrivere un tuo libro. Una cosa per te stesso. Scrivere? gesticolò Akbar.

Ti insegnerò io. Cercai nel cassetto un quaderno vuoto e ne trovai uno. Tieni, mettilo in tasca. E adesso vieni, muoviti, andiamo.“ Cautamente lasciarono il castello e tornarono a casa. Per prima cosa Kazem Gan dovette fumare e bere due, tre tazze di tè forte. “Dove sei, Akbar, vieni qui,prendi una zolletta di zucchero. È squisito, bevi un sorso di tè. È zucchero russo di prima qualità. Dove hai messo il quaderno? Siediti qui vicino a me. L’oppio non fa bene, non dovrai mai fumarlo. Se io non fumo in tempo comincio a tremare tutto. Ma quando fumo, scrivo versi divini. Prendi il quaderno. Scrivici sopra qualcosa.” “Non so scrivere e nemmeno leggere”, gesticolò Akbar.

“Quello non serve, leggere non serve, ma scrivere sì. Scarabocchia qualcosa sul tuo quaderno. Ogni giorno una pagina, o che so, qualche frase. Avanti, va’ di sopra, scrivi qualcosa e poi fammela vedere.” Quando ebbe finito di fumare, Kazem Gan si alzò e salì al piano superiore.

“Dove sei, Akbar? Non hai ancora scritto niente? Non importa, ti insegnerò io. Vedi questo letto? Da oggi sarà il tuo letto. Apri la finestra e guarda le montagne. Questo bel panorama è per te. Apri le ante dell’armadio a muro. Anche questo armadio è per te. Puoi metterci dentro le tue cose. Ecco, questa è la chiave della tua camera.” Se uno si sedeva alla finestra di quella stanza, non riusciva a trovare la concentrazione per leggere o scrivere, si lamentò Kazem, perché restava incantato dalla natura, dal panorama. E allora doveva chiudere il libro, infilare la penna in tasca e andare a prendere la pipa, tagliare finemente i rotoli d’oppio, metterne un po’ sulla pipa, prendere con le pinze un tizzone ardente e fumare, fumare e ancora fumare, e soffiare il fumo verso il panorama e guardarlo.

Prima vedeva gli antichi noci, poi i melograni, quindi un paesaggio con fiori gialli selvatici e un campo ricoperto di arbusti color oppio. E vedeva come in basso i fiori gialli e gli arbusti giallobruni si mescolassero e crescessero fino ai piedi della montagna. E, sopra tutto, si ergeva il monte Zafferano.

Se qualcuno fosse riuscito ad arrampicarsi fino in cima al monte Zafferano e a rimanere per un attimo dritto in piedi in quel punto difficile tenendo anche in mano un binocolo, avrebbe potuto distinguere, se non c’era nebbia, e un po’ a fatica, i contorni di una costruzione e i soldati dell’Esercito Rosso. Là c’era il confine, la frontiera. Ma fino al giorno in cui Aga Akbar si era trovato davanti alla finestra con Kazem Gan, nessun abitante del villaggio era mai riuscito a raggiungere la cima del monte Zafferano.

Il monte Zafferano è una montagna famosa in Iran, non tanto per la sua vetta quasi irraggiungibile, quanto soprattutto per la sua celebre grotta di importanza storica. Il monte Zafferano è un concetto nel mondo dell’archeologia. La grotta si trova a metà della montagna, in un punto difficilmente accessibile, dove, a quei tempi, i lupi dormivano negli inverni freddi e partorivano i cuccioli a primavera.

Se uno scalatore si arrampicava sulla parete con le sue corde e i suoi chiodi e raggiungeva la grotta, trovava ovunque peli di lupo e ossa di camosci divorati dai lupi.

In primavera poteva capitare di vedere nell’apertura della caverna i piccoli che chiamavano la madre.

In fondo a quella grotta, al buio, sulla parete sud, c’è inciso una specie di quadro. Ha più di tremila anni. È un testo a caratteri cuneiformi scolpito nella roccia, dove il tempo, il vento, il sole e la pioggia non possono raggiungerlo. Quell’iscrizione è un ordine del primo re persiano. Un segreto che non è stato ancora decifrato.

