Il sabotatore

La figura era alta, ancor più di Lucky: quasi due metri e dieci, e larga in proporzione. Tutto ciò che se ne poteva scorgere era metallo lucente che brillava là dove era investito dal Sole, e nero d'ombra dove i raggi non lo colpivano.

Ma sotto quel metallo non c'erano carne e sangue, solo altro metallo, dispositivi, tubi, una micropila che alimentava la figura con energia nucleare e produceva i raggi gamma che Lucky aveva individuato con il suo ergometro tascabile.

Gli arti della creatura erano smisurati: se ne stava di fronte a Lucky, a gambe molto divaricate. Quelli che avevano l'apparenza di occhi erano due cellule fotoelettriche dal bagliore rossastro. La bocca era una fenditura nel metallo, sulla parte inferiore della faccia.

Era un uomo meccanico, un robot, e con una sola occhiata Lucky capì che non era di fabbricazione terrestre. La Terra aveva inventato i robot positronici, ma non aveva mai costruito un modello del genere.

La bocca del robot si apriva e si chiudeva con movimenti irregolari come se stesse parlando.

«Non può giungermi il suono, nel vuoto, robot» disse Lucky in tono severo. Era essenziale farsi riconoscere subito come uomo e di conseguenza come padrone. «Usa la radio.»

Adesso la bocca del robot rimase immobile ma una voce risuonò nella ricevente di Lucky, aspra e irregolare, le parole innaturalmente distanziate. Disse: «Cosa vuoi? Come mai ti trovi qui?».

«Non sta a te fare domande. Che ci fai tu qui?»

Un robot può solo dire la verità. «Ho avuto ordine di distruggere, a intervalli, determinati oggetti.»

«Da chi?»

«Ho avuto ordine di non rispondere a questa domanda.»

«Sei di fabbricazione siriana?»

«Sono stato costruito su uno dei pianeti della Confederazione Siriana.»

Lucky aggrottò la fronte. La voce di quella creatura era decisamente spiacevole. I pochi robot di produzione terrestre che Lucky aveva avuto occasione di vedere nei laboratori sperimentali erano forniti di un apparato vocale che, per suono diretto o via radio, produceva una voce gradevole e naturale, analoga a quella di un essere umano di buona cultura. Di certo i siriani dovevano aver fatto anche di meglio.

Ma passò a un problema più immediato. «Devo trovare una zona in ombra. Seguimi.»

Subito il robot rispose: «Ti conduco io all'ombra più vicina». Si avviò in fretta, ma le gambe metalliche si muovevano irregolarmente.

Lucky lo seguì. Non aveva bisogno di guida per raggiungere l'ombra, ma rimase un po' indietro per osservare i movimenti del robot.

Quella che a distanza gli era parsa un'andatura pesante, goffa, si rivelava adesso come fortemente claudicante. Zoppicava e aveva una voce aspra. Due difetti in un robot che a giudicare dall'esterno doveva essere un'autentica meraviglia tecnologica.

Lo colpì il pensiero che forse il robot non era stato adattato al calore e alle radiazioni di Mercurio, e probabilmente ne era stato lesionato. Lucky, da vero scienziato, provò una fitta di rammarico. Un prodotto troppo bello per subire simili danni!

Studiava con ammirazione quella macchina. Sotto il poderoso cranio di acciaio cromato c'era un delicato ovoide di platino-iridio spugnoso, delle dimensioni circa di un cervello umano. All'interno quadrilioni e quadrilioni di positroni si attivavano e svanivano in un milionesimo di secondo, e seguivano tracciati precalcolati che riproducevano, in modo semplificato, l'attività delle cellule del cervello umano.

Gli ingegneri avevano studiato questi tracciati positronici in modo che si adattassero alle esigenze dell'uomo e vi avevano inserito le «Tre Leggi della Robotica».

