LA MOGLIE
Presumiamo che in questa parte Aga Akbar abbia scritto dei suoi amici.
E anche di sua moglie.
Tutti gli uccelli avevano cominciato a fare il nido, tranne Aga Akbar. Per lui non c’erano innamorate. Non c’era una moglie.
Gli altri uomini forti, che, come lui, si erano costruiti una casa di pietra, avevano già dei figli, ma la sua casa era ancora vuota.
In quel periodo Aga Akbar venne sempre più spesso in contatto con le prostitute. Era una conseguenza del suo lavoro, delle numerose persone che frequentava. Andava ad aggiustare i tappeti a casa di clienti di ogni tipo.
All’età di dodici anni, Kazem Gan l’aveva portato alla bottega di un suo vecchio amico, che abitava in un altro villaggio. Ussa* Golam aveva la sua bottega tra le montagne e, con i fiori e le radici di ogni specie di pianta che cresceva sul monte Zafferano, faceva tinture naturali. Chiunque, in qualsiasi parte del villaggio, cercasse i colori originali dei tappeti, doveva rivolgersi a lui.
In realtà Ussa era un riparatore di tappeti antichi. C’erano sempre tappeti antichi e preziosi che si rovinavano e, se non si facevano aggiustare, a poco a poco si consumava anche il resto del tessuto. Ma non si affida un tappeto a chiunque, perché se uno non conosce bene il suo mestiere, la riparazione resterà per sempre come una ferita nuova nel vecchio disegno del tappeto. E Ussa Golam era uno dei più abili riparatori di tutto il paese. Ma era invecchiato, i suoi occhi non funzionavano più tanto bene e non riusciva più a lavorare.
Kazem Gan sapeva che Aga Akbar non sarebbe mai potuto diventare un bravo contadino. Non era il tipo da arare la terra, o da badare per tutta la vita a dieci o venti pecore. Doveva fare un lavoro per cui bisognasse usare le mani, le mani e la testa. Per questo Kazem Gan l’aveva portato da Ussa Golam.
“Salam eleikom*, Ussa! Ecco il ragazzo di cui ti ho parlato. Ehi, Akbar, dà la mano a Ussa.” Il vecchio frugò nella tasca della giacca e tirò fuori il filo color porpora di un tappeto antico: “Tieni, va’ a raccogliere dei fiori adatti a questo filo!” Così Aga Akbar compì il primo passo della sua carriera, il lavoro che avrebbe fatto per tutta la vita.
Per tre anni, tutte le mattine di buon ora andava da Ussa e la sera, appena faceva buio, tornava a casa. Poi Ussa morì. Ma Akbar aveva ormai acquisito sufficienti conoscenze da saper riparare i tappeti e creare tinture naturali.
Nessuno poteva colmare il vuoto lasciato da Ussa, ma nel frattempo Akbar si era fatto una certa fama nella regione. Gli abitanti dei villaggi l’avevano in simpatia. Si fidavano di lui, preferivano avere in casa Aga Akbar che un estraneo. Così andava a cavallo da un villaggio all’altro. Fu in quel periodo che venne in contatto con le prostitute.
Kazem Gan era molto severo nella ricerca di una moglie per il nipote. Non voleva una guercia o una contadina che annodasse tappeti. No, cercava una donna forte, capace di usare il cervello, una donna in grado di provvedere a tutto, una donna che capisse chiaramente per chi avrebbe partorito figli.
“No, non una qualsiasi”, ripeteva sempre. “Aspetterò. Ne cerco una giusta per lui. Non muore mica se resta scapolo ancora per qualche anno.” Ma gli altri uomini della famiglia dicevano: “Non devi paragonarlo a te, Kazem Gan. Tu hai una donna in ogni villaggio del monte Zafferano, ma quel ragazzo no. Prenderà una brutta strada se non lo fai sposare.” “Per me può anche sposarsi, purché non con una donna sorda, paralizzata o con una gamba sola.” Ma sul monte Zafferano non c’erano donne forti, sane e intelligenti disposte a sposare Akbar.
Così lui cercava e trovava calore presso le prostitute: “Ehi, Aga Akbar, vieni dentro, accomodati. Da’ un’occhiata al mio tappeto. Ti va di aggiustarlo? Siediti qui vicino a me. Sei stanco, ti fanno male le braccia, ti fa male la schiena. Tieni, bevi una tazza di tè e non guardarmi così. Vengo a sedermi lì vicino a te. Dammi la mano. È piacevole, eh?” Per conoscere la storia del rapporto di Aga Akbar con le prostitute, bisogna rivolgersi al suo amico d’infanzia Seied* Shoja.
