Capitolo nono

Conclusioni

La barbarie è diventata il loro carattere e la loro natura. Ne godono perché significa essere liberi dalle autorità e non doversi sottomettere a un capo. Una tale disposizione naturale è la negazione e l’antitesi della civiltà.

Ibn Khaldun sui nomadi.

I musei, i media e il turismo celebrano usanze pittoresche ed esotiche tribú delle alture e cosí il popolo – o forse solo la classe media urbana – finisce per conoscere se stesso attraverso ciò che è stato un tempo e che ora non è piú.

RICHARD O’CONNOR

Il mondo che ho cercato di descrivere e comprendere in questo libro sta scomparendo rapidamente. A quasi tutti i miei lettori sembrerà un grido che arriva da un posto molto lontano dal loro mondo. Oggi il futuro della nostra libertà risiede nell’arduo compito di addomesticare il Leviatano, non di sfuggirlo. Viviamo in un mondo totalmente occupato, con moduli istituzionali sempre piú standardizzati, tra cui dominano i due modelli nordatlantici della piena proprietà individuale e dello stato-nazione: lottiamo contro le enormi disuguaglianze in ricchezza e potere generate dal primo e contro la regolamentazione ancora piú invadente delle nostre vite interdipendenti imposta dal secondo. Per usare le efficaci parole di John Dunn, le popolazioni non sono mai «dipendono, per la loro sicurezza e prosperità, dalle capacità e dalle buone intenzioni di chi li governa in modo piú rilevante di quanto sia accaduto prima»1. E, aggiunge, l’unico fragile strumento che abbiamo per addomesticare il Leviatano è un altro modello nordatlantico arrivato dalla Grecia: la democrazia rappresentativa.

Quello che abbiamo evocato qui è invece un mondo in cui lo stato non era ancora arrivato cosí vicino a spazzare ogni cosa davanti a sé, come lo è ora. Visto in una prospettiva storica ampia, fino a tempi abbastanza recenti quello era il mondo piú abitato dalla razza umana. Semplificando molto, possiamo identificare quattro lunghi periodi: 1) un’epoca senza stato (di gran lunga la piú lunga); 2) un’epoca di piccoli stati circondati da territori periferici vasti e facilmente accessibili; 3) un periodo in cui questi territori periferici si sono ritrovati ridotti e assediati dall’espansione del potere statale; e infine 4) un’era in cui praticamente l’intero globo è uno «spazio amministrato» e i territori periferici sono quasi soltanto residui folcloristici. Il passaggio da un’era a quella successiva è stato molto diverso sia dal punto geografico (la Cina e l’Europa sono state piú precoci, ad esempio, del Sud-est asiatico e dell’Africa) che da quello temporale (con territori periferici in espansione o in contrazione a seconda dei fattori imprevedibili della creazione dello stato), ma sulla tendenza nel lungo periodo non c’è il minimo dubbio.

Cosí capita che il territorio montuoso di confine che abbiamo scelto di chiamare Zomia rappresenti una delle zone di rifugio piú grandi e antiche del mondo per popolazioni che vivono all’ombra degli stati ma da cui non sono state ancora completamente assimilate. Ma nell’ultimo mezzo secolo la combinazione dei grandi progressi tecnologici e delle ambizioni sovraniste ha compromesso anche la relativa autonomia delle popolazioni di Zomia, a tal punto che la mia analisi non si può quasi applicare alla situazione dopo la Seconda guerra mondiale. Da allora tutto il territorio di Zomia è stato teatro di un vero e proprio trasferimento di massa, sia spontaneo che pianificato, delle popolazioni di pianura – han, kinh, thai e birmane – verso le alture, dove svolgono la doppia funzione di popolare le frontiere con una popolazione presumibilmente leale e produrre colture commerciali per l’esportazione, mentre attenuano la pressione demografica delle valli. Demograficamente rappresenta una strategia deliberata di fagocitazione e successiva assimilazione2.

Fino a poco tempo fa, tuttavia, il massiccio di Zomia ha significato la fondamentale scelta politica che ha avuto di fronte gran parte del genere umano prima dell’affermarsi dell’egemonia dello stato-nazione. La scelta non era su come addomesticare l’inevitabile Leviatano, ma su come posizionarsi nei confronti degli stati di valle. Le opzioni andavano dal vivere in luoghi remoti, in alto sulle montagne in gruppi egalitari basati sull’agricoltura itinerante e la raccolta di cibo – tenendosi il piú lontano possibile dai centri statali –, allo stabilirsi in gruppi piú gerarchici vicino agli stati di valle in modo da poter approfittare delle possibilità offerte dalla riscossione dei tributi, dal commercio e dalle razzie. Nessuna di queste scelte era irreversibile. Un gruppo poteva modificare la sua distanza dallo stato cambiando collocazione, struttura sociali, usanze o modelli di sussistenza. E anche se non alterava nessuna delle sue usanze e delle sue pratiche, la distanza da uno stato adiacente poteva cambiare, per cosí dire, sotto i suoi piedi a causa del crollo o del sorgere di una dinastia, di una guerra o della pressione demografica.

