L’AGONIA

Uno dei primi giorni di dicembre, un vecchio settuagenario, con l’espressione ingenua di un bambino e l’aria assorta di un filosofo, malgrado la pioggia percorreva la rue de Varennes levando il naso davanti al portone di ogni palazzo, e cercando l’indirizzo del marchese Raphaël de Valentin. I segni di un dolore violento alle prese con un carattere dispotico erano nettamente visibili su quel viso incorniciato da lunghi capelli grigi scompigliati, avvizzito come una vecchia pergamena che si accartoccia nelle fiamme. Se un pittore avesse incontrato quello strano personaggio, vestito di nero, magro e ossuto, senz’altro l’avrebbe trasfigurato, una volta rientrato nel suo studio, in uno dei ritratti del suo album scrivendovi sotto: Poeta classico in cerca di una rima. Dopo aver verificato il numero che gli era stato indicato, quella palingenesi vivente di Rollin109 bussò piano piano al portone di un magnifico palazzo.

«È in casa il signor Raphaël?», chiese il brav’uomo a un guardaportone in livrea.

«Il signor marchese non riceve nessuno», rispose il servo trangugiando un’enorme fetta di pane inzuppata in un tazzone di caffè.

«Quella è la sua carrozza», rispose il vecchio sconosciuto indicando un magnifico equipaggio fermo sotto la tettoia di legno che, raffigurando una tenda di traliccio, riparava la scalinata. «Sta per uscire, vuol dire che l’aspetterò».

«Ah! Vecchio mio, potreste star qui fino a domani mattina», rispose il guardaportone. «Per il signore c’è sempre pronta una carrozza. Ma adesso vi prego di uscire, perderei un vitalizio di seicento franchi se lasciassi entrare, senza suo ordine, anche una sola volta, una persona estranea».

In quel momento, un vecchio di statura alta, con un vestito abbastanza simile a quello di un usciere ministeriale, uscì dal vestibolo e precipitosamente discese qualche gradino osservando il vecchio questuante meravigliato.

«D’altronde, ecco il signor Jonathas», disse il guardaportone. «Parlate con lui».

I due vecchi, attratti l’un l’altro da simpatia o da reciproca curiosità, s’incontrarono in mezzo alla vasta corte d’onore, sul piazzale dove ciuffi d’erba crescevano tra il selciato. In quel palazzo regnava un silenzio tremendo. Vedendo Jonathas, avreste voluto penetrare il mistero che avvolgeva il suo viso e di cui in quella tetra casa ogni minimo oggetto parlava. Il primo impegno di Raphaël, entrando in possesso dell’immensa eredità di suo zio, era stato quello di scoprire dove viveva il vecchio devoto servitore sul cui affetto poteva contare. Jonathas pianse di gioia rivedendo il giovane padrone al quale credeva di aver detto per sempre addio; ma niente poté eguagliare la sua felicità quando il marchese lo promosse all’eminente compito d’intendente. Il vecchio Jonathas diventò un intermediario potente tra Raphaël e il mondo intero. Ordinatore supremo dei beni del padrone, cieco esecutore di un pensiero sconosciuto, egli era come un sesto senso attraverso il quale le emozioni della vita giungevano a Raphaël.

«Signore, desidererei parlare col signor Raphaël», disse il vecchio a Jonathas mentre saliva qualche gradino della scalinata cercando di ripararsi dalla pioggia.

«Parlare col signor marchese!», esclamò l’intendente. «Ma se mi rivolge appena la parola, a me che sono il suo balio!».

«Ma anche io sono il suo balio», esclamò il vecchio. «Se vostra moglie un tempo l’ha allattato, io stesso l’ho fatto succhiare al seno delle muse. È il mio pupillo, il mio bambino, carus alumnus!110 Ho plasmato la sua mente, coltivato il suo intelletto, sviluppato il suo talento, e, oso dirlo, a mio onore e gloria. Non è uno degli uomini più notevoli della nostra epoca? È stato alunno mio in sesta, in terza, e nella classe di retorica. Sono il suo professore».

«Ah! Lei è il signor Porriquet».

«Per l’appunto. Ma signore...»

«St! Silenzio!», fece Jonathas a due lavapiatti che vociando rompevano il silenzio claustrale in cui quella casa era sepolta.

«Ma, signore», continuò il professore, «il signor marchese è forse malato?».

«Mio caro signore», rispose Jonathas, «Dio solo sa quel che ha il mio padrone. In tutta Parigi, vedete, non ci sono due case uguali alla nostra. Mi capite? due case. Credetemi, non ci sono. Il signor marchese ha fatto comprare questo palazzo che prima apparteneva a un duca, un pari di Francia. Per arredarlo ha speso trecentomila franchi. È una bella somma trecentomila franchi, no? Ma ogni stanza della nostra casa è un vero miracolo. “Bene!”, mi son detto vedendo una simile magnificenza, “è come con il signor nonno defunto! Il giovane marchese ha intenzione di ricevere la corte e tutta Parigi!”. Niente affatto. Il signore non ha voluto vedere nessuno. Conduce una vita strana, signor Porriquet, mi capite? Una vita inconciliabile.111 Il mio padrone si alza tutti i giorni alla stessa ora. Non c’è nessuno, proprio nessuno, tranne me, vedete, che possa entrare nella sua stanza. Apro alle sette, sia d’inverno che d’estate. È una particolare regola. Una volta entrato, gli dico: “Svegliatevi, signor marchese, dovete vestirvi”. Allora si sveglia e si veste. Devo dargli la veste da camera, fatta sempre allo stesso modo, e sempre della medesima stoffa. È compito mio sostituirla quando è diventata inservibile, e questo per evitargli la fatica di chiederne una nuova. Ha di queste stranezze! In fin dei conti, ha mille franchi al giorno da spendere, può fare quel che vuole, quel caro ragazzo. D’altronde, gli voglio talmente bene che se mi desse uno schiaffo sulla guancia destra, gli offrirei la sinistra! Se mi dicesse di fare cose ancor più difficili, farei anche quelle, capite? Del resto, mi ha incaricato di tali e tante piccole incombenze, che ho abbastanza di che occuparmi. Legge i giornali, no? L’ordine è quello di metterli sempre nello stesso posto, sullo stesso tavolo. Sempre alla stessa ora, vado a fargli anche la barba e la mano non mi deve tremare. Il cuoco perderebbe i mille scudi di vitalizio che gli spettano dopo la morte del padrone, se la colazione non fosse servita inconciliabilmente ogni mattina alle dieci, e il pranzo alle cinque esatte. Il menu è stabilito per tutto l’anno, giorno per giorno. Non c’è nulla che il signor marchese debba desiderare. Ha le fragole quando è stagione di fragole, e il primo sgombro che arriva a Parigi, se lo mangia lui. Il programma è stampato, la mattina sa a memoria quello che sarà il suo pranzo. Quindi, sempre alla stessa ora si veste con gli stessi vestiti, la stessa biancheria, che sempre io ho riposto sulla stessa poltrona. Devo inoltre badare che siano sempre della stessa stoffa; quando occorre, se, per esempio, la sua redingote si sciupa, bisogna sostituirla con un’altra senza farne parola con lui. Se è bel tempo, entro nella stanza e dico al mio padrone: “Dovreste uscire, signore!”. Lui mi risponde sì, o no. Se ha deciso di fare una passeggiata, non gli tocca aspettare per i cavalli, che sono sempre attaccati; il cocchiere sta lì inconciliabilmente, con la frusta in mano, come lo vedete adesso. La sera, dopo cena, il signore una volta va all’Opéra, un’altra al Théâtre... ma no, non è ancora andato al Théâtre des Italiens, solo ieri son riuscito a procuragli un palco. Poi, rincasa alle undici precise per coricarsi. Durante gli intervalli della giornata in cui non ha niente da fare, legge, legge sempre, capite?, è una fissazione. Mi è stato ordinato di leggere prima di lui il Journal de la librairie allo scopo di comprare libri nuovi e farglieli trovare sul camino lo stesso giorno in cui escono. Ho la consegna di entrare nella sua stanza allo scadere di ogni ora, per sorvegliare il fuoco e tutto il resto, per vedere che nulla gli manchi; mi ha dato, caro signore, un libriccino da imparare a memoria, dove c’è scritto tutto quello che devo fare, un vero catechismo. Di estate, con dei pezzi di ghiaccio, devo mantenere costantemente fresca la temperatura, e in ogni stagione devo mettere fiori freschi dappertutto. È proprio ricco! Ha mille franchi al giorno da spendere, può soddisfare ogni capriccio. Ma per tanto tempo gli è mancato il necessario, povero ragazzo! Non tormenta nessuno, è buono come il pane, non dice mai una parola, ma, per esempio, silenzio perfetto in tutta la casa e nel giardino! Insomma, il mio padrone non ha bisogno di formulare un solo desiderio, tutto procede a puntino, sotto controllo, e recta! E come ha ragione! La servitù, se non la tieni a bada, va tutto a rotoli. Io gli dico tutto quello che deve fare, e lui mi dà ascolto. Non credereste a che punto è arrivato. Le sue stanze sono... in... come dire? ah! tutte in fila. Bene, mettiamo che lui apra la porta della sua stanza o dello studio, crac! con un certo meccanismo si aprono da sole tutte le porte. Perciò può andare da un capo all’altro della casa senza trovare una sola porta chiusa. È carino, comodo e piacevole per noialtri! Ci è costato parecchio però! Insomma, signor Porriquet, alla fine mi ha detto: “Jonathas, ti prenderai cura di me come di un bambino in fasce”. In fasce, sissignore, in fasce, così mi ha detto. “Tu penserai a tutto quel che mi occorre, al posto mio”. Il padrone sono io, capite? E quasi quasi il servo è lui. Il perché? Ah! Questa è una cosa che nessuno al mondo sa, tranne lui e il buon Dio. È inconciliabile!».

«Sta scrivendo un poema», disse il vecchio professore.

«Pensate che stia scrivendo un poema? È una bella schiavitù! Ma, vedete, io non lo credo. Spesso mi ripete che vuol vivere come una vergetazione,112 vergetando. E, non più tardi di ieri, signor Porriquet, guardava un tulipano e, mentre si vestiva, diceva: “Ecco, questa è la mia vita. Io vergeto, mio povero Jonathas”. Adesso alcuni pretendono che lui sia monomaniacale. È inconciliabile!».

«Tutto mi dimostra, Jonathas», continuò il professore con magistrale gravità infondendo un profondo rispetto nel vecchio domestico, «che il vostro padrone è intento a una grande opera. Egli è immerso in vaste meditazioni, e non vuole esserne distratto dalle preoccupazioni della vita comune. Quando è nel pieno del suo lavoro intellettuale, un uomo di genio dimentica tutto. Un giorno il celebre Newton...»

«Ah! Newton, eh già!», disse Jonathas. «Non lo conosco».

«Newton, un grande geometra», continuò Porriquet. «Passò ventiquattro ore coi gomiti appoggiati sul tavolo; quando emerse dalla sua meditazione, credeva che il giorno successivo fosse ancora quello precedente, come se avesse dormito. Adesso voglio vederlo, quel caro ragazzo, posso essergli utile».

«Un momento!», gridò Jonathas. «Anche se foste il re di Francia, quello antico, s’intende, non potreste entrare, a meno di non forzare le porte e di passare sul mio corpo. Ma, signor Porriquet, adesso corro a dirgli che siete qui, e gli farò questa domanda: “Si può farlo salire?”. Lui risponderà o no. Io non gli dico mai: Sperate? volete? desiderate? Parole simili sono bandite dalla nostra conversazione. Una volta me n’è scappata una. “Vuoi farmi morire?”, mi ha detto pieno d’ira».

Jonathas lasciò il vecchio professore nel vestibolo, facendogli segno di non spingersi oltre; ma ritornò subito con una risposta positiva, e guidò il vecchio professore in pensione attraverso sontuose sale che avevano tutte le porte spalancate. Porriquet da lontano intravvide il suo alunno accanto a un camino. Avvolto in una veste da camera a grandi disegni e sprofondato in una poltrona, Raphaël stava leggendo il giornale. Sembrava in preda a un’estrema malinconia che si esprimeva nell’atteggiamento sofferente del corpo prostrato e si leggeva sulla fronte, sul viso pallido come un fiore avvizzito. Una specie di grazia femminea e certe stravaganze proprie dei ricchi malati distinguevano la sua persona. Le mani, simili a quelle di una bella donna, erano di un candore morbido e delicato. I capelli biondi, ormai radi, si arricciavano intorno alle tempie con ricercata civetteria. Una calotta greca, tirata da una nappina troppo pesante per il cachemire leggero di cui era fatta, gli pendeva da un lato del capo. Ai suoi piedi aveva lasciato cadere il coltello di malachite con fregi d’oro di cui si era servito per tagliare i fogli di un libro. Teneva sulle ginocchia il bocchino d’ambra di un magnifico houka indiano le cui smaltate spirali, come quelle di un serpente, giacevano sul pavimento della stanza, avendo egli dimenticato di assaporarne il fresco aroma. Eppure, la debolezza generale del suo corpo giovane era smentita dagli occhi azzurri in cui sembrava essersi ritirata tutta la vita, in cui brillava una passione straordinaria che immediatamente ti colpiva. Quello sguardo faceva male a vedersi. Alcuni potevano vederci disperazione; altri intuirvi una lotta interiore terribile come un rimorso. Era lo sguardo profondo di chi, ridotto all’impotenza, respinge in fondo al cuore i suoi desideri, oppure lo sguardo dell’avaro che gode al pensiero di tutti i piaceri che il suo denaro potrebbe procurargli, e intanto se li nega per non impoverire il suo tesoro; oppure lo sguardo di Prometeo incatenato, di Napoleone ormai in disgrazia che, nel 1815, all’Eliseo viene informato dell’errore strategico commesso dai suoi nemici, e chiede allora il comando per ventiquattro ore e non l’ottiene. Un vero sguardo di conquistatore e di dannato! o, meglio ancora, lo sguardo che parecchi mesi prima Raphaël aveva lanciato sulla Senna o sulla sua ultima moneta d’oro puntata al gioco. La sua volontà, la sua intelligenza, le sottometteva al rozzo buon senso di un vecchio contadino appena civilizzato da cinquant’anni di servizio. Quasi felice di diventare una specie di automa, per vivere abdicava alla vita, e privava la sua anima di ogni poesia del desiderio. Per meglio lottare contro il crudele potere di cui aveva accettato la sfida, si era fatto casto allo stesso modo di Origene, castrando la sua immaginazione. Il giorno successivo a quello in cui, diventato improvvisamente ricco a causa di un testamento, aveva visto restringersi la Pelle di zigrino, si trovava a casa del suo notaio. Qui, un medico abbastanza alla moda, al dessert aveva raccontato, tutto serio, come uno Svizzero era guarito da una malattia ai polmoni. Costui per dieci anni non aveva detto una sola parola, e si era adattato a respirare soltanto sei volte al minuto nell’aria greve di una stalla, seguendo un regime alimentare particolarmente delicato. «Farò come quest’uomo!», fra sé e sé pensò Raphaël, che voleva vivere ad ogni costo. In mezzo al lusso, conduceva la vita di una macchina a vapore. Quando il vecchio professore ebbe osservato quel giovane cadavere, fu colto da un brivido; in quel corpo esile e debole tutto gli sembrava artificiale. Nel vedere lo sguardo insaziabile del marchese, quella fronte oppressa dai pensieri, egli non poté riconoscervi l’alunno dalla carnagione fresca e rosea, dalle membra giovanili, quale ancora ricordava. Se il brav’uomo, critico sagace e fautore del buon gusto, classicista, avesse letto lord Byron, avrebbe creduto di vedere Manfred laddove avrebbe voluto vedere Childe Harold.

«Buon giorno papà Porriquet», disse Raphaël al suo professore stringendo le gelide dita del vecchio nella sua mano umida e ardente. «Come state?».

«Io sto bene», rispose il vecchio spaventato dal contatto di quella mano febbricitante. «E voi?».

«Oh! Spero di mantenermi in buona salute».

«Certamente sarete impegnato in qualche bel lavoro».

«No», rispose Raphaël. «Exegi monumentum,113 papà Porriquet, ho ultimato una grande pagina, e ho detto addio per sempre alla Scienza. So appena dove si trova il mio manoscritto».

«Sicuramente lo stile è puro», disse il professore. «Non avrete adottato, spero bene, il linguaggio di questa nuova scuola che crede di far meraviglie inventando Ronsard».

«Il mio è solo un lavoro di fisiologia».

«Oh! È detto tutto», rispose il professore. «Nel campo delle scienze, la grammatica deve adeguarsi alle esigenze delle scoperte. Nondimeno, caro ragazzo, uno stile chiaro, armonioso, la lingua di Massillon, di Buffon, del grande Racine, insomma uno stile classico, non guasta mai. Ma, caro amico», continuò il professore interrompendosi, «dimenticavo l’oggetto della mia visita, che è una visita interessata».

Ricordandosi troppo tardi della verbosa eleganza e delle eloquenti perifrasi alle quali un lungo professorato aveva abituato il suo maestro, Raphaël quasi si pentì di averlo fatto entrare; ma nel momento in cui stava per desiderare di vederlo fuori, represse subito il suo segreto desiderio, gettando un’occhiata alla Pelle di zigrino appesa davanti a lui e applicata sopra una stoffa bianca dove i suoi fatidici contorni erano accuratamente tracciati da una linea rossa che l’inquadrava esattamente. Dopo l’orgia fatale, Raphaël soffocava anche il più lieve dei suoi capricci, e viveva in maniera da non causare la minima contrazione a quel terribile talismano. La Pelle di zigrino era come una tigre con cui gli toccava vivere, senza provocarne la ferocia. Ascoltò perciò con pazienza le amplificazioni retoriche del professore, papà Porriquet impiegò un’ora per raccontargli le persecuzioni di cui era diventato oggetto dopo la rivoluzione di Luglio. Il brav’uomo, volendo un governo forte, aveva espresso il desiderio patriottico di lasciare i droghieri ai loro banconi, gli uomini di Stato a gestire gli affari pubblici, gli avvocati al Tribunale, i Pari di Francia al Luxembourg; ma uno dei ministri popolari del re-cittadino l’aveva allontanato dalla sua cattedra accusandolo di carlismo.114 Così il vecchio si trovava senza impiego, senza pensione e senza pane. Poiché rappresentava la provvidenza per un nipote povero a cui pagava la retta del seminario di Saint-Sulpice, egli era lì non tanto per se stesso quanto per questo figlio adottivo, e pregava il suo antico alunno di invocare presso il nuovo ministro non la sua reintegrazione, ma il posto di direttore in qualche collegio di provincia. Raphaël era in preda a un’invincibile sonnolenza, quando la voce monotona del brav’uomo cessò di risuonargli nelle orecchie. Si era costretto, per educazione, a guardare negli occhi bianchi e quasi immobili quel vecchio dalla loquela pesante e lenta, così da rimanere stupefatto, magnetizzato da un’inesplicabile forza d’inerzia.

«Ebbene, mio buon papà Porriquet», rispose senza saper bene a quale domanda stesse rispondendo, «Io non posso fare proprio niente. Vi auguro vivamente che possiate riuscire...»

In quel momento, senza rendersi conto dell’effetto che quelle banali parole piene di egoismo e di indifferenza producevano sulla fronte giallastra e rugosa del vecchio, Raphaël scattò in piedi come un giovane capriolo spaventato. Vide una sottile linea bianca tra il bordo della pelle nera e il contorno rosso; lanciò allora un grido terribile che spaventò il professore.

«Andatevene via, vecchio stupido!», si mise a urlare, «sarete nominato direttore! Non potevate chiedermi un vitalizio di mille scudi piuttosto che farmi esprimere un desiderio omicida? Non mi sarebbe costata niente la vostra visita. Ci sono mille impieghi in Francia, e io ho solo una vita! La vita di un uomo vale più di tutti gli impieghi del mondo. Jonathas!».

Jonathas comparve.

«Questa è opera tua, perfetto idiota. Perché sei venuto a dirmi di ricevere costui?», disse indicandogli il vecchio impietrito. «Ti ho forse affidato la mia anima perché tu possa straziarla? In questo momento mi porti via dieci anni di vita! Ancora un altro errore come questo, e mi porterai nella dimora dove ho accompagnato mio padre. Non avrei forse preferito possedere la bella Fedora piuttosto che fare un piacere a questa vecchia carcassa, a questa specie di straccio umano? Ho del denaro per lui. Del resto, anche se tutti i Porriquet del mondo morissero di fame, a me cosa importerebbe?».

Il viso di Raphaël era sbiancato per la collera; gli tremavano le labbra, solcate da una leggera schiuma, e negli occhi aveva un’espressione sanguinaria. A quella vista i due vecchi furono presi da un tremito convulso, come due bambini davanti a un serpente. Il giovane si lasciò cadere su una poltrona; intanto una specie di reazione gli turbava l’animo e dai suoi occhi fiammeggianti cominciarono a sgorgare le lacrime.

«Oh! Vita mia! Mia bella vita!», disse. «Mai più pensieri caritatevoli! Mai più amore! Più niente!». Si girò verso il professore. «Il male è fatto, mio vecchio amico», continuò con voce dolce. «Vi avrò almeno ampiamente ricompensato delle vostre cure. E la mia sventura avrà procurato il bene di un uomo buono e degno».

Nell’accento con cui quelle parole quasi inintelligibili furono pronunciate c’era tanta anima, che i due vecchi si misero a piangere così come si piange ascoltando una commovente aria cantata in una lingua straniera.

«È epilettico», disse a bassa voce Porriquet.

«Riconosco la vostra bontà, amico mio», continuò dolcemente Raphaël, «vogliate scusarmi. La malattia è una disgrazia, la crudeltà invece sarebbe un vizio. Adesso lasciatemi», aggiunse. «Domani o dopodomani, può darsi questa sera stessa, riceverete la vostra nomina, giacché la resistenza ha trionfato sul movimento.115 Addio».

Il vecchio si ritirò, pieno di orrore e in preda a vive inquietudini sulla salute morale di Valentin. In quella scena c’era stato, per lui, qualcosa di sovrannaturale. Dubitava di se stesso e si andava interrogando, come se si fosse svegliato dopo un sogno angoscioso.

«Ascolta, Jonathas», disse il giovane rivolgendosi al suo vecchio servitore. «Cerca di capire il compito che ti ho affidato!».

«Sì, signor marchese».

«Io sono come un uomo che si trova al di fuori della legge comune».

«Sì, signor marchese».

«Tutti i piaceri della vita scherzano e danzano come belle donne davanti a me, intorno al mio letto di morte; se li chiamo io muoio. Sempre la morte! Tu devi essere una barriera tra il mondo e me».

«Sì, signor marchese», disse il vecchio domestico asciugandosi le gocce di sudore che gli imperlavano la fronte piena di rughe. «Ma, se non volete vedere belle donne, come farete stasera al Théâtre des Italiens? Una famiglia inglese che rientra a Londra mi ha ceduto l’abbonamento e perciò avete un palco magnifico, di primo ordine».

Immerso in una fantasticheria profonda, Raphaël non ascoltava più.

