― Balle! ― disse Smith con pesante sarcasmo, com'era sua abitudine. ― Sono almeno mille anni che gli scienziati si occupano di percezioni extrasensoriali senza aver trovato niente di positivo. Non esistono cose come la precognizione, la telecinesi, la chiaroveggenza e nemmeno la telepatia.
― D'accordo, ma pensaci su un momento. Se io mi faccio un'idea di quel che sta pensando un gruppo di persone, anche se ignoro quello che sta succedendo, posso integrare l'informazione e scoprire la risposta. In un caso del genere ne saprei di più di ogni singolo membro del gruppo, e quindi sarei in grado di dare un giudizio più positivo... a volte.
― Hai prove su cui basarti?
― Solo il fiuto ― disse Chouns guardando il compagno coi suoi miti occhi castani.
Si trovavano bene insieme. Chouns apprezzava il senso pratico di Smith, e questi incoraggiava le speculazioni del compagno. Spesso erano di parere diverso, però non litigavano mai.
Anche quando raggiunsero il loro obiettivo, un ammasso globulare che prima di allora non aveva mai sentito il rombo di un reattore nucleare progettato dagli uomini, l'aumento della tensione non peggiorò le cose.
― Chissà cosa ne faranno di tutti i dati, sulla Terra ― disse Smith. ― Qualche volta mi pare tutta una perdita di tempo.
― La Terra comincia a espandersi ― disse Chouns, ― non si può ancora sapere fino a che punto si spingerà, nella galassia, nel corso dei millenni. Quindi tutti i dati che noi potremo raccogliere su qualsiasi mondo, un giorno forse torneranno utili.
― Parli come il manuale delle Squadre di Esplorazione. Credi che laggiù troveremo qualcosa d'interessante? ― così dicendo indicò lo schermo sul quale l'ammasso stellare, ormai non più lontano, risaltava come una chiazza di borotalco.
― Forse. Ho la sensazione... ― Chouns s'interruppe, deglutì, sbatté un paio di volte le palpebre e poi allargò la bocca in un sorriso vacuo.
Smith sbuffò. ― Scegliamo il gruppo di stelle più vicino e passiamo a caso attraverso il punto più denso. Scommetto dieci a uno che troveremo una gradazione McKomin inferiore a zero virgola due.
― Perderai ― mormorò Chouns. Era in preda a quell'eccitazione che provava sempre in vista di nuovi mondi. Non era l'unico a provarla, quella sensazione contagiosa che s'impadroniva tutti gli anni di tanti giovani. I giovani, com'era capitato anche a lui anni prima, si arruolavano a frotte nelle Squadre, desiderosi di vedere i mondi che i loro discendenti un giorno avrebbero considerato il proprio pianeta natale. Tutti esploratori...
Scelsero il gruppo di stelle, vi si diressero a velocità iperspaziale e poi cominciarono la ricerca di eventuali sistemi planetari. I calcolatori facevano il loro lavoro, le informazioni arrivavano a getto continuo, insomma tutto procedeva nel migliore dei modi, finché, quando si trovavano nel sistema, i 23 motori iperatomici dell'astronave cessarono di funzionare.
― Strano ― mormorò Chouns. ― Gli analizzatori non indicano dov'è il guasto.
Aveva ragione. Gli indici continuavano a muoversi avanti e indietro senza mai fermarsi, per cui era impossibile formulare una diagnosi e, di conseguenza, procedere alle riparazioni del caso.
― Mai vista una roba simile ― borbottò Smith. ― Dobbiamo disattivare tutto quanto e procedere a una diagnosi manuale.
― Possiamo farlo con tutto comodo ― disse Chouns che era già al telescopio. ― I motori normali funzionano, anche se quelli iperatomici sono impazziti, e in questo sistema ci sono due pianeti decenti.
― Davvero? Quali? E fino a che punto sono decenti?
― Il primo e il secondo di quei quattro. Tutt'e due di tipo acqua-ossigeno. Il primo è un po' più grande e un po' più caldo della Terra, il secondo un po' più piccolo e più freddo. Ti basta?
― Vita?
― Su tutt'e due. Vegetale di sicuro.