Chi erano gli abitanti di Zomia? All’inizio, ovviamente, era di Zomia l’intera popolazione del Sud-est asiatico continentale, che fosse nelle pianure o nei territori montuosi, nel senso che non era suddita di nessuno stato. Quando si formarono i primi piccoli stati mandala di ispirazione induista, la vasta maggioranza di coloro che non erano ancora stati incorporati come sudditi divenne, ipso facto, il primo popolo autogovernato in un ambiente di cui ormai facevano parte gli stati (piccoli). Le scoperte archeologiche ci hanno insegnato alcune cose su queste popolazioni non statali. Suggeriscono una diffusa complessità e specializzazione artigianale, ma in un contesto che sembra politicamente decentralizzato e relativamente egalitario (come indica una certa eguaglianza nei «corredi funerari»). I ritrovamenti sono coerenti con quella che alcuni archeologi hanno chiamato «eterarchia»: complessità sociale ed economica senza ranghi gerarchici e unificati3. Le prove che abbiamo indicano che le alture erano scarsamente popolate e che il grosso delle popolazioni non statali viveva in altopiani coltivabili o nelle pianure, anche se raramente nelle vulnerabili pianure alluvionali.

Quando i primi stati, in particolare lo stato han, iniziarono a espandersi nei territori pianeggianti adatti alla coltivazione del riso irriguo, crearono almeno due tipi di «rifugiati» che, nel corso del tempo, finirono per costituire la popolazione prevalente delle alture. I primi erano popoli di pianura fino a quel momento non statali (molti dei quali potrebbero benissimo essere stati coltivatori itineranti), che si erano trovati sulla traiettoria dell’espansione dello stato risicolo. Fu tra questi gruppi che vennero raccolti i primi sudditi dello stato. Chi, per qualsiasi motivo, voleva sottrarsi all’assimilazione doveva mettersi fuori dalla portata dello stato, e spostarsi nelle pianure piú distanti dal centro o nelle alture, meno accessibili. Secondo questa lettura, c’era un segmento di popolazione di non sudditi – chi era già sulle alture e chi stava fuggendo dai primi stati – che non era mai stato incorporato all’interno di strutture statali. Ma è chiaro che nel lungo periodo le alture vennero sempre piú popolate da ondate migratorie di sudditi che scappavano dai regni di valle per diversi motivi, tutti in diretta relazione con il processo di creazione dello stato – lavoro di corvée, tasse, arruolamento forzato, guerra, lotte per la successione, dissenso religioso. Poteva anche succedere che, quando la guerra, la perdita del raccolto o le epidemie distruggevano un regno, una popolazione di sudditi si ritrovasse improvvisamente senza stato e fosse costretta a spostarsi per salvarsi la vita. In una ripresa in time-lapse, queste ondate migratorie sembrerebbero un folle gioco di autoscontri: ogni nuova ondata dava uno scossone ai migranti precedenti che, a loro volta, cercavano di resistere o si spostavano nei territori dei migranti arrivati prima di loro. Questo processo ha creato le shatter zones e spiega il mosaico impazzito di identità e luoghi in costante evoluzione che troviamo nelle alture.

Zomia era un «effetto dello stato» in tutti i sensi o, piú precisamente, un effetto della creazione e dell’espansione dello stato. Shatter zones e regioni di rifugio, allora, sono l’inevitabile «gemello nemico» dei progetti di formazione dello stato nelle valli. Lo stato e la shatter zone che ne consegue sono mutuamente costituiti nel pieno senso di questo termine cosí abusato; ognuno vive nell’ombra dell’altro e ne trae i propri orientamenti culturali. Le élite dello stato di valle definiscono il proprio status come civilizzato in riferimento alle popolazioni che sfuggono alla loro influenza, mentre dipendono da loro per il commercio e per reintegrare la loro popolazione di sudditi (con la cattura o gli incentivi). I popoli delle alture, a loro volta, dipendono dallo stato di valle per il commercio di beni di vitale importanza e possono posizionarsi a fianco dei regni di valle per approfittare pienamente delle opportunità di profitto e saccheggio, rimanendo però fuori dal controllo politico diretto. Altri popoli delle alture, piú remoti e/o piú egalitari, sembra si siano strutturati come una sorta di antitesi alla gerarchia e all’autorità di valle. I popoli di valle e delle alture rappresentano due sfere politiche contrapposte, l’una piuttosto concentrata e omogenea, l’altra sparsa sul territorio ed eterogenea, ma entrambe instabili e ognuna costituita di materiale umano tratto, in un momento o in un altro, dall’altra.

