I fantasmi del Sole

Lucky Starr e il suo piccolo amico, John Bigman Jones, seguirono il giovane ingegnere su per la rampa verso il portello stagno che dava accesso alla superficie del pianeta Mercurio.

Quanto meno le cose marciano alla svelta, pensò Lucky.

Si trovavano su Mercurio da un'ora soltanto ed egli aveva avuto appena il tempo di far sistemare nell'hangar sotterraneo la sua astronave, la Shooting Starr. Aveva visto solo i tecnici che si erano occupati delle formalità burocratiche e della nave.

O meglio, i tecnici e Scott Mindes, ingegnere incaricato del Progetto Luce. Pareva quasi che il giovanotto fosse già lì ad aspettarli, e subito aveva proposto un'escursione sulla superficie.

A vedere alcune cose interessanti, aveva spiegato.

Lucky non gli aveva creduto affatto, si intende. La faccia dell'ingegnere, dal mento piccolo, era tesa, e la bocca aveva contrazioni nervose quando parlava. Gli occhi evitavano lo sguardo fermo e freddo di Lucky.

Comunque aveva accettato di visitare la superficie. Per il momento sapeva solo che gli inconvenienti che si verificavano su Mercurio costituivano un problema delicato per il Consiglio della Scienza, quindi gli andava benissimo accettare le iniziative di Mindes e vedere dove lo portavano.

Quanto a Bigman Jones, era sempre ben contento di seguire Lucky, dovunque e in qualsiasi momento, per qualsiasi motivo o per nessuno.

Ma fu Bigman a inarcare le sopracciglia mentre tutti e tre infilavano le tute, e accennò con movimento quasi impercettibile alla fondina assicurata alla tuta di Mindes.

Lucky annuì tranquillo. Anche lui aveva notato l'estremità del disintegratore di grosso calibro che sporgeva dal fodero.

Il giovane ingegnere uscì per primo sulla superficie del pianeta, seguito da Lucky Starr e infine da Bigman.

Per qualche istante, nell'oscurità quasi totale, persero il contatto tra loro. Solo le stelle erano visibili, lucenti e dure nella fredda assenza d'aria.

Bigman fu il primo a riprendersi. La gravità su Mercurio era quasi pari a quella di Marte, suo pianeta natale. Le notti marziane erano quasi altrettanto buie e le stelle nel cielo notturno quasi altrettanto vivide.

La sua voce acuta risuonò allegra nei ricevitori degli altri: «Ehi, comincio a distinguere qualcosa».

Lo stesso stava avvenendo per Lucky, e la cosa lo lasciava perplesso. Impossibile che la luce delle stelle fosse tanto intensa. Un debole lucore diffuso si stendeva sul paesaggio travagliato velandone le rocce aguzze con una pallida lattescenza.

Lucky aveva visto qualcosa di simile sulla Luna, durante la sua notte lunga due settimane. Anche là il terreno era sterile, scabro, accidentato. Mai, in milioni di anni, né la Luna né Mercurio avevano conosciuto il tocco del vento o della pioggia che ne smussasse le asperità. La nuda roccia, più fredda di quanto la mente potesse immaginare, non conosceva il ghiaccio in quel mondo privo di acqua.

E anche nella notte lunare c'era stata quell'opalescenza. Ma là, almeno su una metà della Luna, c'era il chiarore della Terra. Quando la Terra era piena, aveva una luminosità sedici volte superiore a quella della Luna piena vista dalla Terra.

Lì su Mercurio, all'Osservatorio Solare presso il polo nord, non c'era pianeta vicino che giustificasse una simile luce.

«È dovuta alle stelle?» chiese infine, pur sapendo che non era così.

«No, alla corona solare» spiegò stancamente Mindes.

«Grande galassia!» esclamò Lucky con una mezza risata. «La corona! Ma certo, avrei dovuto immaginarlo!»

«Immaginare cosa?» intervenne Bigman. «Che sta succedendo? Ehi, Mindes, sputi fuori!»

«Giratevi!» consigliò Mindes. «Le state voltando le spalle.»

Si volsero tutti: Lucky emise un piccolo fischio, Bigman ebbe un'esclamazione di sorpresa. Mindes non disse nulla.