Vedete quella fastosa carrozza, quel coupé semplice all’esterno, di colore scuro, che però ha sugli sportelli lo stemma splendente di un’antica e nobile famiglia? Quando passa veloce, le sartine l’ammirano, ne invidiano il raso giallo, il tappeto della Savonnerie, la passamaneria di una freschezza dorata, i morbidi cuscini, e i cristalli silenziosi. Due lacchè in livrea stanno dietro l’aristocratica vettura; ma in fondo ad essa, tra la seta, giace una testa ardente dagli occhi cerchiati, la testa di Raphaël, triste e pensoso. Immagine fatale della ricchezza! Di corsa, come un razzo, attraversa Parigi, arriva al peristilio del teatro Favart, si apre il predellino, i due lacchè lo sostengono, una folla invidiosa lo guarda. «Ma che ha fatto costui per essere così ricco?», dice un povero studente in legge, che, non avendo nemmeno uno scudo, non poteva ascoltare i magici accordi di Rossini. Camminando lentamente nei corridoi del teatro, Raphaël non si aspettava nessun godimento da quei piaceri un tempo così avidamente desiderati. Nell’attesa del secondo atto della Semiramide,116 passeggiava nel foyer, vagava attraverso le gallerie, incurante del suo palco nel quale non era ancora entrato. Ormai, nel profondo del suo cuore, il senso della proprietà non esisteva più. Come tutti i malati, non faceva altro che pensare al suo male. Appoggiato contro la cappa del camino, intorno alla quale si affollavano, al centro del foyer, giovani e vecchi eleganti, nuovi e vecchi ministri, pari senza parìa, e parìe senza pari, quali appunto li ha creati la rivoluzione di Luglio, insomma tutto un mondo di speculatori e di giornalisti, Raphaël vide a qualche passo da lui, tra tutte quelle teste, una faccia strana e soprannaturale. Ammiccando spudoratamente, si avvicinò a quell’essere strano per poterlo osservare più da vicino. «Che mirabile dipinto!», pensò. Le sopracciglia, i capelli, i baffi alla Mazarino che lo sconosciuto vanitosamente esibiva, erano tinti di nero; ma, applicato su una chioma certamente troppo bianca, il cosmetico aveva prodotto un finto colore violaceo le cui sfumature cambiavano secondo i riflessi più o meno vivi delle luci. Sul viso stretto e piatto le rughe erano colmate da spessi strati di rosso e di bianco, e vi si leggeva al contempo un’espressione di astuzia e d’inquietudine. Lì dove la faccia non era impreziosita da quei colori, spuntava una strana decrepitezza e un plumbeo incarnato; perciò era impossibile non ridere nel vedere quella testa dal mento a punta, dalla fronte prominente, abbastanza simile a quelle facce grottesche scolpite nel legno dai pastori tedeschi nelle ore di ozio. Guardando di seguito prima quel vecchio Adone e poi Raphaël, un osservatore avrebbe creduto di riconoscere nel marchese gli occhi di un giovane sotto la maschera di un vegliardo, e nello sconosciuto gli occhi spenti di un vegliardo sotto la maschera di un giovane. Valentin cercava di ricordarsi in quale occasione aveva visto quel vecchio magro, piccolo, con un’elegante cravatta, calzato alla moda, che faceva risuonare gli speroni e incrociava le braccia come avesse da spendere tutte le energie di una petulante giovinezza. La sua andatura non manifestava nessun imbarazzo, niente di artificioso. L’abito elegante, accuratamente abbottonato, lasciava indovinare un’antica e forte ossatura, conferendogli l’aspetto di un vecchio vanesio che ancora sta dietro alla moda. Questa specie di manichino pieno di vita aveva per Raphaël tutto il fascino di un’apparizione, ed egli lo contemplava come un Rembrandt annerito, di recente restaurato e verniciato, risistemato in una cornice nuova. Questo paragone, nei suoi ricordi confusi, gli fece trovare il filo della verità: riconobbe il mercante di oggetti rari, l’uomo al quale doveva la sua sventura. In quel momento un riso silenzioso sfuggì allo strano personaggio, imprimendosi sulle sue fredde labbra tese sopra la dentiera. A quella risata, la vivida immaginazione di Raphaël notò in quell’uomo una sorprendente rassomiglianza con la testa ideale che i pittori hanno attribuito al Mefistofele di Goethe. Mille superstizioni s’impadronirono del forte animo di Raphaël, in quel momento egli credette alla potenza del demonio, a tutti i sortilegi tramandati dalle leggende del Medio Evo e accolti nelle opere dei poeti. Con orrore, respingendo da sé il ruolo di Faust, subito invocò il cielo, dimostrando, come tutti i moribondi, una fervida fede in Dio e nella Vergine Maria. Una luce fresca e radiosa gli fece scorgere il cielo di Michelangelo, di Sanzio da Urbino: nubi, un vegliardo dalla barba bianca, teste alate, una bella donna assisa in un’aureola. Adesso comprendeva, faceva sue quelle mirabili creazioni le cui fantasie quasi umane gli spiegavano la sua avventura e gli consentivano ancora una speranza. Ma quando i suoi occhi tornarono a posarsi sul foyer del teatro, al posto della Vergine egli vide un’incantevole fanciulla, la detestabile Euphrasie, la danzatrice dal corpo lieve e flessuoso, che in un abito splendente, coperta di perle orientali, impaziente raggiungeva il suo impaziente vegliardo e, insolente, con la fronte ardita e gli occhi scintillanti, veniva a mettersi in mostra davanti a quel mondo invidioso di speculatori, per esibire la sconfinata ricchezza del mercante di cui lei stava dissipando i tesori. Raphaël si ricordò dell’augurio beffardo col quale aveva accettato il fatale regalo del vecchio, e assaporò tutti i piaceri della vendetta vedendo la profonda umiliazione di quella sublime saggezza, la cui sconfitta ancora poc’anzi gli sembrava impossibile. Il vecchio centenario rivolse un funebre sorriso a Euphrasie, che rispose con una parola d’amore; le porse il braccio rinsecchito, fece due o tre volte il giro del foyer, con vero piacere accolse gli sguardi appassionati e i complimenti provenienti dalla folla rivolti alla sua donna, senza vedere i sorrisi sprezzanti, senza udire le battute mordaci di cui era oggetto.

«In quale cimitero la giovane diavolessa avrà dissotterrato quel cadavere?», esclamò il più elegante dei romantici.

Euphrasie accennò un sorriso. Il motteggiatore era un giovane dai capelli biondi, dagli occhi azzurri e splendenti, slanciato, coi baffi, con un frac raccorciato, il cappello all’orecchio, la battuta facile, e tutto il linguaggio di quel mondo elegante.

«Quanti vecchi», fra sé e sé disse Raphaël, «concludono una vita di probità, di lavoro, di virtù, con una follia. Costui ha già i piedi gelati e fa l’amore».

«Ebbene, signore», esclamò Valentin fermando il mercante e lanciando un’occhiata a Euphrasie, «non vi ricordate più delle severe massime della vostra filosofia?».

«Ah!», rispose il mercante con una voce ormai tremante, «adesso sono felice come un giovane. Avevo preso l’esistenza a rovescio. In un’ora d’amore c’è tutta una vita».

In quel momento gli spettatori udirono suonare il segnale e lasciarono il foyer per ritornare ai loro posti. Il vecchio e Raphaël si separarono. Entrando nel suo palco, il marchese scorse Fedora all’altro capo della sala, proprio di fronte a lui. Sicuramente arrivata da poco, la contessa, scostandosi la sciarpa, metteva a nudo il collo, faceva quei piccoli impercettibili movimenti che fa una donna a cui piace civettare mettendosi in posa: tutti gli sguardi erano puntati su di lei. L’accompagnava un giovane pari di Francia, ella gli chiese il binocolo che gli aveva dato da portare. Da quel gesto, dal modo in cui ella guardò il suo nuovo accompagnatore, Raphaël intuì a quale tirannia fosse sottoposto il suo successore. Certamente affascinato come un tempo lui stesso era stato, illuso come lui, come lui in lotta, e sorretto dalla potenza di un vero amore, contro i freddi calcoli di quella donna, quel giovane doveva soffrire i tormenti ai quali Valentin aveva per fortuna rinunciato. Di gioia inesprimibile si animò il volto di Fedora, quando, dopo aver puntato il binocolo su tutti i palchi ed aver esaminato le toilettes, ella ebbe la netta consapevolezza di annientare con la sua bellezza ed eleganza le donne più belle ed eleganti di Parigi; si mise a ridere per mostrare i suoi denti bianchi, scosse la testa adorna di fiori per farsi ammirare, il suo sguardo si spostò da un palco all’altro, ironizzando su un berretto messo goffamente sulla fronte di una principessa russa o su un cappello sbagliato orribilmente calzato dalla figlia di un banchiere. D’un tratto ella impallidì, incontrando lo sguardo fisso di Raphaël; l’amante disprezzato la fulminò con un’intollerabile occhiata di disprezzo. Nessuno dei suoi amanti respinti misconosceva il suo potere, ma Valentin, unico al mondo, era al riparo dal suo fascino. Un potere impunemente sfidato è prossimo alla sua rovina. Questa massima nel cuore di una donna è incisa più profondamente che nella testa di un re. Perciò Fedora vedeva in Raphaël la morte di ogni suo fascino e civetteria. Una battuta, da lui pronunciata all’Opéra il giorno prima, era già diventata famosa in tutti i salotti di Parigi. La perentorietà di quel terribile epigramma aveva procurato alla contessa una ferita incurabile. In Francia sappiamo cauterizzare una ferita ma ci è ancora sconosciuto il rimedio per il male che produce una battuta. Quando tutte le signore cominciarono a guardare, alternatamente, il marchese e la contessa, Fedora avrebbe voluto vederlo sprofondato nelle segrete di una qualche Bastiglia. Nonostante il suo talento per la dissimulazione, infatti, le rivali indovinavano la sofferenza di Fedora. Le sfuggiva, alla fine, la sua ultima consolazione. Quelle parole deliziose: Io sono la più bella!, quella frase eterna, che calmava tutti i dispiaceri della sua vanità, diventò una menzogna. Durante l’ouverture del secondo atto, una donna venne a sedersi accanto a Raphaël, in un palco fino allora rimasto vuoto. Da tutta la platea si levò un mormorio di ammirazione. Quel mare di facce agitò le sue onde intelligenti e tutti gli occhi osservarono la sconosciuta. Giovani e vecchi fecero un tumulto così prolungato che, all’alzarsi del sipario, gli orchestrali dapprima si girarono reclamando silenzio, ma poi si unirono agli applausi accrescendo la confusione e il rumore. Conversazioni animate nacquero in ogni palco. Le donne si erano armate tutte dei loro binocoli, i vecchi, ringiovaniti, con la pelle dei guanti si pulivano le lenti degli occhiali. Gradualmente l’entusiasmo si calmò, il canto risuonò sulla scena, tutto rientrò nell’ordine. La buona società, vergognandosi di aver ceduto per un attimo a un impulso naturale, riprese l’aristocratica freddezza delle sue buone maniere. I ricchi non vogliono stupirsi di niente, in un’opera devono riconoscere a prima vista il difetto che li dispenserà dall’ammirazione, sentimento volgare. Tuttavia alcuni signori restarono immobili, senza ascoltare la musica, perduti in un’estasi ingenua, tutt’intenti a contemplare la vicina di Raphaël. In un palco di platea Valentin scorse, accanto ad Aquilina, la faccia ignobile e sanguigna di Taillefer, che gli rivolse una smorfia di approvazione. Poi vide Émile che, in piedi nella platea, sembrava dirgli: «Ma guardala, insomma, la bella creatura che ti sta accanto!». Infine Rastignac, seduto accanto a madame de Nucingen e a sua figlia, tormentava i suoi guanti come un uomo disperato di essere lì incatenato, non potendo recarsi dalla divina sconosciuta. La vita di Raphaël dipendeva da un patto che egli aveva fatto con se stesso e che non era stato ancora violato; a se stesso aveva promesso di non guardare mai attentamente nessuna donna e per mettersi al riparo da ogni tentazione, portava con sé un occhialino la cui lente microscopica, disposta ad arte, distruggeva l’armonia dei lineamenti più belli, conferendo loro un orrendo aspetto. Ancora in preda al terrore che l’aveva colto al mattino, quando a causa di un augurio espresso per semplice cortesia il talismano si era subito rimpicciolito, Raphaël prese la ferma risoluzione di non girarsi verso la sua vicina. Restando seduto nella posa di una duchessa, volgeva le spalle all’angolo del palco, e maleducatamente impediva alla sconosciuta la vista di mezza scena, con l’aria di disprezzarla, d’ignorare addirittura che una graziosa signora si trovava dietro di lui. La vicina imitava esattamente la postura tenuta da Valentin. Col gomito appoggiato sul bordo del palco, teneva la testa girata di tre quarti, guardando i cantanti, come se si fosse messa in posa davanti a un pittore. Quelle due persone somigliavano a due innamorati che hanno litigato e si tengono il broncio, si voltano le spalle e stanno per abbracciarsi alla prima parola d’amore. A tratti, le lievi piume di marabù o i capelli della sconosciuta sfioravano la testa di Raphaël causandogli una sensazione di piacere contro la quale egli lottava coraggiosamente; poco dopo egli avvertì il dolce contatto di trine e merletti che guarnivano la veste, poi la veste stessa fece udire il fruscìo così femminile delle sue pieghe, un fremito pieno di languidi incantesimi; infine il moto impercettibile del respiro impresso al petto, alla schiena, alle vesti di quella donna graziosa, tutta la sua soave vita d’un tratto, come una scintilla elettrica, si comunicò a Raphaël; il tulle e il merletto trasmisero fedelmente alla sua spalla, che se ne sentiva solleticata, il delizioso calore di quella schiena bianca e nuda. Per un capriccio della natura, quei due esseri, disuniti dall’ossequio alle buone maniere, separati dagli abissi della morte, respirarono insieme e forse pensarono l’uno all’altro. L’acuto profumo dell’aloe finì con l’inebriare Raphaël. La sua immaginazione irritata dall’ostacolo, e resa ancor più capricciosa dalle difficoltà, rapidamente gli delineò una donna a tratti di fuoco. Si girò bruscamente. Certamente urtata dal fatto di trovarsi a contatto con un estraneo, la sconosciuta fece un movimento analogo; i loro volti, animati dallo stesso pensiero, rimasero l’uno di fronte all’altro.

«Pauline!».

«Signor Raphaël!».

Per un istante si guardarono in silenzio, impietriti tutti e due. Pauline gli appariva in una toilette semplice e di buon gusto. Attraverso i veli che castamente le avvolgevano il busto, occhi esperti avrebbero potuto scorgere un candore di giglio e indovinare delle forme che anche una donna avrebbe ammirato. C’era in lei sempre la stessa modestia verginale, il suo celeste candore, lo stesso atteggiamento gentile. Dalla stoffa delle maniche si notava il tremore che faceva palpitare il corpo come palpitava il cuore.

«Oh! Venite domani», disse lei, «all’hôtel Saint-Quentin, a riprendervi le vostre carte. Sarò lì a mezzogiorno. Siate puntuale».

Si alzò precipitosamente e scomparve. Raphaël avrebbe voluto seguire Pauline, ma temendo di comprometterla si trattenne, guardò Fedora, la trovò brutta; poi, non potendo comprendere una sola frase della musica, sentendosi soffocare in quella sala, col cuore gonfio, uscì e tornò a casa.

«Jonathas», disse al suo vecchio servitore quando si mise a letto, «dammi mezza goccia di laudano su una zolletta di zucchero, e domani non svegliarmi prima delle dodici meno venti».

«Voglio essere amato da Pauline», gridò il giorno seguente guardando il talismano con un’angoscia indefinibile.

La Pelle non fece nessun movimento, sembrava avesse perso la sua capacità di contrarsi, evidentemente non poteva realizzare un desiderio ormai esaudito.

«Ah!», esclamò Raphaël, sentendosi come liberato da una cappa di piombo che aveva sopportato dal giorno in cui gli era stato dato il talismano, «tu menti, non mi obbedisci, allora il patto è rotto! Sono libero, vivrò. Era tutto un brutto scherzo».

Dicendo queste parole, non osava credere ai suoi pensieri. Si vestì con la stessa semplicità di un tempo e volle recarsi a piedi alla sua antica abitazione, cercando di riandare con la mente a quei giorni felici quando si abbandonava senza pericolo alla furia dei suoi desideri, quando ancora non sapeva giudicare il valore dei piaceri umani. Camminava e non vedeva più la Pauline dell’hôtel SaintQuentin, ma la Pauline della sera prima, l’amata perfetta, così spesso sognata, fanciulla intelligente, affettuosa, dotata di buon gusto, che capisce i poeti, comprende la poesia e vive in mezzo al lusso; in poche parole, Fedora dotata di un’anima bella, oppure Pauline contessa e due volte milionaria come lo era Fedora. Quando si trovò sulla soglia consunta, sulla lastra spaccata di quella porta, dove tante volte aveva avuto pensieri di disperazione, una vecchia uscì dalla stanza e gli chiese: «Siete voi il signor Raphaël de Valentin?».

«Sì, brava donna», rispose lui.

«Conoscete il vostro vecchio alloggio», continuò lei, «vi aspettano lì».

«Questo hôtel è sempre tenuto dalla signora Gaudin?», domandò lui.

«Oh! No, signore. Adesso la signora Gaudin è baronessa. Abita in una bella casa di sua proprietà, dall’altra parte del fiume. Suo marito è ritornato. Ne ha portati di soldi! Dicono che, se volesse, potrebbe comprarsi tutto il quartiere Saint-Jacques. Mi ha dato gratistutto quello che le restava in magazzino e il resto del contratto d’affitto. Ah! È rimasta sempre la stessa brava donna! Oggi non è più superba di quanto non lo fosse ieri».

Raphaël salì velocemente alla sua soffitta e, arrivato agli ultimi scalini, udì il suono del pianoforte. Pauline era lì, vestita modestamente in un abito di percallina; ma la fattura dell’abito, i guanti, il cappello, lo scialle, negligentemente gettati sul letto, stavano a indicare un bel patrimonio.

«Ah! Eccovi finalmente!», gridò Pauline voltando il capo e alzandosi con un moto spontaneo di gioia.

Raphaël venne a sedersi accanto a lei, rosso di vergogna, felice; la guardò senza dire niente.

«Perché ci avete abbandonato?», continuò abbassando gli occhi mentre il viso le s’imporporava. «Cosa ne è stato di voi?».

«Ah! Pauline, sono stato e sono ancora così infelice!»

«Ecco!», esclamò lei tutta commossa. «Quale fosse stata la vostra sorte l’avevo indovinato ieri vedendovi ben vestito, ricco, in apparenza; ma in realtà, signor Raphaël, non è sempre tutto come prima?».

Non riuscendo a trattenere le lacrime che gli salivano agli occhi, Valentin esclamò: «Pauline!... Io...». Non poté finire, gli occhi gli splendevano d’amore, e nello sguardo gli traboccava il cuore.

«Oh! Mi ama, lui mi ama», gridò Pauline.

Raphaël fece un cenno col capo, poiché non era in grado di pronunciare una sola parola. A quel gesto, la fanciulla gli prese la mano, gliela strinse, e un po’ ridendo un po’ singhiozzando gli disse: «Ricchi, ricchi, felici, ricchi, la tua Pauline è ricca. Ma oggi io dovrei essere povera. Quante volte ho detto che queste parole: Lui mi ama, le avrei pagate con tutto l’oro del mondo. O Raphaël mio! Ho dei milioni. Tu ami il lusso, sarai contento; ma devi amare anche il mio cuore, c’è tanto amore per te in questo cuore! Non lo sai? È ritornato mio padre. Adesso sono una ricca ereditiera. Mia madre e mio padre mi lasciano completamente padrona di me stessa; sono libera, capisci?».

In preda a una specie di delirio, Raphaël teneva fra le sue le mani di Pauline, e le baciava avidamente, con un tale ardore che quei baci sembravano un tremito convulso. Liberatesi le mani, Pauline le gettò sulle spalle di Raphaël e lo tenne stretto; si ritrovarono, si strinsero e si abbracciarono con quel sacro e delizioso fervore, libero da ogni secondo fine, il fervore di cui è fatto soltanto un bacio, il primo bacio col quale due anime prendono possesso l’una dell’altra.

«Ah!», esclamò Pauline lasciandosi cadere sulla sedia, «non voglio lasciarti più. Non so da dove mi viene una simile sfrontatezza!», continuò arrossendo.

«Sfrontatezza, Pauline mia? Oh! Non temere, è l’amore, l’amore vero, profondo, eterno come il mio, non è così?»

«Oh! Parla, parla», disse lei. «La tua bocca è rimasta così a lungo muta per me!».

«Allora mi amavi?».

«Dio! Se ti amavo! Quante volte ho pianto, credimi, facendo la tua stanza, compiangendo la tua e la mia miseria. Per evitarti un dispiacere mi sarei venduta l’anima al diavolo! Oggi, Raphaël mio, giacché è a me che appartieni: mia questa bella testa, mio il tuo cuore! Oh! sì, il tuo cuore soprattutto, eterna ricchezza! Allora, dov’ero arrivata?», continuò dopo una pausa. «Ah! Ecco: abbiamo tre, quattro, cinque milioni, credo. Se fossi povera forse ci terrei a portare il tuo nome, a essere chiamata tua moglie, ma, in questo momento, vorrei sacrificarti il mondo intero, vorrei essere ancora e sempre la tua serva. Vedi, Raphaël, offrendoti il mio cuore, la mia persona, il mio patrimonio, oggi non ti darei niente di più del giorno in cui misi lì», e intanto indicava il cassetto del tavolo, «una moneta da cento soldi. Oh! Come mi ferì, allora, la tua gioia».

«Ma perché sei ricca? Perché non sei vanitosa?», gridò Raphaël. «Io non posso fare niente per te».

E si torceva le mani per la felicità, per la disperazione e l’amore.

«Quando sarai diventata la signora marchesa de Valentin, ti conosco, anima celeste, quel titolo e il mio patrimonio non varranno...»

«Nemmeno uno dei tuoi capelli», esclamò lei.

«Anche io ho dei milioni; ma cosa sono adesso per noi le ricchezze? Ah! Sono padrone della mia vita, posso offrirtela, prendila».

«Oh! Il tuo amore, Raphaël, il tuo amore vale il mondo intero. I tuoi pensieri mi appartengono? Allora io sono la più felice fra tutte le donne fortunate».

«Attenta, ci possono sentire», disse Raphaël.

«Oh! Non c’è nessuno», rispose lei lasciandosi sfuggire un gesto birichino.

«Allora, vieni», gridò Valentin e tendeva verso lei le braccia.

Ella gli saltò sulle ginocchia e congiunse le mani attorno al collo di Raphaël: «Abbracciatemi», disse, «per tutti i dispiaceri che mi avete dato, per cancellare la pena che ogni vostro piacere mi ha procurato, per tutte le notti passate a dipingere i miei parafuoco».

«I tuoi parafuoco!».

«Visto che siamo ricchi, tesoro mio, posso dirti tutto. Povero bambino! Come è facile ingannare gli uomini intelligenti! Credi che avresti potuto avere dei gilè bianchi e camicie pulite due volte a settimana, con tre franchi al mese per il bucato? E poi di latte ne bevevi il doppio di quanto ti spettava per quello che pagavi. T’imbrogliavo su tutto: il fuoco, l’olio, e anche il denaro! Oh! Raphaël mio, non prendermi come moglie», disse ridendo, «sono una persona troppo astuta».

«Ma come facevi, allora?».

«Lavoravo fino alle due del mattino», rispose lei, «e a mia madre davo la metà del ricavato dei miei parafuoco, a te l’altra».

Per un attimo si guardarono, tutti e due inebetiti di gioia e d’amore.

«Ah!», esclamò Raphaël, «sicuramente un giorno ci toccherà pagare con un tremendo dolore questa felicità».

«Non sarai mica sposato!», gridò Pauline. «Ah! Non voglio cederti a nessun’altra».

«Sono libero, cara».

«Libero», ripeté lei. «Libero, e tutto mio!».

Si lasciò cadere sulle ginocchia, congiunse le mani, e guardò Raphaël con un ardore pieno di devozione.