Le società dei territori montuosi non sono affatto il «materiale» primordiale originario con cui furono creati gli stati: sono essenzialmente un prodotto derivato del processo di formazione dello stato, concepito per essere il meno attraente possibile come sito di appropriazione. La pastorizia nomade oggi è generalmente riconosciuta come un adattamento secondario da parte di popolazioni che, da una parte, volevano lasciare lo stato agricolo stanziale e, dall’altra, trarre vantaggio dalle opportunità di commerciare e fare razzie che esso offriva; allo stesso modo, l’agricoltura itinerante è soprattutto un adattamento secondario: come la pastorizia, disperde la popolazione e non ha «centri nevralgici» di cui uno stato si possa impadronire. La natura elusiva della produzione vanifica l’appropriazione. Le società delle alture hanno scelto di stare in posti sperduti, hanno una grande varietà di routine di sussistenza a loro disposizione, sono capaci di scindersi e disperdersi come le tribú «medusa» del Medio Oriente e sono in grado, grazie in parte alle cosmologie di valle, di formare molto velocemente nuove identità di resistenza: è come se fossero state ideate per essere il peggiore incubo dei creatori dello stato o degli ufficiali coloniali. E, in effetti, lo sono.

In termini analitici, dobbiamo tornare alle unità elementari della società delle alture: il piccolo villaggio, le linee di discendenza segmentarie, la famiglia nucleare, il gruppo di coltivatori itineranti. L’unicità, la pluralità e la flessibilità delle unità sociali e identitarie delle alture non sono un materiale adatto alla costruzione dello stato. Queste unità elementari, di tanto in tanto, possono aggregarsi in piccole confederazioni e alleanze per ragioni belliche o commerciali, o sotto la guida di un profeta carismatico, ma è facile che subito dopo tornino a dividersi nei loro elementi costituitivi originari. Se gli aspiranti creatori di stati le trovavano poco promettenti, per gli storici e gli antropologi erano altrettanto frustranti. Di recente François Robinne e Mandy Sadan, dopo aver osservato questa fluidità e, in particolare, la natura chimerica delle principali identità etniche, hanno ipotizzato che sarebbe etnicamente piú corretto concentrare l’analisi su villaggi, famiglie e reti di scambio e non privilegiare piú l’etnicità, considerandola invece «una sorta di artefatto superiore che nasconde altri marcatori culturali; diventerebbe un marcatore culturale come gli altri»4. Vista la porosità dei confini etnici, la sorprendente variazione all’interno di ogni identità particolare e l’imprevedibilità storica di quello che ha significato essere un «kachin» o un «karen», avere un sano atteggiamento agnostico sembra proprio la cosa giusta da fare. Se seguiamo il saggio consiglio di Robinne e Sadan, ho il sospetto che gran parte del flusso del disordine apparente si risolverebbe una volta che esaminassimo l’ordine sociale delle montagne e la riformulazione di identità come un riposizionamento strategico di vari villaggi, gruppi e reti nei confronti della forza gravitazionale – politica, economica e simbolica – del piú vicino stato di valle.

Evasione dallo stato, prevenzione dello stato: globale-locale.

Sono arrivato a considerare questo studio sul massiccio continentale di Zomia non tanto un’analisi dei popoli delle alture in sé, quanto la piccola parte di una storia globale delle popolazioni che cercano di evitare lo stato o ne sono state estromesse. Scriverla è un compito chiaramente superiore alle mie forze: idealmente, dovrebbe essere l’impresa collettiva di un grandissimo numero di studiosi. Nel solo contesto del Sud-est asiatico, comprenderebbe molto piú di quello che sono stato in grado di esaminare in questo libro. Come minimo, racconterebbe la storia degli zingari del mare (orang laut), la cui strategia antistatale è stata mettersi a navigare. Sparpagliati nel complesso sistema delle vie d’acqua dell’arcipelago, hanno evitato gli schiavisti e gli stati e sono riusciti a fare razzie, trafficare in schiavi e a volte fare i mercenari. Per un periodo sono stati per il sultanato malese di Malacca la versione marinara di quello che i cosacchi erano per le forze armate zariste. La loro storia si intreccia con quella degli abitanti delle coste delle mangrovie e dei mutevoli delta dei grandi fiumi del Sud-est asiatico. Tutti questi luoghi ponevano enormi ostacoli all’amministrazione dello stato e perciò sono diventati zone di rifugio.