Una sezione dell'orizzonte si delineava nettissima contro un tratto di cielo perlaceo. Le scabrosità vi si stagliavano perfettamente a fuoco; subito sopra, il cielo era soffuso, per un terzo della distanza che separava l'orizzonte dallo zenit, da una morbida luminescenza che si attenuava via via verso l'alto e che proveniva da chiare, ondulate fasce di pallida luce.

«Quella è la corona, signor Jones» annunciò Mindes.

Per quanto sbalordito Bigman non dimenticava il suo concetto di buone maniere. «Mi chiami Bigman» borbottò. E poi: «Vuole dire la corona attorno al Sole? Non credevo che fosse tanto grande».

«Ha un'altezza di un milione e mezzo di chilometri e anche più» replicò Mindes. «Siamo su Mercurio, il pianeta più vicino al Sole. In questo momento ci troviamo ad appena quarantotto milioni di chilometri dal Sole. Lei viene da Marte, vero?»

«Ci sono nato e cresciuto.»

«Be', se in questo momento potesse vedere il Sole, le apparirebbe trentasei volte più grande di come lo si vede da Marte, e così pure la corona. E trentasei volte più luminoso, anche.»

Lucky annuì. Sole e corona solare sarebbero stati nove volte più grandi di come apparivano dalla Terra. E dalla Terra la corona solare non era visibile se non nei momenti di eclissi totale.

Be', dopotutto Mindes non aveva mentito: c'erano effettivamente cose interessanti da vedere su Mercurio. Cercò di visualizzare l'intera corona, di immaginare il Sole che ne era circondato e che adesso era nascosto poco sotto l'orizzonte. Doveva essere uno spettacolo maestoso!

«Questa luce viene chiamata "il fantasma bianco del Sole"» proseguì Mindes, e nella sua voce si avvertiva una nota amara.

«Mi piace. Una bella definizione» osservò Lucky.

«Bella?» ribatté Mindes con una certa violenza. «Non sono affatto d'accordo. Si parla anche troppo di fantasmi, su questo pianeta. Un pianeta iellato: non ne va mai dritta una, qui. Si sono dovute chiudere le miniere...» Ma non proseguì il discorso.

Lasciamo perdere per il momento, si disse Lucky.

«Dov'è il fenomeno che dovevamo osservare, Mindes?» chiese invece.

«Ah, sì. Dobbiamo fare un tratto a piedi. Non ci vuole molto, considerata la gravità, ma badate a dove mettete i piedi. Qui non ci sono strade e la luminescenza della corona può ingannare la vista. Vi consiglio le luci del casco.»

Così dicendo accese la propria e da sopra la visiera provenne un fascio luminoso che disegnò sul terreno chiazze irregolari gialle e nere. Lucky e Bigman lo imitarono e le tre figure presero ad avanzare con i pesanti stivali isolanti. Non provocavano rumore in quel vuoto, ma potevano avvertire le lievi vibrazioni che a ogni passo si trasmettevano nell'aria presente nelle tute.

Mindes chiaramente continuava a rimuginare sul pianeta.

«Detesto Mercurio» disse con voce bassa, tesa. «Sono qui da sei mesi, due anni mercuriani, e non ne posso più. Già non pensavo che ci sarei rimasto più di sei mesi, ma il termine è scaduto e non si è combinato niente. Assolutamente niente. È tutto sbagliato, qui. È il pianeta più piccolo. È il più vicino al Sole. Solo un lato è esposto al Sole. Laggiù» accennò con un braccio alla corona solare «c'è la parte illuminata, dove in certi punti si arriva a temperature tali da fondere il piombo e far bollire lo zolfo. E dall'altra parte» di nuovo sollevò il braccio «c'è l'unica superficie planetaria di tutto il sistema solare che non vede mai il Sole. È tutta una desolazione.»

Si interruppe per superare con un salto una spaccatura poco profonda ma larga circa un metro e ottanta, ricordo forse di un lontanissimo terremoto mercuriano, che non aveva potuto sanarsi in mancanza dell'azione del vento e della pioggia. Compì quel salto con una certa goffaggine, da tipico terrestre che, anche su Mercurio, si allontanava poco dalla gravità artificiale della Cupola Osservatorio.