Smith imprecò fra i denti. Nei dati riferiti da Chouns non c'era nulla di sorprendente: sui pianeti di tipo acqua-ossigeno c'erano molto spesso diverse forme di vita vegetale. E, a differenza della vita animale, la vegetazione era visibile al telescopio o, più precisamente, allo spettroscopio. Solo quattro pigmenti fotochimici erano stati riscontrati in tutte le forme di vita vegetale, e ognuno di essi poteva essere scoperto grazie alla natura della luce che rifletteva.
― Su tutt'e due i pianeti c'è vegetazione di tipo clorofilliano ― lo informò Chouns. ― Proprio come sulla Terra. Ci sentiremo come a casa.
― Qual è il più vicino? ― chiese Smith.
― Il numero due, e ci arriveremo fra non molto. Ho la sensazione che sia un bel pianeta.
― Lo giudicherò dai dati degli strumenti, se non ti spiace ― ribatté Smith.
Pareva comunque che quella volta il fiuto di Chouns non si fosse sbagliato. Il pianeta era abitabile, con un complicato insieme di oceani che assicurava un clima con poche escursioni termiche. Le montagne erano basse e arrotondate, e la vegetazione distribuita in modo da indicare ampie zone di terreno fertile.
Chouns si mise ai comandi per la manovra di atterraggio.
Smith stava diventando impaziente.
― Cosa stai tanto a scegliere? Un posto vale l'altro.
― Cerco uno spiazzo sterile ― disse Chouns. ― Perché bruciare inutilmente delle piante?
― E se anche lo facessi?
― E se non lo facessi? ― ribatté Chouns, e trovò il posto che voleva.
Solo dopo l'atterraggio si resero conto di dove erano andati a finire.
― Per tutte le stranezze dello spazio! ― esclamò Smith.
Chouns era ammutolito dallo stupore. La vita animale era più rara di quella vegetale, e trovare poi forme di vita intelligente era rarissimo. Eppure, a meno di un chilometro dal punto dove erano scesi si ergeva un insieme di capanne col tetto di frasche, evidente prodotto di un'intelligenza primitiva.
― Attenzione ― mormorò Smith con voce strozzata.
― Non credo che ci sia pericolo ― osservò Chouns sbarcando fiducioso. Smith lo seguì.
Chouns riusciva a dominare a stento l'eccitazione: ― È una cosa sbalorditiva ― disse. ― Finora non erano state mai trovate abitazioni più complesse delle caverne o dei rami intrecciati.
― Speriamo che siano innocui.
― C'è troppa pace qui, perché non lo siano. Annusa l'aria.
Mentre scendevano, il terreno, eccettuate alcune basse colline, li aveva colpiti per la sua colorazione rosea che spiccava contro il verde. Da vicino, tutto quel rosa si era suddiviso in una miriade di corolle fresche e profumate. Solo la zona immediatamente circostante le capanne era di un colore ambra dovuto alla vegetazione simile ai cereali terrestri che vi cresceva.
Dalle capanne uscirono diverse creature che si avvicinarono all'astronave con un misto di esitazione e di fiducia. Avevano quattro gambe e un corpo inclinato, alto circa un metro al livello delle spalle. Erano del tutto prive di collo e avevano una grossa testa con occhi sporgenti (Chouns ne contò sei) disposti in cerchio e capaci di muoversi indipendentemente in maniera davvero sconcertante. (Questo compensa l'immobilità della testa, pensò Chouns).
Ognuno era poi dotato di una coda biforcuta, le cui estremità stavano rigidamente erette. Le fibre da cui le due estremità caudali erano composte continuavano ad agitarsi incessantemente.
― Vieni ― disse Chouns, ― non ci faranno niente. Ne sono certo.
Gli animali si fermarono a una certa distanza. La vibrazione delle code provocava un ronzio modulato.
― Può darsi che sia il loro modo di comunicare ― disse Chouns. ― E sono quasi certo che siano vegetariani. ― Indicò una capanna dove un membro più piccolo della specie, seduto sui quarti posteriori, raccoglieva il grano color ambra con la coda e infilava i chicchi nei crini per poi portarseli alla bocca come facciamo noi con le ciliegie sottospirito infilate in uno stecchino.