Ho citato di sfuggita, a titolo di esempio, altri popoli e altre geografie che potrebbero far parte di questa storia globale di spazi extra statali. Nella storia delle periferie degli stati sarebbero fondamentali gli zingari, i cosacchi, i berberi, i mongoli e altri pastori nomadi. Le comunità di schiavi fuggitivi che troviamo ovunque il lavoro forzato sia stato parte integrante della costruzione dello stato – come nella maggior parte del Nuovo Mondo, della Russia e dei modi romano e islamico – formerebbero un’altra parte di questa storia globale, per non parlare dei popoli africani come i dogon, che sfuggirono alla cattura fin dall’inizio. E naturalmente un grande capitolo di questa storia sarebbe costituito da tutte le zone di conquista coloniale, in cui i popoli indigeni sono stati minacciati di sterminio o cacciati dai loro territori e deportati5. Nonostante la loro dispersione geografica, culturale e temporale, lo studio comparativo di queste zone di rifugio ne metterebbe in luce alcune caratteristiche comuni e indicative. Come la maggior parte delle shatter zones in cui i gruppi si sono rifugiati nel corso del tempo, le regioni piú antiche potrebbero mostrare la complessità e fluidità linguistiche ed etniche che abbiamo trovato a Zomia. A parte il fatto dell’essere localizzati in zone remote e marginali difficili da raggiungere, questi popoli probabilmente hanno sviluppato routine di sussistenza che massimizzano dispersione, mobilità e resistenza all’appropriazione. È anche probabile che la loro struttura sociale favorisca la dispersione, la scissione e la riformulazione e che presenti al mondo esterno una sorta di mancanza di forma che non offre punti di appiglio istituzionale a eventuali progetti di dominio centralizzato. Infine, molti gruppi che appartengono a uno spazio non statale – certamente non tutti – sembrano avere forti tradizioni di egalitarismo e autonomia, a volte spietate, sia a livello famigliare sia di villaggio, che rappresentano un’efficace barriera alla tirannia e alla gerarchia permanenti.

La maggior parte dei popoli che abita nel massiccio montuoso di Zomia sembra aver messo insieme una gamma culturale piuttosto completa di tecniche per sfuggire all’assimilazione da parte dello stato e, nello stesso tempo, approfittare delle opportunità economiche e culturali costituite dalla sua vicinanza. A questa gamma appartengono le caratteristiche di fluidità e ambiguità che le identità possono assumere nel corso del tempo. Sono caratteristiche cosí notevoli – e cosí vessatorie per gli amministratori dello stato – che Richard O’Connor ha ipotizzato che, mentre noi in genere iniziamo con l’assunto che un gruppo abbia un’identità etnica, nel Sud-est asiatico, «dove un popolo cambia etnicità e luogo piuttosto di frequente, dovremmo dire piú correttamente che un’etnicità ha un popolo»6. Che la capacità di adattare l’identità sia premiante è forse una delle caratteristiche delle shatter zones collocate negli interstizi dei sistemi statali instabili. In un certo senso, gran parte delle culture delle alture ha sempre la valigia pronta per spostarsi tra identità o luoghi, o tra entrambe le cose. I vasti repertori di lingue e affiliazioni etniche, la capacità di reinvenzione profetica, le genealogie brevi e/o orali e il talento per la frammentazione sono tutti elementi del loro formidabile corredo di viaggio.

Vorremmo considerare sotto questa luce l’affermazione di Fernand Braudel sui popoli delle montagne: precisamente che la loro «storia sta nel non averne, nel restare abbastanza regolarmente ai margini delle grandi correnti incivilitrici»7. Almeno per Zomia, vorremmo riformulare radicalmente il ragionamento: i popoli delle alture hanno storie multiple che possono utilizzare singolarmente o in combinazione, a seconda delle circostanze. Possono creare genealogie lunghe ed elaborate, come nel caso degli akha e dei kachin, oppure avere genealogie e storie di migrazione brevi e ridotte al minimo, come nel caso dei lisu e dei karen. Il motivo per cui sembrano non avere storia è che, non sapendo quale sarà la prossima destinazione, hanno imparato a viaggiare leggeri. Non sono fuori dal tempo né dalla storia ma, come le navi da carico indipendenti e gli zingari, lavorano ai margini, rispettivamente, delle grandi rotte commerciali e degli stati, e il loro successo dipende dall’agilità di movimento. È nel loro interesse tenere aperta la maggior parte di opzioni possibili e quale tipo di storia avere è una di queste opzioni: hanno esattamente la quantità di storia di cui hanno bisogno.

Questi posizionamenti culturali, insieme alla collocazione geografica remota, alla mobilità, alla scelta di coltivazioni e tecniche agricole e, spesso, a una struttura sociale acefala «senza appigli» sono senza dubbio misure per sfuggire allo stato. Ma è molto importante capire che ciò a cui si vuole sfuggire non è una relazione di per sé, ma la condizione di suddito dello stato. Ciò da cui i popoli delle alture alle periferie degli stati sono fuggiti è la forza bruta dello stato fiscale, la sua capacità di riscuotere tasse dirette e lavoro da una popolazione di sudditi. Tuttavia, hanno cercato, a volte piuttosto avidamente, di avere con gli stati di valle relazioni che fossero compatibili con un alto grado di autonomia. In particolare, la competizione per essere il partner favorito in un emporio commerciale di pianura o in un altro ha generato un’enorme quantità di conflitti politici. Come abbiamo visto, alture e valli erano nicchie agro-ecologiche complementari, il che significa che gli stati di valle adiacenti in genere erano in competizione tra di loro per ottenere i prodotti e la popolazione delle alture.