La Prima Legge diceva che un robot non può recare danno a un essere umano, né permettere che subisca danno. Nulla era prioritario; nulla poteva modificare questo concetto.

La Seconda Legge diceva che un robot deve ubbidire agli ordini impartiti, salvo a quelli che portavano a infrangere la Prima Legge.

La Terza Legge permetteva al robot di difendersi, sempre che la Prima e la Seconda Legge venissero osservate.

Lucky si riscosse dalle sue riflessioni quando il robot barcollò e per poco non cadde. Non c'erano irregolarità visibili nel terreno, nessuna asperità in cui fosse potuto inciampare: altrimenti l'ombra l'avrebbe rivelata.

In quel punto il terreno era perfettamente piano. Il passo del robot si era semplicemente interrotto, senza motivo, sbilanciandolo. Il robot riprese l'equilibrio agitando violentemente le braccia, dopo di che riprese a muoversi verso l'ombra come se nulla fosse accaduto.

Decisamente in cattive condizioni, rifletté Lucky.

Passarono insieme all'ombra e Lucky accese le luci della tuta.

«Fai male a distruggere apparecchiature preziose. Stai danneggiando l'uomo.»

Non passò traccia di emozione sulla faccia del robot, non sarebbe stato possibile. Né se ne coglieva nella voce quando disse: «Ubbidisco agli ordini».

«Questa è la Seconda Legge» osservò Lucky in tono duro. «Ma non puoi eseguire ordini che nuocciano agli esseri umani perché questo sarebbe violare la Prima Legge.»

«Non ho visto esseri umani. Non ho danneggiato alcun uomo.»

«Hai recato danno a uomini che non hai visto. Te lo dico io.»

«Non ho danneggiato nessun uomo» disse il robot, e Lucky si accigliò di fronte a quella stolida ripetizione. Forse, nonostante l'apparenza sofisticata, non era un modello molto avanzato.

Il robot proseguì: «Ho avuto l'ordine di evitare gli uomini. Mi hanno sempre avvertito quando gli uomini si stavano avvicinando, ma non sono stato avvisato del tuo arrivo».

Lucky osservò lo splendente paesaggio di Mercurio, al di là dell'ombra, per lo più grigio e rosso ma interrotto da una vasta area di quella sostanza nera e friabile che pareva così frequente in quella regione. Ripensava a Mindes che aveva avvistato due volte il robot - la sua storia aveva un senso adesso - e l'aveva perso di vista quando aveva tentato di avvicinarsi. L'aver tenuta segreta la sua uscita sul lato illuminato e l'impiego dell'ergometro gli avevano permesso di arrivare alla spiegazione, per fortuna.

«Chi ti ha ordinato di evitare gli uomini?» chiese d'un tratto, con forza.

Non si aspettava di cogliere di sorpresa il robot. Il cervello di un robot è una macchina: non può essere tratto in inganno, raggirato, così come non si può indurre una luce ad accendersi facendo finta di premere l'interruttore.

«Ho avuto ordine di non rispondere a questa domanda.» Poi, con voce lenta, cigolante, quasi che le parole uscissero contro la sua volontà, aggiunse: «Desidero che tu non mi ponga più simili interrogativi. Mi disturbano».

"Ti disturberebbe ancor più venir meno alla Prima Legge" pensò Lucky.

Lasciò deliberatamente l'ombra uscendo al Sole.

«Qual è il tuo numero di serie?» domandò al robot, che l'aveva seguito.

«RL-726.»

«Bene, RL-726. Ti è chiaro che sono un uomo?»

«Sì.»

«Io non ho una struttura che mi permetta di resistere al calore del Sole di Mercurio.»

«Neppure io» disse il robot.

«Me ne rendo conto» annuì Lucky, ripensando a come era barcollato pochi minuti prima. «Tuttavia in queste condizioni ambientali un uomo è molto più vulnerabile di un robot. Lo capisci, questo?»

«Sì.»