― Gli uomini mangiano l'insalata ― osservò Smith. ― Ma questo non prova che siano innocui.
Arrivarono altre creature che, dopo aver esaminato i nuovi venuti, tornarono a scomparire fra il rosa e il verde.
― Vegetariani ― ripeté deciso Chouns. ― Guarda come coltivano quei cereali.
I presunti cereali erano formati da una coroncina di morbide spine verdi, che crescevano rasoterra, al cui centro si ergeva uno stelo peloso che portava, a intervalli di cinque centimetri, dei baccelli venati, pulsanti, che parevano cose vive. In cima allo stelo si apriva il fiore rosa pallido che, a esclusione del colore, era il vegetale più somigliante ai tipi terrestri.
Le pianticelle crescevano in lunghe file perfettamente geometriche. Il terreno tra una fila e l'altra era ben dissodato e cosparso di una sostanza chiara, certo una polvere fertilizzante. Il campo era attraversato da angusti sentieri larghi tanto quanto bastava a lasciar passare gli animali, e accanto a ogni sentiero c'era un canaletto per l'irrigazione.
Gli animali si erano sparpagliati nei campi ed erano intenti al lavoro. Ne erano rimasti solo pochi a guardare i due uomini.
― Sono dei bravi agricoltori ― dichiarò Chouns.
― Mica male ― convenne Smith e, avviatosi verso la più vicina fila di fiori, si chinò per coglierne uno. Ma a meno di un metro fu fermato dal ronzio emesso dalle code, che era aumentato fino a diventare un fischio acuto. Poi una coda gli sfiorò il braccio, con tocco delicato ma fermo.
― Per lo spazio... ― esclamò Smith.
Stava per estrarre il lanciaraggi, quando Chouns disse: ― Non ti agitare.
Cinque o sei creature si erano raccolte intorno ai due, offrendo con umile gentilezza steli di grano, e alcuni, servendosi della coda, staccavano i baccelli e se li portavano alla bocca.
― Sono amichevoli ― disse Chouns. ― Probabilmente, non rientra nelle loro usanze raccogliere i fiori. Può darsi che la coltivazione debba seguire regole precise. Tutte le civiltà agricole seguono i riti della fertilità, e probabilmente questa non fa eccezione. Chissà com'è il rituale... Per lo spazio, resteranno a bocca aperta, sulla Terra, quando glielo racconteremo.
Il ronzio delle code aveva ripreso il tono sommesso di prima. Intanto dalla capanna più grande, posta al centro delle altre, stava uscendo un altro animale.
― Probabilmente è il capo ― mormorò Chouns.
Costui avanzava lentamente con la coda eretta, stringendo fra i crini un piccolo oggetto nero. Quando fu a poco più di un metro dai due, la coda s'inarcò in avanti.
― Ci vuol fare un regalo ― disse Smith sorpreso. ― Chouns, per l'amor del cielo, guarda!
Chouns guardò e rimase senza fiato. ― Sono avvistatori spaziali Gamow ― mormorò. ― Quegli strumenti valgono diecimila dollari.
Smith tornò a sbarcare dalla nave dopo meno di un'ora. ― Funzionano. Sono perfetti. Siamo ricchi! ― gridò tutto eccitato dalla rampa.
― Ho controllato nelle capanne ― disse Chouns, ― ma non ne ho trovati altri.
― Contentati di due. Dio santissimo, sai che bel gruzzolo potremo ricavarne!
Ma Chouns non era soddisfatto. Tre creature l'avevano accompagnato di capanna in capanna, senza mai intervenire, ma badando sempre a tenersi fra lui e le ordinate coltivazioni. Adesso lo fissavano coi loro molteplici occhi.
― È anche l'ultimo modello. Guarda ― disse Smith indicando la dicitura: «Modello X-20, Prodotti Gamow, Varsavia, Settore Europeo».
Chouns guardò e disse con impazienza: ― Io voglio trovarne altri. So che ce ne sono altri, da qualche parte. Li voglio. ― Aveva le guance arrossate e ansava.