Una volta conquistato, un rapporto commerciale proficuo poteva essere formalizzato tramite una relazione tributaria che, per quanto asimmetrica potesse sembrare dal punto di vista cerimoniale o nei documenti dello stato di valle, in pratica permetteva al partner delle alture di avere il coltello dalla parte del manico. Non dobbiamo prendere le rappresentazioni di valle per oro colato. Dietro l’ambito autoritario rappresentato dalle tasse e dal lavoro di corvée, stava una zona grigia molto piú ampia di scambi economici, di frequente espressi in forma di tributi. Questa zona rappresentava un duraturo legame di commercio reciprocamente vantaggioso che, con poche eccezioni, non aveva nessuna implicazione in termini di sudditanza politica permanente. Maggiore era il valore dei beni e minore la loro dimensione e il loro peso, piú grande era l’estensione di questa zona grigia: nel caso di pietre preziose, medicinali rari e oppio, ad esempio, poteva essere enorme8.

Dal punto di vista simbolico e cosmologico, l’estensione dell’influenza dei grandi stati di valle è vasta e insieme superficiale. Che siano di origine cinese, indiana o un esotico ibrido delle due, praticamente tutte le idee che possono legittimare l’autorità oltre il livello del singolo villaggio provengono dalle pianure. Ma nelle alture i legami con i luoghi di origine vengono abbandonati per poter riformulare queste idee in funzione degli obiettivi locali. Questo processo è descritto bene dal termine «bricolage»: frammenti di cosmologie di pianura, simboli regali, abiti, architettura e titoli sono riorganizzati e assemblati da profeti, guaritori e ambiziosi capi villaggio in un amalgama originale. Il fatto che i materiali simbolici grezzi siano importati dalle pianure non impedisce che i profeti delle alture li trasformino in aspettative millenariste da usare per opporsi all’egemonia culturale e politica della pianura9.

Per ipotesi, si potrebbe collegare il ruolo della cosmologia di pianura nel facilitare l’azione collettiva e superare quello che alcuni scienziati sociali chiamerebbero i costi di transazione associati con la frammentazione sociale al ragionamento complessivo sull’evasione dallo stato. Le stesse caratteristiche delle società delle alture che ostacolano la loro assimilazione – dispersione, mobilità, complessità etnica, coltivazione itinerante in piccoli gruppi ed egalitarismo – favoriscono la divisione e pongono enormi ostacoli all’organizzazione e all’azione collettiva. Paradossalmente l’unica risorsa sociale per tale cooperazione arriva dalla pianura, dove la gerarchia sociale e la cosmologia che l’accompagna sono date per scontate.

Quasi tutte le società delle alture mostrano una gamma di comportamenti di evasione dallo stato. Per alcune, queste caratteristiche sono compatibili con un grado di gerarchia interna e, a volte, di creazione dello stato. Per altri gruppi invece l’evasione dallo stato è associata a pratiche che si potrebbero definire di prevenzione della formazione dello stato. Sembrano appartenere a questa categoria gruppi relativamente acefali con forti tradizioni di eguaglianza e sanzioni contro la gerarchia permanente, come gli akha, i lahu, i lisu e i wa. Le società che prevengono lo stato hanno alcune caratteristiche in comune: è probabile che usino le alleanze matrimoniali per evitare l’insorgere di gerarchie tra le casate; che abbiano leggende sull’assassinio o l’espulsione di uomini forti troppo ambiziosi; infine, che le loro casate e i loro villaggi si dividano in frammenti piú piccoli e piú egalitari quando le ineguaglianze minacciano di diventare permanenti.

Gradi di secessione e adattamento.

Provare a descrivere una shatter zone o una regione di rifugio come Zomia è un paradosso. Per descrivere il flusso e la duttilità delle società delle alture si deve necessariamente stare in un punto, anche se quel «punto» è in movimento. Ho fatto cosí quando parlavo dei «karen», degli «shan» e dei «hmong», come se fossero unità di organizzazione sociale statiche e solide. Ma non lo sono, specialmente se osservati per un lungo periodo di tempo. Quindi, a rischio di confondere ancora di piú il lettore e me stesso, dobbiamo tenere a mente quanto questa fluidità sia radicale. Da sempre i popoli in fuga dalle valli hanno alimentato le popolazioni delle alture. La «linea» tra popoli di valle e delle alture resta al suo posto, nonostante il grande traffico avanti e indietro in entrambe le direzioni. Le stesse società delle alture sono porose; i loro gradienti di identità sono tali da rendere arbitrario stabilire qualsiasi «frontiera identitaria». Mentre le società delle alture riformulano se stesse, lo stesso fanno individui, gruppi parentali e intere comunità. E mentre si posizionano nei confronti dei progetti di stato nelle valli, si posizionano anche nei confronti dei loro vicini delle alture, in questa complessa costellazione di popoli10. Il che non è particolarmente insolito: il processo di posizionamento e adattamento reciproco è una costante delle politiche delle alture. Se la cosa ci fa girare la testa, possiamo consolarci perché aveva lo stesso effetto sui colonizzatori e gli ufficiali dello stato. Ma gli attori in questione non sono mai stati confusi né disorientati su chi fossero e cosa stessero facendo.