«Ho paura di diventare pazza. Come sei caro!», continuò facendo scorrere le dita tra i biondi capelli del suo amato. «Che stupida la tua contessa Fedora! Che piacere ho provato ieri nel vedermi omaggiata da tutti quegli uomini. Lei non è mai stata così acclamata! Sai, caro, quando con la spalla ti ho toccato il braccio, dentro di me ho sentito una voce che gridava: «Lui è qui». Mi sono girata e ti ho visto. Allora sono scappata, mi era venuta voglia di saltarti al collo, lì davanti a tutti».

«Beata te che puoi parlare», esclamò Raphaël. «A me invece mi si stringe il cuore. Vorrei piangere e non posso. Ma non ritrarre la mano. Mi sembra che potrei restare così a guardarti per tutta la vita, felice, contento».

«Oh! Ripetilo, amore mio!».

«E che cosa sono le parole», continuò Valentin versando una calda lacrima sulle mani di Pauline. «Più tardi, cercherò di dirti il mio amore, adesso posso solo sentirlo...».

«Oh!», esclamò lei, «quest’anima bella, questa bella intelligenza, questo cuore che conosco così bene, appartengono tutti a me, come io a te».

«Per sempre, mia dolce creatura», disse Raphaël con voce commossa. «Tu sarai la mia sposa, il mio buon genio. La tua presenza ha sempre dissipato i miei dolori e confortato la mia anima; adesso il tuo sorriso angelico mi ha come purificato. Credo di cominciare una nuova vita. Il crudele passato e le mie tristi follie ormai mi sembrano solo un brutto sogno. Sono puro, accanto a te. Sento il soffio della felicità. Oh! Resta qui per sempre», aggiunse stringendola castamente sul cuore palpitante.

«Venga pure la morte quando vorrà», esclamò in estasi Pauline, «ho vissuto».

Felice chi potrà immaginare la loro gioia, perché l’avrà conosciuta!

«Oh! Raphaël mio», disse Pauline dopo qualche ora di silenzio, «vorrei che in futuro nessuno potesse entrare in questa adorata soffitta».

«Bisogna murare la porta, mettere un’inferriata al lucernario e comprare la casa», rispose il marchese.

«Per l’appunto!», disse lei. Poi, dopo un momento di silenzio:«Ci siamo dimenticati di cercare le tue carte!».

Si misero a ridere con dolce innocenza.

«Bah! Me ne infischio di tutte le scienze», disse Raphaël.

«Ah! Signore, e la gloria?».

«Sei tu la mia gloria».

«Come eri infelice quando facevi tutte queste zampe di gallina», disse lei sfogliando le carte.

«La mia Pauline...»

«Oh! Sì, sono la tua Pauline. E allora?»

«Dove abiti adesso?»

«In rue Saint-Lazare. E tu?»

«In rue de Varennes»

«Come saremo lontani l’uno dall’altro fino a...». S’interruppe guardando il suo amico con aria civettuola e maliziosa.

«Ma», rispose Raphaël, «ci toccherà restare separati al massimo quindici giorni».

«È vero! Tra quindici giorni saremo marito e moglie!», si mise a saltare come una bambina. «Oh! Che figlia snaturata son io», continuò, «non penso più né a padre né a madre, e a nient’altro al mondo! Non lo sai, mio povero caro? Mio padre è molto malato. È tornato dalle Indie molto sofferente. Per poco non moriva a Le Havre dove siamo andate a prenderlo. Ah! Dio», esclamò guardando l’orologio, «sono già le tre. E alle quattro devo essere da lui, quando si sveglia. A casa comando io: mia madre fa tutto quello che voglio io, mio padre mi adora, ma non voglio abusare della loro bontà, non sarebbe giusto! Povero papà, è lui che ieri mi ha mandato al Théâtre des Italiens, domani verrai a trovarlo, non è vero?».

«La signora marchesa de Valentin vuol farmi l’onore di offrirmi il braccio?».

«Ah! Mi porterò via la chiave di questa stanza», continuò lei. «Non è forse un palazzo, non è il nostro tesoro?».

«Pauline, ancora un bacio!».

«Mille! Dio mio», disse lei guardando Raphaël, «sarà sempre così, mi sembra di sognare».

Discesero le scale lentamente; poi, stretti stretti, camminando di pari passo, trasalendo sotto il peso della stessa felicità, stringendosi l’un l’altro come due colombi, arrivarono a place de la Sorbonne, dove aspettava la carrozza di Pauline.

«Voglio venire da te», esclamò lei. «Voglio vedere la tua stanza, il tuo studio, e sedermi al tavolo dove lavori. Sarà come una volta», aggiunse arrossendo. «Joseph», disse a un domestico, «prima di tornare a casa, vado in rue de Varennes. Sono le tre e un quarto, e per le quattro devo essere di ritorno. Ci penserà Georges a far correre i cavalli».

E nel giro di pochi istanti i due amanti furono condotti al palazzo di Valentin.

«Come son contenta d’aver visto tutto questo», esclamò Pauline sgualcendo la seta delle cortine che drappeggiavano il letto di Raphël. «Quando mi addormenterò, sarò qui col pensiero. M’immaginerò la tua cara testa su questo guanciale. Dimmi, Raphaël, non ti ha consigliato nessuno per l’arredamento della tua casa?».

«Nessuno»

«Davvero? Non è una donna che...»

«Pauline!»

«Oh! Mi ha preso un’orrenda gelosia. Hai buon gusto. Domani voglio avere un letto uguale al tuo»

Raphaël, ebbro di felicità, strinse a sé Pauline.

«Oh! Mio padre, mio padre», disse lei.

«Allora ti riaccompagno, perché voglio starti lontano il meno possibile», esclamò Valentin.

«Come sei affettuoso! Non osavo proportelo...»

«Non sei tu la mia vita?».

Sarebbe noioso riportare qui fedelmente quell’adorabile chiacchierìo amoroso al quale solo l’accento, lo sguardo, un gesto intraducibile possono dare valore. Valentin riaccompagnò Pauline fino a casa, e poi tornò indietro col cuore colmo di tanta gioia quanta un uomo può provarne e contenerne quaggiù. Quando si fu messo a sedere nella sua poltrona, accanto al fuoco, pensando a quell’improvvisa e completa realizzazione di tutte le sue speranze, un’idea gli trapassò l’anima, gelida come l’acciaio di un pugnale che trafigge il petto; guardò la Pelle di zigrino: si era leggermente ristretta. Pronunciò allora la famosa imprecazione francese, senza le gesuitiche reticenze della badessa des Andouillettes,117 reclinò il capo sulla poltrona e restò immobile con gli occhi fissi su una pàtera, senza vederla.

«O Dio!», esclamò. «Come! Tutti i miei desideri, tutti! Povera Pauline!».

Prese un compasso, misurò quanto della sua esistenza gli era costata quella mattina: «Ne ho ancora per due mesi», disse.

Trasudava freddo da tutti i pori, d’un tratto obbedì a un inesprimibile moto di rabbia, e afferrò la Pelle di zigrino urlando: «Sono proprio uno stupido!». Uscì di corsa, attraversò i giardini e buttò il talismano in fondo a un pozzo: «Vada come vada», disse. «Al diavolo tutte queste sciocchezze!».

Raphaël si lasciò dunque andare alla felicità di amare, e visse cuore a cuore con Pauline. Il matrimonio, ritardato per difficoltà poco interessanti da raccontare, doveva celebrarsi nei primi giorni di marzo. Si erano messi alla prova, non dubitavano di se stessi, e la felicità gli aveva rivelato tutta la forza del loro affetto; mai due anime, due caratteri si erano così perfettamente uniti, come lo furono loro, nella passione; studiandosi l’un l’altro si amarono sempre più: in tutti e due la stessa delicatezza, lo stesso pudore, la stessa voluttà, la più dolce di tutte le voluttà, quella degli angeli; nessuna nube solcava il loro cielo; di volta in volta i desideri di uno erano legge per l’altro. Ricchi tutti e due, per loro non c’era capriccio che non potessero soddisfare, e perciò capricci non ne avevano. Un gusto squisito, il senso del bello, una vera poesia animava l’anima della sposa; disprezzando i fronzoli costosi, un sorriso del suo amato le sembrava più bello di tutte le perle di Ormuz, la mussola o i fiori erano per lei i più ricchi ornamenti. D’altronde, Pauline e Raphaël evitavano la gente, per loro la solitudine era così bella, così ricca! Immancabilmente tutte le sere gli oziosi potevano vedere quella graziosa coppia di contrabbando all’Opéra o al Théâtre des Italiens. Se all’inizio qualche maldicenza poté divertire i salotti, ben presto il fiume di avvenimenti che travolse Parigi fece dimenticare due amanti inoffensivi; inoltre, e questa era una specie di scusante per i più puritani, il loro matrimonio era ormai annunciato, e per caso si trovavano ad avere persone di servizio discrete; nessuna malignità troppo pungente li punì della loro felicità.

Verso la fine del mese di febbraio, quando alcune belle giornate già preannunciavano i piaceri della primavera, una mattina Pauline e Raphaël facevano colazione insieme in una piccola serra, una specie di salottino pieno di fiori, allo stesso livello del giardino. Il sole pallido e dolce dell’inverno, coi raggi che s’infrangevano sui rari arbusti, intiepidiva la temperatura. Gli occhi venivano rallegrati dai forti contrasti del vario fogliame, dai colori dei ciuffi d’erba fioriti e da tutti i bizzarri giochi della luce e dell’ombra. Mentre tutta Parigi si scaldava ancora davanti a malinconici focolari, i due giovani innamorati invece ridevano sotto un pergolato di camelie, di lillà, di eriche. Animate di gioia, le loro teste spiccavano sui narcisi, i mughetti e le rose del Bengala. In quella serra ricca e voluttuosa, i piedi poggiavano su una stuoia africana colorata come un tappeto. Le pareti rivestite di traliccio verde non presentavano la minima traccia di umidità. La mobilia era di legno in apparenza grossolano, ma la superficie levigata splendeva di pulizia. Un gattino accoccolato sul tavolo, dove l’aveva attirato l’odore del latte, si lasciava imbrattare di caffè da Pauline che si stava divertendo con lui; gli sottraeva la panna permettendogli appena di annusarla e metteva così alla prova la sua pazienza costringendolo a continuare la lotta; scoppiava a ridere a ogni sua smorfia e s’inventava mille scherzi per impedire a Raphaël di leggere il giornale che, già dieci volte, gli era caduto di mano. Questa scena mattutina era colma d’inesprimibile felicità come tutto ciò che è naturale e vero. Raphaël fingeva sempre di leggere il suo giornale, e intanto di sfuggita osservava Pauline alle prese col gatto, la sua Pauline avvolta in una lunga vestaglia che non la copriva completamente, la sua Pauline coi capelli in disordine, che mostrava un piedino bianco venato d’azzurro in una pantofola di velluto nero. Incantevole a vedersi così, un po’ discinta, deliziosa come le fantastiche figure di Westall,118 Pauline sembrava essere a un tempo fanciulla e donna; forse più fanciulla che donna. Ella godeva di una felicità immacolata e dell’amore conosceva appena le prime gioie soltanto. Nell’attimo in cui, tutto preso dalla sua dolce fantasticheria, Raphaël sembrava aver dimenticato il suo giornale, Pauline l’afferrò, lo sgualcì, ne fece una palla che lanciò in giardino, e il gatto si mise a rincorrere la politica che come sempre girava su se stessa. Quando Raphaël, distratto da quella scena infantile, volle continuare la lettura e fece il gesto di prendere il giornale che non aveva più, allora scoppiò una risata schietta, gioiosa, che sgorgò spontanea come il canto degli uccelli.

«Sono gelosa del giornale», disse Pauline asciugandosi le lacrime di quella risata di bambina. «Non è forse un tradimento», continuò ridiventando donna tutt’a un tratto, «leggere dei proclami russi in mia presenza, e preferire la prosa dell’imperatore Nicola119 a parole e sguardi d’amore?».

«Ma io non leggevo, angelo mio, guardavo te».

In quel momento, vicino alla serra risuonò pesante il passo del giardiniere che con le sue scarpe ferrate faceva scricchiolare la ghiaia dei viali.

«Chiedo scusa, signor marchese, signora marchesa, se vi interrompo, ma vengo a portarvi una cosa così strana come non ne ho mai viste. Poco fa, cavando, con rispetto parlando, un secchio d’acqua, ho tirato su questa strana pianta marina! Eccola! Però, si dev’essere ben adattata all’acqua, perché non era per niente bagnata né umida. È asciutta come il legno, e nient’affatto grassa. Siccome il signor marchese certamente ne sa più di me, ho pensato che bisognava portargliela e che la cosa l’avrebbe interessato».

E il giardiniere mostrò a Raphaël l’inesorabile Pelle di zigrino che non aveva sei pollici quadrati di superficie.

«Grazie, Vanière», disse Raphaël. «È molto curiosa questa cosa».

«Che cosa hai, angelo mio? Tu impallidisci!», gridò Pauline.

«Lasciateci soli, Vanière».

«La tua voce mi spaventa», continuò la fanciulla, «si è stranamente alterata. Che cosa hai? Che ti senti? Dove ti fa male? Tu hai male! Un medico», gridò. «Jonathas, aiuto!».

«Taci, Pauline», rispose Raphaël che andava riprendendo il suo sangue freddo. «Usciamo. Qui vicino a me c’è un fiore che col suo profumo mi disturba. Forse è questa verbena».

Pauline si lanciò sulla pianta innocente, l’afferrò per lo stelo e la gettò nel giardino.

«Oh! Angelo mio», esclamò stringendo a sé Raphaël in una stretta forte come il loro amore e offrendogli con languida civetteria le rosse labbra da baciare, «vedendoti impallidire, ho capito che non potrei sopravviverti: la tua vita è la mia. Raphaël mio, toccami la schiena! Sto ancora tremando di freddo. Le tue labbra bruciano. E la tua mano?... È gelata», aggiunse.

«Pazza!», gridò Raphaël.

«Perché questa lacrima?», disse lei. «Lasciamela bere».

«Oh! Pauline, Pauline, tu mi ami troppo».

«Ti sta succedendo qualcosa di straordinario, Raphaël. Sii sincero, tra poco saprò il tuo segreto. Dammela», disse afferrando la Pelle di zigrino.

«Sei il mio carnefice», gridò il giovane lanciando uno sguardo di orrore al talismano.

«Come hai cambiato voce!», rispose Pauline lasciando cadere il fatale simbolo del destino.

«Tu mi ami?», chiese lui.

«Se io ti amo, è una domanda da farsi?».

«Allora lasciami, vattene!».

La povera fanciulla uscì.

«Ma come!», esclamò Raphaël rimasto solo, «in un secolo di lumi, un secolo in cui abbiamo imparato che i diamanti sono cristalli di carbonio, in un’epoca in cui a tutto viene data una spiegazione, in cui un nuovo Messia verrebbe condotto dalla polizia davanti a un tribunale e i suoi miracoli sottoposti all’Accademia delle Scienze, in un’epoca in cui crediamo solo alle firme dei notai, io dovrei credere, io! a una specie di Mané, Thekel, Pharès?120 No, perdio! Non penserò che l’Essere Supremo possa trovar piacere nel tormentare una creatura onesta. Andiamo a sentire quel che ne pensano gli scienziati».

Poco dopo, tra il Mercato del vino, immenso deposito di botti, e la Salpêtrière, immenso vivaio di ubriachi, giunse davanti a un piccolo pantano dove sguazzavano delle anatre notevoli per la rarità della specie e per i colori mutevoli che, come quelli delle vetrate di una cattedrale, scintillavano sotto i raggi del sole. C’erano qui tutte le anatre del mondo, che schiamazzavano sguazzando, agitandosi, formando una specie di camera anatresca riunita suo malgrado, ma per fortuna senza una costituzione né princìpi politici, e vivendo senza paura d’incontrare cacciatori, sotto l’occhio di naturalisti che sbadatamente le osservavano.

«Eccolo là il signor Lavrille», disse un custode a Raphaël, che aveva chiesto del pontefice massimo della zoologia.

Il marchese vide un uomo piccolino, profondamente immerso in sagge meditazioni mentre osservava due anatre. Lo scienziato, di mezza età, aveva una fisionomia dolce, ancor più addolcita da un’espressione gentile; ma in tutta la sua persona prevaleva una preoccupazione scientifica: la parrucca, che si grattava continuamente e che portava bizzarramente sollevata, lasciava scoperta una striscia di capelli bianchi e rivelava il furore delle scoperte che, come tutte le passioni, ci strappa alle cose di questo mondo con una forza tale che perdiamo coscienza del nostro io. Raphaël, uomo di scienza e di studio, provò ammirazione per quel naturalista che dedicava le sue notti all’ampliamento del sapere umano, e i cui errori potevano anche servire alla gloria della Francia; ma una donnicciola di poco conto avrebbe certamente riso della soluzione di continuità che si notava tra i calzoni e il gilè a righe dello scienziato, interstizio peraltro castamente colmato da una camicia che egli aveva ampiamente sgualcito abbassandosi e rialzandosi di volta in volta secondo le sue osservazioni zoogenesiche.

Dopo i primi convenevoli, Raphaël ritenne necessario rivolgere al signor Lavrille un banale complimento sulle sue anatre.

«Oh! Di anatre ce n’è in abbondanza», rispose il naturalista. «D’altronde, come certamente sapete, questo genere è il più prolifico nell’ordine dei palmipedi. Comincia dal cigno, e finisce con l’anatra zinzin, comprendendo centotrentasette varietà di individui ben distinti, coi loro nomi, i loro costumi, la loro patria, la loro fisionomia, e che tra loro non si somigliano più di quanto un bianco non somigli a un negro. In verità, signore, quando mangiamo un’anatra il più delle volte non ci sfiora il dubbio che l’estensione...». S’interruppe alla vista di un grazioso anatroccolo che risaliva la sponda del pantano. «Ecco, vedete il cigno dal collare, povero figlio del Canada, venuto da così lontano per mostrarci il suo piumaggio bruno e grigio, il suo collarino nero! Guardate, si sta grattando. Ecco la famosa oca da calugine o anatra Edredone; se ne fanno i piumini sotto i quali dormono le nostre padroncine; come è graziosa! Chi non resterebbe ammirato davanti a quel piccolo ventre di un bianco rossigno, a quel becco verde? Poco fa, signore», continuò, «ho appena assistito a un accoppiamento di cui fino all’ultimo avevo disperato. L’unione si è compiuta abbastanza felicemente, e con grande impazienza ne aspetterò il risultato. Mi lusinga il fatto di ottenere una centotrentottesima specie alla quale forse verrà dato il mio nome! Ecco gli sposi novelli», disse indicando due anatre. L’una è un’oca ridente (anas albifrons), l’altra è la grande anatra fischiatrice (anas ruffina di Buffon). Ho esitato a lungo tra l’anatra fischiatrice, l’anatra dai sopraccigli bianchi e l’anatra mestolone (anas clypeata): guardate, ecco il mestolone, quel gran scellerato bruno e nero col collo verdastro così graziosamente iridato. Ma, signore, l’anatra fischiatrice era dotata di un bel ciuffo e allora, capite, non ho più avuto alcun dubbio. Qui ci manca solo l’anatra variata dalla calotta nera. Certi signori pretendono, all’unanimità, che quest’anatra faccia il paio con l’anatra alzavola dal becco ricurvo, quanto a me...», e fece un gesto bellissimo che esprimeva a un tempo la modestia e l’orgoglio degli scienziati, orgoglio pieno di ostinazione, modestia piena di sufficienza. «Io non la penso così», aggiunse. «Potete ben vedere, caro signore, che qui non ci divertiamo. Attualmente mi occupo della monografia del genere anatra. Ma sono a vostra completa disposizione».

Dirigendosi verso una casa abbastanza graziosa di rue Buffon, Raphaël sottopose la Pelle di zigrino all’attenzione del signor Lavrille.

«Questo oggetto lo conosco», rispose lo scienziato dopo aver puntato la sua lente sul talismano. «È servito ad avvolgere qualche scatola. Lo zigrino è molto antico! Oggi i fabbricanti di astucci preferiscono la pelle di sagrì. Che è, come certamente sapete, la spoglia del raja sephen, un pesce del Mar Rosso...».

«Ma questa, signore, giacché avete la bontà estrema...»

«Questa», replicò lo scienziato interrompendolo, «è un’altra cosa: tra la pelle di sagrì e quella di zigrino, caro signore, passa tutta la differenza che corre tra l’oceano e la terra, tra un pesce e un quadrupede. Tuttavia la pelle del pesce è più dura della pelle dell’animale terrestre. Questo», disse indicando il talismano, «è, come certo sapete, uno dei prodotti più strani della zoologia».

«Vediamo», esclamò Raphaël.

«Signore», rispose lo scienziato sprofondando nella sua poltrona, «questa è una pelle d’asino».

«Lo so», disse il giovane.

«In Persia», continuò il naturalista, «esiste un asino estremamente raro, l’onagro degli antichi, equus asinus, il koulan dei Tartari. Pallas121 è andato a osservarlo e ne ha fatto oggetto di indagine scientifica. Per lungo tempo, infatti, questo animale era stato ritenuto puramente fantastico. Come sapete, esso è ben noto nelle Sacre Scritture;122 Mosè aveva proibito di accoppiarlo con animali della sua stessa specie. Ma l’onagro è ancor più famoso per le prostituzioni di cui è stato oggetto, e di cui sovente parlano i profeti biblici. Pallas, come certamente sapete, nei suoi Act. Pétrop., tomo II, afferma che quegli strani eccessi mantengono ancora valore religioso presso i Persiani e i Nogaïs come rimedio sovrano contro il mal di reni e la gotta sciatica. E su questo non nutriamo alcun dubbio noialtri poveri Parigini. Il Museo non possiede nemmeno un onagro. Che magnifico animale!», continuò lo scienziato. «È pieno di misteri; il suo occhio è munito di una specie di tessuto riflettente al quale gli Orientali attribuiscono il potere della fascinazione, il mantello è più elegante e liscio di quello dei nostri cavalli più belli; è solcato da strisce più o meno fulve, e somiglia molto alla pelle della zebra. Il pelo ha qualcosa di morbido, fluente, untuoso al tatto; per giustezza e precisione la sua vista eguaglia quella dell’uomo; un po’ più grande dei nostri più begli asini domestici, è dotato di coraggio straordinario. Se per caso viene assalito, si difende contro le bestie più feroci con notevole superiorità; la rapidità del suo passo, poi, può paragonarsi solo alla velocità degli uccelli; un onagro, caro signore, nella corsa sbaraglierebbe i migliori cavalli arabi o persiani. Secondo il padre del coscienzioso dottor Niebhur123 di cui, come certamente sapete, deploriamo la recente perdita, la media del passo normale di queste straordinarie creature è di settemila passi geometrici124 all’ora. I nostri asini degeneri non ci danno la più pallida idea di quest’asino indipendente e fiero. Svelto e vivace nel portamento, ha un’espressione intelligente, fine, una fisionomia dotata di grazia, dei movimenti pieni d’eleganza! È il re zoologico dell’Oriente. Le credenze superstiziose dei Turchi e dei Persiani gli attribuiscono anche un’origine misteriosa, e il nome di Salomone si mescola ai racconti dei narratori del Tibet e della Tartaria sulle prodezze attribuite a questi nobili animali. Insomma un onagro addomesticato vale cifre enormi. È quasi impossibile catturarlo sulle montagne, dove salta come un capriolo e sembra volare come un uccello. La favola dei cavalli alati, il nostro Pegaso, senz’altro ha avuto origine in quei paesi, dove spesso i pastori hanno potuto vedere un onagro saltare da una roccia all’altra. Gli asini da sella, ottenuti in Persia con l’accoppiamento di un’asina con un onagro addomesticato, sono dipinti di rosso, secondo una tradizione immemorabile. Quest’usanza ha dato forse luogo al nostro proverbio: Cattivo come un asino rosso. In un periodo in cui la storia naturale era molto negletta in Francia, un viaggiatore, credo, deve avere importato uno di questi strani animali che molto controvoglia sopportano la schiavitù. Di qui il detto! La pelle che mi sottoponete», continuò lo scienziato, «è la pelle di un onagro. Possiamo distinguere sull’origine del nome. Alcuni pretendono che Chagri è una parola turca, altri sostengono che Chagri sia la città dove questa spoglia zoologica subisce una preparazione chimica che Pallas descrive abbastanza bene, e che ad essa conferisce quella particolare grana che ci lascia ammirati; il signor Martellens mi ha scritto che Châagri è un ruscello».