«Bene, allora, ascoltami. Voglio che tu interrompa la tua opera distruttiva, e voglio che tu mi dica chi ti ha ordinato di rovinare le apparecchiature.»

«Ho avuto ordine...»

«Se non mi ubbidisci» dichiarò Lucky a voce alta «rimarrò qui fuori al Sole fino a che le radiazioni non mi uccideranno e tu avrai infranto la Prima Legge in quanto hai permesso che perdessi la vita mentre avresti potuto impedirlo.»

Lucky attese. Nessun tribunale accettava la testimonianza di un robot, ma se la dichiarazione fosse stata quella che si aspettava, avrebbe avuto conferma di essere sulla pista giusta.

Il robot non parlò. Ondeggiò un poco. Un occhio si spense - un altro guasto! - poi si riaccese. Emise un gracidio incomprensibile, poi in un biascichio quasi da ubriaco disse:

«Ti porterò in salvo.»

«Opporrei resistenza e saresti costretto a farmi del male. Se rispondi alla mia domanda, tornerò all'ombra di mia volontà, e tu mi avrai salvato la vita senza nuocermi affatto.»

Silenzio..

«Vuoi dirmi chi ti ha ordinato di manomettere le apparecchiature?» insisté Lucky.

D'un tratto il robot si lanciò in avanti fermandosi solo a mezzo metro da Lucky. «Ti ho detto di non farmi questa domanda.»

Allungò le braccia come per afferrare Lucky, ma non completò il gesto.

Lucky lo osservava duramente, senza ansia. Un robot non può nuocere a un essere umano.

Poi il robot sollevò una delle poderose mani posandosela sulla testa, con il gesto tipico di chi soffre di emicrania.

Emicrania!

Un pensiero improvviso colpì Lucky. Grande galassia! Era stato cieco, stupidamente, imperdonabilmente cieco!

Non erano le gambe del robot a funzionare male, né la voce, né gli occhi. In che modo il caldo poteva lesionarli? Era stato il cervello positronico a subire danni, il delicato cervello positronico esposto al calore diretto e alle radiazioni del Sole di Mercurio per... quanto? Mesi?

Quel cervello doveva essere già gravemente avariato.

Si fosse trattato di un uomo, si sarebbe diagnosticato un grave esaurimento nervoso che rischiava di portarlo alla pazzia.

Un robot impazzito! Fatto uscire di senno dal caldo e dalle radiazioni!

Quanto potevano reggere le inibizioni delle Tre Leggi in un cervello positronico logorato?

E adesso Lucky Starr era lì, a minacciare un robot con la sua propria morte, mentre quello stesso robot, quasi impazzito, avanzava verso di lui, le braccia protese.

E proprio il dilemma in cui Lucky l'aveva posto aveva forse aggravato la follia.

Fece un passo indietro, prudentemente. «Ti senti bene?» domandò.

Il robot non disse nulla. Accelerò il passo.

Lucky pensò: "Se è pronto a infrangere la Prima Legge, deve essere sul punto della completa disgregazione. Un cervello positronico dovrebbe essere ormai in pezzi per arrivare a fare una cosa del genere".

D'altra parte il robot aveva resistito per mesi. Poteva resistere per altri mesi ancora.

Riprese a parlare nel disperato tentativo di prendere tempo, poter riflettere.

«Ti duole la testa?»

«Duole?» ripeté il robot. «Non capisco il significato di questa parola.»

«Comincio a risentire del caldo. Sarà meglio che torniamo all'ombra.»

Niente più minacce di lasciarsi morire. Adesso arretrava quasi di corsa.

La voce del robot barbugliò: «Mi è stato detto di impedire qualsiasi interferenza negli ordini che ho ricevuto».

Lucky afferrò il disintegratore e prese la mira. Un vero peccato se fosse stato costretto a distruggere quel robot. Era una magnifica opera dell'uomo e il Consiglio avrebbe potuto studiarne con profitto i congegni. Distruggerlo senza neppur avere ottenuto le informazioni desiderate gli ripugnava.