L’adattamento ai pericoli e alle tentazioni dei vicini regimi politici non sono pratiche limitate ai popoli alle periferie degli stati. Anche i contadini dei centri di valle hanno sviluppato routine per approfittare degli sviluppi favorevoli del centro politico e proteggersi dagli effetti peggiori delle turbolenze. Le pratiche messe in campo dai contadini cinesi durante le dinastie Ming e Qing per fronteggiare le cadute dinastiche e approfittare dell’ordine e della prosperità sono state analizzate in dettaglio da G. William Skinner11. Per quanto riguarda la tesi di questo libro, la caratteristica distintiva di questi repertori è che rappresentano misure difensive da parte di una classe contadina che resta dov’è e continua a praticare l’agricoltura stanziale. Mostra uno schema di autodifesa in circostanze molto limitate. Vedere la capacità di adattamento dei contadini del centro produttivo ci aiuta a capire meglio come funzionano le opzioni molto piú ampie dei popoli alla periferia dello stato.

Secondo Skinner, nei periodi di consolidamento dinastico, pace e crescita del commercio la comunità contadina locale si apre e approfitta delle opportunità offerte dalle condizioni favorevoli, il che produce lo sviluppo della specializzazione economica, degli scambi e dei legami politici e amministrativi. Al contrario, nei periodi di caduta dinastica, depressione economica, guerra civile e banditismo, la comunità locale si ritira sempre di piú nel proprio guscio come misura di autoprotezione. A parere di Skinner la ritirata seguiva uno schema: iniziava come presa di distanza dalle regole della comunità, seguiva come chiusura economica e finiva come chiusura difensiva militare. Gli artigiani specialisti e i commercianti tornavano a casa, la specializzazione economica diminuiva, le riserve di cibo venivano messe sotto sorveglianza, gli stranieri espulsi, si formavano gruppi per sorvegliare i campi, venivano costruite fortificazioni e create milizie locali12. Quando la fuga e la ribellione non sembravano opzioni praticabili, di fronte alle minacce dell’ambiente esterno la comunità locale reagiva con la separazione normativa, economica e militare. Cercava di creare uno spazio autonomo e autarchico senza spostarsi – e in effetti dichiarava la propria indipendenza dalla società piú ampia in cui c’era ancora pericolo. Quando la minaccia diminuiva, la comunità locale si riapriva seguendo il percorso inverso: prima militarmente, poi economicamente e infine dal punto di vista normativo.

Analogamente ma in modo molto piú esteso, le società di Zomia hanno un ampio spettro di configurazioni tra cui muoversi per integrarsi di piú con i regni vicini oppure per tenerli a distanza. A differenza dei contadini cinesi di Skinner, «impantanati nel fango delle risaie», gli abitanti dei territori montuosi sono fisicamente mobili, capaci di coprire grandi distanze e posseggono una gamma di tecniche di sussistenza che possono schierare singolarmente o in combinazione, a seconda delle circostanze. Dopo tutto, la stessa società delle alture è nata essenzialmente da una serie di ondate di migranti secessionisti che sono stati capaci di adattarsi o modulare il grado della loro secessione in una direzione o in un’altra. Questi aggiustamenti possono avere luogo su una o piú dimensioni che i contadini del centro risicolo non hanno a disposizione. La prima dimensione è la localizzazione: piú i luoghi in cui abitano sono impervi e remoti, piú i popoli delle alture riescono a tenersi lontani dai centri statali, dalle razzie schiaviste e dalle tasse. Una seconda dimensione è la scala e la dispersione: piú gli insediamenti sono piccoli e dispersi, meno rappresentano un obiettivo allettante per i razziatori e gli stati. Infine, i popoli delle alture possono modulare le loro tecniche di sussistenza, ognuna delle quali incarna un posizionamento nei confronti degli stati, delle gerarchie e dell’incorporazione politica.

In tale contesto, Hjorleifur Jonsson confronta tre strategie di sussistenza: 1) raccolta di cibo e altri prodotti e caccia, 2) agricoltura itinerante, 3) agricoltura stanziale13. La raccolta è virtualmente a prova di appropriazione e non ha molte possibilità di generare ineguaglianza sociale. L’agricoltura itinerante è resistente all’appropriazione, ma può produrre surplus e gerarchia interna, in genere temporanea14. L’agricoltura stanziale, in particolare quella del riso irriguo, è soggetta all’appropriazione e alle razzie ed è associata a grandi insediamenti e gerarchie sociali permanenti. È possibile combinare queste tecniche in varie proporzioni e adattarle nel tempo, ma gli yao/mien sapevano che ogni aggiustamento rappresentava un’opzione politica. Raccolta e coltivazione itinerante erano considerate da chi le praticava come forme di secessione politica dallo stato di pianura, in cui la raccolta era la scelta piú radicale15.