Il sole stava tramontando e cominciava a fare freddo. Smith sternutì due volte, e poi sternutì anche Chouns.
― Ci prenderemo la polmonite ― disse Smith.
― Devo riuscire a far capire a queste bestie cosa voglio ― insistette Chouns, testardo. Aveva ingoiato in fretta una salsiccia senza nemmeno scaldarla, ingollato una tazza di caffè, e adesso era pronto a ricominciare le ricerche.
Impugnando l'avvistatore e facendo dei gesti circolari con le braccia, continuava a ripetere: ― Ancora, ancora. ― Indicava lo strumento, poi mimava il gesto di aggiungerne altri e tornava a ripetere: ― Ancora, ancora.
Quando il sole scomparve all'orizzonte, si levò dai campi un forte ronzio: le creature avevano chinato la testa e sollevato la coda facendola vibrare nel crepuscolo.
― Per lo spazio! ― esclamò Smith. ― Guarda quei fiori ― e tornò a sternutire.
I fiori rosati stavano appassendo.
Gridando per superare il ronzio, Chouns rispose: ― Sarà una reazione al tramonto. Sai bene che i fiori si chiudono, di sera. Il ronzio dev'essere una specie di rito religioso che accompagna il fenomeno.
Il lieve tocco di una coda sul polso distolse la sua attenzione dai fiori. Chouns si voltò: la coda apparteneva alla creatura che gli stava vicino e che adesso l'aveva drizzata verso il cielo, in direzione di un astro luminoso basso sull'orizzonte. Poi la coda si spostò verso l'avvistatore, e quindi tornò a indicare la stella.
― Ma certo! ― esclamò Chouns eccitato. ― L'altro pianeta abitabile. Gli avvistatori devono venire da là. ― Poi, per associazione d'idee, aggiunse,: ― Ehi, Smith, gli iperatomici sono ancora guasti?
Era perplesso, colpito dalla constatazione di non averci più pensato fino a quel momento. Anche Smith doveva provare la stessa cosa, perché mormorò: ― Che strano, mi ero scordato di dirtelo... No, funzionano.
― Li hai aggiustati tu?
― Macché, non li ho neanche toccati. Ma mentre controllavo gli avvistatori li ho accesi, e funzionavano. Mi ero dimenticato che si erano guastati... Comunque, funzionano.
― Allora partiamo ― disse subito Chouns. Non gli passò neppure per la testa che era ora di dormire.
E infatti nessuno dei due dormì durante le sei ore di viaggio. Rimasero ai comandi, come se fossero in preda a un incontrollabile desiderio di arrivare al più presto. Atterrarono in una radura. Era pomeriggio, e faceva caldo come nelle zone subtropicali terrestri. Poco lontano scorreva placido un largo fiume dalle acque fangose. La sponda più vicina, di fango essiccato, era costellata di cavità.
I due sbarcarono e Smith gridò con voce roca: ― Chouns, guarda!
Chouns si liberò dalla mano con cui il compagno gli aveva stretto il braccio. ― Accidenti, gli stessi fiori!
Non c'era possibilità di equivoco: i fiori rosa pallido, steli coi baccelli, e la piccola corona di spighe verdi rasoterra. E anche lì crescevano in file ordinate, intersecate da sentierini e canaletti.
― Forse ci siamo sbagliati e siamo tornati indietro... ― disse Smith.
― Ma no, guarda il sole. È grande il doppio da come lo si vedeva dall'altro pianeta. E guarda là.
Da una delle cavità sulla sponda del fiume stavano uscendo diversi animali scuri, sinuosi, simili a serpenti. Avevano una trentina di centimetri di diametro ed erano lunghi tre metri. Le due estremità erano identiche, smussate e lisce. Al centro, sulla parte superiore, c'erano alcune sporgenze che, come a un segnale, crebbero fino a diventare ovali e poi si aprirono in due formando una specie di bocca senza denti che, aprendosi e chiudendosi, mandava degli schiocchi come di ramoscelli spezzati.
Poi, come sull'altro pianeta, quando la loro curiosità fu soddisfatta e la paura calmata, la maggioranza degli animali si avviò verso i campi.