«Signore, vi ringrazio di avermi dato informazioni che costituirebbero appunti straordinari per qualche don Calmet,125 se esistessero ancora i benedettini; ma io ho avuto l’onore di farvi osservare che questo frammento all’inizio aveva una superficie uguale... a questa carta geografica», disse Raphaël mostrando a Lavrille un atlante aperto: «adesso, dopo tre mesi, si è sensibilmente ristretto...»

«Bene», rispose lo scienziato, «capisco. Caro signore, tutte le spoglie di esseri primitivamente organizzati sono soggette a un deperimento naturale, facile da capirsi, e il cui progredire è soggetto a influenze atmosferiche. Perfino i metalli si dilatano o si restringono sensibilmente, dato che alcuni ingegneri hanno osservato spazi abbastanza considerevoli tra grandi pietre originariamente tenute insieme da sbarre di ferro. La scienza è vasta, la vita umana è breve. Perciò non abbiamo la pretesa di conoscere tutti i fenomeni della natura».

«Signore», disse Raphaël quasi confuso, «scusate la domanda che sto per farvi. Siete proprio sicuro che questa Pelle sia soggetta alle normali leggi della zoologia, e che quindi possa essere allargata?».

«Ma certamente! Ah! Accidenti!», disse il signor Lavrille mentre cercava di tirare il talismano. «Ma, signore», continuò, «se volete andare da Planchette, il celebre professore di meccanica, certamente lui troverà il modo di poter agire su questa Pelle, di ammorbidirla, di distenderla».

«Oh! Signore, voi mi salvate la vita».

Raphaël salutò lo scienziato naturalista, e corse da Planchette, lasciando il buon Lavrille in mezzo ai barattoli di vetro e alle piante disseccate del suo studio. Da quella visita, senza saperlo, riportava tutto lo scibile umano: una nomenclatura! Quel brav’uomo somigliava a Sancho Panza che racconta a don Chisciotte la storia delle capre divertendosi a contare gli animali e a dargli un numero. Giunto sull’orlo della tomba, conosceva appena una piccola frazione dei numeri incommensurabili del gran gregge gettato da Dio, con uno scopo ignoto, attraverso l’oceano dei mondi. Raphaël era contento. «Adesso terrò a freno il mio asino», esclamava. Prima di lui Sterne aveva detto: «Prendiamoci cura del nostro asino, se vogliamo campare da vecchi». Ma la bestia è così capricciosa!

Planchette era un uomo alto, asciutto, un vero poeta perso in una perpetua contemplazione, occupato a guardare sempre un abisso senza fondo, IL MOTO. Dal volgo sono tacciati di follia spiriti sublimi, uomini incompresi che vivono in un’ammirevole indifferenza al lusso e al mondo, che restano giorni interi a fumare un sigaro spento, o si presentano in un salotto senza aver sempre ben maritato bottoni con occhielli. Un bel giorno, dopo aver a lungo misurato il vuoto, o ammucchiato delle X sotto delle Aa-gG, riescono ad analizzare una legge di natura e a scomporre il più semplice dei princìpi; improvvisamente la gente può ammirare una nuova macchina o qualche nuovo tipo di carro dotato di un congegno così facile che ci stupisce e confonde! Lo scienziato modesto sorride mentre ai suoi ammiratori dice: «Ma cosa ho mai creato io? Niente. L’uomo non inventa una forza, la governa, e la scienza consiste nell’imitare la natura».

Raphaël trovò il fisico-meccanico piantato sulle sue due gambe, come un impiccato caduto in piedi sotto la forca. Planchette stava esaminando una biglia di agata che scorreva su un quadrante solare, aspettando che si fermasse. Il poveretto non aveva decorazioni né godeva di qualche pensione, giacché i suoi calcoli non sapeva valorizzarli. Felice di vivere alla ricerca di una scoperta, non pensava né alla gloria, né al mondo, né a se stesso, e viveva nella scienza, per la scienza.

«È proprio indefinibile», esclamò. «Ah! Signore», continuò scorgendo Raphaël, «servitor vostro. Come sta la mamma? Andate a trovare mia moglie».

“Avrei potuto vivere così anch’io!”, pensò Raphaël che distolse lo scienziato dalle sue meditazioni chiedendogli come poter intervenire sul talismano che gli mostrava. «Dovreste ridere della mia credulità, signore», disse il marchese concludendo, «non vi terrò nascosto nulla. Questa Pelle mi sembra possedere una forza di resistenza contro cui non si può nulla».

«Signore», disse lui, «i profani prendono sempre la Scienza piuttosto alla leggera, tutti più o meno ci dicono quello che un incroyable126 diceva a Lalande127 portandogli delle signore dopo un’eclisse: “Abbiate la bontà di ricominciare”. Voi a che scopo mirate? Il fine della Meccanica è quello di applicare le leggi del moto oppure di neutralizzarle. Quanto al moto in se stesso, ve lo dichiaro umilmente, non siamo capaci di definirlo. Ciò premesso, abbiamo rilevato alcuni fenomeni costanti che presiedono all’azione dei solidi e dei fluidi. Riproducendo le cause generatrici di tali fenomeni, possiamo trasportare i corpi, trasmettere loro una forza motrice secondo rapporti di velocità determinata, lanciarli lontano, dividerli semplicemente o all’infinito, sia che li spezziamo sia che li polverizziamo; possiamo anche torcerli, imprimere loro una rotazione, modificarli, comprimerli, dilatarli, distenderli. Questa scienza, caro signore, si fonda su un unico fatto. Vedete questa biglia», continuò. «È qui su questa lastra. Adesso eccola laggiù. Con quale nome chiameremo questo atto così naturale fisicamente e così straordinario mentalmente? Moto, locomozione, cambiamento di luogo? Che immensa vanità si cela sotto le parole! Un nome, è forse una soluzione? Eppure eccola qui tutta la scienza. Le nostre macchine utilizzano o scompongono questo atto, questo fatto. Questo piccolo fenomeno applicato a grandi masse potrebbe far saltare in aria Parigi. Possiamo aumentare la velocità a scapito della forza, e la forza a scapito della velocità. Che cosa sono la forza e la velocità? La nostra scienza non è in grado di dirlo, così come non è in grado di creare il moto. Il moto, qualunque esso sia, è un immenso potere, e l’uomo non inventa alcun potere. Il potere è uno, come il moto, che è l’essenza stessa del potere. Tutto è moto. Il pensiero è moto. La natura è fondata sul moto. La morte è moto i cui fini ci sono poco noti. Se Dio è eterno, credetemi, è sempre in moto. Forse, Dio stesso è il moto. Ecco perché il moto, come lui, è inspiegabile; come lui, profondo, senza limiti, incomprensibile, intangibile. Chi mai ha toccato, compreso, misurato il movimento? Ne sentiamo gli effetti senza vederli. Possiamo anche negarlo come neghiamo Dio. Dov’è? Dove non è? Donde nasce? Dov’è la sua origine? Dove la sua fine? Ci avvolge, ci incalza e ci sfugge. È evidente come un fatto, oscuro come un’astrazione, causa e effetto a un tempo. Come noi, ha bisogno dello spazio, e che cosa è lo spazio? Soltanto il moto ce lo rivela; senza il moto esso altro non è che parola priva di senso. Problema insolubile, simile al vuoto, simile alla creazione, all’infinito, il moto confonde il pensiero umano, e tutto quello che all’uomo viene consentito di comprendere è che egli non lo comprenderà mai. Tra ciascuno dei punti successivamente occupati nello spazio da questa biglia», continuò lo scienziato, «la ragione umana si trova davanti un abisso, un abisso dove è caduto Pascal. Per poter agire sulla sostanza sconosciuta che volete sottoporre a una forza sconosciuta, innanzitutto dobbiamo studiare questa sostanza; secondo la sua natura, o si spezzerà sotto un urto, o resisterà; se si divide, non essendo questa la vostra intenzione, allora non raggiungeremo lo scopo prefissatoci. Volete comprimerla? Bisogna allora trasmettere un uguale moto a tutte le parti della sostanza in modo da diminuire uniformemente l’intervallo che le separa. Desiderate distenderla? Allora dovremo cercare d’imprimere ad ogni molecola una uguale forza eccentrica; infatti, senza l’esatta osservanza di tale legge, produrremmo delle soluzioni di continuità. Nel moto, caro signore, esistono combinazioni illimitate, infinite maniere. Qual è il vostro obbiettivo?».

«Signore», disse spazientito Raphaël, «io desidero una pressione qualsiasi, forte abbastanza da distendere indefinitamente questa Pelle...»

«La sostanza essendo finita», rispose il matematico, «non avrebbe modo di distendersi indefinitamente, ma la compressione moltiplicherà necessariamente l’area della superficie a scapito dello spessore; essa si assottiglierà fino a che la materia non verrà a mancare...»

«Se ottenete un tale risultato», esclamò Raphaël, «vi guadagnerete dei milioni, caro signore».

«Ruberei il vostro denaro», rispose il professore con la flemma di un Olandese. «In due parole vi dimostrerò l’esistenza di una macchina sotto la quale Dio stesso resterebbe schiacciato come una mosca. Un uomo ne sarebbe ridotto allo stato di un foglio di carta, un uomo con tanto di stivali, speroni, cravatta, cappello, oro, gioielli, tutto...»

«Che macchina orribile!».

«Invece di buttare nell’acqua i loro figli, i Cinesi dovrebbero utilizzarli in quest’altro modo», continuò lo scienziato senza pensare al rispetto dell’uomo per la sua progenie.

Tutto preso dalla sua idea, Planchette afferrò un vaso da fiori vuoto, con un buco nel fondo, e lo mise sulla lastra del quadrante solare; poi andò a cercare un po’ di creta in un angolo del giardino. Raphaël era incantato come un bambino al quale la balia racconta una storia meravigliosa. Dopo aver messo la creta sulla lastra, Planchette tirò fuori dalla tasca un falcetto, tagliò due rami di sambuco, e si mise a svuotarli fischiettando come se Raphaël non fosse stato lì presente.

«Questi sono gli elementi della macchina», disse.

Facendo un gomito di creta, attaccò uno dei suoi tubi di legno al fondo del vaso, in modo che il foro del sambuco corrispondesse a quello del vaso. Sembrava un’enorme pipa. Spalmò sulla lastra uno strato di creta dandogli la forma di una pala, sistemò il vaso da fiori nella parte più larga, e fissò il ramo di sambuco sulla parte che rappresentava il manico. Infine mise un pezzetto di creta all’estremità del tubo di sambuco, vi piantò l’altro ramo svuotato, ben dritto, formando un altro gomito per congiungerlo al ramo orizzontale, in modo che l’aria, o un determinato fluido a temperatura ambiente, potesse circolare in quella macchina improvvisata e, dopo l’imboccatura del tubo verticale, attraverso il canale intermedio, arrivare fin dentro il grande vaso da fiori vuoto.

«Caro signore», disse rivolgendosi a Raphaël col tono serio di un accademico che stia pronunciando il suo discorso di ammissione, «questa apparecchiatura si offre alla nostra ammirazione come uno dei più bei titoli del grande Pascal».

«Non capisco».

Lo scienziato sorrise. Andò a staccare da un albero da frutta una bottiglietta nella quale il suo farmacista gli aveva mandato un liquido in cui restavano imprigionate le formiche; rompendone il fondo ne fece un imbuto, l’adattò accuratamente al foro del ramo svuotato che aveva fissato verticalmente nella creta, dalla parte opposta al grande serbatoio rappresentato dal vaso da fiori; poi, con un innaffiatoio, vi versò la quantità d’acqua necessaria finché raggiunse il medesimo livello sia nel vaso grande sia nella piccola imboccatura circolare del sambuco. Raphaël pensava alla sua Pelle di zigrino.

«Caro signore», disse il fisico-meccanico, «ancor oggi l’acqua è ritenuta un corpo incomprimibile, non dimenticate questo fondamentale principio; eppure, essa si comprime, ma così leggermente che la sua proprietà di contrazione dobbiamo calcolarla come zero. Vedete la superficie che l’acqua presenta una volta arrivata al livello del vaso da fiori».

«Sì, signore».

«Ebbene, supponete questa superficie mille volte più estesa dell’orifizio del bastoncino di sambuco attraverso il quale è passato il liquido che ho versato. Ecco, adesso tolgo l’imbuto».

«D’accordo».

«Ebbene, signore, se con un mezzo qualsiasi io aumento il volume di questa massa introducendo ancora dell’acqua attraverso l’orifizio del tubo più piccolo, il fluido, dovendo necessariamente discendervi, salirà nel serbatoio rappresentato dal vaso da fiori fino a che il liquido non arriverà allo stesso livello sia nell’uno che nell’altro...»

«È evidente», esclamò Raphaël.

«Ma c’è questa differenza», continuò lo scienziato, «e cioè che se la colonna d’acqua più sottile aggiunta nel tubo verticale più piccolo costituisce una forza uguale, per esempio, al peso di una libbra, siccome la sua azione si trasmetterà puntualmente alla massa liquida e reagirà su tutti i punti della superficie che presenta nel vaso da fiori, si avranno mille colonne d’acqua che, tendendo tutte a innalzarsi come se fossero spinte da una forza uguale a quella che fa scendere il liquido nel bastoncino di sambuco verticale, necessariamente produranno qui», disse Planchette indicando a Raphaël l’apertura del vaso da fiori, «una potenza mille volte più considerevole di quella introdotta in quest’altro punto».

E lo scienziato indicava al marchese il tubo di legno piantato dritto nella creta.

«È semplicissimo», disse Raphaël.

Planchette sorrise.

«In altri termini», continuò con quella logica ostinata tipica dei matematici, «occorrerebbe, per respingere l’irruzione dell’acqua, dispiegare, su ogni parte della superficie più grande, una forza uguale a quella che agisce nel condotto verticale; ma con questa differenza, che se la colonna liquida è alta un piede, le mille piccole colonne della superficie più grande avranno appena una piccolissima elevazione. Adesso», disse Planchette dando un buffetto ai suoi bastoncini, «sostituiamo questa piccola apparecchiatura grottesca con dei tubi metallici di forza e dimensione convenienti. Se con una solida e scorrevole lastra metallica si copre la superficie fluida del serbatoio più grande, e se a questa lastra ne opponiamo un’altra la cui resistenza e solidità siano a tutta prova, se inoltre mi viene concessa la facoltà di aggiungere ininterrottamente attraverso il tubicino verticale altra acqua alla massa liquida, allora l’oggetto collocato tra i due piani solidi deve necessariamente cedere all’immensa azione che lo comprime indefinitamente. Il mezzo per introdurre costantemente acqua nel tubicino è, in meccanica, una cosa da niente, come lo è il modo di trasmettere la pressione della massa liquida a una lastra metallica. Bastano due pistoni e qualche valvola. Capite adesso, caro signore», disse prendendo sottobraccio Valentin, «che non esiste alcuna sostanza che, posta tra queste due resistenze illimitate, non sia costretta a distendersi?».

«Come! L’autore delle Lettere provinciali ha inventato...», esclamò Raphaël.

«Proprio lui, caro signore. La Meccanica non conosce niente di più semplice né di più bello. Il principio contrario, l’espansibilità dell’acqua, ha creato la macchina a vapore. Ma l’acqua è espansibile solo a partire da un certo punto, mentre la sua incompressibilità, essendo in qualche modo una forza negativa, risulta necessariamente infinita».

«Se si riesce a distendere questa Pelle», disse Raphaël, «vi prometto di far erigere una statua colossale a Blaise Pascal, di istituire un premio di centomila franchi per il più bel problema di meccanica risolto ogni dieci anni, di costituire una dote per le vostre cugine e biscugine, infine di creare un ospizio per i matematici diventati pazzi o poveri».

«Sarebbe cosa utilissima», disse Planchette. «Domani, caro signore», continuò con la calma di uno che vive in una sfera affatto intellettuale, «andremo da Spieghalter. Quel distinto fisico-meccanico ha appena finito di costruire, su un mio progetto, una macchina perfezionata con la quale un bambino riuscirebbe a far entrare mille fasci di fieno nel suo cappello».

«A domani, signore».

«A domani».

«E adesso venite pure a parlarmi di Meccanica!», esclamò Raphaël. «Non è forse la più bella delle scienze? Quell’altro con i suoi onagri, le sue classificazioni, le sue anatre, i suoi generi e i suoi barattoli di vetro pieni di mostri, tutt’al più è capace di segnare i punti in un biliardo pubblico».

L’indomani, Raphaël tutto contento venne a trovare Planchette e insieme si recarono in rue de la Santé, nome di buon auspicio. Lì, da Spieghalter, il giovane si trovò in un edificio immenso, i suoi occhi si posarono su una moltitudine di fucine rosse e ruggenti. Era una pioggia di fuoco, un diluvio di chiodi, un oceano di pistoni, viti, leve, traversine, lime, dadi, un mare di ghisa, di legname, di valvole e di acciaio in sbarre. La limatura prendeva alla gola. L’ambiente era saturo di polvere di ferro, gli uomini erano coperti di ferro, tutto odorava di ferro, il ferro aveva una vita, era organizzato, si faceva fluido, si muoveva, pensava assumendo tutte le forme, obbedendo a tutti i capricci. Attraverso gli ululati dei mantici, i crescendo dei martelli, i sibili dei torni che facevano stridere il ferro, Raphaël giunse in un grande locale, pulito e ben aerato, dove a suo agio poté osservare l’immenso torchio di cui gli aveva parlato Planchette. Restò ammirato davanti a delle specie di assi in ghisa, e di putrelle in ferro tenute insieme da un supporto indistruttibile.

«Se giraste sette volte con prontezza questa manovella», gli disse Spieghalter indicandogli un bilanciere di ferro lucente, «ne sprizzerebbe una lastra d’acciaio in migliaia di schegge che vi penetrerebbero nelle gambe come aghi».

«Accidenti!», esclamò Raphaël.

Planchette fece scivolare la Pelle di zigrino tra le due lastre del torchio principale e, pieno di quella sicurezza conferita solo dalle convinzioni scientifiche, manovrò prontamente il bilanciere.

«Tutti a terra, o siamo morti!», gridò Spieghalter con voce tonante e lui stesso si lasciò cadere a terra.

Un sibilo orrendo risuonò nelle officine. L’acqua contenuta nella macchina spaccò la ghisa, produsse un getto d’incommensurabile potenza, e per fortuna si diresse su una vecchia fucina; l’abbatté capovolgendola e la contorse come fa una tromba d’aria che avvolge una casa trascinandola via.

«Oh!», disse tutto calmo Planchette, «lo Zigrino è rimasto sano e salvo! Mastro Spieghalter, c’era un difetto nella vostra ghisa, oppure c’è qualche interstizio nel tubo più grande».

«No, no, della mia ghisa mi fido. Il signore può portarsi via il suo arnese: ci abita dentro il diavolo».

Il Tedesco afferrò un martello da fabbro e, gettata la Pelle su un’incudine, con tutta la forza che può dare solo la collera, scaricò sul talismano il colpo più terribile che mai avesse echeggiato nelle sue officine.

«Nemmeno un segno», esclamò Planchette accarezzando lo zigrino ribelle.

Accorsero gli operai. Il capomastro prese la Pelle e la mise tra i carboni di una fucina. In semicerchio, disposti tutt’intorno al fuoco, attesero con impazienza l’effetto di un enorme mantice. Raphaël, Spieghalter, il professor Planchette occupavano il centro di quella folla nera e attenta. Vedendo tutti quegli occhi bianchi, quelle teste sporche di polvere di ferro, quei vestiti neri e lucenti, quei petti pelosi, a Raphaël sembrò di trovarsi nel mondo notturno e fantastico delle ballate tedesche. Il capomastro afferrò la Pelle con delle pinze, dopo averla lasciata nel fuoco per dieci minuti.

«Ridatemela», disse Raphaël.

Il capomastro la consegnò scherzosamente a Raphaël. Il marchese maneggiò facilmente la Pelle fredda e morbida sotto le sue dita. Si levò un grido di orrore, gli operai fuggirono, Valentin restò solo con Planchette nell’officina deserta.

«Decisamente, qui dentro c’è qualcosa di diabolico», esclamò Raphaël, ormai ridotto alla disperazione. «Nessun potere umano, dunque, sarebbe in grado di darmi un giorno in più!».

«Signore, la colpa è mia», rispose il matematico con un’espressione contrita, «dovevamo sottoporre questa Pelle particolare all’azione di un laminatoio. Ma dove avevo la testa quando vi ho proposto di farla reagire a una pressione?».

«Ve l’ho chiesto io», rispose Raphaël.

Lo scienziato tirò un respiro di sollievo, come un colpevole assolto da dodici giurati. Tuttavia, interessato dallo strano problema che per lui quella Pelle costituiva, rifletté un momento e disse: «Questa sostanza sconosciuta bisogna trattarla con dei reattivi. Andiamo a trovare Japhet, forse la Chimica sarà più fortunata della Meccanica».

Valentin lanciò il cavallo al gran trotto, sperando di trovare il famoso chimico Japhet ancora nel suo studio.

«Ebbene, mio vecchio amico», disse Planchette scorgendo Japhet seduto in una poltrona mentre osservava un precipitato, «come va la Chimica?».

«Dorme. Niente di nuovo. Tuttavia l’Accademia ha riconosciuto l’esistenza della salicina. Ma la salicina, l’asparagina, la vacuolina,128 la digitalina non sono scoperte».

«Non potendo inventare delle cose», disse Raphaël, «sembra che vi siate ridotti a inventare dei nomi».

«Guarda qui», disse il professor Planchette al chimico, «cerca di scomporre questa sostanza; se ne estrai un principio qualsiasi, lo chiamo fin da ora la diavolina, giacché nel tentativo di comprimerla, abbiamo appena rotto un torchio idraulico».

«Vediamo, vediamo», esclamò tutto contento il chimico, «questo è forse un nuovo corpo semplice».

«Signore», disse Raphaël, «è semplicemente un pezzetto di pelle d’asino».

«Signore...», proseguì con tono grave il celebre chimico.

«Non sto scherzando», rispose il marchese mostrandogli la Pelle di zigrino.

Il barone Japhet applicò sulla Pelle le papille nervose della sua lingua tanto abile nell’assaggiare i sali, gli acidi, gli alcali, i gas, e dopo alcune prove disse: «Non ha alcun sapore! Adesso gli facciamo bere un po’ di acido fluoridrico».

Sottoposta all’azione di tale sostanza, così rapida nel disorganizzare i tessuti animali, la Pelle non subì alcuna alterazione.

«Non è zigrino», esclamò il chimico. «Tratteremo questa sconosciuta sostanza misteriosa come un minerale e gliele suoneremo di santa ragione mettendola in un crogiolo infusibile dove ho, per l’appunto, della potassa rossa».

Japhet uscì per tornare poco dopo.

«Signore», disse a Raphaël, «permettete che prenda un pezzetto di questa particolare sostanza, è così straordinaria...»