Quindi, le popolazioni dei territori montuosi hanno a disposizione un grande ventaglio di possibili localizzazioni e di configurazioni agro-ecologiche. Possono intraprendere la coltivazione del riso nelle pianure ed entrare nello stato di valle come contadini o, all’estremo opposto, fare i raccoglitori e gli agricoltori itineranti in remoti insediamenti di crinale fortificati con la reputazione di uccidere gli intrusi. Tra questi due antipodi c’è una miriade di possibilità intermedie. La scelta di quale opzione scegliere in un momento specifico dipenderà in parte, come per i contadini cinesi di Skinner, dalle condizioni esterne. È piú probabile che le popolazioni delle alture intraprendano la coltivazione stanziale, si avvicinino ai centri statali, cerchino relazioni tributarie e commerciali e si spostino linguisticamente ed etnicamente verso le culture di valle in tempi di pace e di espansione economica, quando lo stato incoraggia gli insediamenti. In tempi di guerra, tumulti, tasse esorbitanti e razzie schiaviste, i popoli delle alture si muoveranno nella direzione opposta e, con tutta probabilità, saranno raggiunti dai rifugiati che scappano dai centri statali.

In ogni momento, è possibile associare ogni particolare popolo delle alture a una particolare configurazione sociale, ad esempio agricoltori itineranti in alta montagna e coltivatori di oppio. Potrebbe anche sembrare che quella configurazione sia determinata dalla loro cultura, ma nel lungo periodo è possibile individuare variazioni notevoli, spesso da parte di vari frammenti dello stesso gruppo etnico che si sono trovati a fronteggiare situazioni differenti. Né ci sono motivi per credere che tali variazioni siano avvenute in una sola direzione16. Al contrario, ci sono tutte le ragioni per immaginare una lunga storia di innumerevoli riformulazioni e adattamenti per avvicinarsi o allontanarsi dagli stati di valle, tutti assimilati come «tradizione» all’interno di una cultura orale duttile.

A questo punto vale la pena ricordare che la maggior parte dei popoli nomadi e raccoglitori – forse anche dei coltivatori itineranti – non sono aborigeni sopravvissuti, ma il risultato di un processo di adattamento che si è svolto all’ombra degli stati. Come ha ipotizzato Pierre Clastres, le società acefale di molti raccoglitori e coltivatori itineranti sono meravigliosamente progettate per approfittare delle nicchie agro-ecologiche nel commercio con gli stati vicini evitando di esserne subordinati come sudditi. Un darwinista sociale potrebbe benissimo considerare la mobilità dei popoli delle alture, le loro comunità disperse sul territorio, i loro ranghi sociali non ereditari, la loro cultura orale, il loro grande portfolio di strategie di sussistenza e di identità e forse anche le loro inclinazioni al profetismo come caratteristiche perfettamente adatte a un ambiente tumultuoso: si sono adattati meglio a sopravvivere come non sudditi in un ambiente politico fatto di stati che a creare loro stessi degli stati.

La civiltà e i suoi oppositori.

Gli amministratori coloniali britannici e francesi per giustificare i nuovi aggravi fiscali che imponevano ai propri sudditi spesso spiegavano che le tasse erano il prezzo inevitabile da pagare per vivere in una società «civilizzata», un abile trucco retorico con cui sono riusciti alla perfezione a mascherare tre imbrogli: descrivere i loro sudditi come «pre-civilizzati», sostituire gli ideali imperiali con la realtà coloniale e, soprattutto, confondere la «civilizzazione» con quello che in effetti era creazione dello stato.

La storia della civilizzazione «come deve essere» richiede sempre un antagonista selvaggio e feroce, in genere ancora fuori portata, ma che finirà per essere sottomesso e assimilato. L’ipotetica civilizzazione in questione – che sia francese, han, birmana, kinh, britannica o siamese – viene definita tramite la sua negazione. Questo è in gran parte il motivo per cui tribú ed etnie iniziano dove finiscono tasse e sovranità.

Si comprende subito come mai queste narrazioni, concepite soprattutto per aumentare la fiducia in se stessi e la coesione dei governanti, alle frontiere dell’impero non siano molto convincenti. Immaginiamo, ad esempio, un’istruzione dettata dai principî classici del confucianesimo – amore filiale, osservanza dei rituali, doveri da parte di chi è al governo, benevolente attenzione al benessere dei sudditi, condotta onorevole, rettitudine – nel contesto della frontiera dello Yunnan o del Guizhou a metà del XIX secolo. Come si potrebbe non essere colpiti dal divario tra l’immaginario imperiale, da una parte, e la realtà delle frontiere Ming e Qing dall’altra? La frontiera «vissuta», a differenza della frontiera raccontata, era piena di magistrati civili corrotti che vendevano la giustizia al maggior offerente, avventurieri militari e banditi, ufficiali in esilio e criminali, accaparratori di terre, contrabbandieri e coloni han disperati17. Non sorprende che gli ideali della civiltà han avessero poca efficacia. Al contrario, la contraddizione tra ideali e realtà era sufficiente a convincere la popolazione locale e gli ufficiali imperiali piú attenti che il discorso della civilizzazione fosse solo un imbroglio18.