Seied era cieco, cieco dalla nascita, ma era famoso per il suo orecchio fino, riusciva a sentire i rumori come un cane. E non risparmiava nessuno con la sua lingua lunga. Gli altri uomini non ficcavano mai il naso nelle sue faccende, perché sapevano che niente di ciò che li riguardava gli sfuggiva.
Seied Shoja conosceva per nome tutte le prostitute del monte Zafferano. E sapeva quali uomini del villaggio andassero a trovarle. Li riconosceva subito dal loro passo. “Ehi, amico, come cammini piano, volevi forse sfuggirmi? E perché? Hai forse fatto di nuovo qualcosa di male con l’affare che hai nei pantaloni? Avanti, dammi la mano, salutami, non devi aver paura di me. Non andrò certo a raccontare in giro il tuo segreto.” Al calar della sera, Seied si sedeva contro il vecchio albero sulla strada e, quando le ragazze tornavano dalla fontana con la brocca dell’acqua, riconosceva il passo di quella che amava: “Salam eleikom, mio spicchio di luna. Lascia che ti aiuti. Dammi il secchio.” Le ragazze lo deridevano e lui le punzecchiava.
“Vattene, tu, con quel tuo sedere grasso!” urlava allora. “Non puoi neanche sederti, se no fai una fossa per terra.” Soldi non ne aveva, ma non gliene servivano, perché Akbar pagava per lui.
Ogni tanto quelli che non lo amavano e che temevano la sua lingua lunga, lo accusavano dicendo: “Sei un pidocchio. Succhi i soldi ad Akbar.” Ma Seied era troppo arrogante per curarsene.
C’era un’altra persona che condivideva i suoi segreti con Akbar e Shoja: Iafar il ragno.
Iafar era handicappato, non camminava e non riusciva nemmeno a stare in piedi. Era magro e aveva la testa piccola. Quando si trascinava silenziosamente a terra con le sue gambe e braccia muscolose, sembrava un ragno. Però quel soprannome non gliel’avevano dato tanto per il suo modo di camminare, quanto perché saliva sugli alberi come un vero ragno. Si arrampicava in posti dove nessuna persona normale riusciva ad arrivare. Così, per esempio, lo trovavi improvvisamente appeso a un ramo, o in cima alla tomba della moschea. E scivolava furtivamente fino alla finestra dei bagni pubblici per guardare le donne nude.
Quello che Seied, il cieco, non poteva vedere, lo vedeva Iafar.
Iafar era amico di Seied e perciò anche amico di Aga Akbar. Insieme formavano un solido terzetto, e questo permetteva loro di fare molte cose.
Anche dalle prostitute ci andavano tutt’e tre insieme, quello era il patto. Iafar montava in groppa al suo amico cieco, che a sua volta dava il braccio ad Aga Akbar e così si arrampicavano su per il monte Zafferano.
Di Iafar avevano assoluto bisogno, perché lui si intendeva molto di prostitute. Non entravano mai subito tutti e tre. Prima lasciavano che Iafar controllasse la situazione. Era lui che doveva dare l’OK. Spesso Iafar ammoniva Akbar dicendogli: “Ascoltami! Non andare mai senza di me! Se no ti ammalerai. E non potrai più fare pipi! E ti farà un male cane.” Così andavano le cose e andava sempre tutto bene.
Una sera Iafar sentì un rumore strano, arrampicandosi sul tetto del gabinetto. Appoggiò l’orecchio a un buco per ascoltare. Capì subito cos’era successo ad Aga Akbar. Tornò rapidamente da Seied Shoja e gli disse: “Ehi, Seied, aiuto!” “Che cosa c’è? Perché mi chiedi aiuto?” “Quello scemo è lì che piange al cesso.” “Ma cosa dici? Chi è che piange?” “Akbar, quell’imbecille non riesce a fare pipi.” Tornarono al gabinetto e si misero tutti e due dietro la porta.
“Lo senti? Piange.” “È vero, maledizione, ma forse piange per qualche altro motivo.” “No, ti dico! Non ci sono altri motivi per cui uno piange al gabinetto.” “Aspetta un momento, fammi pensare.” “Non c’è niente da pensare, amico. È chiaro. Dobbiamo dare un’occhiata all’affare di Akbar. Io capisco subito se c’è qualcosa che non va. Dobbiamo acciuffarlo il più presto possibile.” Si nascosero dietro il muro e aspettarono che Akbar uscisse dal gabinetto.