Smith sternutì, e il piccolo spostamento d'aria fece sollevare dalla manica della sua tuta una nuvoletta di polvere. Lui la guardò stupito, poi si pulì la manica e commentò: ― Guarda come sono impolverato. ― La polvere s'innalzava in lievi volute rosa. ― Anche tu ― aggiunse dando una manata sulla schiena di Chouns.
Dopodiché tutti e due si misero a sternutire a più non posso.
― Dobbiamo averla raccolta sull'altro pianeta ― disse Chouns.
― Forse siamo allergici ― disse Smith.
― Impossibile. ― Chouns prese un avvistatore e lo mostrò ai serpenti gridando: ― Ne avete altri?
Seguì un silenzio rotto solo dallo sciacquio del fiume, poi un serpente sollevò una delle estremità agitandola a destra e a sinistra. La protuberanza centrale si gonfiò per poi aprirsi emettendo uno schiocco. E in quella bocca sdentata c'erano due avvistatori identici a quelli che Chouns e Smith avevano trovato sul primo pianeta.
― Dio del cielo! ― esclamò Chouns estatico. ― Non è magnifico? ― Allungò la mano per afferrare gli oggetti, e le pareti interne della pseudo-bocca si allungarono come tentacoli per facilitargli l'opera.
Chouns rideva felice. Erano proprio due avvistatori Gamow, identici in tutto e per tutto ai primi due. Chouns se li strinse al petto.
― Ehi, mi senti? ― stava gridando Smith. ― Maledizione, Chouns, ascoltami!
― Cosa? ― Chouns si voltò. Non si era accorto che Smith stava chiamandolo da un minuto.
― Guarda i fiori, Chouns.
Anche qui si stavano chiudendo come sull'altro pianeta, e i serpenti si erano drizzati, stando in equilibrio su una delle estremità e agitando l'altra ritmicamente. Sullo sfondo rosato si notavano appena le estremità brune.
― Non mi dirai che si chiudono perché tramonta il sole. Siamo ancora in pieno giorno.
Chouns alzò le spalle. ― Pianeti diversi, piante diverse. Vieni! Abbiamo trovato solo due avvistatori. Devono essercene altri.
― Chouns, torniamo a casa ― Smith si era saldamente piantato sulle gambe come se fossero pilastri e aveva afferrato il compagno per il colletto.
― Cosa fai? ― strillò Chouns rosso in viso, con voce indignata.
― Sto per darti un pugno se non risali subito a bordo.
Chouns rimase in forse per qualche secondo, poi si ammansì e disse: ― Va bene.
Erano a metà strada dall'ammasso stellare, quando Smith chiese: ― Come va?
Chouns si rizzò a sedere sulla cuccetta e si arruffò i capelli. ― Bene, mi pare. Mi sento di nuovo normale. Quanto ho dormito?
― Dodici ore.
― E tu?
― Ho fatto un pisolino. ― Smith si voltò ostentatamente verso il quadro dei comandi e regolò qualche strumento. ― Sai cos'è successo su quei pianeti?
― Perché? Tu lo sai?
― Credo di sì.
― Davvero? Potrei saperlo anch'io?
― La pianta era la stessa su tutt'e due i pianeti, su questo siamo d'accordo, no?
― Certamente.
― Fu trasportata non so come da un pianeta all'altro, e attecchì benissimo su tutt'e due; ma di tanto in tanto, credo per mantenersi robusta, ha bisogno di un incrocio, di un'impollinazione reciproca, cosa che succede abbastanza frequentemente sulla Terra.
― Sì.
― E lo strumento per compiere l'operazione siamo stati noi. Atterrati su un pianeta, ci siamo coperti di polline. Ricordi i fiori che si chiudevano? Devono averlo fatto dopo aver espulso il polline, e questa è anche la causa di tutti i nostri starnuti. Quando poi siamo andati sull'altro pianeta, ci siamo scossi di dosso la polvere, cioè il polline. Ne deriverà la comparsa di una nuova specie, un ibrido. Noialtri eravamo un paio di api bipedi, Chouns, al servizio dei fiori.
― Lavoro umile... ― commentò Chouns con un sorriso.