Ogni tanto, di rado, dalle finestre della casa di Kazem Gan, si vedeva un cavaliere, un esperto di scrittura cuneiforme – un inglese, un francese o un americano – entrare nella grotta a dorso di mulo. Voleva dire che si faceva un nuovo tentativo di decifrare il testo.

“Vieni! Prepara i muli”, gesticolò Kazem Gan rivolto ad Akbar.

“Dove andiamo?” “Alla grotta.” “Perché?” “Per imparare a scrivere. Ti insegnerò a scrivere”, rispose Kazem Gan.

Si misero abiti pesanti, montarono ciascuno in groppa a un robusto mulo e salirono verso il monte Zafferano. Non c’erano sentieri che portavano alla grotta. I muli fiutavano il terreno, individuavano le tracce dei camosci e, pian piano, salivano. Dopo tre o quatto ore di salita raggiunsero l’imboccatura della grotta.

“Aspetta”, gesticolò Kazem Gan. “Prima dobbiamo cacciare i lupi.” Prese il fucile che portava a tracolla e sparò tre colpi in aria. I lupi fuggirono.

Zio e nipote scesero dai muli ed entrarono nella grotta. Kazem Gan accese la lampada a olio e così avanzarono sempre più verso il fondo della grotta, tirandosi dietro i muli.

“Su, vieni. Seguimi.” “Perché vai dove c’è buio?”gesticolò Akbar.

“Ancora un po’ di pazienza. Vieni. Guarda! Lassù! Lassù in alto!” disse Kazem Gan, sollevando la lampada.

“Lo vedi?” “Che cosa devo vedere?” gesticolò Akbar. “Io non vedo niente.” “Aspetta, cerco un bastone.” Kazem Gan cercò un bastone nella grotta, ma non lo trovò.

“D’accordo, tieni le redini.” Kazem Gan montò sul mulo e sollevò nuovamente la lampada.

“La vedi? Quella cosa sul muro. Mettiti lì, così puoi vederla meglio. Aspetta che adesso scendo. Sta’attento. Lo sai che cos’è? È una lettera. La storia di un re, di un grande re.

Una volta nessuno sapeva leggere e scrivere. La carta non esisteva ancora. Per questo il re ordinò che la sua parola fosse scolpita sulla parete di questa grotta. Tutti gli stranieri che vengono quassù a dorso di mulo lo fanno per leggere questa storia del re. Prendi il quaderno e la penna. Su, avanti! Io tengo il mulo contro la parete e tu monti in piedi sulla groppa. Sì, in piedi sul mulo. Oplà! Tutto a posto? Ah, guarda, appendi la lampada lassù. Così vedrai meglio. E adesso prendi nota. Guarda bene il testo, tutte quelle parole scolpite e scrivile una per una sul quaderno. Forza, comincia. Non avere paura. Tengo io il mulo. Avanti, scrivi!“ Che Aga Akbar avesse capito le intenzioni di suo zio oppure no, iniziò a copiare il testo. Osservò il testo cuneiforme e cercò di trascrivere una per una sul suo quaderno quelle figure a forma di cuneo. Tre pagine piene.

“Ho finito”, gesticolò.

“Bene, rimetti in tasca il quaderno. E adesso scendi piano.” Quella sera, mentre ancora una volta fumava l’oppio a casa, Kazem Gan, disse ad Aga Akbar: “Prendi il quaderno. Vieni a sederti qui accanto al fornelletto. Dammi la penna e ascoltami bene: oggi hai copiato la lettera di quel re. Lo sai di cosa parla?” “No.” “Quella che hai copiato è una lettera, qualcosa che era nella testa di quel re. Ma quale sia il contenuto di quella lettera, nessuno lo sa. Eppure c’è. E tu adesso, anche tu puoi scrivere una lettera, qui, sulla pagina dopo, e un’altra volta un’altra lettera su un’altra pagina ancora. Puoi scrivere quello che hai in mente, come il re. Su, prova!” Anni dopo, quando aveva circa sedici anni e viveva in città, Ismail, il figlio di Aga Akbar andò a trovare il suo vecchio prozio sulle montagne. “Ma zio Kazem Gan, perché non avete insegnato a mio padre a scrivere e a leggere normalmente, come tutti gli altri?” gli domandò una sera a cena.

