Angelica inseguita

In principio c’è solo una fanciulla che fugge per un bosco in sella al suo palafreno. Sapere chi sia importa sino a un certo punto: è la protagonista d’un poema rimasto incompiuto, che sta correndo per entrare in un poema appena cominciato. Quelli di noi che ne sanno di più possono spiegare che si tratta d’Angelica principessa del Catai, venuta con tutti i suoi incantesimi in mezzo ai paladini di Carlo Magno re di Francia, per farli innamorare e ingelosire e così distoglierli dalla guerra contro i Mori d’Africa e di Spagna. Ma piuttosto che ricordare tutti gli antecedenti, conviene addentrarsi in questo bosco dove la guerra che infuria per le terre di Francia non si fa udire se non per sparsi suoni di zoccoli o d’armi di cavalieri isolati che appaiono o scompaiono.

Intorno ad Angelica in fuga è un vorticare di guerrieri che, accecati dal desiderio, dimenticano i sacri doveri cavallereschi, e per troppa precipitazione continuano a girare a vuoto. La prima impressione è che questi cavalieri non sappiano bene cosa vogliono: un po’ inseguono, un po’ duellano, un po’ giravoltano, e sono sempre sul punto di cambiare idea.

Prendiamo Ferraù: lo incontriamo mentre sta cercando di ripescare l’elmo che gli è caduto in un fiume: quand’ecco passa di lì Angelica, di cui egli è innamorato, inseguita da Rinaldo; Ferraù smette di cercare l’elmo e duella con Rinaldo; nel bel mezzo del duello, Rinaldo propone all’avversario di rimandare la contesa e d’inseguire insieme la fuggitiva; Ferraù smette di duellare e si dà all’inseguimento d’Angelica, d’amore e d’accordo col rivale; perdutosi nel bosco, si ritrova sulla riva del fiume dove gli era caduto l’elmo; interrompe la ricerca d’Angelica e si rimette alla ricerca dell’elmo; dal fiume esce il fantasma d’un guerriero da lui ucciso che rivendica l’elmo come sua proprietà ed esorta Ferraù, se proprio vuol ornarsi d’un cimiero sopraffino, a conquistarsi in battaglia l’elmo di Orlando; al che Ferraù lascia fiume, elmo, fantasma e fuggitiva e si lancia alla ricerca d’Orlando (I, 24-32).

Pur1 si ritrova ancor su la riviera,

là dove l’elmo gli cascò ne l’onde.

Poi che la donna ritrovar non spera,

per aver l’elmo che ’l fiume gli asconde,

in quella parte onde caduto gli era

discende ne l’estreme umide sponde:

ma quello era sì fitto ne la sabbia,

che molto avrà da far prima che l’abbia.

Con un gran ramo d’albero rimondo2,

di ch’avea fatto una pertica lunga,

tenta3 il fiume e ricerca sino al fondo,

né loco lascia ove non batta e punga.

Mentre con la maggior stizza del mondo

tanto l’indugio suo quivi prolunga,

vede di mezzo il fiume un cavalliero

insino al petto uscir, d’aspetto fiero.

Era, fuor che la testa, tutto armato,

et avea un elmo ne la destra mano:

avea il medesimo elmo che cercato

da Ferraù fu lungamente invano.

A Ferraù parlò come adirato,

e disse: – Ah mancator di fé, marano4!

perché di lasciar l’elmo anche t’aggrevi5,

che render già gran tempo mi dovevi?

Ricordati, pagan, quando uccidesti

d’Angelica il fratel (che son quell’io),

dietro all’altr’arme tu mi promettesti

gittar fra pochi dì6 l’elmo nel rio.

Or se Fortuna (quel che non volesti

far tu) pone ad effetto7 il voler mio,

non ti turbare; e se turbar ti déi,

turbati che di fé mancato sei.

Ma se desir pur hai d’un elmo fino8,

trovane un altro, et abbil con più onore;

un tal ne porta Orlando paladino,

un tal Rinaldo, e forse anco migliore:

l’un fu d’Almonte9, e l’altro di Mambrino10:

acquista un di quei duo col tuo valore;

e questo, c’hai già di lasciarmi detto,

farai bene a lasciarmi con effetto. –

All’apparir che fece all’improvviso

de l’acqua11 l’ombra, ogni pelo arricciossi,

e scolorossi al Saracino il viso;

la voce, ch’era per uscir, fermossi.

Udendo poi da l’Argalia, ch’ucciso

quivi avea già (che l’Argalia nomossi),

la rotta fede così improverarse12,

di scorno e d’ira dentro e di fuor arse.