“Vieni un po’ qui”, gesticolò Iafar.
Era buio, ma Akbar capì immediatamente le loro intenzioni. Tentò di scappare, ma Iafar, che era furbo, gli saltò davanti come un ragno e lo afferrò per un piede. Akbar cadde a terra. Seied gli si precipitò addosso e lo afferrò per il collo. “Non scappare, stupido! Vieni con noi.” E così trascinarono Akbar nella stalla.
“Tienilo fermo!” urlò Iafar.
Si arrampicò veloce su un palo per accendere la lampada a olio.
Poi abbassò i pantaloni di Akbar e osservò il suo affare. “Lascialo andare, questo coglione è malato.” Il mattino seguente di buon’ora andarono in città alla ricerca di un dottore.
Qualche mese dopo, quando Aga Akbar era guarito, Seied Shoja e Iafar si parlarono a quattr’occhi. A poco a poco Akbar stava prendendo le distanze da loro, e sapevano perché. Da veri amici, si sentivano in dovere di mettere al corrente lo zio. Così una sera Iafar prese una lanterna e salì in groppa a Seied Shoja.
Andarono a casa di Kazem Gan.
“Buonasera”, disse Seied Shoja. “Possiamo entrare?” “Entra Seied, voi siete sempre i benvenuti. Sedetevi. Un bicchiere di tè?” “No, grazie. Dobbiamo andarcene prima che Akbar torni a casa. Siamo venuti soltanto per dirvi una cosa. Noi siamo i migliori amici di Akbar e non possiamo tenere tutto segreto. Siamo venuti a dirvi che siamo preoccupati per lui.” “In che senso?” “Sapete che ogni tanto andiamo in giro insieme. A volte succedono anche strane cose, ma alla fine tutto s’aggiusta. Questa volta però è diverso. Akbar si è spinto troppo oltre.” “Che cosa significa che si è spinto troppo oltre? Che cos’ha fatto?” “Io sono cieco, ma ho due buone orecchie. E Iafar ci vede molto bene. In realtà è meglio che racconti tutto Iafar perché è stato lui a vederlo.” “Avanti, Iafar, parla. Che cos’hai visto?” “Come si dice? Akbar va spesso, quasi tutte le notti, a dormire da una prostituta. Io, io credo che si siainnamorato di lei. Forse non è grave. È… è una donna giovane e… anche molto gentile. A volte penso che anche lei ci tenga ad Akbar.
Ma noi, comunque, pensiamo che lui si sia spinto troppo oltre. Vero, Seied? Quella donna non ha niente che non vada. È giovane e sana, ma pensavamo che fosse giusto che voi lo sapeste. Vero Seied?“ “Sì, è così”, rispose con decisione Seied. “Questo è ciò che dovevamo dirvi. Forza, Iafar, dobbiamo andare prima che arrivi Akbar.” Kazem Gan capì che il tempo stringeva e che doveva fare qualcosa per il nipote, altrimenti ben presto nessuno avrebbe voluto dargli sua figlia in sposa.
Doveva riconoscere di non essere riuscito a trovare da nessuna parte la moglie ideale per lui, così decise di rimettere la questione alle donne anziane della famiglia.
Le donne si rimboccarono le maniche e si misero alla ricerca di una sposa per Akbar. Ma non avevano cercato a lungo che già persero l’entusiasmo. Qualunque fosse la candidata che incontravano non era adatta alla famiglia. Una aveva il padre mendicante, un’altra dei ladri per fratelli, la terza era senza seno, la quarta così timida che non voleva farsi vedere.
No, nemmeno le donne della famiglia erano in grado di trovare una moglie ad Aga Akbar.
Non restava loro che un’unica porta aperta: quella della casa di Zeineb Gatun*, la vecchia sensale del monte Zafferano. Zeineb aveva sempre qualche moglie di scorta.
E ne avrebbe trovata una brava anche per Akbar, perché era schiava dell’oppio. Se le donne della famiglia le portavano un rotolino dell’oppio giallo di Kazem Gan, la faccenda era sistemata. Zeineb Gatun viveva fuori dal villaggio, in una casetta ai piedi del monte Zafferano. Il più delle volte erano uomini soli ad andarla a trovare, in cerca di una moglie.