«Un pezzetto!», esclamò Raphaël, «ma nemmeno l’ombra di un capello. Del resto, provate pure», disse con un’espressione a un tempo triste e beffarda.

Lo scienziato spezzò un rasoio nel tentativo di intaccare la Pelle, tentò di romperla con una forte scarica elettrica, poi la sottopose all’azione di una pila voltaica, insomma le folgori della sua scienza non l’ebbero vinta sul terribile talismano. Erano le sette di sera. Planchette, Japhet e Raphaël, non accorgendosi dello scorrere del tempo, aspettavano il risultato di un ultimo esperimento. Lo zigrino uscì vittorioso da uno spaventoso urto al quale era stato sottoposto grazie a una conveniente quantità di cloruro d’azoto.

«Sono perduto!», esclamò Raphaël. «Qui c’è la presenza di Dio. Morirò». Se ne andò lasciando stupefatti i due scienziati.

«Guardiamoci bene dal raccontare questa avventura all’Accademia, i nostri colleghi si farebbero beffe di noi», disse Planchette al chimico dopo una lunga pausa durante la quale si guardarono senza osare di comunicarsi i loro pensieri.

I due scienziati erano come dei cristiani che escono dalle loro tombe e non trovano un Dio nel cielo. La scienza? Impotente! Gli acidi? Acqua fresca! La potassa rossa? Disonorata! La pila voltaica e la folgore? Due giochetti!

«Un torchio idraulico spezzato come un grissino!», aggiunse Planchette.

Dopo un momento di silenzio: «Io credo al diavolo», disse il barone Japhet.

«E io a Dio», rispose Planchette.

Ciascuno dei due era nella sua parte. Per un fisico- meccanico, l’universo è una macchina che richiede un operaio; per la chimica, diabolica operazione che vuole scomporre tutto, il mondo è un gas dotato di movimento.

«Il fatto non possiamo negarlo», disse il chimico.

«Bah! A nostra consolazione, i signori dottrinari hanno creato il seguente nebuloso assioma: “Stupido come un fatto”».

«A me il tuo assioma», rispose il chimico, «mi sembra fatto come uno stupido».

Si misero a ridere, e decisero di andare a cena, convinti che quel miracolo fosse solo un semplice fenomeno.

Rientrando a casa, Valentin era in preda a una rabbia fredda; non credeva più a niente, gli si confondevano le idee in un vacillante turbinio, come accade a chi si trovi davanti a un fatto impossibile. Aveva preferito credere a qualche difetto segreto dell’apparecchio di Spieghalter, l’impotenza della scienza e del fuoco non lo stupivano affatto; ma la morbidezza della Pelle quando la toccava, e la sua durezza quando gli strumenti di distruzione a disposizione dell’uomo erano stati rivolti contro di essa, lo spaventavano. Questo fatto incontestabile gli dava la vertigine.

«Sono pazzo», pensò. «Sono digiuno da stamattina, eppure non ho fame né sete, e mi sento in petto una fiamma che mi brucia».

Rimise la Pelle di zigrino nella cornice dove era stata chiusa fino a poco prima; e, dopo aver tracciato con una linea d’inchiostro rosso l’attuale contorno del talismano, si mise a sedere nella sua poltrona.

«Sono già le otto», esclamò. «La giornata è passata come un sogno».

Coi gomiti sui braccioli della poltrona, appoggiò la testa sopra la mano sinistra, e restò immerso in una di quelle funeree meditazioni, tra quei pensieri divoranti il cui segreto se lo portano via con sé i condannati a morte.

«Ah! Pauline», esclamò, «povera bambina! Ci sono abissi che l’amore non può superare malgrado la forza delle sue ali». In quel momento udì molto distintamente un sospiro soffocato e riconobbe, in virtù di uno dei più commoventi privilegi della passione, il respiro della sua Pauline. «Oh!», pensò, «è arrivata la mia fine. Se lei fosse qui, vorrei morire nelle sue braccia».

Uno scoppio di risa, schietto, allegro, gli fece girare la testa verso il letto. Attraverso le diafane cortine vide il volto di Pauline che sorrideva come una bambina contenta di uno scherzo riuscito; i bei capelli le scendevano sulle spalle in mille riccioli; era lì come una rosa del Bengala su un fascio di rose bianche.

«Ho sedotto Jonathas», disse, «questo letto non appartiene anche a me, che sono tua moglie? Non mi rimproverare, caro; volevo solo dormire accanto a te, farti una sorpresa. Perdonami questa pazzia». Con un balzo felino saltò giù dal letto, ed era radiosa nella sua mussola leggera. Venne a sedersi sulle ginocchia di Raphaël: «Allora, di quale abisso vai parlando, amore mio?», domandò e intanto dalla fronte traspariva un’espressione preoccupata.

«Della morte».

«Mi fai soffrire», rispose lei. «Ci sono certe idee sulle quali noialtre, povere donne, non possiamo soffermarci perché ci uccidono. È forza dell’amore o mancanza di coraggio? Non lo so. La morte non mi spaventa», continuò ridendo. «Morire con te, domani mattina, insieme in un ultimo bacio, sarebbe la felicità. Mi sembrerebbe di aver vissuto più di cento anni. Che importanza ha il numero dei giorni, se, in una notte, in un’ora, abbiamo consumato tutta una vita di pace e d’amore?».

«Hai ragione, è il cielo che parla per bocca tua, la tua bella bocca. Lascia che ti baci, e moriamo», disse Raphaël.

«Sì, moriamo», rispose lei ridendo.

Verso le nove del mattino la luce filtrava attraverso le fessure delle persiane; sebbene attenuata dalla mussola delle tende, lasciava tuttavia intravvedere i ricchi colori del tappeto e i mobili lisci e lucidi della stanza dove riposavano i due amanti. Qua e là balenava lo scintillìo delle dorature. Un raggio di sole veniva a morire sul morbido piumino caduto a terra durante i giochi d’amore. Appeso a un grande specchio inclinato, l’abito di Pauline sembrava una vaporosa apparizione. Le scarpine giacevano lontano dal letto. Un usignolo venne a posarsi sul davanzale della finestra; il cinguettio ripetuto, il frullo delle sue ali improvvisamente dispiegate quando si levò in volo, svegliarono Raphaël.

«Per morire», disse completando un pensiero cominciato in sogno, «bisogna che il mio organismo, questa macchina di carne e di ossa animata dalla mia volontà, e che di me fa un individuo uomo, presenti una lesione sensibile. I medici devono conoscere i sintomi della vitalità colpita, e potermi dire se sono sano oppure malato».

Contemplò la sua donna che, addormentata, gli teneva stretta abbracciata la testa, esprimendo così nel sonno le tenere sollecitudini dell’amore. Graziosamente distesa come un bambino, col viso girato verso di lui, Pauline sembrava guardarlo ancora offrendogli la bocca graziosa socchiusa da un respiro regolare e puro. I piccoli denti di porcellana facevano spiccare il rosso delle fresche labbra sulle quali errava un sorriso; l’incarnato era più vivo, e la bianchezza era in quel momento, per così dire, più bianca che nelle ore più amorose della giornata. Così pieno di grazia, così confidente, il suo abbandono univa al fascino dell’amore l’adorabile seduzione dell’infanzia addormentata. Le donne, anche le più spontanee, durante il giorno obbediscono sempre a certe convenzioni sociali che frenano gli ingenui trasporti della loro anima; ma il sonno sembra restituirle alla spontaneità di vita che abbellisce la prima età: Pauline non arrossiva di nulla, simile a quelle care celesti creature nelle quali ogni gesto non è ancora improntato a un pensiero né ogni sguardo cela un segreto, come invece richiede la ragione. Il suo profilo spiccava vivamente sulla fine batista dei guanciali, grandi strisce di merletto mischiate ai capelli scompigliati le conferivano un’aria un po’ birichina; ma lei si era addormentata nel piacere, le lunghe ciglia aderivano alla guancia come per proteggere la vista da una luce troppo forte o per favorire quel raccoglimento dell’anima quando tenta di trattenere una voluttà perfetta ma fugace; il suo orecchio così leggiadro, bianco e roseo, inquadrato da una ciocca di capelli e disegnato in un fiocco di merletti, avrebbe reso pazzo d’amore un artista, un pittore, un vecchio, avrebbe forse restituito la ragione a qualche pazzo. Vedere la vostra donna addormentata, ridente nel sonno, quieta sotto la vostra protezione, che vi ama anche mentre sogna, nel momento in cui la creatura sembra cessare di esistere, e intanto vi offre ancora una bocca muta che nel sonno vi parla dell’ultimo bacio! Vedere una donna fiduciosa, seminuda, ma chiusa nel suo amore come in un manto, e casta in mezzo al disordine; ammirare i suoi indumenti sparsi nella stanza, una calza di seta lasciata cadere rapidamente la sera prima per piacervi, una cintura slacciata che vi attesta un’infinita fiducia, non è questa una gioia senza nome? Quella cintura è un intero poema; la donna che essa proteggeva non esiste più, quella donna vi appartiene, è diventata voi; tradirla significa ormai ferire se stessi. Pieno di commozione, Raphaël contemplò quella stanza colma d’amore, piena di ricordi, in cui la luce assumeva sfumature voluttuose, e tornò a quella donna dalle forme pure, giovani, ancora innamorata, i cui sentimenti, soprattutto, appartenevano a lui soltanto. Egli desiderò vivere per sempre. Quando il suo sguardo si posò su Pauline, ella aprì gli occhi come se un raggio di sole l’avesse colpita.

«Buon giorno, amico mio», disse sorridendo. «Come è bello il mio bambino cattivo!».

Quelle due teste, rese leggiadre dalla grazia che nasceva dall’amore, dalla giovinezza, dalla penombra e dal silenzio, formavano una di quelle scene divine la cui fugace magìa appartiene solo ai primi giorni della passione, così come la spontaneità, il candore sono gli attributi dell’infanzia. Ahimè, le gioie primaverili dell’amore, come le risate della nostra giovanile età, son destinate a svanire e a vivere soltanto nel ricordo per procurarci disperazione o elargirci qualche profumo consolatore, secondo i capricci delle nostre segrete meditazioni.

«Perché ti sei svegliata?», disse Raphaël. «Provavo un piacere così grande nel vederti addormentata, che mi veniva da piangere».

«Anch’io», rispose lei, «stanotte ho pianto mentre ti guardavo riposare, ma non di gioia. Ascolta, Raphaël mio, ascoltami! Mentre dormi il tuo respiro non è libero, hai nel petto un qualcosa che risuona, e che mi fa paura. Durante il sonno ti viene una tossetta secca, del tutto simile a quella di mio padre che sta morendo di tisi. Nel sibilo dei tuoi polmoni ho riconosciuto certi segni strani di quella malattia. Inoltre avevi la febbre, ne sono sicura, ti bruciavano le mani tutte sudate. Mio adorato! Sei giovane», disse rabbrividendo, «potresti ancora guarire se, per disgrazia... Ma no», esclamò allegramente, «nessuna disgrazia, la malattia si vince, lo dicono i medici». Con tutt’e due le braccia strinse a sé Raphaël, ne colse il respiro con uno di quei baci in cui c’è tutta l’anima: «Non desidero vivere fino alla vecchiaia», disse lei. «Moriamo giovani tutt’e due, e andiamo in cielo con le mani piene di fiori».

«Progetti simili si fanno sempre quando si è in buona salute», rispose Raphaël affondando la mano nella chioma di Pauline; ma in quel momento fu colto da un orribile accesso di tosse, quella tosse grave e sonora che sembra uscire da un feretro, che fa impallidire la fronte dei malati e li lascia tremanti, madidi di sudore, dopo avergli sconvolto i nervi, squassato le costole, affaticato il midollo spinale, e impresso nelle vene una strana pesantezza. Pallido e abbattuto, Raphaël si distese piano piano, accasciato come uno che abbia speso tutta la sua energia in un ultimo sforzo. Con gli occhi fissi, dilatati dalla paura, Pauline lo guardò immobile, bianca, silenziosa.

«Non facciamo più pazzie, angelo mio», disse lei volendo tenere nascosti a Raphaël gli orribili presentimenti che l’agitavano.

Si coprì la faccia con le mani, perché le sembrava di scorgere l’orrendo spettro della MORTE. La testa di Raphaël era diventata livida e scavata come un teschio strappato alle profondità di un cimitero, destinato agli studi di qualche scienziato. Pauline si ricordò dell’esclamazione sfuggita a Valentin la sera prima, e disse a se stessa: «Sì, ci sono abissi che l’amore non può varcare e in cui però è costretto a sprofondare».

Qualche giorno dopo questa scena di desolazione, in una mattina del mese di marzo, Raphaël si trovò seduto in una poltrona, circondato da quattro medici che l’avevano fatto sistemare in piena luce davanti alla finestra della sua stanza, e a turno gli tastavano il polso, lo palpavano, l’interrogavano con una parvenza d’interesse. Il malato cercava d’indovinare i loro pensieri interpretandone i gesti e ogni minima piega che si formava sulla loro fronte. Questo consulto era la sua ultima speranza. Quei giudici supremi stavano per pronunciare una sentenza di vita o di morte. Perciò, per strappare alla scienza umana la sua ultima parola, Valentin aveva convocato gli oracoli della medicina moderna. Lì davanti a lui, grazie al suo patrimonio e al suo nome, si trovavano i tre sistemi entro i quali fluttuano le umane conoscenze. Tre dei dottori lì presenti portavano con sé tutta la filosofia medica, rappresentando il conflitto così come esso si articola tra la Spiritualità, l’Analisi e non so quale beffardo Eclettismo. Il quarto medico era Horace Bianchon,129 uomo di scienza e di grande avvenire, il più raffinato forse dei nuovi medici, saggio e modesto rappresentante della gioventù studiosa che si appresta a raccogliere l’eredità dei tesori accumulati in cinquant’anni dalla Scuola di Parigi, e che forse edificherà il monumento al quale, con tanti materiali diversi, hanno contribuito i secoli passati. Amico del marchese e di Rastignac, da qualche giorno gli prestava le sue cure, e l’aiutava a rispondere alle domande dei tre professori ai quali a volte spiegava, con una sorta d’insistenza, le diagnosi che a lui sembravano rivelare una tubercolosi polmonare.

«Certamente avete praticato eccessi, conducendo una vita dissipata; vi siete dedicato a grandi lavori intellettuali?», chiese a Raphaël uno dei tre celebri dottori, quello con la testa quadrata, la figura massiccia, la vigorosa complessione, che sembravano denotare un genio superiore a quello dei suoi due antagonisti.

«Attraverso la dissolutezza ho voluto uccidermi, dopo aver lavorato per tre anni a una vasta opera di cui forse un giorno vi occuperete», gli rispose Raphaël.

Il gran dottore scosse la testa tutto soddisfatto, e come parlando tra sé e sé disse: «Ne ero certo!».

Era l’illustre dottor Brisset, il capo degli organicisti, il successore dei Cabanis e dei Bichat, il medico degli spiriti positivi e materialisti, che nell’uomo vede un essere finito, soggetto unicamente alle leggi del proprio organismo, e il cui stato di normalità o le deleterie anomalie si spiegano attraverso cause evidenti.

A quella risposta, Brisset guardò in silenzio un uomo di statura media, col viso imporporato e l’occhio ardente che sembravano appartenere a qualche antico satiro, e che, col dorso appoggiato allo spigolo del vano della finestra, osservava Raphaël con attenzione senza dire una parola. Uomo pieno di fede e di esaltazione, il dottor Caméristus, capo dei vitalisti, poetico difensore delle dottrine astratte di Van Helmont,130 nella vita umana vedeva un principio elevato, un fenomeno inesplicabile che si prende gioco dei bisturi, trae in inganno la chirurgia, si sottrae ai medicamenti della farmaceutica, alle x dell’algebra, alle dimostrazioni dell’anatomia, e se la ride dei nostri sforzi; una specie di fiamma intangibile, invisibile, soggetta a qualche legge divina, e che spesso sopravvive chiusa dentro un corpo condannato dalle nostre sentenze, come invece può abbandonare gli organismi più vitali.

Un sorriso sardonico errava sulle labbra del terzo medico, il dottor Maugredie, spirito raffinato, ma pirroniano e ironico, che credeva solo allo scalpello chirurgico, pur concedendo a Brisset che un uomo possa morire in condizioni di ottima salute, e ammettendo con Caméristus che un uomo possa vivere anche dopo la morte. Trovava del buono in ogni teoria e non ne adottava nessuna, pretendendo che il migliore sistema medico fosse appunto quello di non averne nesuno, e di attenersi ai fatti. Panurge della scuola medica, re dell’osservazione, questo grande indagatore di indole beffarda, l’uomo dei tentativi disperati, stava osservando la Pelle di zigrino.

«Vorrei proprio essere presente nel momento in cui a ogni vostro desiderio corrisponde un suo restringimento», disse al marchese.

«A che scopo?», esclamò Brisset.

«A che scopo?», ripeté Caméristus.

«Ah! Siete d’accordo», rispose Maugredie.

«Questa contrazione è semplicissima», aggiunse Brisset.

«È cosa soprannaturale», disse Caméristus.

«In effetti», replicò Maugredie affettando un’espressione grave e restituendo a Raphaël la sua Pelle di zigrino, «l’accartocciarsi del cuoio è un fatto inesplicabile e tuttavia naturale che, dalle origini del mondo, costituisce la disperazione della medicina e delle belle donne».

A forza di osservare i tre dottori, Valentin non scoprì in loro nessuna simpatia per i suoi mali. Silenziosi ad ogni sua risposta, tutti e tre lo squadravano con distacco e lo interrogavano senza compiangerlo. Dai modi cortesi traspariva la loro indifferenza. O perché sicuri di sé, o perché intenti a riflettere, le loro parole erano così rare, così indolenti, che a volte Raphaël li credette distratti. Di tanto in tanto, solo Brisset rispondeva: «Bene! Bene!» a tutti i sintomi scoraggianti di cui Bianchon veniva dimostrando l’esistenza. Caméristus rimaneva immerso in una profonda meditazione, Maugredie somigliava a un autore comico che stia osservando due tipi bizzarri per poterli trasferire fedelmente sulla scena. Il viso di Horace tradiva una pena profonda, una commozione piena di tristezza. Era medico da troppo poco tempo per restare insensibile davanti al dolore e impassibile vicino a un letto funebre; non sapeva ricacciare le lacrime amiche che a un uomo impediscono di vedere chiaramente e di cogliere, come un generale di armata, il momento propizio alla vittoria, senza prestare ascolto alle grida dei moribondi. Dopo essere rimasti per circa mezz’ora a prendere, come dire, le misure della malattia e del malato, come un sarto prende le misure a un giovanotto che gli ordina l’abito delle nozze, dissero alcune banalità, parlarono anche di politica; poi vollero passare nello studio di Raphaël per uno scambio d’idee e per redigere la sentenza.

«Signori», chiese Valentin, «posso assistere alla discussione?».

A tale richiesta, Brisset e Maugredie protestarono vivamente e, malgrado l’insistenza del paziente, si rifiutarono di deliberare in sua presenza. Raphaël dovette sottostare all’usanza pensando che poteva intrufolarsi in un corridoio, donde avrebbe potuto facilmente udire le discussioni mediche che di lì a poco i tre professori avrebbero avviato.

«Signori», disse Brisset entrando, «permettetemi di darvi subito il mio parere. Non ve lo voglio imporre, ma non voglio vederlo discusso: innanzitutto è chiaro, preciso, e risulta da una perfetta analogia tra uno dei miei pazienti e il soggetto che siamo stati chiamati a esaminare; inoltre mi aspettano al mio ospedale. L’importanza del fatto che lì richiede la mia presenza mi scuserà se prendo per primo la parola. Il soggetto a cui dedichiamo la nostra attenzione è anche lui affaticato da lavori intellettuali... Allora, Horace, dimmi che cosa ha fatto», disse rivolgendosi al giovane medico.

«Una teoria della volontà».

«Ah! Diavolo, ma è un vasto argomento. È affaticato, dicevo, da eccessi di pensiero, da una vita disordinata, dal ripetuto impiego di stimolanti troppo energici. L’azione violenta del corpo e del cervello ha perciò viziato il funzionamento di tutto l’organismo. Nei sintomi del volto e del corpo, signori, è facile riconoscere un’abnorme irritazione allo stomaco, la nevrosi del gran simpatico, la forte sensibilità dell’epigastrio, e il restringimento degli ipocondri. Avete notato la grossezza e la sporgenza del fegato. Il signor Bianchon, infine, ha costantemente osservato la digestione del suo paziente e ci ha detto che era difficile, laboriosa. Per essere precisi, non c’è più stomaco; l’uomo non c’è più. L’intelletto è atrofizzato perché l’uomo non digerisce più. La progressiva alterazione dell’epigastrio, centro della vita, ha viziato tutto il sistema. Da qui partono irradiazioni costanti e evidenti, il disordine ha raggiunto il cervello attraverso il plesso nervoso, donde l’eccessiva irritazione di questo organo. È evidente una forma di monomania. Il paziente è oppresso da un’idea fissa. Per lui questa Pelle di zigrino si restringe realmente, mentre forse è sempre stata come noi l’abbiamo vista adesso; ma, che si restringa oppure no, per lui questo zigrino è la mosca che aveva sul naso quel certo gran visir. Applicate subito delle sanguisughe all’epigastrio, calmate l’irritazione di quest’organo dove risiede l’uomo nella sua interezza, tenete a dieta il paziente, e la monomania cesserà. Al dottor Bianchon non dirò niente di più; egli deve saper cogliere l’insieme e i dettagli della terapia. Ci può essere forse complicazione della malattia, forse le vie respiratorie sono altrettanto irritate; ma io ritengo molto più importante, più necessaria, più urgente la terapia dell’apparato intestinale che non quella polmonare. Lo studio tenace di materie astratte e qualche violenta passione hanno prodotto gravi perturbazioni nel suo meccanismo vitale; tuttavia si è ancora in tempo per ripristinarne l’energia originaria, niente vi è troppo gravemente alterato. Perciò», disse a Bianchon, «potete facilmente salvare il vostro amico».

«Il nostro esimio collega scambia l’effetto per la causa», rispose Caméristus. «Certo, le alterazioni da lui così bene osservate sono presenti nel paziente, ma non è stato lo stomaco a provocare gradualmente delle irritazioni nell’organismo e nella direzione del cervello, come in un vetro s’irradia un’incrinatura. Per incrinare il vetro ci è voluto un colpo: questo colpo chi l’ha inferto? Lo sappiamo? Abbiamo osservato abbastanza il paziente? Conosciamo tutti i casi della sua vita? Signori, il principio vitale, l’archè di Van Helmont, è stato colpito in lui, la stessa energia vitale è intaccata nella sua essenza; la scintilla divina, l’intelligenza transitoria che serve come legame alla macchina e che produce la volontà, la scienza della vita, ha cessato di regolare i fenomeni quotidiani del meccanismo e le funzioni di ogni organo; è da qui che provengono i disordini così giustamente presi in considerazione dal mio dotto collega. Il movimento non si è verificato dall’epigastrio al cervello, ma dal cervello all’epigastrio. No», disse colpendosi con forza il petto, «no, io non sono uno stomaco fatto uomo! No, tutto non si riduce a questo. Non me la sento di dire che se ho un buon epigastrio, il resto non conta. Non possiamo», continuò più adagio, «ricondurre a una stessa causa fisica e sottoporre a una terapia uniforme i gravi disturbi che insorgono in soggetti differenti, più o meno colpiti seriamente. Nessun uomo somiglia a un altro. Tutti noi abbiamo organi particolari, diversamente adibiti, diversamente nutriti, destinati a svolgere funzioni differenti, e a sviluppare temi necessari al compimento di un ordine di cose che ci è sconosciuto. Quella parte del gran tutto, che per una volontà superiore procura e mantiene in noi il fenomeno dell’animazione, si forma in maniera distinta in ogni uomo facendone un essere in apparenza finito, ma che attraverso un punto coesiste con una causa infinita. Perciò dobbiamo studiare separatamente ogni soggetto, dobbiamo penetrarlo, riconoscere in che cosa consiste la sua vita, quale ne sia la potenzialità. Tra la mollezza di una spugna bagnata e la durezza di una pietra pomice ci sono gradazioni infinite. L’uomo è qui. Tra gli organismi spugnosi dei linfatici e il vigore metallico dei muscoli di alcuni uomini destinati a una lunga vita, quanti errori non commetterà il sistema unico, implacabile, della guarigione attraverso l’indebolimento e la prostrazione delle forze umane che voi supponete sempre irritate! In questo caso io vorrei una terapia affatto morale, un esame approfondito dell’intimo essere. La causa del male cerchiamola nelle viscere dell’anima e non in quelle del corpo! Un medico è un essere ispirato, dotato di un genio particolare, al quale Dio concede il potere di leggere nella vitalità, così come ha dotato i profeti di occhi per contemplare l’avvenire, e al poeta ha donato la facoltà di evocare la natura, al musicista quella di accordare i suoni in un ordine armonioso il cui modello è forse lassù!...».