Né tempo avendo a pensar altra scusa,

e conoscendo ben che ’l ver gli disse,

restò senza risposta a bocca chiusa;

ma la vergogna il cor sì gli traffisse,

che giurò per la vita di Lanfusa13

non voler mai ch’altro elmo lo coprisse,

se non quel buono che già in Aspramonte14

trasse del capo Orlando al fiero Almonte.

E servò15 meglio questo giuramento,

che non avea quell’altro fatto prima.

Quindi16 si parte tanto malcontento,

che molti giorni poi si rode e lima.

Sol di cercare è il paladino intento17

di qua di là, dove trovarlo stima.

Altra ventura al buon Rinaldo accade,

che da costui tenea diverse strade.

Non molto va Rinaldo, che si vede

saltare inanzi il suo destrier feroce18:

– Ferma, Baiardo mio, deh, ferma il piede!

che l’esser senza te troppo mi nuoce. –

Per questo il destrier sordo a lui non riede,

anzi più se ne va sempre veloce.

Segue Rinaldo, e d’ira si distrugge:

ma seguitiamo Angelica che fugge.

E Angelica? Galoppa per un giorno, una notte e una mattina. Giunge a un boschetto tra due ruscelli. Smonta di sella, cerca il più morbido giaciglio vegetale per coricarsi. Nascosta in un cespuglio di rose, dorme, e sospira. Ossia, sogna di sospirare, e al sospiro si risveglia. Ossia, sente, sveglia, un sospiro che non è il suo sospiro. Ossia, mentre lei dormiva, qualcuno sospirava, lì vicino (33-38).

Fugge tra selve spaventose e scure,

per lochi inabitati, ermi e selvaggi19.

Il mover de le frondi e di verzure20,

che di cerri sentia21, d’olmi e di faggi,

fatto le avea con subite22 paure

trovar di qua di là strani vïaggi23;

ch’ad ogni ombra veduta o in monte o in valle,

temea Rinaldo aver sempre alle spalle.

Qual pargoletta o damma o capriuola24,

che tra le fronde del natio boschetto

alla madre veduta abbia la gola

stringer dal pardo25, o aprirle ’l fianco o ’l petto,

di selva in selva dal crudel s’invola,

e di paura triema e di sospetto:

ad ogni sterpo che passando tocca,

esser si crede all’empia fera in bocca.

Quel dì e la notte e mezzo l’altro giorno

s’andò aggirando, e non sapeva dove.

Trovossi al fine in un boschetto adorno26,

che lievemente la fresca aura muove.

Duo chiari rivi, mormorando intorno,

sempre l’erbe vi fan tenere e nuove;

e rendea ad ascoltar dolce concento,

rotto tra picciol sassi, il correr lento27.

Quivi parendo a lei d’esser sicura

e lontana a Rinaldo mille miglia,

da la via stanca e da l’estiva arsura,

di riposare alquanto si consiglia:

tra’ fiori smonta, e lascia alla pastura

andare il palafren senza la briglia;

e quel va errando intorno alle chiare onde,

che di fresca erba avean piene le sponde.

Ecco non lungi un bel cespuglio vede

di prun28 fioriti e di vermiglie rose,

che de le liquide onde al specchio siede29,

chiuso30 dal sol fra l’alte quercie ombrose;

così vòto nel mezzo, che concede

fresca stanza fra l’ombre più nascose:

e la foglia coi rami in modo è mista,

che ’l sol non v’entra, non che minor vista31.

Dentro letto vi fan tenere erbette,

ch’invitano a posar chi s’appresenta.

La bella donna in mezzo a quel si mette;

ivi si corca, et ivi s’addormenta.

Ma non per lungo spazio così stette,

che un calpestio le par che venir senta32:

cheta si leva, e appresso alla riviera

vede ch’armato un cavallier giunt’era.

Angelica scruta tra gli arbusti e vede un guerriero enorme, dai lunghi baffi spioventi, armato di tutto punto, che se ne sta sdraiato come lei dall’altra parte del cespuglio, la guancia posata su una mano, e lamentandosi mormora delle frasi senza senso: la verginella... la rosa... Sta parlando di rose, questo pezzo di soldataccio: annusa una rosa appena sbocciata, e dice che sarebbe un peccato coglierla, che una volta spiccata dal suo stelo perde ogni valore; a lui sfortunato capita così ogni volta, che le rose le colgono sempre gli altri; ma sarà poi proprio vero, che la rosa già colta perde di valore? E perché lui allora non riesce a dimenticarla? (39-44)

Se gli è amico o nemico non comprende:

tema e speranza il dubbio33 cuor le scuote;

e di quella aventura il fine attende,

né pur d’un sol sospir l’aria percuote.