I regimi han e theravāda della Cina e del Sud-est asiatico avevano percezioni un po’ diverse del suddito «civilizzato» ideale. Nel caso degli han, la civilizzazione non aveva bisogno del banco di prova della religione, benché famiglia patriarcale, tavolette ancestrali e conoscenza degli ideogrammi fossero i presupposti per l’assimilazione etnica. Nel caso della Birmania o della Thailandia, il banco di prova religioso era costituito dal buddismo e dalla venerazione dei sangha, anche se gli stati del Sud-est asiatico continentale affamati di forza lavoro non potevano permettersi di essere toppo esigenti dal punto di vista etnico. I regni classici sul modello indiano erano gerarchici, come gli han, ma etnicamente abbastanza inclusivi.

Ma tutti questi stati, per vitali ragioni fiscali e militari, erano stati risicoli. Perciò, in pratica lo stato risicolo faceva ogni cosa in suo potere per incoraggiare insediamenti densamente popolati e la coltivazione di riso irriguo che li favoriva. Se i sudditi coltivavano gli stessi cereali piú o meno nello stesso modo, in comunità abbastanza omogenee, il compito di stimare, tassare e amministrare la terra era molto piú semplice. Nel caso degli han, la codificazione del nucleo famigliare patriarcale come unità base dal punto di vista proprietario e amministrativo facilitava ulteriormente il controllo sociale. Il suddito ideale dello stato risicolo rientrava anche in una visione del territorio e dell’insediamento umano in cui le pianure liberate dalla foresta e trasformate in risaie e le loro comunità umane hanno finito per rappresentare un ideale «coltivato» in tutti i sensi del termine.

D’altra parte, gli ufficiali dello stato risicolo avevano tutto l’interesse a scoraggiare le forme di insediamento, sussistenza e organizzazione sociale che avessero come risultato un territorio non appropriabile. Scoraggiavano e, quando potevano, proibivano gli insediamenti dispersi, la raccolta, l’agricoltura itinerante e la migrazione lontano dal centro produttivo. Se le risaie, con i loro sudditi organizzati e la loro produzione, hanno finito per rappresentare il paesaggio della civiltà, di conseguenza quelli che vivevano in luoghi remoti, sulle montagne o nelle foreste, che spostavano i propri campi e spesso spostavano loro stessi, che formavano e riformavano piccoli villaggi egalitari, non erano civilizzati. Ovviamente la cosa che colpisce di piú è la stretta coincidenza dell’ideale di un territorio e di una popolazione civilizzati con il territorio e la popolazione piú adatti alla creazione dello stato, e il fatto che un territorio non adatto all’appropriazione da parte dello stato e i popoli che lo abitano siano considerati non civilizzati e barbari. Da questa prospettiva, le effettive coordinate per capire chi è civilizzato e chi no non sono altro che un codice agro-ecologico di appropriazione statale.

Dal punto di vista delle élite di valle, la stretta correlazione tra vita ai margini dello stato e arretratezza è fuori di dubbio. Per produrre il catalogo della primitività basta fare l’elenco delle caratteristiche piú salienti dei territori e dei popoli fuori dalla facile presa dello stato. Vivere in foreste inaccessibili e sulla cima delle montagne è codificato come non civilizzato. La raccolta di cibo, la raccolta dei prodotti della foresta – anche a scopi commerciali – e la coltivazione itinerante sono codificati come arretrati. Abitare in piccoli insediamenti sparpagliati è, per definizione, arcaico. Mobilità fisica e identità negoziabili e transitorie sono sia primitive sia pericolose. Non seguire le grandi religioni di valle e non essere sudditi che pagano tasse e decime a monarchi e preti significa essere fuori dalla civiltà.

Nell’immaginario di valle, tutte queste caratteristiche sono fasi precedenti di un processo di evoluzione sociale al cui vertice stanno le élite. I popoli delle alture sono in uno stadio precedente a tutto: sono pre-coltivazione del riso, pre-città, pre-religione, pre-alfabetizzazione, pre-sudditi di valle. Ma, come abbiamo ampiamente visto, le caratteristiche per cui i popoli delle alture vengono stigmatizzati sono proprio quelle che incoraggia e sviluppa un popolo che evade lo stato per non rinunciare alla propria autonomia. L’immaginario di valle racconta la storia nel modo sbagliato. I popoli delle alture non sono pre- di nessuna cosa. In effetti, devono essere considerati post-coltivatori di riso, post-stanziali, post-sudditi e forse anche post-alfabetizzati. Considerati in una prospettiva storica di longue durée, rappresentano un reattivo e intenzionale non-stato di popoli che si sono adattati in un mondo di stati rimanendo fuori dalla loro influenza.

Nell’interpretazione di valle dell’agro-ecologia, dell’organizzazione sociale e della mobilità dei popoli che la eludono non c’è nulla di particolarmente sbagliato. È come se li avessero messi nel giusto bidone della spazzatura. Ma oltre al radicale fraintendimento della sequenza storica, hanno capito male le etichette: dovrebbero sostituire «suddito dello stato» con «civilizzato» e «non suddito dello stato» con «non civilizzato».