«Sempre la sua medicina assolutista, monarchica e religiosa», mormorò Brisset.

«Signori», intervenne Maugredie prontamente coprendo l’esclamazione di Brisset, «non perdiamo di vista il paziente...».

«A questo allora si riduce la scienza!», esclamò tristemente Raphaël. «La mia guarigione oscilla tra un rosario e una corona di sanguisughe, tra il bisturi di Dupuytren e la preghiera del principe di Hohenlohe!131 Sulla linea di demarcazione tra il fatto e la parola, tra la materia e lo spirito, proprio qui Maugredie se ne sta a dubitare. Il e no degli uomini mi perseguita ovunque! Sempre il Carymary, carymara di Rabelais132: sono malato spiritualmente, carymary! oppure materialmente malato, carymara! Devo vivere? Loro non lo sanno. Almeno Planchette era più schietto, quando mi diceva: “Non so”».

In quel momento, Valentin udì la voce del dottor Maugredie.

«Il paziente è monomane, bene, d’accordo», esclamò, «ma ha duecentomila lire di rendita, monomani simili sono molto rari, e noi quantomeno gli dobbiamo un parere. La possibilità di sapere se il suo epigastrio ha reagito sul cervello oppure il cervello sull’epigastrio, la potremo forse verificare quando sarà morto. Allora, facciamo il punto della situazione. Quest’uomo è malato, nessuno può contestarlo. Gli occorre una terapia comunque. Lasciamo perdere le teorie. Applichiamogli delle sanguisughe per calmare l’irritazione intestinale e la nevrosi, sull’esistenza delle quali siamo d’accordo; poi mandiamolo a fare la cura delle acque: agiremo al contempo secondo i due sistemi. Se è tubercoloso, non possiamo certo salvarlo, così...».

Subito Raphaël lasciò il corridoio e tornò a mettersi seduto nella sua poltrona. Poco dopo i quattro medici uscirono dallo studio. Come portavoce Horace gli disse: «I signori qui presenti all’unanimità hanno riconosciuto la necessità di un’immediata applicazione di sanguisughe allo stomaco, e l’urgenza di una terapia allo stesso tempo fisica e morale. Innanzitutto un regime dietetico, per poter calmare l’irritazione del vostro organismo».

Brisset fece un gesto d’approvazione.

«Poi un regime igienico per sostenere il morale. Perciò di comune accordo vi consigliamo di fare la cura delle acque ad Aix in Savoia o a Mont-Dore in Alvernia, se preferite; l’aria e i luoghi della Savoia sono più gradevoli di quelli del Cantal, ma potrete fare come più vi aggrada».

A questo punto il dottor Caméristus si lasciò sfuggire un gesto di assenso.

«Questi signori», continuò Bianchon, «avendo constatato lievi alterazioni nell’apparato respiratorio, si sono trovati d’accordo sull’utilità delle mie precedenti prescrizioni. Pensano che la vostra guarigione sia facile e che dipenderà dall’impiego saggiamente alternato di questi differenti mezzi... E...»

«Ed ecco perché vostra figlia è muta»,133 disse Raphaël sorridendo, mentre faceva entrare Horace nello studio per consegnargli il compenso di quell’inutile consulto.

«Sono logici», gli rispose il giovane medico. «Caméristus sente, Brisset esamina, Maugredie dubita. L’uomo non ha forse un’anima, un corpo e una ragione? Una di queste tre cause prime agisce in noi in maniera più o meno forte, e ci sarà sempre un po’ dell’uomo nella scienza umana. Credimi, Raphaël, noi non guariamo, noi aiutiamo a guarire. Tra la medicina di Brisset e quella di Caméristus c’è anche la medicina antinterventista, ma per praticare con successo quest’ultima, bisognerebbe conoscere il malato da dieci anni. Nel fondo della medicina c’è negazione come in tutte le scienze. Perciò, cerca di vivere saggiamente, prova a fare un viaggio in Savoia; la cosa migliore è e sarà sempre di affidarsi alla natura».

Un mese dopo, in una bella sera d’estate, alcune persone venute a curarsi alle terme di Aix, tornando dalla passeggiata si riunirono nelle sale del Circolo. Seduto accanto a una finestra e con le spalle rivolte verso quella compagnia, Raphaël restò solo a lungo, immerso in una di quelle involontarie fantasticherie durante le quali i nostri pensieri nascono, s’intrecciano, si dileguano senza prendere forma, e passano in noi come nuvole leggere colorate appena. Allora la tristezza è dolce, la gioia così lieve, e l’anima è come assopita. Abbandonandosi a questa vita dei sensi, Valentin era immerso nella tiepida atmosfera della sera, assaporando l’aria pura e profumata delle montagne, felice di non provare alcun dolore e di aver finalmente ridotto al silenzio la sua minacciosa Pelle di zigrino. Quando i colori rossi del tramonto si spensero sulle cime e la temperatura diventò più fresca, Raphaël lasciò il suo posto accostando la finestra.

«Signore», gli disse una vecchia dama, «volete avere la compiacenza di non chiudere la finestra? Qui si soffoca».

Per l’accento stridente e il tono di singolare asprezza quella frase lacerò i timpani di Raphaël; fu come la parola che imprudentemente si lascia sfuggire un uomo alla cui amicizia volevamo credere, e che distrugge ogni dolce illusione di affetti rivelando un abisso d’egoismo. Il marchese lanciò sulla vecchia dama una fredda occhiata degna di un impassibile diplomatico, chiamò un cameriere e quando questi fu giunto, seccamente gli disse: «Aprite quella finestra!».

A tali parole, un’insolita sorpresa illuminò tutti quei volti. Un mormorio si levò da quella compagnia che guardava il malato con un’espressione più o meno significativa, come se egli avesse commesso qualcosa di gravemente insolente. Raphaël, che non aveva del tutto perduto la sua originaria timidezza giovanile, ebbe un moto di vergogna; ma si scosse dal suo torpore, riacquistò la sua energia e si chiese quale fosse la ragione di quella scena strana. Tutt’a un tratto una specie di scossa gli attraversò la mente, il passato gli apparve in una visione precisa in cui le cause del sentimento che egli suscitava risaltarono nette come le vene di un cadavere nel quale, con sapienti iniezioni, i naturalisti colorano le più piccole ramificazioni; in quel quadro fugace riconobbe se stesso, poté seguire la sua esistenza, giorno per giorno, un pensiero dopo l’altro; non senza sorpresa, vide se stesso cupo e distratto, in mezzo a persone allegre, sempre intento a riflettere sul proprio destino, preoccupato del suo male, disdegnando in apparenza la conversazione più insignificante, evitando quell’effimera intimità che subito si stabilisce tra chi è in viaggio perché, tanto, si fa conto di non doversi più incontrare; un po’ incurante degli altri e simile, insomma, a uno scoglio insensibile sia alle carezze che alla furia delle onde. Poi, per un raro privilegio d’intuizione, riuscì a leggere nell’anima dei presenti: intravvedendo sotto la luce di un candelabro il cranio giallastro, il sardonico profilo di un vecchio, si ricordò di avergli vinto del denaro senza avergli proposto di prendersi la rivincita; un po’ più in là scorse una donna graziosa le cui moine l’avevano lasciato freddo; ogni viso gli rimproverava una di quelle offese apparentemente inesplicabili, ma la cui gravità resta sempre racchiusa in una ferita invisibile inflitta all’amor proprio. Involontariamente egli aveva urtato tutte le piccole vanità che gravitavano attorno a lui. Gli invitati alle sue feste o coloro ai quali aveva offerto i suoi cavalli erano rimasti irritati dal suo lusso; sorpreso di quell’ingratitudine, aveva deciso di risparmiare loro quel genere di umiliazione: da quel momento essi si erano ritenuti disprezzati da lui e l’accusavano di aristocrazia. Scrutava così i loro cuori, potendone decifrare i pensieri più segreti; ebbe orrore della società, delle sue buone maniere, della sua vernice. Era ricco, di spirito superiore, e perciò era invidiato, odiato; il suo silenzio eludeva la curiosità, la sua modestia sembrava alterigia agli occhi di gente meschina e superficiale. Capì qual era il crimine latente, imperdonabile, di cui si macchiava nei loro confronti: egli sfuggiva alla giurisdizione della loro mediocrità. Ribelle al loro dispotismo inquisitore, sapeva fare a meno di loro; per vendicarsi di quella non autorizzata regalità, istintivamente tutti si erano alleati per fargli sentire il loro potere, per sottoporlo a una specie di ostracismo e insegnargli che anche loro potevano fare a meno di lui. Colto da un senso di pietà a quella vista del mondo, fu subito scosso da un fremito pensando alla docile potenza che così gli sollevava il velo di carne sotto il quale è sepolta la natura morale, e chiuse gli occhi come per non vedere più niente. D’un tratto su quella sinistra fantasmagoria di verità scese un nero sipario, ma egli si trovò nell’orribile isolamento destinato alle potenze e alle dominazioni. In quel momento ebbe un accesso di tosse. Lungi dal raccogliere una sola di quelle parole apparentemente indifferenti, ma che quantomeno simulano una sorta di educato compatimento in persone perbene che per caso si trovano insieme, egli udì interiezioni ostili e lagnanze mormorate a bassa voce. La Società non si degnava più nemmeno di fingere per lui, forse perché egli ne avrebbe intuito l’anima segreta.

«La sua malattia è contagiosa».

«Il presidente del Circolo dovrebbe proibirgli l’accesso alla sala».

«Per buona educazione veramente non si dovrebbe tossire in questo modo».

«Quando uno è così malato non dovrebbe venire a fare la cura delle acque».

«Mi costringerà ad andarmene».

Raphaël si alzò per sottrarsi alla generale riprovazione, e si mise a passeggiare. Volle trovare protezione, e si avvicinò a una giovane donna che stava lì inoperosa e alla quale pensò di rivolgere qualche complimento; ma, al suo avvicinarsi, quella gli voltò le spalle, e finse di guardare gli altri che ballavano. Raphaël temette di aver già usato il suo talismano per quella sera; non ebbe il coraggio né la volontà di avviare la conversazione, abbandonò la sala e si rifugiò nella sala del biliardo. Qui nessuno lo salutò, né gli rivolse la parola o il minimo sguardo di benevolenza. Il suo spirito naturalmente riflessivo gli rivelò, per intuizione, la causa generale e razionale dell’avversione che aveva suscitato. Forse, senza saperlo, quel piccolo mondo obbediva alla gran legge che regola l’alta società, la cui morale implacabile si dispiegò allora tutta intera agli occhi di Raphaël. Uno sguardo retrospettivo gli mostrò in Fedora il suo perfetto modello. Nella società non avrebbe incontrato maggior simpatia di quanta Fedora ne avesse avuto per le sue pene d’amore. Il bel mondo tiene lontano da sé gli infelici, così come un uomo di salute vigorosa espelle dal suo corpo ogni malsano principio. La gente aborrisce i dolori e le sventure, li teme al pari dei contagi, tra essi e i vizi non esita mai: il vizio è un lusso. Per quanto maestosa sia una disgrazia, la società sa attenuarla, renderla ridicola con un epigramma; la società si serve delle caricature per lanciare contro i sovrani decaduti gli affronti che essa pensa di averne ricevuto; simile ai giovani Romani del Circo, essa non concede mai la grazia al gladiatore che cade; vive di oro e di sarcasmo; Morte ai deboli! è il giuramento di questa specie di ordine cavalleresco istituito in tutte le nazioni della terra, così come si leva dappertutto tra i ricchi, e una tale sentenza è iscritta in fondo ai cuori plasmati dall’opulenza o nutriti dall’aristocrazia. Mettete insieme dei ragazzi in un collegio. Questa immagine, che è in sintesi una raffigurazione della società, tanto più vera quanto più schietta, ci mostra sempre dei poveri iloti, creature di dolore e sofferenza, perpetuamente confinati tra il disprezzo e la pietà: il Vangelo promette loro il cielo. Scendiamo adesso più in basso nella scala degli esseri organizzati. Se un volatile che si trova in un cortile è sofferente, gli altri lo perseguitano a colpi di becco, lo spennano e l’ammazzano. Fedele a questa legge dell’egoismo, la gente non lesina i suoi rigori agli infelici coraggiosi abbastanza da affrontarne le feste e rattristarne i piaceri. Chiunque soffra nel corpo o nell’anima, manchi di denaro o di potere, è un Paria. Resti pure nel suo deserto; se ne varca i confini, trova dappertutto l’inverno: freddezza di sguardi, freddezza di comportamento, di parole, di cuore; è già fortunato se non raccoglie insulti là dove per lui doveva schiudersi una consolazione. Moribondi, restate nei vostri letti deserti. Vecchi, restate soli presso i freddi focolari. Povere fanciulle senza dote, gelate e soffocate di caldo nelle vostre soffitte solitarie. Se il mondo tollera una sventura, è solo per modellarla a suo vantaggio, per trarne profitto, metterle il basto, un morso, una gualdrappa, montarla, farne un’occasione di gioia. Bizzose dame di compagnia, atteggiate il viso a una gaia espressione! Sopportate le sfuriate della vostra pretesa benefattrice; badate ai suoi cani; in gara con i suoi grifoni inglesi, divertitela, indovinatene i segreti desideri, poi tacete! E tu, re dei servi senza livrea, sfrontato parassita, lascia a casa il tuo carattere; digerisci come digerisce il tuo anfitrione, piangi le sue lacrime, ridi il suo riso, considera divertenti le sue battute; se vuoi dirne male, aspetta la sua rovina. Così il mondo onora la sventura: la uccide o la scaccia, l’avvilisce o la mutila.

Queste erano le riflessioni che nacquero nel cuore di Raphaël con la velocità di un’ispirazione poetica; si guardò intorno e provò quel freddo sinistro che la società sa secernere per tenere lontana da sé ogni infelicità, e che ferisce l’anima ancor più vivamente di quanto la tramontana di dicembre non faccia gelare il corpo. Incrociò le braccia sul petto, si appoggiò con le spalle al muro, e cadde in una profonda malinconia. Pensava alla misera felicità che al mondo sa procurare questa spaventosa organizzazione sociale. In che consisteva? Divertimenti senza piacere, allegria senza gioia, feste senza godimento, delirio senza voluttà, insomma la legna o la cenere di un focolare, ma senza le scintille della fiamma. Sollevando la testa, vide che era rimasto solo; i giocatori erano scappati. «Per fargli adorare la mia tosse, basterebbe che rivelassi loro il mio potere!», pensò. E così pensando fece calare il manto del disprezzo tra sé e il mondo.

Il giorno seguente, il medico delle terme venne a visitarlo: aveva un’aria affettuosa, e si mostrava preoccupato della sua salute. Raphaël provò un moto di gioia udendo le parole amiche che gli venivano rivolte. La fisionomia del dottore gli sembrò piena di dolcezza e di bontà, i ricci della parrucca bionda emanavano filantropia, il taglio squadrato dell’abito, le pieghe del pantalone, le scarpe larghe come quelle di un quacchero, tutto, perfino la cipria diffusa tutt’intorno dal codino sulle spalle leggermente incurvate, rivelava un carattere apostolico, esprimeva la carità cristiana e la devozione di un uomo che, per zelo nei confronti dei suoi pazienti, si era costretto a giocare a whist e a trictrac abbastanza bene da vincere sempre il loro denaro.

«Signor marchese», disse dopo aver a lungo chiacchierato con Raphaël, «sono certo che potrò dissipare la vostra tristezza. Adesso conosco abbastanza il vostro organismo per poter affermare che i medici di Parigi, di cui pur mi è noto il grande talento, si sono ingannati sulla natura della vostra malattia. Salvo incidenti, signor marchese, potete vivere quanto Matusalemme. I vostri polmoni sono forti come i mantici di una fucina, e il vostro stomaco l’avrebbe vinta anche su quello di uno struzzo; ma se restate in luoghi così elevati, correte proprio il rischio di finire direttamente al cimitero. Il signor marchese mi comprenderà in due parole. Dalla chimica è stato dimostrato che la respirazione costituisce, nell’uomo, una vera e propria combustione la cui maggiore o minore intensità dipende dall’afflusso o dalla mancanza dei princìpi flogistici ammassati nell’organismo particolare di ciascun individuo. In voi il dato flogistico abbonda; voi risultate, consentitemi l’espressione, sovraossigenato a causa della vostra ardente complessione che è quella degli uomini destinati alle grandi passioni. Respirando l’aria viva e pura che accelera la vita negli uomini di fibra molle, voi agevolate ulteriormente una combustione già troppo rapida. Una delle condizioni necessarie alla vostra esistenza è perciò l’atmosfera densa delle stalle, delle valli. Sì, l’aria vitale dell’uomo divorato dal genio si trova nei grassi pascoli della Germania, a Baden-Baden, a Töplitz. Se l’Inghilterra non vi fa orrore, la sua brumosa atmosfera calmerà la vostra incandescenza; ma le nostre acque situate a mille piedi sopra il livello del Mediterraneo sono per voi funeste. Questo è il mio parere», disse lasciandosi sfuggire un gesto di modestia; «ve lo esprimo contro il nostro interesse, giacché, se lo seguite, avremo la sfortuna di perdervi».

Se non avesse detto queste ultime parole, Raphaël sarebbe stato sedotto dalla falsa bonomia di quel medico mellifuo, ma egli era troppo acuto osservatore per non indovinare dall’accento, dal gesto e dallo sguardo che accompagnarono quella frase lievemente ironica, la missione di cui certamente quell’ometto era stato incaricato da parte dell’allegra compagnia dei suoi pazienti. Quegli sfaccendati dalla carnagione florida, quelle vecchie donne annoiate, quegli Inglesi nomadi, quelle puttanelle fuggite dai loro mariti e accompagnate alle terme dai loro amanti, tentavano quindi di cacciare via un povero moribondo debole, gracile, apparentemente incapace di resistere a una persecuzione quotidiana. Raphaël accettò la lotta immaginando di divertirsi in quell’intrigo.

«Dal momento che sareste desolato della mia partenza», rispose al dottore, «cercherò di trarre profitto dal vostro utile consiglio, però restando qui. A partire da domani mi farò costruire una casa in cui l’aria verrà modificata secondo le vostre prescrizioni».

Comprendendo il sorriso amaramente beffardo che errava sulle labbra di Raphaël, il medico si limitò a salutarlo, non riuscendo a dire altro.

Il lago di Bourget è una vasta conca di montagne tutta sfrangiata dove brilla, a settecento o ottocento piedi sopra il livello del Mediterraneo, una goccia d’acqua azzurra come non lo è nessun’acqua al mondo. Visto dall’alto del Dent-du-Chat, questo lago è come una turchese smarrita. Questa graziosa goccia d’acqua ha una circonferenza di circa nove leghe e, in certi punti, una profondità di circa cinque piedi. Trovarsi lì, in una barca, in mezzo a una distesa d’acqua sotto un bel cielo, udire solo il rumore dei remi, vedere all’orizzonte soltanto montagne rannuvolate, ammirare le nevi splendenti della Moriana francese, passare gradualmente dai blocchi di granito ricoperti dal velluto delle felci o degli arbusti nani, alle colline ridenti; da un lato il deserto, dall’altro una natura rigogliosa: come un povero che assista al pranzo di un ricco; quelle armonie e discordanze formano uno spettacolo dove tutto è grande, dove tutto è piccolo. L’aspetto delle montagne cambia le condizioni dell’ottica e della prospettiva: un abete di cento piedi sembra una canna, ampie vallate sembrano strette come sentieri. Questo lago è l’unico dove ci si possa confidare cuore a cuore. Lì si può pensare e ci si può amare. In nessun altro luogo potreste incontrare un accordo più bello tra l’acqua, il cielo, le montagne e la terra. Vi si trovano balsami per tutti i momenti di crisi della vita. Questo luogo sa mantenere il segreto dei dolori, li consola, li attenua, e all’amore sa donare un non so che di grave, di raccolto, che rende più profonda, più pura la passione. Lì un bacio diventa immenso. Ma soprattutto questo è il lago dei ricordi; li favorisce conferendo loro il colore delle sue onde, specchio dove tutto torna a specchiarsi. Soltanto in mezzo a quel bel paesaggio Raphaël poteva sopportare il suo fardello; indolente e senza desideri, lì poteva restare a meditare. Dopo la visita del dottore, uscì a fare una passeggiata e si fece sbarcare sulla punta deserta di una amena collina sopra la quale è situato il villaggio di Saint-Innocent. Da quella specie di promontorio, la vista spazia dai monti di Bugey, ai cui piedi scorre il Rodano, al fondo del lago; ma da quel punto a Raphaël piaceva contemplare, sulla riva opposta, la malinconica abbazia di Haute-Combe, sepoltura dei re di Sardegna prosternati davanti alle montagne come pellegrini giunti alla fine del loro viaggio. Uguale e cadenzato, un fruscìo di remi turbò il silenzio di quel paesaggio e gli conferì una voce monotona, simile alle salmodie dei monaci. Stupito d’incontrare dei viandanti in quella parte del lago quasi sempre solitaria, il marchese osservò, sempre immerso nel suo fantasticare, le persone sedute nella barca e riconobbe a poppa la vecchia dama che l’aveva così aspramente interpellato il giorno prima. Quando l’imbarcazione passò davanti a Raphaël, nessuno lo salutò, tranne la dama di compagnia della vecchia signora, una povera nobile ragazza che gli sembrò di vedere per la prima volta. Dopo pochi istanti, si era già dimenticato dei viandanti, scomparsi velocemente dietro il promontorio, quando udì vicino a lui il fruscìo di una veste e un rumore di passi leggeri. Voltandosi, scorse la dama di compagnia; dall’aria impacciata intuì che voleva parlargli, e allora le andò incontro. Aveva forse trentasei anni, alta e sottile, secca e fredda, come tutte le zitelle era abbastanza imbarazzata dallo sguardo di lui, che non si adattava più a un’andatura indecisa, impacciata, priva di elasticità. Vecchia e giovane allo stesso tempo, con una certa dignità del portamento ella esprimeva l’alto valore che attribuiva ai suoi tesori e alle sue perfezioni. Aveva, d’altronde, i gesti discreti e monastici delle donne abituate a prediligere se stesse, certamente per non mancare al loro destino d’amore.

«Signore, la vostra vita è in pericolo, non venite più al Circolo», disse a Raphaël facendo qualche passo indietro, come se già la sua virtù ne fosse compromessa.