Il cavalliero in riva al fiume scende

sopra l’un braccio a riposar le gote;

e in un suo gran pensier tanto penètra,

che par cangiato in insensibil pietra.

Pensoso più d’un’ora a capo basso stette,

Signore34, il cavallier dolente;

poi cominciò con suono afflitto e lasso

a lamentarsi sì soavemente,

ch’avrebbe di pietà spezzato un sasso,

una tigre crudel fatta clemente.

Sospirando piangea, tal ch’un ruscello

parean le guancie, e ’l petto un Mongibello35.

– Pensier (dicea) che ’l cor m’aggiacci et ardi,

e causi il duol che sempre il rode e lima36,

che debbo far, poi ch’io son giunto tardi,

e ch’altri a côrre il frutto37 è andato prima?

a pena avuto io n’ho parole e sguardi,

et altri n’ha tutta la spoglia opima38.

Se non ne tocca a me frutto né fiore,

perché affligger per lei mi vuo’ più il core?

La verginella è simile alla rosa,

ch’in bel giardin su la nativa spina

mentre sola e sicura si riposa,

né gregge né pastor se le avicina;

l’aura soave e l’alba rugiadosa,

l’acqua, la terra al suo favor39 s’inchina:

gioveni vaghi e donne inamorate

amano averne e seni e tempie ornate.

Ma non sì tosto dal materno stelo

rimossa viene e dal suo ceppo verde,

che quanto avea dagli uomini e dal cielo

favor, grazia e bellezza, tutto perde.

La vergine che ’l fior, di che più zelo

che de’ begli occhi e de la vita aver de’40,

lascia altrui côrre, il pregio ch’avea inanti

perde nel cor di tutti gli altri amanti.

Sia vile agli altri, e da quel solo amata

a cui di sé fece sì larga copia41.

Ah, Fortuna crudel, Fortuna ingrata!

trionfan42 gli altri, e ne moro io d’inopia43.

Dunque esser può che non mi sia più grata?

dunque io posso lasciar mia vita propia?44

Ah, più tosto oggi manchino i dì miei,

ch’io viva più, s’amar non debbo lei! –

A questo punto, Angelica lo riconosce: è un altro dei suoi spasimanti, Sacripante re di Circassia, e tutta questa storia delle rose è un discorso su di lei. Sacripante continua a essere innamorato della bella Angelica, ma è convinto che mentre lui era in Oriente in missione militare, Orlando l’abbia fatta sua.

Angelica considera la situazione: è sola tra insidie d’ogni genere, ha bisogno di qualcuno che la accompagni e protegga; quando aveva come scudo l’adamantina virtù di Orlando era riuscita a non farsi sfiorare da lui nemmeno con un dito; ora proporrà a Sacripante di servirla come altrettanto casto paladino (56).

Forse era ver, ma non però credibile

a chi del senso suo fosse signore;

ma parve facilmente a lui possibile,

ch’era perduto in via più grave errore.

Quel che l’uom vede, Amor gli fa invisibile,

e l’invisibil fa vedere Amore.

Questo creduto fu; che ’l miser suole

dar facile credenza a quel che vuole.

Questa storia della castità di Angelica poteva pur essere vera; certo era poco credibile per chi non fosse storditamente innamorato come il re di Circassia. Comunque non è questo il nocciolo della questione: rose o non rose, quello d’Angelica e Sacripante è l’incontro di due persone che calcolano freddamente le proprie mosse, lei vuole servirsi di lui e perciò lo illude; lui vuole approfittare subito del vantaggio in cui si trova. Infatti Sacripante non ha nessuna intenzione di seguire l’esempio di Orlando e lasciarsi scappare l’occasione. – Corrò la fresca e matutina rosa... – e il soldataccio ricomincia a delirare sulle rose, come fa ogni volta che è rapito da pensieri di tutt’altro genere (58).

Corrò la fresca e matutina rosa,

che, tardando, stagion45 perder potria.

So ben ch’a donna non si può far cosa

che più soave e più piacevol sia,

ancor che se ne mostri disdegnosa

a talor mesta e flebil se ne stia:

non starò per repulsa o finto sdegno,

ch’io non adombri e incarni46 il mio disegno. –

Ma proprio sul più bello, nel momento in cui crede d’avere ormai Angelica in sua mano, Sacripante viene interrotto dall’irruzione d’un cavaliere biancovestito. Duellano; il cavallo di Sacripante cade morto; l’avversario sconosciuto, pago di tale vittoria, corre via (59-65).