Bigman emise un piccolo sbuffo di disapprovazione. Lui e Lucky superarono la crepa limitandosi in pratica a fare un passo un po' più lungo.

Cinquecento metri più oltre Mindes disse all'improvviso: «Possiamo vederlo da qui, e siamo arrivati giusto in tempo».

Si fermò barcollando un po' in avanti e allargò le braccia per riprendere l'equilibrio. Bigman e Lucky si arrestarono con un saltello che sollevò uno schizzo di pietrisco.

Mindes spense la luce del casco, additando qualcosa. Lucky e Bigman spensero a loro volta e là nel buio, nella direzione indicata da Mindes, scorsero una piccola chiazza bianca, irregolare.

Splendeva vividamente di un fulgore solare che Lucky non aveva mai visto sulla Terra.

«Siamo nell'angolazione più adatta per vederla» riprese Mindes. «È la cima della Montagna Bianca e Nera.»

«Così si chiama?» domandò Bigman.

«Già. E potete capirne il perché, immagino. Si trova giusto al di là del Terminatore... sapete, la linea che separa la parte oscura da quella illuminata.»

«Ma certo, lo so» protestò Bigman, indignato. «Mi crede così ignorante?»

«Sto semplicemente spiegando. C'è una piccola area attorno al polo nord e un'altra attorno al polo sud dove il Terminatore non si sposta molto con l'evoluzione di Mercurio attorno al Sole. All'equatore, invece, il Terminatore avanza di circa millecento chilometri in una direzione, per quarantaquattro giorni, e poi torna indietro per altrettanti chilometri nei quarantaquattro giorni successivi. Qui invece in tutto si sposta solo di ottocento metri circa, e per questo è una posizione adatta a un osservatorio. Il Sole e le stelle stanno fermi.

«La Montagna Bianca e Nera è in posizione tale che, al massimo, solo la metà superiore può venire illuminata, e via via che il Sole si abbassa la luce risale verso la cima.»

«E adesso» intervenne Lucky «solo la vetta è illuminata.»

«Sì, e per mezzo metro circa, ma per poco. Rimarrà completamente avvolta nel buio per un paio di giorni terrestri, poi i raggi del Sole riprenderanno lentamente a percorrerla.»

Già mentre parlava la macchia bianca si andava riducendo a un puntino che riluceva come una fulgida stella.

I tre attesero.

«Distogliete lo sguardo» consigliò Mindes «in modo che gli occhi si abituino gradualmente all'oscurità.»

E dopo alcuni lenti minuti disse: «Bene, tornate a guardare».

Lucky e Bigman ubbidirono e per un poco non riuscirono a vedere nulla.

E poi fu come se il paesaggio si fosse coperto di sangue. O almeno in parte. Dapprima ci fu solo un'impressione di rosso, poi si poté distinguere una montagna scoscesa che si innalzava rastremandosi. La vetta adesso era di un rosso ardente che si scuriva fino a scomparire giù per le pendici che sprofondavano in un nero totale.

«Cos'è successo?» domandò Bigman.

«Il Sole è calato quanto basta perché, rispetto alla cima della montagna, al di sopra dell'orizzonte restino solo la corona e le protuberanze solari. Queste sono getti di idrogeno che si sollevano per migliaia di chilometri sopra la superficie del Sole, e sono di un colore rosso vivo. Le protuberanze ci sono sempre, ma la loro luce viene annullata da quella del Sole.»

Di nuovo Lucky annuì. Anche le prominenze solari erano un qualcosa che dalla Terra, data l'atmosfera, risultavano visibili solo durante le eclissi totali, o con speciali strumenti.

«Lo chiamano "il fantasma rosso del Sole"» aggiunse Mindes a mezza voce.

«E siamo a due fantasmi dunque» osservò d'un tratto Lucky «uno bianco e uno rosso. È per via dei fantasmi che lei si porta appresso un disintegratore, signor Mindes?»

«Cosa?» sussultò l'ingegnere. E poi: «Ma che sta dicendo?».

«Che sarebbe ora che ci spiegasse la vera ragione per cui ci ha condotti qui. Non semplicemente per farci ammirare lo spettacolo, è chiaro, altrimenti non se ne andrebbe in giro con un disintegratore su un pianeta deserto e selvaggio.»