― Diavolo, non è questo che volevo dire. Non vedi il pericolo? Non capisci perché dobbiamo tornare al più presto a casa?
― Perché?
― Perché gli organismi non si adattano al nulla. A quanto risulta quelle piante si sono adattate all'impollinazione interplanetaria. Si sono servite di noi e ci hanno pagato, non con il nettare, come fanno di solito i fiori con le api, ma con gli avvistatori Gamow.
― E allora?
― Allora, non si può verificare un'impollinazione interplanetaria se non c'è qualcosa o qualcuno che trasporta il polline. Questa volta l'abbiamo fatto noi, ma eravamo i primi esseri umani capitati da quelle parti. Quindi, in precedenza dev'essersi trattato di creature non umane, forse le stesse che portarono in origine le piante su quei pianeti. E questo vuol dire che nei paraggi di quell'ammasso esiste una razza di esseri intelligenti... abbastanza intelligenti da saper viaggiare nello spazio. E la Terra deve saperlo.
Chouns scrollò lentamente la testa.
― Secondo te il mio ragionamento non fila? ― protestò Smith.
Chouns si prese la testa fra le mani. Aveva un'aria infelice: ― Diciamo che hai tralasciato alcune cose.
― E cioè?
― La teoria dell'incrocio è buona, ma non hai preso in considerazione alcuni particolari. Quando ci siamo avvicinati a quell'ammasso, i motori iperatomici hanno smesso improvvisamente di funzionare, in modo strano e insolito, tanto che né i controlli automatici né il nostro controllo manuale sono riusciti a trovare la causa del guasto. Dopo l'atterraggio non ci abbiamo più pensato e non abbiamo fatto nessun tentativo per ripararli. Però, più tardi, quando per caso li hai messi in funzione, hai scoperto che il guasto era sparito, ma ti è parsa una cosa di tanto poco conto che ti sei dimenticato di parlarmene finché non abbiamo deciso di ripartire. Ma c'è dell'altro. Non ti pare strano che abbiamo scelto di atterrare proprio in una località dove vivevano quegli animali dotati di una certa intelligenza? Caso? Fortuna? Non direi. E la nostra incredibile fiducia nell'innocuità di quelle creature? Non ci siamo nemmeno presi la briga di analizzare a fondo l'atmosfera prima di sbarcare. Ma quello che preoccupa più di tutto è la mia folle bramosia per i Gamow. Perché? D'accordo, sono strumenti di grande valore, ma non tale da giustificare il mio contegno... tanto più che non sono avido fino a quel punto.
Smith l'aveva ascoltato in un silenzio carico di disagio. ― Non vedo dove vuoi arrivare ― mormorò poi.
― Ma via, Smith, che lo sai benissimo. Non è evidente che qualcuno o qualcosa ci teneva sotto controllo mentale?
Smith torse la bocca in una smorfia metà di scherno e metà di dubbio: ― Ci risiamo con le percezioni extrasensoriali!
― Sì. I fatti parlano da soli. Ti ho già detto che le mie «sensazioni» sono probabilmente una forma rudimentale di telepatia.
― Questo lo chiami un fatto?
Un paio di giorni fa non la pensavi così.
― Adesso invece sì. Senti. Io sono più ricettivo di te e per questo l'effetto è stato molto più forte su di me. Ma adesso che è finito, capisco tutto meglio di te perché ho «ricevuto» di più. Chiaro?
― No ― disse Smith deciso.
― E allora stammi ancora a sentire. Hai detto che i Gamow sono stati la ricompensa per aver trasportato il polline.
― Sì.
― Bene. Mi sai dire da dove vengono? Sono prodotti terrestri, abbiamo perfino letto il marchio di fabbrica, il nome, il modello... eppure, prima di noi nessun essere umano era arrivato su quei pianeti, vero? Ma né tu né io ci abbiamo fatto caso, ci sembrava naturalissimo... e a quanto pare tu continui a essere dello stesso parere.
― Be'...
― Cosa ne hai fatto di quegli avvistatori dopo che siamo risaliti a bordo? Ricordo che li hai presi tu.
― Li ho chiusi nella cassaforte ― rispose Smith in tono difensivo.