Così dice egli; e mentre s’apparecchia

al dolce assalto, un gran rumor che suona

dal vicin bosco gl’intruona l’orecchia,

sì che mal grado l’impresa abbandona:

e si pon l’elmo (ch’avea usanza vecchia

di portar sempre armata la persona),

viene al destriero e gli ripon la briglia,

rimonta in sella e la sua lancia piglia.

Ecco pel bosco un cavallier venire,

il cui sembiante è d’uom gagliardo e fiero:

candido come nieve è il suo vestire,

un bianco pennoncello47 ha per cimiero.

Re Sacripante, che non può patire

che quel con l’importuno suo sentiero48

gli abbia interrotto il gran piacer ch’avea,

con vista il guarda disdegnosa e rea.

Come è più presso, lo sfida a battaglia;

che crede ben fargli votar l’arcione.

Quel che di lui non stimo già che vaglia

un grano meno, e ne fa paragone49,

l’orgogliose minaccie a mezzo taglia,

sprona a un tempo, e la lancia in resta50 pone.

Sacripante ritorna con tempesta51,

e corronsi a ferir testa per testa52.

Non si vanno i leoni o i tori in salto53

a dar di petto, ad accozzar54 sì crudi,

sì come i duo guerrieri al fiero assalto,

che parimente si passâr gli scudi.

Fe’ lo scontro tremar dal basso all’alto

l’erbose valli insino ai poggi ignudi;

e ben giovò che fur buoni e perfetti

gli osberghi55 sì, che lor salvaro i petti.

Già non fêro i cavalli un correr torto,

anzi cozzaro a guisa di montoni:

quel del guerrier pagan morì di corto56,

ch’era vivendo in numero de’ buoni;

quell’altro cadde ancor, ma fu risorto57

tosto ch’al fianco si sentì gli sproni.

Quel del re saracin restò disteso

adosso al suo signor con tutto il peso.

L’incognito campion che restò ritto,

e vide l’altro col cavallo in terra,

stimando avere assai58 di quel conflitto,

non si curò di rinovar la guerra;

ma dove per la selva è il camin dritto,

correndo a tutta briglia si disserra59;

e prima che di briga esca il pagano,

un miglio o poco meno è già lontano.

Qual istordito e stupido60 aratore,

poi ch’è passato il fulmine, si leva

di là dove l’altissimo fragore

appresso ai morti buoi steso l’aveva;

che mira senza fronde e senza onore61

il pin che di lontan veder soleva:

tal si levò il pagano a piè rimaso,

Angelica presente62 al duro caso.

Sacripante apprenderà, con grande scorno, d’esser stato disarcionato non da un guerriero ma da una guerriera. L’amazzone dal bianco pennacchio altri non era che l’invincibile Bradamante.

La salvezza d’Angelica dipende davvero da interventi imprevedibili: tra tanti paladini che pretendono di proteggerla chi sopravviene a liberarla dalle insidie? Un’altra donna. E in mezzo a questo folle carosello, chi è l’unico ad agire sensatamente, in base a un piano meditato? Un cavallo.

Un fragore improvviso percorre la foresta: fa il suo ingresso un personaggio guarnito di sontuosi ornamenti; l’impeto della sua corsa è tale da far franare alberi e sassi. Angelica ha un moto di sollievo: finalmente una presenza familiare ed amica! – Io lo conosco! – esclama, – questo è Baiardo! – Era infatti il fortissimo cavallo di Rinaldo, che sfuggito di mano al padrone galoppava a briglia sciolta per il bosco. Sacripante fa per afferrarlo per il morso, ma Baiardo si mette a sparar calci che manderebbero in frantumi una montagna di metallo (72-74).

Non furo iti duo miglia, che sonare63

odon la selva che li cinge intorno,

con tal rumore e strepito, che pare

che triemi la foresta d’ogn’intorno;

e poco dopo un gran destrier64 n’appare,

d’oro guernito, e riccamente adorno,

che salta macchie e rivi, et a fracasso

arbori mena65 e ciò che vieta il passo.

– Se l’intricati rami e l’aer fosco

(disse la donna) agli occhi non contende66,

Baiardo è quel destrier ch’in mezzo il bosco

con tal rumor la chiusa via si fende.