«Ma, signorina», rispose sorridendo Valentin, «di grazia, vogliate spiegarvi più chiaramente, giacché vi siete degnata di venire fin qui».

«Ah!», rispose lei, «è un imperioso motivo che mi spinge, altrimenti non avrei corso il rischio di cadere in disgrazia presso la signora contessa, perché se mai venisse a sapere che vi ho avvertito...»

«E chi potrebbe dirglielo, signorina?», esclamò Raphaël.

«È vero», rispose la zitella rivolgendogli uno sguardo tremante di civetta esposta al sole. «Ma pensate a voi», continuò, «alcuni giovanotti che vogliono cacciarvi dalle terme, si sono ripromessi di provocarvi, in modo da costringervi a battervi in duello».

In lontananza risuonò la voce della vecchia dama.

«Signorina», disse il marchese, «la mia riconoscenza...»

La sua protettrice era già scappata via all’udire la voce della padrona che, di nuovo, guaìva tra le rocce.

«Povera ragazza! Le miserie si comprendono e si soccorrono sempre», pensò Raphaël sedendosi ai piedi di un albero.

La chiave di tutte le scienze è senza alcun dubbio il punto interrogativo. La maggior parte delle grandi scoperte la dobbiamo ai: «Come?» e la saggezza della vita consiste forse nel chiedersi in ogni occasione: «Perché?». Ma questa fittizia prescienza distrugge in noi anche le illusioni. Così Valentin, avendo preso, senza premeditazione filosofica, la buona azione della zitella come oggetto del suo pensoso divagare, la trovò piena di fiele.

«Che mi ami una dama di compagnia», disse, «in questo non vi è niente di straordinario: ho ventisette anni, un titolo nobiliare e duecentomila lire di rendita! Ma che la sua padrona, che contende la palma dell’idrofobia alle gatte idrofobe, l’abbia condotta in barca qui da me, questo non è una cosa strana e stupefacente? Queste due donne, venute in Savoia per dormire come marmotte e che a mezzodì chiedono se si è fatto giorno, oggi si sarebbero alzate prima delle otto per correre il rischio di mettersi sulle mie tracce?».

Subito quella zitella con la sua ingenuità da quarantenne rappresentò ai suoi occhi un’ulteriore trasformazione di quel mondo artificioso e cattivo, un’astuzia meschina, un maldestro complotto, un puntiglio di prete o di donna. Il duello era una pura invenzione, oppure volevano solo fargli paura? Insolenti e moleste come mosche, quelle anime meschine erano riuscite a stuzzicare la sua vanità, a risvegliare il suo orgoglio, a eccitare la sua curiosità. Non voleva diventare il loro zimbello né passare per un vile: perciò la sera stessa, divertito forse da quel piccolo dramma, si recò al Circolo. Tranquillo, in mezzo alla sala principale, restò in piedi col gomito appoggiato al marmo del camino, badando a non fornire alcun pretesto contro di lui; intanto osservava i loro volti, e con la sua circospezione sfidava in qualche modo quella compagnia. Come un mastino che si sente sicuro della sua forza, senza abbaiare inutilmente, aspettava lo scontro lì sul posto. Verso la fine della serata, si mise a passeggiare nella sala da gioco, andando dalla porta d’ingresso a quella della sala del biliardo, dove di tanto in tanto gettava un’occhiata ai giovanotti che facevano una partita. Dopo un po’ di giri, sentì pronunciare il suo nome da alcuni di loro. Benché parlassero a bassa voce, Raphaël capì facilmente che oggetto di una discussione era proprio lui, e riuscì a cogliere qualche frase detta ad alta voce. «Tu?». «Sì, io!». «Allora ti sfido a farlo!». «Scommettiamo!». «Oh! Ci andrà». Nel momento in cui Valentin, incuriosito dall’argomento della scommessa, si fermò per ascoltare attentamente la conversazione, un giovanotto grande e grosso, di bell’aspetto, ma con lo sguardo fisso e insolente di chi si sente sostenuto da qualche potere materiale, uscì dalla sala del biliardo.

«Signore», disse con un tono calmo, rivolgendosi a Raphaël, «ho accettato l’incarico di comunicarvi una cosa che voi sembrate ignorare: la vostra faccia e la vostra persona qui non sono gradite a tutti noi, e a me in particolare; siete troppo ben educato per non sacrificarvi al bene generale, e perciò vi prego di non presentarvi più al Circolo».

«Signore, questo scherzo già ripetuto in diverse guarnigioni durante l’Impero, oggi è diventato di pessimo gusto», rispose freddamente Raphaël.

«Io non scherzo affatto», rispose il giovanotto, «ve lo ripeto: la vostra salute risentirebbe troppo di un vostro soggiorno qui; il calore, le luci, l’aria della sala, la compagnia nuocciono alla vostra malattia».

«Dove avete studiato medicina?», chiese Raphaël.

«Signore, ho preso il baccalaureato alla scuola di tiro di Lepage a Parigi e il dottorato da Cérisier, il re del fioretto».

«Vi resta un ultimo titolo da conseguire», rispose Valentin, «studiate il Codice della buona educazione, e sarete un perfetto gentiluomo».

Sorridenti o silenziosi, in quel momento alcuni giovani uscirono dalla sala del biliardo. Gli altri giocatori, fattisi attenti, lasciarono le carte per poter ascoltare una disputa che avrebbe soddisfatto le loro passioni. Solo, in mezzo a gente ostile, Raphaël cercò di mantenere il suo sangue freddo e di non passare dalla parte del torto; ma, siccome il suo antagonista si era permesso un sarcasmo in cui l’oltraggio si mascherava in una forma eminentemente tagliente e spiritosa, gli rispose con tono grave: «Signore, oggi non è più permesso schiaffeggiare un uomo, ma io non trovo parole con le quali condannare un comportamento vile come il vostro».

«Basta! basta! Vi spiegherete domani», dissero alcuni giovani intromettendosi fra i due campioni.

Raphaël, ritenuto ormai l’offensore, uscì dalla sala dopo aver accettato un incontro nei pressi del castello di Bordeau, in un piccolo prato in discesa, non lontano da una strada aperta di recente che al vincitore avrebbe permesso di raggiungere Lione. Raphaël avrebbe dovuto necessariamente restare a letto oppure lasciare le terme di Aix. La società trionfava. Il giorno seguente, verso le otto del mattino, l’avversario di Raphaël, seguito da due testimoni e da un chirurgo, giunse per primo sul luogo prestabilito.

«Staremo benissimo qui, e il tempo è magnifico per battersi», esclamò allegramente guardando la volta azzurra del cielo, le acque del lago e le rocce, senza che un minimo dubbio di lutto lo sfiorasse. «Se lo ferisco alla spalla», continuò, «lo costringerò a letto per un mese; non è vero, dottore?».

«Un mese almeno», rispose il chirurgo. «Ma lasciate in pace quel piccolo salice; altrimenti vi stancherete la mano e sbaglierete il colpo. Potreste uccidere il vostro avversario anziché ferirlo».

Si udì il rumore di una carrozza.

«Eccolo», dissero i testimoni, che subito scorsero nella strada una carrozza da viaggio tirata da quattro cavalli e guidata da due postiglioni.

«Che tipo strano!», esclamò l’avversario di Valentin, «viene a farsi uccidere in diligenza».

In un duello, come al gioco, anche i fatti di minima importanza influiscono sull’immaginazione dei personaggi maggiormente interessati alla riuscita di un colpo; così, con una sorta d’inquietudine, quel giovane si mise ad aspettare l’arrivo della carrozza che si fermò sulla strada. Con fatica ne discese per primo il vecchio Jonathas che aiutò Raphaël a uscire; lo sostenne con le sue deboli braccia, dedicandogli ogni più piccola attenzione di cui un amante è prodigo verso la sua donna. Sparirono entrambi nei sentieri che separavano la strada principale dal posto prescelto per lo scontro, per riapparire molto tempo dopo: procedevano lentamente. I quattro spettatori di quella singolare scena provarono un’emozione profonda alla vista di Valentin appoggiato al braccio del suo servitore: pallido e disfatto, camminava come un gottoso, col capo chino e senza dire una parola. Avreste detto che erano due vecchi ugualmente distrutti, uno dal tempo, l’altro dal pensiero; il primo portava scritta la sua età nei capelli bianchi, il giovane non aveva più età.

«Signore, non ho dormito», disse Raphaël al suo avversario.

Quella frase glaciale e lo sguardo terribile che l’accompagnava fecero trasalire il vero provocatore, che prese coscienza del suo torto e fu colto da una segreta vergogna per il suo comportamento. Nella voce, nel portamento e nel gesto di Raphaël c’era qualcosa di strano. Il marchese fece una pausa, e tutti gli altri imitarono il suo silenzio, al colmo dell’inquietudine e dell’attenzione.

«Siete ancora in tempo», continuò Raphaël, «a darmi una piccola soddisfazione; ma datemela, signore, altrimenti morirete. Adesso contate ancora sulla vostra abilità, e non vi tirate indietro all’idea di uno scontro in cui pensate di avere senz’altro la meglio. Ebbene, signore, voglio essere generoso, vi avverto della mia superiorità. Io posseggo un potere terribile. Per annientare la vostra destrezza, per velare il vostro sguardo, per farvi tremare le mani e palpitare il cuore, addirittura per uccidervi, mi basta desiderarlo. Non voglio essere costretto a esercitare il mio potere, mi costa troppo servirmene. Non sarete il solo a morire. Se perciò vi rifiutate di presentarmi delle scuse, la vostra pallottola finirà nell’acqua di questa cascata malgrado la vostra abitudine all’assassinio, e la mia finirà dritta nel vostro cuore senza che io prenda la mira».

In quel momento Raphaël fu interrotto da un confuso vocìo. Pronunciando quelle parole, aveva costantemente tenuto fisso sopra l’avversario l’insostenibile bagliore dei suoi occhi, aveva ripreso un portamento eretto mostrando un viso impassibile, simile a quello di un pazzo malvagio.

«Fallo tacere», disse il giovane al suo testimone, «quella voce mi torce le viscere!».

«Signore, smettetela. Fate discorsi inutili», gridarono il chirurgo e i testimoni rivolti a Raphaël.

«Signori, adempio a un dovere. Questo giovane ha disposizioni da prendere?».

«Basta, basta!».

Il marchese restò immobile, ritto, non perdendo di vista un solo istante l’avversario che, dominato da un potere quasi magico, era come un uccello davanti a un serpente: costretto a subire quello sguardo omicida, lo evitava e vi ritornava continuamente.

«Dammi un po’ d’acqua, ho sete», disse al suo testimone.

«Hai paura?».

«Sì», rispose lui. «Mi affascina lo sguardo ardente di quell’uomo».

«Vuoi fargli le tue scuse?».

«Non c’è più tempo».

I due avversari furono messi a una distanza di quindici passi l’uno dall’altro. Ciascuno accanto a sé aveva un paio di pistole e, secondo il programma di quel cerimoniale, avrebbe dovuto sparare a volontà due colpi, ma dopo il segnale dato dai testimoni.

«Che fai, Charles», esclamò il giovane che faceva da padrino all’avversario di Raphaël, «metti la pallottola prima della polvere».

«Sono morto», mormorò Charles, «mi avete messo di fronte al sole».

«Il sole è alle vostre spalle», gli disse Valentin con voce grave e solenne, caricando lentamente la pistola e senza inquietarsi né del segnale già dato né della cura con cui il suo avversario lo stava prendendo di mira.

Questa sicurezza soprannaturale aveva qualcosa di terribile che colpì anche i due postiglioni attirati lì da una curiosità crudele. Come scherzando col suo potere, o volendo metterlo alla prova, Raphaël parlava a Jonathas e lo guardava mentre intanto riceveva il fuoco del suo nemico. La pallottola di Charles andò a spezzare un ramo di salice, e rimbalzò sull’acqua. Tirando a caso, Raphaël colpì al cuore l’avversario e, senza badare a quel giovane che cadeva, cercò subito la Pelle di zigrino per vedere quel che gli costava una vita umana. Il talismano non era più grande di una fogliolina di quercia.

«Allora, postiglioni, cosa state lì a guardare? In viaggio», disse il marchese.

Arrivato in Francia nella stessa serata, prese subito la strada dell’Alvernia, e si recò alle terme del Mont-Dore. Durante il viaggio, gli venne in mente uno di quei pensieri improvvisi che ci attraversano l’anima così come un raggio di sole, da una spessa cortina di nubi, s’affaccia sopra un’oscura valle. Tristi bagliori, saggezze implacabili! Illuminano gli eventi una volta conclusi, ci svelano i nostri errori e intanto ci abbandonano a noi stessi imperdonati. Tutt’a un tratto Raphaël pensò che il possesso del potere, per quanto immenso fosse, non poteva dare la scienza di servirsene. Lo scettro è un giocattolo nelle mani di un bambino, è una scure in quelle di Richelieu, e per Napoleone è una leva con cui dare un’inclinazione al mondo. Il potere ci lascia così come siamo e fa più grande solo chi è già grande. Raphaël avrebbe potuto fare tutto, non aveva fatto niente.

Alle terme del Mont-Dore trovò gente che lo scansava con la stessa premura che gli animali mettono nel fuggire uno di loro, quando è ormai morto, dopo averlo fiutato da lontano. Quell’odio era reciproco. La sua ultima avventura gli aveva procurato una profonda avversione per la società. Perciò sua prima cura fu di cercarsi nei pressi delle terme un asilo appartato. Istintivamente sentiva il bisogno di riavvicinarsi alla natura, alle emozioni vere e a quella vita vegetativa cui ci si abbandona soddisfatti in mezzo ai campi. Il giorno seguente il suo arrivo s’inerpicò, non senza fatica, sul picco di Sancy, e visitò le valli superiori, i luoghi più elevati, i laghi ignorati, le rustiche capanne dei Monts-Dore, la cui aspra bellezza selvaggia comincia a tentare il pennello dei nostri artisti. A volte ci s’imbatte in stupendi paesaggi pieni di grazia e di freschezza che contrastano fortemente col sinistro aspetto di quelle montagne desolate. A circa mezza lega dal villaggio, Raphaël si trovò in un luogo in cui, civettuola e allegra come una bambina, la natura sembrava compiacersi di nascondere dei tesori; vedendo quell’eremo pittoresco e primitivo, decise di vivere lì. La vita doveva esservi tranquilla, spontanea, sobria come quella di una pianta.

Immaginatevi un cono rovesciato, ma un cono di granito ampiamente svasato, una specie di conca dai bordi sfrangiati da bizzarre anfrattuosità: qui dei lastroni diritti senza vegetazione, lisci, bluastri, sui quali i raggi del sole scivolavano come su uno specchio; là delle rocce intaccate da fenditure, solcate da burroni, da cui blocchi di lava pendevano pronti alla caduta lentamente preparata dall’acqua piovana, e spesso coronate da qualche albero rinsecchito tormentato dai venti; poi qua e là, sporgenze e rientranze oscure e fresche donde si levava un boschetto di castagni alti come cedri, o grotte giallastre che aprivano una bocca nera e profonda, ostruita da rovi, da fiori, e ornata da una striscia di verzura. In fondo a quella conca, forse l’antico cratere di un vulcano, c’era uno stagno dalle acque pure e splendenti come un diamante. Intorno a quel bacino profondo, orlato di granito, di salici, di gladioli, di frassini e di mille piante aromatiche allora in fiore, si estendeva un erboso tappeto verde come un prato inglese; l’erba fine e bagnata dalle infiltrazioni che scorrevano tra le fenditure delle rocce, era ingrassata dalle spoglie vegetali che continuamente i temporali trascinavano dalle alte cime giù verso il basso. Irregolarmente frastagliato come l’orlo di una veste, lo stagno aveva forse l’estensione di tre arpenti; il prato, a seconda della vicinanza delle rocce e dell’acqua, aveva una larghezza di uno o due arpenti; in qualche punto c’era appena lo spazio per il passaggio delle vacche. A una certa altezza la vegetazione cessava e il granito assumeva le forme più strane prendendo certe tinte vaporose che ai monti più alti conferiscono una vaga rassomiglianza con le nubi del cielo. Al dolce aspetto del valloncello quelle rocce nude e pelate contrapponevano le selvagge e sterili immagini della desolazione, di temibili frane, forme così bizzarre che una di quelle rocce è chiamata le Capucin, tanto somiglia a un monaco. A volte quelle guglie appuntite, quegli arditi pilastri, quelle aeree caverne s’illuminavano uno dopo l’altro, a seconda del corso del sole o dei capricci dell’atmosfera, e prendevano le sfumature dell’oro, si tingevano di porpora, o di un rosa vivo, o diventavano grigi e spenti. Quelle alture offrivano uno spettacolo continuamente cangiante come i riflessi iridescenti della gola dei piccioni. Spesso, all’aurora o al tramonto, tra due lastre di lava che potevano sembrare separate da un colpo d’accetta, un bel raggio di luce penetrava in fondo a quell’aiuola ridente e lì scherzava nelle acque del bacino, simile alla striscia d’oro che passa attraverso la fessura di un’imposta e filtra in una stanza accuratamente chiusa per la siesta. Quando il sole dardeggiava sopra il vecchio cratere riempito d’acqua da qualche sconvolgimento antidiluviano, i fianchi rocciosi si scaldavano, l’antico vulcano si accendeva, e il suo rapido calore risvegliava i germi, fecondava la vegetazione, coloriva i fiori e maturava i frutti di quel piccolo angolo di terra sconosciuto. Appena giunto, Raphaël scorse delle vacche che pascolavano nel prato; avviatosi verso lo stagno, in un punto in cui il terreno si slargava, vide una modesta abitazione di granito, ricoperta di legno. Il tetto di quella specie di capanna, in armonia con il luogo, era ornato di muschio, di edera e di fiori che denotavano una grande antichità. Un sottile filo di fumo, che gli uccelli non temevano più, si levava dal camino in rovina. Una grande panca era collocata accanto alla porta, tra due enormi caprifogli pieni di fiori rossi profumati. I muri erano appena visibili sotto i pampini della vite e i tralci di rose e gelsomini che crescevano liberamente a caso. Incuranti di quegli ornamenti campestri, gli abitanti non vi dedicavano alcuna cura, e lasciavano alla natura la sua grazia vergine e ribelle. Fasce appese a un cespuglio di ribes asciugavano al sole. Sopra una macchina per stigliare la canapa stava accovacciato un gatto, e sotto, in mezzo a un mucchio di bucce di patate, c’era un paiolo giallo pulito di recente. Dall’altro lato della casa, Raphaël scorse un recinto di spini secchi, certamente destinato a impedire che le galline devastassero il frutteto e l’orto. Il mondo sembrava finire lì. Quell’abitazione somigliava a certi nidi che gli uccelli ingegnosamente fanno nell’incavo di una roccia, raffinati e rozzi a un tempo. Era una natura buona e semplice, una rusticità vera, ma poetica, poiché fioriva a mille leghe dalle nostre agghindate poesie e non aveva analogia con nessuna idea, non procedendo che da se stessa, vero trionfo del caso. Quando Raphaël giunse in quel luogo, i raggi del sole piovevano da destra a sinistra e facevano risplendere i colori della vegetazione mettendo in risalto o abbellendo, con la magia della luce e i contrasti dell’ombra, il fondo giallo e grigiastro delle rocce, le varie gradazioni di verde del fogliame, le macchie azzurre, rosse o bianche dei fiori, le piante rampicanti con le loro campanule, il velluto cangiante del muschio, i grappoli purpurei dell’erica, ma soprattutto lo specchio d’acqua chiara dove fedelmente si specchiavano le cime granitiche, gli alberi, la casa e il cielo. In quel quadro delizioso, tutto aveva il suo splendore, dalla mica brillante al ciuffo d’erbe bionde nascosto in un dolce chiaroscuro; tutto era armonioso a vedersi: e la vacca pezzata dal pelo lucente, e i fragili fiori acquatici che come frange pendevano sopra l’acqua in un’insenatura dove ronzavano insetti vestiti d’azzurro o di smeraldo, e le radici degli alberi, chiome sabbiose che coronavano un informe viso di sasso. Il tiepido odore delle acque, dei fiori e delle grotte che profumavano quel luogo solitario, suscitarono in Raphaël una sensazione quasi voluttuosa. Il silenzio maestoso che regnava in quella conca forse dimenticata dai registri dell’esattore, fu interrotto dall’improvviso abbaiare di due cani. Le vacche girarono la testa verso l’entrata del valloncello, mostrarono a Raphaël il loro muso umido e, dopo averlo osservato inebetite, si misero a brucare. Sospesi sulle rocce come per magia, una capra e il suo capretto saltarono giù e vennero a posarsi su un lastrone di granito vicino a Raphaël, come se volessero interrogarlo. L’abbaiare dei cani attirò fuori un bambino robusto che restò lì a bocca aperta, poi un vecchio canuto, di media statura. Quei due esseri erano in armonia col paesaggio, con l’aria, i fiori, la casa. In quella natura copiosa traboccava la salute, lì erano belle la vecchiaia e l’infanzia; vi era insomma in tutti quei tipi d’esistenza un abbandono primordiale, una consuetudine alla felicità che smentiva i nostri predicozzi filosofici, e guariva il cuore dalle sue enfatiche passioni. Il vecchio poteva essere uno dei modelli cari al maschio pennello di Schnetz;134 aveva un volto bruno solcato da numerose rughe che sembravano ruvide al tocco, un naso diritto, zigomi sporgenti e venati di rosso come una vecchia foglia di vite, un profilo angoloso, tutte le caratteristiche della forza, anche là dove essa non c’era più; le mani callose, benché non lavorassero più, conservavano un pelo bianco e raro; il suo aspetto di uomo veramente libero faceva supporre che in Italia forse sarebbe potuto diventare un brigante per amore della sua preziosa libertà. Il bambino, un vero montanaro, aveva occhi neri che potevano fissare il sole senza sbattere le palpebre, carnagione molto scura, capelli bruni e arruffati. Era veloce e deciso, naturale nei movimenti come un uccello; mal vestito, attraverso gli strappi dei suoi abiti s’intravvedeva una pella bianca e fresca. Restarono tutt’e due in piedi, in silenzio, l’uno accanto all’altro, mossi dallo stesso sentimento, offrendo nei loro tratti la prova di una identità perfetta nelle loro vite ugualmente oziose. Il vecchio aveva fatto suoi i giochi del bambino e il bambino l’umore del vecchio, per una specie di patto tra due debolezze, tra una forza prossima a finire e una forza pronta a dispiegarsi. Poco dopo, una donna di circa trent’anni apparve sulla soglia. Camminando continuava a filare. Era un’Alverniate, con un bel colorito, l’espressione allegra, schietta, denti bianchi, viso e corporatura d’Alvernia, pettinatura e veste d’Alvernia, parlata e seno prosperoso d’Alvernia; un’idealizzazione perfetta del paese, abitudini laboriose, ignoranza, economia, cordialità, non vi mancava niente.

Salutato Raphaël, cominciarono a discorrere; i cani si acquietarono, il vecchio si mise a sedere su una panca al sole, e il bambino seguiva la madre ovunque ella andasse, silenzioso ma prestando ascolto e osservando attentamente il forestiero.

«Non avete paura a stare qui, brava donna?».

«E di che aver paura, signore? Una volta sbarrata la porta d’ingresso, chi potrebbe entrare qui? Oh! Non abbiamo affatto paura! Del resto», disse, facendo entrare il marchese nella stanza grande della casa, «che cosa potrebbero rubare qui i ladri?».