“Zeineb Gatun, conosci una ragazza per me? Una donna giovane e buona, che possa darmi dei figli?” “No, non ho ragazze per te, niente donne, né buone né cattive. Non ho niente per te. Tu picchi le donne, me l’ha detto la tua prima moglie. Perciò, fuori di qui, chiedi a tua madre di trovarti una moglie.” “Andiamo dentro. Che ne dici di un mezzo rotolino d’oppio?” “Avanti, entra. E sorridi ogni tanto. E fatti la barba. Con quella barba lunga e quei denti gialli e sporchi non posso trovarti una moglie.” Ogni tanto era un’anziana madre a bussare alla sua porta: “Zeineb Gatun, sono vecchia ormai, ma non ho ancora nipoti. Fa’ qualcosa per mio figlio. Ti regalerò un bel chador, uno di quelli veri della Mecca.” “La gente mi promette tante cose, ma appena gli procuro una moglie per il figlio, scompare. Portami prima il chador, così ho un po’ di tempo per pensarci su. Guarda che è difficile. Le donne non sposano volentieri un uomo con la bava che gli cola dalla bocca. Ma per tuo figlio mi inventerò qualcosa. Ho paura di morire stanotte e che domani mi debbano portare al cimitero con il mio vecchio chador tutto liso. Va’, ti aspetto.” Contro il parere degli uomini della famiglia, le donne infilarono un rotolino d’oppio nella borsa di una vecchia zia, indossarono il chador e andarono a casa di Zeineb Gatun.
Gli uomini pensavano che non si addicesse alla famiglia chiedere una moglie a quella sensale. Naturalmente desideravano una moglie per Akbar, ma in realtà quello che volevano era un figlio. Un Ismail che si prendesse sulle spalle il peso di Akbar.
E siccome non volevano un Ismail figlio di una prostituta, dovettero rassegnarsi al fatto che le loro mogli si rivolgessero a Zeineb.
Ridacchiando, le donne bussarono alla porta di Zeineb Gatun.
“Benvenute! Sedetevi!” Già in corridoio, la vecchia zia ficcò goffamente in mano a Zeineb Gatun il rotolino d’oppio e disse: “Io non capisco niente di queste cose. Te lo manda Kazem Gan.” Poi aggiunse in fretta: “Veniamo subito al sodo, Zeineb Gatun. Cerchiamo una brava ragazza, una donna giudiziosa per il nostro Akbar. Questo è quanto. Hai qualcosa per noi o no?” Le altre donne risero, trovavano simpatica quella vecchia zia impaziente.
“Se ho una moglie per voi?” domandò l’esperta Zeineb Gatun. “Ne troverò una, a costo di cercarla per tutto il monte Zafferano. Se non trovo una moglie per Aga Akbar, per chi d’altro? Sedetevi. Beviamo prima una tazza di tè.” Posò un vassoio con qualche bicchiere e una teiera sul tavolino davanti alle donne e disse: “Vediamo un po’: una brava ragazza, una donna giudiziosa. Sì, ne conosco una. È molto bella, ma…” La zia non la lasciò finire.
“Niente ma!” disse. “Non voglio una mezza donna. Ne voglio una intera, completa, per mio nipote.” “Allah, Allah, perché non mi fate concludere il discorso? Dio si arrabbia se parliamo così delle Sue creature. La ragazza a cui mi riferisco è sanissima e bella, solo che ha una gamba un po’ più corta dell’altra.” “Oh be’ non importa, purché riesca a camminare”, risposero le donne.
“Camminare? Mi chiedete se cammina? Salta come una gazzella! Ma certo non posso domandare a Dio perché le ha fatto una gamba più lunga dell’altra. Forse una ragione c’è. Comunque, ho anche un’altra ragazza, ma è un po’ sorda.” “Non vogliamo una donna sorda per Akbar”, disse la zia più anziana.
“Non è completamente sorda, soltanto un po’. È brava e bella, fidatevi di me. Anzi, ora che ci penso è perfino migliore della prima. Credo che Aga Akbar abbia bisogno di una moglie capace di camminare, forte sulle gambe. Che sia sorda in fondo non è un problema. A lui non interessa certo parlare con lei.” “Ad Akbar no, ma ai loro figli sì!” “Che Dio mi protegga, che cosa devono sentire le mie orecchie questa sera! Come potete parlare così avendo in casa un sordomuto? Dio si arrabbierà. Prendete questa ragazza: ha un bel viso, due belle braccia e un collo che ha il colore del latte, fianchi robusti e gambe larghe. Prendete questa ragazza e Dio sarà contento della vostra scelta.” Il giorno dopo le donne andarono ad ammirare la futura moglie di Aga Akbar, che abitava in un altro villaggio del monte Zafferano. La visita non durò molto. Zeineb Gatun aveva ragione: era bella, ma aveva l’aria malaticcia.