Questo è certo Baiardo, io ’l riconosco:

deh, come ben nostro bisogno intende!

ch’un sol ronzin per dui saria mal atto,

e ne viene egli a satisfarci ratto. –

Smonta il Circasso et al destrier s’accosta,

e si pensava dar di mano al freno.

Colle groppe67 il destrier gli fa risposta,

che fu presto a girar come un baleno;

ma non arriva dove i calci apposta68

misero il cavallier se giungea a pieno!

che nei calci tal possa avea il cavallo

ch’avria spezzato un monte di metallo.

Gli s’accosta Angelica, e il destriero si mette a farle festa come un cagnolino. È una vecchia storia, questa della dimestichezza d’Angelica col cavallo di Rinaldo. Rimonta ai tempi in cui Angelica s’era innamorata di Rinaldo e Rinaldo la sfuggiva. Adesso lui l’ama e lei lo sfugge: scambi che succedono a chi beve a una certa fontana incantata. I rapporti tra Angelica e il cavallo invece non sono mutati, tanto che Baiardo, ammansito dalla sua carezza, si lascia montare da Sacripante (75-76).

Indi va mansueto alla donzella,

con umile sembiante e gesto umano,

come intorno al padrone il can saltella,

che sia duo giorni o tre stato lontano.

Baiardo ancora avea memoria d’ella,

ch’in Albracca il servia già di sua mano

nel tempo che da lei tanto era amato

Rinaldo, allor crudele, allor ingrato69.

Con la sinistra man prende la briglia,

con l’altra tocca e palpa il collo e ’l petto:

quel destrier, ch’avea ingegno a maraviglia,

a lei, come un agnel, si fa suggetto.

Intanto Sacripante il tempo piglia70:

monta Baiardo, e l’urta e lo tien stretto71.

Del ronzin disgravato la donzella

lascia la groppa, e si ripone in sella72.

Ma, inseguendo Baiardo, sopravviene Rinaldo appiedato, e ingiunge a Sacripante di smontare dal cavallo non suo. Questo, per dirla in termini educati: in realtà il signore di Montalbano e il re di Circassia si dànno reciprocamente del ladro come in una rissa di taverna (II, 3-5).

Rinaldo al Saracin con molto orgoglio

gridò: – Scendi, ladron, del mio cavallo!

Che mi sia tolto il mio, patir non soglio,

ma ben fo, a chi lo vuol, caro costallo73:

e levar questa donna anco ti voglio;

che sarebbe a lasciartela gran fallo.

Sì perfetto destrier, donna sì degna

a un ladron non mi par che si convegna. –

– Tu te ne menti74 che ladrone io sia

(rispose il Saracin non meno altiero):

chi dicesse a te ladro, lo diria

(quanto io n’odo per fama) più con vero75.

La pruova or si vedrà, chi di noi sia

più degno de la donna e del destriero;

ben che, quanto a lei, teco io mi convegna

che non è cosa al mondo altra sì degna. –

Come soglion talor duo can mordenti,

o per invidia o pel altro odio mossi,

avicinarsi digrignando i denti,

con occhi bieci76 e più che bracia rossi;

indi a’ morsi venir, di rabbia ardenti,

con aspri ringhi e ribuffati dossi77:

così alle spade e dai gridi e da l’onte78

venne il Circasso e quel di Chiaramonte.

Il duello sarebbe impari, ma Baiardo si rifiuta di combattere contro il suo padrone, e Sacripante è costretto dalle sgroppate a scendere di sella e ad affrontare Rinaldo a corpo a corpo.

Come mai Baiardo, così fedele a Rinaldo, gli era scappato? Non tarderemo a comprendere che questa fuga (da cui, a ben vedere, si scatenano tutte le vicissitudini dell’Orlando Furioso) era una straordinaria prova di fedeltà e intelligenza. Per servire il suo padrone innamorato, Baiardo s’era messo di sua iniziativa sulle tracce d’Angelica, di modo che Rinaldo, correndo dietro al destriero, avrebbe trovato la sua bella. Se si lasciava montare dal padrone, sarebbe stato il padrone a dirigerlo, come sempre avviene a ogni cavallo; fuggendo è Baiardo a dirigere Rinaldo. Questo Baiardo, così corposamente cavallo, tende a sconfinare dalla natura equina, proprio perché vuole essere un cavallo ideale. Processo inverso a quello che vedremo compiere all’altro illustre animale del poema, l’Ippogrifo, che di caratteristiche equine ne avrebbe poche, ma verrà condotto a servire docilmente da cavallo, ancorché volante.