“A quali altri ti riferisci? Oggi uno deve imparare a scrivere, ma una volta non ce n’era bisogno. Soprattutto qui, sulle montagne. Perfino l’imam del villaggio faceva fatica a scrivere il suo nome. Chi poteva a quel tempo insegnare una lingua a un bambino sordomuto? Io non ero la persona adatta. Semplicemente, non avevo la pazienza per farlo. Io ero uno incapace di starmene in casa. Dovevo sempre andare via, stare sempre in groppa al mio cavallo e cavalcare.

Per certe cose ci vuole un padre esperto e una madre forte. No, io non volevo affatto insegnare a scrivere ad Akbar. Ma sentivo, mi accorgevo che la sua mente produceva frasi, creava storie: capisci quello che voglio dire?

Quel talento, quelle frasi che riempivano la sua mente, potevano ucciderlo. Soffriva sempre di mal ditesta e io ero l’unico a capirne la ragione. È per questo che gli ho insegnato a scrivere in caratteri cuneiformi. A scrivere e basta. Come avrebbe fatto, non lo sapevo. E se gli avrebbe fatto bene, nemmeno. Cercavo una soluzione. Senti, quell’incisione, la scrittura cuneiforme di quel re, nessuno la sa leggere, forse quell’enigma non verrà mai risolto. Ma intanto quel re ha messo per iscritto i suoi pensieri. Hai mai guardato nel quaderno di tuo padre?“ “No, cioè sì, ogni tanto vedo che scrive qualcosa.” “Hai mai provato a leggere quello che scrive?” “Ma no, è impossibile.” “Puoi benissimo chiedergli di insegnarti.” “E voi? Voi sapete leggerlo?” “No, ma so di cosa parla. Una volta… Dio, quand’è stato? Una volta sono entrato in camera sua mentre stava scrivendo. Credo che avesse più o meno la tua età. Era solo più forte di te. Spalle larghe, capelli scuri, occhi chiari, ma questo ha poca importanza. Vidi che stava scrivendo. Fammi vedere, gli dissi. Raccontami quello che hai scritto.

Lo sai, allora era spesso in contatto con gli stranieri che salivano alla grotta. Cercavano di capire il testo. Credo che avesse imparato qualcosa da quegli studiosi, qualcosa a proposito di altre iscrizioni o di una presunta traduzione. Spiegami un po’ quello che hai scritto, gli chiesi. All’inizio non voleva, si vergognava, ma io lo misi alle strette. Volevo sapere se il mio metodo funzionava.

E lui lesse. Ascolta, lo so ancora a memoria, meraviglioso: “Io, io, io. Io sono il figlio del cavaliere, il cavaliere del castello, il castello sulla montagna, la montagna dove c’è una grotta, e nella grotta c’è una lettera. La lettera di un re. Una lettera nella roccia. Del tempo in cui non c’erano ancora le penne, ma solo il martello e lo scalpello.” Più tardi, cresciuto, Aga Akbar diventò una guida. Accompagnava gli specialisti di scrittura cuneiforme, americani, inglesi, francesi e tedeschi che, a dorso di mulo, salivano alla grotta. E se volevano scattare fotografie o trascrivere per l’ennesima volta il testo, lui si metteva in piedi sul mulo e teneva sollevata la lampada.

Chi ha interesse per la scrittura cuneiforme, o si occupa di quel genere di incisioni, ha sempre a casa uno o più libri sull’argomento. E in quei libri ci sono sempre fotografie che mostrano l’iscrizione della grotta del monte Zafferano. Tra quelle ce n’è una in cui si vede il giovane Aga Akbar in piedi sul mulo che illumina il testo con una lampada a olio.