― E dopo non li hai più toccati?
― No.
― E io?
― No, che io sappia.
― Ti do la mia parola d'onore che non ho aperto la cassaforte. Vuoi aprirla tu, adesso?
Smith si avviò lentamente alla cassaforte. Il meccanismo rispondeva alle loro impronte digitali, e quando vi posò la mano, lo sportello si aprì. Osservando il contenuto, l'espressione di Smith cambiò, si lasciò sfuggire un grido, e l'afferrò.
Erano quattro sassi di diverso colore, di forma approssimativamente triangolare.
― Hanno approfittato dei nostri sentimenti per farci fare quello che volevano ― disse Chouns scandendo piano le parole come per farle meglio penetrare nella testa cocciuta del compagno. ― Ci hanno indotto a pensare che i motori iperatomici non funzionavano, per costringerci ad atterrare su quei pianeti. Poi ci hanno fatto credere di aver trovato dei preziosi strumenti di precisione per risvegliare la nostra avidità e indurci a desiderarne altri.
― Ma chi sarebbe? Chi ci ha fatto questo? Quelli con la coda, i serpenti, o tutti e due?
― Né gli uni né gli altri ― disse Chouns. ― Sono state le piante.
― Le piante? I fiori?
― Sicuro. Abbiamo visto due diverse specie di animali coltivare la stessa specie di pianta. Poiché noi apparteniamo al regno animale, abbiamo subito pensato che i padroni fossero gli animali. Ma su cosa si basava la nostra convinzione? No, caro mio, sbagliavamo: erano le piante, quelle piante che hanno bisogno di essere curate e coltivate.
― Ma anche noi coltiviamo piante sulla Terra, Chouns.
― Per mangiarle.
― Quegli animali le mangeranno, cosa ne sai?
― Diciamo che sono sicuro che non le mangiano ― ribatté Chouns. ― Non ti sei accorto con quanta cura ci hanno manovrati? Ricordi come ho insistito per trovare un posto dove atterrare senza danneggiare la vegetazione?
― Io non me ne preoccupavo tanto.
― Non eri ai comandi. Le piante non si preoccupavano di te. E poi, non dimenticare che non abbiamo fatto caso al polline, sebbene ne fossimo tutti cosparsi, finché non siamo arrivati sul secondo pianeta. Allora ci siamo spolverati ben bene.
― Non ho mai sentito niente di così assurdo.
― Perché? Ti pare impossibile? Noi non attribuiamo intelligenza alle piante perché i vegetali sono privi di sistema nervoso. Chissà che invece quelle ce l'abbiano. Ricordi quella specie di baccelli carnosi sugli steli? Inoltre le piante non sono in grado di muoversi, ma non ne hanno bisogno se sono dotate di facoltà telepatiche e possono farsi ubbidire dagli animali. Si fanno curare, concimare, innaffiare, impollinare e così via. Gli animali dedicano tutto il loro tempo alla loro cura e sono felici e soddisfatti perché così vogliono le piante.
― Mi dispiace per te ― disse Smith. ― Se racconti questa storia sulla Terra, mi dispiace proprio per te.
― Non mi faccio illusioni ― mormorò Chouns. ― Però non posso fare a meno di avvertire la Terra. Hai visto anche tu quello che fanno gli animali.
― Secondo te, li rendono schiavi?
― Peggio. Sia quelli con la coda sia i serpenti un tempo dovevano aver raggiunto un alto grado di civiltà, al punto da saper viaggiare nello spazio, altrimenti le piante non crescerebbero su tutt'e due i pianeti. Ma quando le piante hanno cominciato a sviluppare facoltà extrasensoriali, probabilmente in seguito a una mutazione, le cose sono cambiate. Gli animali che hanno raggiunto il livello atomico sono creature pericolose. E così le piante hanno fatto in modo che dimenticassero tutto. Li hanno ridotti allo stadio in cui si trovano adesso... Accidenti, Smith, non capisci che quelle piante sono gli esseri più dannosi e pericolosi dell'Universo? La Terra deve essere informata, perché altri uomini potrebbero scendere su quei pianeti.