“Malaticcia?” disse la sensale. “Può essere. Forse ha un po’ di raffreddore. Forse… sapete com’è, eh, le donne… Ma malata no. Vedrete, per il giorno delle nozze si sarà da tempo rimessa.” Così Zeineb Gatun riuscì a incantare le donne con le sue parole e le rispedì a casa soddisfatte.
Una settimana dopo, verso sera, gli uomini accompagnarono lo sposo dai bagni del villaggio fino a casa sua.
Aga Akbar appariva forte e sano nel suo vestito. Il cieco Seied Shoja era il suo testimone e sedeva a cavallo, con davanti, sulla sella, Iafar il ragno che teneva le redini. Così salirono su per la collina, diretti alla casa dove le donne avrebbero poco dopo portato la sposa con sette muli.
Tutti aspettavano fuori. Tutti guardavano in lontananza per veder arrivare il corteo.
Ben presto apparvero i sette muli. Le donne ridacchiavano e un gruppo di musicisti del villaggio iniziò a suonare. Aga Akbar aiutò la sposa a scendere dal mulo. Poi la prese per un braccio, la condusse all’interno della casa secondo la tradizione e chiuse la porta.
Quel che di preciso accadde dopo nessuno lo sa, tranne una donna, una donna anziana che si era nascosta nella stanza dello sposo e della sposa per poter poi testimoniare che tutto era andato bene, che il matrimonio aveva avuto luogo.
Appena lo sposo ebbe portato in casa la sua sposa, gli altri se ne andarono. Gli uomini anziani della famiglia si sedettero a fumare insieme, finché la donna uscì e annunciò: “È successo. L’ha fatto.” Allora gli uomini esclamarono insieme: “Allaho massale aala Mohammad wa aale Mohammad (…) Salute al profeta Maometto e ai suoi discepoli.” Siccome era figlio di Aga Akbar, Ismail poté conoscere qualche particolare in più di quella storia. A quell’epoca, morirono alcuni degli anziani della famiglia, tra cui Kazem Gan.
Un giorno che Ismail era a Zafferano, la sua vecchia zia lo invitò a entrare da lei.
Quanti anni aveva allora? Quindici? Sedici? In quel periodo andava spesso al villaggio natale di suo padre. Trascorreva lì tutta l’estate, nella loro casa delle vacanze. Voleva saperne di più del passato di suo padre.
“Ismail, ragazzo mio, dammi la mano”, gli disse la vecchia zia quando entrò. “Vieni dentro, ragazzo mio.” Tenendolo per mano, la zia lo fissò con i suoi occhi che non vedevano più ed espresse la sua ammirazione per il figlio di suo nipote con le parole di Dio: “Fa ta ba rek allah ahsan ál galegie.” Dio disse: “Fa ta ba rekallah ahsanal galegien.” Guarda, guarda che bell’essere ha creato: l’uomo.
Ismail non era solo un figlio della famiglia, ma il figlio che la famiglia aveva aspettato per tanto tempo. Tutti pregavano per lui, perché un giorno diventasse abbastanza grande e sano da sostenere suo padre. Era un dono del cielo per la famiglia. Il primogenito di suo padre. Proprio ciò che desideravano. Doveva proprio essere la volontà di Dio.
La zia portò Ismail in cortile.
“Prima di morire devo raccontarti una cosa che riguarda il matrimonio di tuo padre. Vieni, andiamo a sederci laggiù. Ho steso un tappeto all’ombra del vecchio noce.” Mentre sedeva con la schiena appoggiata al tronco, la zia disse: “Così sono andate le cose, ragazzo. Infilai un rotolino d’oppio nella borsa e andai con le altre donne da quella sensale per cercare una moglie per tuo padre. E fu un errore. Non avremmo dovuto farlo.” “Perché?” “In realtà non eseguimmo bene il nostro incarico, il nostro compito. Per questo Dio ci punì.” “Vi punì? Perché?” “Perché per un attimo ci eravamo dimenticate che Lui stesso aveva preso tuo padre sotto la sua protezione. Noi volevamo a tutti i costi che si sposasse. Ci comportammo come se non credessimo in Dio, come Quando Dio creò l’uomo si innamorò del suo operato. (N.d.A.) se non avessimo fiducia in Lui. Come se Lui avesse abbandonato tuo padre. Per questo ci punì.“ “Non vi capisco.” “Le donne della famiglia andarono a prendere la sposa con sette muli nel villaggio di Sarug. Io misi la sua mano in quella di tuo padre e li accompagnai in camera da letto. Ero io quella che doveva nascondersi nella stanza dietro la tenda.” “Dietro la tenda?” “È così che si faceva una volta. Dovevo guardarli di nascosto e vedere come andavano le cose. Se la donna… Lasciamo stare, ragazzo. Ci fosse stato qualcun altro al mio posto dietro quella tenda!