«Fermati dove sei» ordinò.

Il robot si lanciò verso di lui, muovendo le braccia a scatti, e Lucky riuscì a sfuggirgli per un pelo, buttandosi di lato e sfruttando al massimo la bassa gravità di Mercurio.

Fosse riuscito a raggiungere l'ombra, e se il robot gli fosse andato appresso...

Il freddo avrebbe potuto forse calmare quei tracciati positronici dissestati. Magari il robot sarebbe diventato più mite, più ragionevole, e lui non sarebbe stato costretto a sacrificarlo.

Di nuovo Lucky si scansò e il robot gli passò oltre, sollevando schizzi di terriccio nero che tornarono subito a posarsi in quanto non c'era un'atmosfera che li tenesse in sospensione. Era un inseguimento che aveva dell'arcano, i passi dell'uomo e del robot non provocavano alcun rumore nel vuoto.

Lucky si sentì un po' rassicurato notando che i movimenti del robot si erano fatti più convulsi: sempre meno il cervello positronico riusciva a controllare i dispositivi e il relè da cui dipendevano gli arti.

Eppure stava evidentemente cercando di tenerlo lontano dall'ombra. Non c'era dubbio che avesse intenzione di ucciderlo.

Ma Lucky non riusciva ancora a indursi a far uso del disintegratore.

Si arrestò bruscamente, imitato dal robot. Erano di fronte, a un metro e mezzo di distanza, sul nero tratto di solfuro di ferro. Quel nero pareva intensificare ancor più la calura, e Lucky si sentiva mancare le forze. Il robot si frapponeva truce tra lui e l'ombra.

Lucky ordinò: «Togliti di mezzo». Faceva fatica a parlare.

«Mi è stato detto di impedire qualsiasi interferenza negli ordini che ho ricevuto. Tu hai interferito.»

Non c'era scelta. Aveva sbagliato i calcoli. Non aveva mai avuto il minimo dubbio che le Tre Leggi non mantenessero sempre la loro validità, quali che fossero le circostanze. La verità gli si era presentata troppo tardi ed ecco il risultato del suo errore: stava rischiando la vita ed era costretto a distruggere il robot.

Sollevò tristemente il disintegratore.

Quasi all'istante si rese conto di aver fatto un altro errore di calcolo. Aveva aspettato troppo: con l'accumulo di calore e di stanchezza il suo corpo era diventato una macchina imperfetta, come il robot. Sollevò fiaccamente il braccio, sentendosi stordito, mentre il robot pareva ingigantire di fronte ai suoi occhi esausti.

Il robot scattò avanti e questa volta Lucky non riuscì a spostarsi con la velocità necessaria. Una botta violenta gli fece saltare di mano l'arma che volò in alto. Un braccio era stretto nella morsa di una mano metallica e un braccio d'acciaio gli serrava la vita.

Neppure in circostanze più propizie avrebbe potuto opporsi alla forza invincibile di quell'uomo meccanico. Nessun essere umano ci sarebbe riuscito. Adesso sentì che ogni capacità di resistenza lo abbandonava. Avvertiva solo il caldo.

Il robot intensificò la stretta, piegando Lucky all'indietro come fosse una bambola di pezza. Lui pensò nebulosamente alla debolezza strutturale della tuta isolante: una normale tuta spaziale avrebbe potuto proteggerlo anche dalla forza preponderante di un robot. Una tuta isolante, no. Da un momento all'altro una qualsiasi giuntura poteva cedere.

Agitò vanamente il braccio libero, affondando le dita nel terriccio nero.

Un pensiero gli guizzò nella mente. Cercò disperatamente di tendere i muscoli per un ultimo tentativo di respingere quella che sembrava ormai la morte inevitabile per mano di un robot impazzito.