Smith si mise a ridere. ― Sei matto. Se quelle piante ci dominavano come dici tu, come mai ci hanno lasciato andare?
― Non lo so ― rispose Chouns dopo una breve pausa.
Smith aveva ritrovato il buonumore. ― Ti confesso che per un momento eri riuscito a convincermi.
Chouns si grattò con forza la testa. Perché li avevano lasciati andare? E perché lui sentiva quell'urgente necessità di avvertire subito la Terra, quando probabilmente nessun terrestre sarebbe tornato per chissà quante migliaia d'anni in quell'ammasso stellare?
Ci pensò su a lungo, e finalmente gli balenò un barlume d'idea. Cercò di afferrarla, ma gli sfuggì. Aveva provato per un fuggevole attimo la sensazione di essere costretto a comportarsi così, ma la sensazione era subito svanita.
Sapeva solo che la nave doveva continuare a procedere a tutta velocità, senza perdere un minuto.
Così, dopo un innumerevole numero di anni, erano tornate a verificarsi le condizioni favorevoli. Le protospore delle due specie planetarie derivate dalla pianta madre si unirono e si fusero, infiltrandosi negli abiti, nei capelli e nell'abitacolo dei nuovi animali. Si formarono quasi subito le spore ibride, quelle spore ibride che da sole avevano la capacità e la facoltà di adattarsi a un nuovo pianeta.
Le spore aspettavano tranquille, ora, sulla nave che, con la mente spronata dall'ultimo impulso della pianta madre, gli animali stavano spingendo alla massima velocità per portarle su un nuovo pianeta dove creature libere di muoversi avrebbero potuto prendersi cura di loro.
Le spore aspettavano con la pazienza delle piante (la pazienza che riesce a superare tutto e che nessun animale potrà mai avere) di arrivare sul nuovo mondo, e ognuna, nel suo piccolo, era un esploratore...
Titolo originale: Each an Explorer (1956).
I racconti di questo libro non sono mai stati raccolti in antologia ed è questo il vero motivo per cui li ho scelti, in risposta a una delle condizioni postemi dalla Doubleday. Tuttavia, Esplorazione vegetale è comparso in ben due antologie, una prima a opera di Judith Merrill, nel 1957, e l'altra a opera di Vic Ghidalia, nel 1973.
Non è poi molto, in fondo, dal momento che qualche mio racconto ha la tendenza a ricomparire più volte. Un raccontino intitolato Quanto si divertivano, per esempio, a tutt'oggi è apparso almeno quarantadue volte dopo la prima pubblicazione avvenuta nel 1951, e sono in progetto almeno altre otto edizioni. Forse è stato pubblicato anche altre volte, ma io ho solo quelle 42 nella mia biblioteca (per ora).
Se v'interessa, potrete trovarlo nel mio libro Earth Is Room Enough. È uno dei quarantadue volumi in cui è stato pubblicato. (Pubblicato in Italia dalle Edizioni Nord nel 1976 con il titolo La Terra è abbastanza grande).
Capita a volte che agli editori vengano idee strambe, e qualche volta io sono la loro vittima.
Il 14 novembre 1956 mi trovavo negli uffici della Infinite Science Fiction a parlare con l'editore e direttore Larry Shaw. Andavamo molto d'accordo (non crediate che sia un'eccezione, vado d'accordo quasi con tutti), e quando capitavo a New York andavo spesso a trovarlo.
Quel giorno gli era venuta un'idea. Disse che mi avrebbe dato il titolo per un racconto, il meno adatto a far venire un'ispirazione, e io dovevo scrivere in quattro e quattr'otto un racconto brevissimo basandomi su quel titolo. Aggiunse che avrebbe fatto la stessa proposta ad altri due autori.
Gli chiesi con circospezione quale fosse il titolo e lui rispose: ― Nulla.
― Nulla? ― dissi io.
― Nulla ― confermò lui.
E così dopo averci pensato su un momento, scrissi il raccontino che segue: Nulla!, aggiungendovi di mio il punto esclamativo.
Randall Garrett ne scrisse uno intitolato Blank?, e Harlan Ellison uno intitolato Blank senza segni di punteggiatura.