Mi misi in ascolto ed ebbi l’impressone che la cosa non stesse andando bene. Non capivo perché, ma avevo il presentimento che Dio non fosse contento.
Tuo padre andò a letto con sua moglie. Era forte, aveva due spalle larghe così. Lui lo sentivo, ma la sposa no, non un movimento, non una parola, non un sospiro, non un lamento, non un gemito di dolore, niente di niente.
Ma poco importava, era successo e io scivolai fuori dalla stanza, andai nell’altra casa e feci segno a Kazem Gan: è successo.
Tutti esultarono, tutti fumarono e mangiarono e festeggiammo per sette giorni. Ma non sapevamo che Dio non era contento di ciò che avevamo fatto. Ed era colpa mia.
Come donna più anziana della famiglia avrei dovuto essere più saggia, avrei dovuto tenere gli occhi aperti e portare pazienza. Avrei dovuto dire a tutti che non bisognava avere fretta.“ “In che senso?” “Ero agitata. Non so perché. Non vedevo muoversi la sposa. Eppure, in un modo o nell’altro, doveva pur dare qualche segno di sé: apparire ogni tanto alla finestra o fare un piccolo sorriso. Scostare una tenda.
E invece niente. Non faceva assolutamente niente.“ “Perché mi raccontate tutte queste cose? State parlando di mia madre?” “No, ragazzo mio. Aspetta un momento. La settima notte tuo padre andò di nuovo a letto con la sua sposa e io andai a dormire in un’altra stanza. Dovevo restare nei paraggi fino alla settima notte. Mi addormentai, ma nel cuore della notte sentii dei passi pesanti. Tuo padre entrò in camera mia. Era buio, perciò non lo vidi in faccia. Disse a raffica qualcosa, io non capii niente, ma intuii che era successo qualcosa di grave. Mi alzai e uscii con lui in cortile, alla luce della luna Che cosa c’è? Fredda, gesticolò lui. La sposa è fredda. Corsi da lei e le illuminai il viso con la lampada a olio. Era fredda come il marmo, ragazzo mio. Era morta.” “Davvero?” fece Ismail stupito. “Allora mia madre non è la prima moglie di mio padre?” “No.” “Perché nessuno me l’ha mai detto?
“Te lo sto dicendo adesso, ragazzo. Non aveva senso raccontartelo prima.” Anni dopo, una sera in cui era tornato a casa dalla capitale, Ismail si rivolse a suo padre e, nella loro lingua dei gesti, gli disse: “Vieni qui! Voglio farti vedere una cosa.” Tirò fuori dalla cartella la fotografia di una giovane donna e gliela diede.
“Chi è?” gesticolò Aga Akbar.
“Non devi dirlo ancora a nessuno”, rispose Ismail, “ma forse un giorno la sposerò.” Aga Akbar osservò attentamente la fotografia. Sorrise e gesticolò: “È bella. Ma sta’ bene attento! Guardala bene e ascolta i suoi polmoni, se funzionano bene. Se respira bene. Io, io non sento niente, ma tu sì, tu hai le orecchie buone. Respirare è molto importante.” “Non preoccuparti. L’ho ascoltata, respira bene.” “E il petto? Le fa male il petto?” “Il suo petto sta bene, benissimo, non ha nessun dolore.” “E le braccia?” “Sono perfette.” Suo padre sorrise: “Guardale bene anche la pancia.” Quella sera, per la prima volta, Aga Akbar parlò ad Ismail della sua prima moglie. Gli disse che la sua sposa aveva dolori dappertutto. Che aveva una malattia sotto la cassa toracica, o al petto, nei polmoni. Ancora adesso non lo sapeva esattamente.
“I seni devono essere belli caldi. E non freddi. No, non devono essere freddi.”