Trascorsero alcuni istanti prima che Mindes rispondesse.

«Lei è David Starr, vero?» chiese infine.

«Esatto» confermò Lucky, paziente.

«Lei è membro del Consiglio della Scienza, l'uomo che chiamano Lucky Starr.»

I componenti del Consiglio della Scienza evitavano di farsi pubblicità e fu con una certa riluttanza che Lucky ripeté: «Esatto».

«Allora ho visto giusto. Lei è uno dei loro investigatori e si trova qui per indagare sul Progetto Luce.»

Lucky serrò le labbra. Avrebbe sicuramente preferito non essere così conosciuto.

«Forse, o forse no. Perché mi ha condotto qui?»

«Sono ben sicuro di quel che dico. L'ho portata qui...» Mindes ansimava «per dirle come stanno le cose veramente, prima che gli altri le rifilino... un mucchio di... bugie.»

«A che proposito?»

«Dei guasti che continuano a verificarsi. Delle disgrazie che perseguitano... come odio questa parola... delle disgrazie del Progetto Luce.»

«Ma avrebbe potuto dirmi ciò che voleva anche alla Cupola. Perché farci arrivare fin qui?»

«Per due motivi» rispose l'ingegnere. Continuava ad avere il respiro affrettato, faticoso. «In primo luogo, sono tutti convinti che la colpa sia mia. Ritengono che io non sia in grado di realizzare il progetto, che stia facendo sprecare il denaro dei contribuenti. E volevo poterle parlare in disparte, capisce? Volevo evitare che prima sentisse la loro campana.»

«E perché dovrebbero dare a lei la responsabilità?»

«Mi considerano troppo giovane.»

«Quanti anni ha?»

«Ventidue.»

Lucky Starr, che non ne aveva molti di più, chiese: «E il secondo motivo?».

«Volevo che si facesse un'idea di Mercurio. Che ne assorbisse il... il...» Le parole gli vennero meno.

La figura alta ed eretta di Lucky si posava salda sulla superficie impervia di Mercurio, e il chiarore lattiginoso della corona solare, "il fantasma bianco del Sole", si rifletteva sulla superficie metallica della tuta.

«D'accordo, Mindes. Poniamo che io accetti la sua affermazione: non è sua la colpa della mancata riuscita del progetto. Di chi sarebbe, allora?»

La voce dell'ingegnere fu dapprima un mormorio indistinto da cui poi emersero delle parole. «Non lo so... o almeno...»

«Non capisco.»

«Senta» riprese Mindes in tono disperato «ho fatto dei controlli, per giorni e notti, cercando di individuare le cause dei guasti. Ho seguito i movimenti di tutti. Ho preso nota di quando si sono verificati gli incidenti, di quando i cavi si sono spezzati o le piastre di conversione sono state fracassate. E di una cosa sono certo...»

«Ossia?»

«Nessuno alla Cupola può essere direttamente responsabile. Nessuno. Siamo solo in una cinquantina alla Cupola, cinquantadue per la precisione, e le ultime sei volte che si è verificata un'avaria sapevo dove si trovavano tutti quanti. E nessuno era nei pressi dei luoghi degli incidenti.» La voce si era fatta stridula, adesso.

«E allora come spiega gli incidenti? Movimenti sismici? Radiazioni solari?»

«Fantasmi!» urlò fuori di sé l'ingegnere, agitando le braccia. «C'è un fantasma bianco e uno rosso. Li ha visti. Ma ci sono anche fantasmi a due gambe. Io li ho visti, ma chi sarebbe disposto a credermi?» Era quasi incoerente. «Le dico... le dico...»

«Fantasmi!» sbottò Bigman. «Ma dà i numeri?»

Subito Mindes strepitò: «Neanche voi mi credete. Ma io ve lo dimostrerò. Farò fuori il fantasma. Farò fuori tutti gli idioti che non vogliono darmi retta. Li faccio fuori tutti. Tutti!».

Con una risata aspra aveva estratto il disintegratore e con frenetica rapidità, prima che Bigman potesse intervenire per fermarlo, lo puntò contro Lucky e lo azionò.

L'invisibile campo di forza disgregatrice proruppe...