Mostrava, anneriti dal fumo, i muri sui quali erano appese come unico ornamento quelle stampe colorate di azzurro, rosso e verde, che raffigurano la Morte del signor Credito, la Passione di Gesù Cristo e i Granatieri della Guardia imperiale;135 poi, qua e là nella stanza, un vecchio letto di noce a colonne, un tavolo dai piedi storti, degli sgabelli, la madia del pane, un pezzo di lardo appeso al soffitto, un vaso per il sale, una padella; e sul camino delle statuette di gesso ingiallite e colorate. Uscendo dalla casa, Raphaël scorse, in mezzo alle rocce, un uomo con una zappa in mano che, curvo e incuriosito, stava guardando la casa.

«Signore, quello è il mio uomo», disse l’Alverniate e intanto sorrideva familiarmente, come fanno i contadini; «lavora lassù».

«E quel vecchio è vostro padre?».

«Perdonate, signore, è il nonno dell’uomo mio. Ha centodue anni, proprio come lo vedete. Beh, ultimamente si è portato il piccino a piedi fino a Clermont! È stato un uomo forte; adesso non fa altro che dormire, bere e mangiare. Sta sempre a giocare col piccino. Qualche volta è il piccolo che se lo porta sulle cime, e lui ci va volentieri lo stesso».

Subito Valentin decise di vivere tra quel vecchio e quel bambino, di respirare la loro stessa aria, di mangiare il loro pane, di bere la loro acqua, di dormire il loro sonno, di avere nelle vene lo stesso loro sangue. Stranezze di un moribondo! Diventare un’ostrica di quella roccia, salvarsi il guscio per qualche giorno ancora riuscendo a intorpidire la morte; questo diventò per lui l’archetipo della morale individuale, la vera formula dell’esistenza umana, il bell’ideale della vita, l’unica vita, la vera vita. Fu pervaso da un profondo pensiero d’egoismo in cui l’universo sprofondava. Davanti ai suoi occhi non ci fu più universo, l’universo passò tutto in lui. Per i malati, il mondo comincia al capezzale e finisce ai piedi del loro letto. Quel paesaggio fu il letto di Raphaël.

Chi, almeno una volta nella vita, non ha spiato i passi e i percorsi di una formica, infilato qualche pagliuzza nell’unico orifizio attraverso il quale respira una lumaca dorata, osservato le stranezze di una delicata libellula, ammirato le mille vene colorate come un rosone di cattedrale gotica, che si stagliano sul fondo rossastro delle foglie di un querciuolo? Chi non è rimasto a guardare a lungo e con piacere l’effetto della pioggia e del sole su un tetto di tegole brune, o a osservare le gocce di rugiada, i petali dei fiori, le variegate frastagliature dei loro calici? Chi non è mai sprofondato in quelle fantasticherie materiali, indolenti eppure operose, senza scopo e tuttavia rivolte a qualche pensiero? Insomma, chi non ha mai vissuto la vita oziosa, la vita del selvaggio, ma senza le sue fatiche? In questo modo, per alcuni giorni, visse Raphaël, senza preoccupazioni, senza desideri, avvertendo un sensibile miglioramento, uno straordinario benessere che calmò le sue inquietudini, acquietò le sue sofferenze. S’inerpicò sulle rocce e, seduto su un picco, abbracciò con lo sguardo l’immensa distesa di quel paesaggio. Lì restava dei giorni interi, come una pianta al sole, come una lepre nella tana. Oppure, familiarizzandosi coi fenomeni della vegetazione, con le vicissitudini del cielo, spiava il progredire di tutte le opere, sulla terra, nelle acque o nell’aria. Tentò di associarsi all’intimo moto di quella natura, e di identificarsi per quanto poteva con la sua obbedienza passiva, per assoggettarsi alla legge dispotica e conservatrice che governa le esistenze istintive. Non voleva più sopportare da solo tutto il peso della sua vita. Come i criminali di un tempo che, ricercati dalla giustizia, si salvavano rifugiandosi all’ombra di un altare, egli cercava d’introdursi nel santuario della vita. Riuscì a diventare parte integrante di quell’ampia e possente fruttificazione: si era adattato a tutte le intemperie, aveva abitato tutte le cavità delle rocce, conosciuto i costumi e le abitudini di tutte le piante, osservato il regime delle acque, le loro falde sotterranee, e fatto conoscenza con gli animali; infine, si era così perfettamente unito a quella terra così piena di vita, che in qualche modo ne aveva colto l’anima e penetrato i segreti. Le forme infinite di tutti i regni erano, per lui, sviluppi di una stessa sostanza, le combinazioni di un unico movimento, respiro vasto di un essere immenso che agiva, pensava, camminava, cresceva, e col quale egli voleva crescere, pensare, agire. Nella sua immaginazione aveva mescolato la sua vita alla vita di quelle rocce, vi si era insediato. Grazie a questa misteriosa capacità visionaria, convalescenza fittizia, simile a quei benèfici deliri concessi dalla natura come altrettante soste nel dolore, Valentin, durante i primi tempi del suo soggiorno in mezzo a quel paesaggio ridente, provò i piaceri di una seconda infanzia. Vi andava scovando piccole cose da nulla, intraprendeva mille cose senza portarne a termine nessuna, dimenticando il giorno dopo, incurante, i progetti del giorno prima; fu felice, si credette salvo. Una mattina, per caso era rimasto a letto fino a mezzogiorno, immerso in quella fantasticheria in cui si mescolano sonno e veglia, e che alla realtà conferisce l’apparenza della fantasia dando invece alle chimere il rilievo dell’esistenza, quando all’improvviso, senza sapere se stava continuando a sognare, udì, per la prima volta, il bollettino del suo stato di salute dato dalla padrona di casa a Jonathas venuto, come tutti i giorni, a chiederglielo. L’Alverniate certamente credeva che Valentin dormisse ancora, e non aveva abbassato il tono della sua voce di montanara.

«Non va né meglio né peggio», diceva. «Anche stanotte ha tossito tutto il tempo, da sputare l’anima. Tossisce, sputa, povero caro signore, fa proprio pena. Ma dove la prende, gli dico a mio marito, la forza di tossire a quel modo. Ti spezza il cuore. Ma che dannata malattia ha! Non sta bene per niente! Abbiamo sempre paura di trovarlo, una bella mattina, morto stecchito nel suo letto. A dir la verità, è pallido come un Cristo di cera! Diamine, lo vedo quando si alza, beh, quel povero corpo è magro come un chiodo. E poi comincia già ad avere cattivo odore! Ma a lui non gliene importa, si sfinisce a correre come se avesse salute da vendere. Però è proprio coraggioso a non lamentarsi. Ma, veramente, starebbe meglio sottoterra che all’aria, perché soffre i tormenti della Croce! Non è che noi lo desideriamo, caro signore, non è interesse nostro. Anche se non ci desse quello che ci dà gli vorremmo bene lo stesso: noi non siamo spinti da interesse. Ah! Dio mio!», continuò, «solo ai Parigini gli capitano di queste dannate malattie! Ma dove se le vanno a prendere? Povero giovane, lo sa perfettamente che non può finire bene. ‘Sta febbre, poi, lo consuma, se lo mangia, lo rovina! E lui non sospetta niente. Non lo sa proprio, signore. Non s’accorge di niente. Ma non bisogna piangere per questo, signor Jonathas! Bisogna dirsi che sarà felice di non soffrire più. Dovreste fare una novena per lui. Con le novene abbiamo avuto delle belle guarigioni, e pagheremmo pure un cero per salvare una creatura così dolce, così buona, un agnello pasquale».

La voce di Raphaël era diventata ormai troppo debole perché egli potesse farsi sentire, perciò dovette sopportarsi quelle chiacchiere spaventose. Tuttavia, insofferente, scese dal letto e apparve sulla soglia: «Vecchio scellerato», gridò rivolto a Jonathas, «allora vuoi essere il mio carnefice?». La contadina credette di vedere uno spettro e scappò via.

«Ti proibisco», proseguì Raphaël, «di preoccuparti minimamente del mio stato di salute».

«Sì, signor marchese», rispose il vecchio servitore asciugandosi le lacrime.

«E d’ora in poi sarà meglio che tu non venga qui, senza ordine mio».

Jonathas volle obbedire; ma prima di andarsene, gettò sul marchese un’occhiata fedele e compassionevole in cui Raphaël poté leggere la sua sentenza di morte. Scoraggiato, tutt’a un tratto fu restituito alla consapevolezza vera della sua situazione, incrociò le braccia sul petto e abbassò la testa. Jonathas, spaventato, si avvicinò al padrone.

«Signore?»

«Vattene! Vattene!», si mise a gridare il malato.

La mattina del giorno seguente, dopo essersi inerpicato sulle rocce, Raphaël si era messo a sedere in un crepaccio pieno di muschio da dove poteva vedere lo stretto sentiero che portava dalle terme alla sua abitazione. Alla base del picco, scorse Jonathas che di nuovo parlava con l’Alverniate. Un maligno potere gli fece interpretare i gesti di disperazione, la sinistra schiettezza di quella donna, il suo scuotere il capo, e in quel silenzio il vento portò fino a lui le fatali parole. Pieno d’orrore si rifugiò sulle più alte cime delle montagne e vi restò fino a sera, non avendo potuto scacciare i sinistri pensieri così malauguratamente suscitati nel suo cuore dal crudele interessamento di cui era diventato oggetto. Improvvisamente l’Alverniate si levò davanti ai suoi occhi come un’ombra nell’ombra della sera; per una stranezza di poeta, nella sua gonna a strisce nere e bianche, egli volle trovare una vaga rassomiglianza con le costole rinsecchite di uno scheletro.

«Sta calando l’umido della notte, caro signore», disse lei. «Se volete restare qui, finirete né più né meno come un frutto guasto. Bisogna rientrare. Non fa bene alla salute respirare la rugiada, tenendo conto poi che non avete preso niente da stamattina».

«Perdìo!», gridò, «vecchia strega, vi ordino di lasciarmi vivere a modo mio, se no scappo via da qui. Non basta scavarmi la fossa tutte le mattine? Almeno, non scavatemela anche la sera!».

«La vostra fossa! Signore! Scavare la fossa a voi! E dov’è la fossa vostra? Noi vorremmo vedervi forte e ben saldo, come nostro padre, e non nella fossa! La fossa! Ci andiamo tutti troppo presto nella fossa».

«Basta», disse Raphaël.

«Appoggiatevi al mio braccio, signore».

«No».

Il sentimento che l’uomo sopporta più difficilmente è la pietà, soprattutto quando se la merita. L’odio è un tonico, fa vivere, suscita la vendetta; ma la pietà uccide, indebolisce ancora di più la nostra debolezza. È il male diventato mellifuo, è il disprezzo nella tenerezza, o la tenerezza nell’offesa. Raphaël trovò nel vecchio centenario una pietà trionfante, nel bambino una pietà curiosa, nella donna una pietà assillante, nel marito una pietà interessata; ma, in qualsiasi forma quel sentimento gli apparisse, esso era sempre gravido di morte. Un poeta riesce a fare di tutto un poema, terribile o gioioso, secondo le immagini che lo colpiscono; la sua anima esaltata rifiuta le sfumature tenui e sceglie sempre i colori vivi e netti. Quella pietà suscitò nel cuore di Raphaël un orribile poema di lutto e malinconia. Certamente egli non aveva pensato alla schiettezza dei sentimenti naturali, quando desiderò riaccostarsi alla natura. Quando si credeva solo sotto un albero, alle prese con un ostinato attacco di tosse, che riusciva a vincere solo dopo essere stato distrutto da quella lotta terribile, vedeva gli occhi brillanti e chiari del ragazzino, appostato in vedetta, come un selvaggio, sotto un ciuffo d’erba, a osservarlo con una curiosità infantile in cui si mescolavano piacere e malizia, interesse e insensibilità. Il terribile: Fratello, devi morire, dei trappisti, sembrava costantemente scritto negli occhi dei contadini con i quali Raphaël viveva; egli non sapeva se temere di più le loro parole schiette o il loro silenzio; tutto in loro lo metteva a disagio. Una mattina, vide due uomini vestiti di nero che gli gironzolarono attorno, lo fiutarono, l’osservarono di sfuggita; poi, fingendo di esser venuti lì a fare una passeggiata, gli rivolsero delle domande banali alle quali egli rispose brevemente. In loro riconobbe il medico e il curato delle terme, sicuramente mandati da Jonathas, consultati dai suoi padroni di casa o attirati dall’odore di una morte prossima. Allora intravvide il proprio funerale, udì il canto dei preti, contò il numero dei ceri, e come attraverso un crespo, solo così ormai, poté vedere le bellezze di quella rigogliosa natura in seno alla quale credeva di aver incontrato la vita. Tutto ciò che poc’anzi gli annunciava una lunga esistenza, adesso gli prediceva una fine prossima. Il giorno seguente partì per Parigi, sopraffatto dagli auguri malinconici e cordialmente compassionevoli dei suoi padroni di casa.

Dopo aver viaggiato l’intera notte, si svegliò in una delle vallate più ridenti del Bourbonnais, con luoghi e panorami che gli turbinavano davanti agli occhi, subito dileguanti come le immagini vaporose di un sogno. La natura si offriva al suo sguardo con civetteria crudele. A tratti, su una ricca prospettiva, l’Allier snodava il suo nastro chiaro e splendente, poi gruppi di casolari modestamente nascosti in fondo a una gola di rocce giallastre mostravano la punta dei loro campanili; poi ancora i mulini di una valletta sbucavano improvvisi dopo monotoni vigneti, e continuamente apparivano castelli ridenti, villaggi arrampicati sulle cime dei monti, o strade fiancheggiate da pioppi maestosi; infine la Loira e i suoi lunghi specchi d’acqua brillarono come diamanti in mezzo alle sabbie dorate. Incanti a non finire! La natura inquieta, vivace come un bambino, a stento poteva contenere l’amore e la linfa del mese di giugno e fatalmente attirava gli sguardi spenti del malato, che chiuse le persiane della carrozza, tornando a dormire. Verso sera, dopo aver superato Cosne, egli fu svegliato da una musica allegra e si trovò davanti una festa di villaggio. La posta era situata vicino alla piazza. Tutto il tempo che i postiglioni impiegarono per il cambio dei cavalli, egli stette a guardare le danze di quella popolazione allegra, le fanciulle ornate di fiori, graziose, provocanti, i giovani vivaci, poi le facce rubiconde dei vecchi contadini gagliardamente accese dal vino. I bambini giocavano, le vecchie parlavano e ridevano, tutto aveva una voce, e il piacere abbelliva persino gli abiti e le tavole apparecchiate. La piazza e la chiesa offrivano un’immagine di felicità; anche i tetti, le finestre, persino le porte di ogni casa sembravano vestiti a festa. Simile ai moribondi insofferenti del minimo rumore, Raphaël non poté trattenere una sinistra esclamazione, né soffocare il desiderio d’imporre il silenzio ai violini, di cancellare tutto quel movimento, spegnere i clamori, disperdere quella festa insolente. Tutto triste salì nella sua carrozza. Quando guardò di nuovo verso la piazza, vide la gioia offuscata, le contadine in fuga e le panche deserte. Sul palco dell’orchestra, un suonatore cieco continuava a suonare una stridula danza col suo clarinetto. Quella musica senza ballerini, quel vecchio solitario dall’aspetto triste, coperto di stracci, i capelli arruffati, nascosto nell’ombra di un tiglio, erano come un’immagine fantastica del desiderio di Raphaël. Veniva giù a torrenti uno di quei forti acquazzoni che improvvisamente si scatenano dalle nubi elettriche di giugno e che finiscono altrettanto rapidamente. Era un fenomeno naturale, tanto che Raphaël, dopo aver guardato nel cielo qualche nuvola biancastra trascinata da raffiche di vento, non pensò a guardare la sua Pelle di zigrino. Si sistemò in un angolo della carrozza, che si rimise subito in viaggio.

Il giorno seguente era a casa sua, nella sua stanza, vicino al caminetto. Si era fatto accendere un gran fuoco, aveva freddo; Jonathas gli portò delle lettere, erano tutte di Pauline. Senza fretta aprì la prima, e la spiegazzò come fosse stato il foglio grigiastro di un’ingiunzione inviata dall’esattore. Lesse la prima frase: «Partito, ma questa è una fuga, Raphaël mio. Come! Nessuno può dirmi dove sei? E se non lo so io, chi allora dovrebbe saperlo?». Non volendo saperne di più, senza scomporsi prese le lettere e le gettò nel fuoco osservando con gli occhi spenti e freddi il gioco della fiamma che faceva accartocciare il foglio profumato, lo raggrinziva, lo rivoltava, lo riduceva in pezzi.

Rotolando sulla cenere, dei frammenti gli lasciarono scorgere inizi di frase, parole, pensieri bruciati a metà che egli si compiacque di afferrare tra le fiamme quasi divertendosi macchinalmente.

«...Seduta alla tua porta...atteso...Capriccio... obbedisco...Delle rivali...io, no!...la tua Pauline...ama... non più Pauline allora?...Se tu avessi voluto lasciarmi, non mi avresti abbandonata...Amore eterno...Morire...»

Quelle parole gli procurarono una specie di rimorso: prese le pinze e raccolse tra le fiamme un ultimo frammento di lettera.

«... Ho mormorato, diceva Pauline, ma non mi sono lamentata, Raphaël! Tenendomi lontana da te, certamente hai voluto evitarmi il peso di qualche dolore. Forse un giorno mi ucciderai, ma sei troppo buono per farmi soffrire. Ah! Non partire più così. Credimi, io posso sopportare i più grandi tormenti, ma accanto a te. Il dolore che tu vorrai impormi non sarà più un dolore: nel mio cuore c’è molto più amore di quanto te ne abbia mostrato. Posso sopportare tutto, tranne che piangere lontano da te, e non sapere quello che tu...»

Raphaël posò sul camino quel resto di lettera annerito dal fuoco, poi, d’un tratto, lo gettò di nuovo tra le fiamme. Quel foglio era un’immagine troppo viva del suo amore e della sua vita fatale.

«Chiama il signor Bianchon», disse a Jonathas.

Venne Horace, che trovò Raphaël a letto.

«Amico mio, puoi prepararmi una bevanda leggermente oppiata che mi tenga in una continua sonnolenza, senza che il suo uso costante mi faccia male?».

«Niente di più facile», rispose il giovane medico; «però bisognerà restare alzati qualche ora al giorno, per mangiare».

«Qualche ora!», l’interruppe Raphaël, «no, no, voglio restare alzato al massimo un’ora».

«Ma che intenzioni hai?», chiese Bianchon.

«Dormire è ancora vivere», rispose il malato.

«Non far entrare nessuno, anche se fosse la signorina Pauline de Witschnau», disse Valentin a Jonathas mentre il dottore scriveva la ricetta.

«Allora, signor Horace, c’è qualche speranza?», chiese il vecchio domestico al giovane medico accompagnandolo alle scale.

«Può durare ancora parecchio, o morire stasera. Le possibilità di vita e di morte sono uguali. Non ci capisco niente», rispose il medico con un gesto d’incertezza. «Bisogna distrarlo».

«Distrarlo! Signore, voi non lo conoscete. L’altro giorno ha ucciso un uomo senza battere ciglio. Niente può distrarlo».

Per qualche giorno Raphaël restò immerso nel nulla del suo sonno fittizio. Grazie all’influenza materiale esercitata dall’oppio sulla nostra anima immateriale, quell’uomo dotato d’immaginazione fortemente attiva si abbassò al livello di certi animali pigri che imputridiscono in mezzo alle foreste, sotto forma di spoglia vegetale, senza fare un passo nemmeno per acchiappare una facile preda. Egli aveva spento anche la luce del cielo, il giorno non entrava più nella sua stanza. La sera, verso le otto, scendeva dal letto: senza avere piena coscienza del suo stato, soddisfaceva la sua fame, e poi tornava subito a coricarsi. Le sue ore fredde e avvizzite gli portavano solo immagini confuse, apparenze, chiaroscuri su un fondo nero. Si era sepolto in un profondo silenzio, in una negazione di movimento e d’intelligenza. Una sera, si svegliò molto più tardi del solito, e non trovò la cena pronta. Chiamò Jonathas.

«Te ne puoi andare», gli disse. «Ti ho fatto ricco, trascorrerai una vecchiaia felice; ma non voglio più che tu ti prenda gioco della mia vita. Ma come! Miserabile, io ho fame! Dov’è il pranzo? Rispondi».

A Jonathas sfuggì un sorriso di contentezza, prese una candela, che ardeva tremolante nella profonda oscurità delle sale immense del palazzo; condusse il suo padrone, che sembrava un automa, in una grande galleria e bruscamente ne aprì la porta. Inondato dalla luce, improvvisamente Raphaël fu abbagliato, sorpreso da uno spettacolo inaudito. I lampadari erano carichi di candele, i fiori più rari della sua serra erano disposti con arte, una tavola riluceva di argento, oro, madreperla, porcellana; un pranzo regale, fumante, con le sue appetitose pietanze stuzzicava il palato. Vide lì riuniti i suoi amici, in compagnia di incantevoli donne in abito da sera, la gola nuda, le spalle scoperte, le chiome piene di fiori, gli occhi splendenti, ciascuna di bellezza diversa, provocanti sotto travestimenti voluttuosi: una faceva intravvedere le sue forme attraenti sotto una giacchetta irlandese, un’altra portava la gonna lasciva delle Andaluse; questa, seminuda, si atteggiava a Diana cacciatrice, quella, modesta e amorosa, indossava l’abito di Mademoiselle de La Vallière; ma tutte erano ugualmente votate all’ebbrezza. Gioia, amore, piacere splendevano negli occhi di tutti gli invitati. Quando la figura cadaverica di Raphaël apparve nel vano della porta, scoppiò improvvisa un’acclamazione rapida, rutilante come le luci di quella festa improvvisata. Le voci, i profumi, la luce, quelle donne di bellezza impressionante colpirono tutti i suoi sensi, gli risvegliarono l’appetito. Una musica deliziosa, nascosta in una sala vicina, con un torrente d’armonia coprì quel tumulto inebriante, e completò quella straordinaria visione. Raphaël si sentì stringere la mano da una mano carezzevole, una mano di donna che levava le braccia fresche e bianche per stringerlo a sé, la mano di Aquilina. Allora capì che quello non era un quadro vago e fantastico come le immagini fugaci dei suoi smorti sogni; cacciò un grido sinistro, chiuse bruscamente la porta, e umiliò il vecchio servitore colpendolo in viso.

«Mostro, hai proprio giurato di farmi morire?», gridò. Poi, tutto fremente per il pericolo scampato, trovò la forza di ritornare nella sua stanza, bevve una forte dose di sonnifero, e si coricò.

«Diavolo!», disse Jonathas rialzandosi, «eppure il signor Bianchon mi aveva ordinato di distrarlo».

Era mezzanotte circa. A quell’ora, per un capriccio fisiologico, motivo di stupore e disperazione per le scienze mediche, Raphaël risplendeva di bellezza immerso nel sonno. Un color rosa vivo tingeva le sue pallide guance. La fronte graziosa come quella di una fanciulla esprimeva il genio. Fioriva la vita su quel viso tranquillo e riposato, l’avreste detto il viso di un bambino addormentato sotto la protezione materna. Era un sonno buono, la sua bocca vermiglia lasciava passare un respiro regolare e puro, egli sorrideva portato certamente da un sogno in una vita bella. Aveva forse cento anni, forse i suoi bambini gli auguravano una lunga vita; forse da una rustica panca, al sole, sotto il fogliame, come il profeta in cima alla montagna, scorgeva la terra promessa, in una benefica lontananza.

«Eccoti finalmente!».

Queste parole, pronunciate da una voce argentina, dissolsero le nebulose figure del sonno. Alla luce della lampada, egli vide seduta sul letto la sua Pauline, una Pauline resa più bella dalla lontananza e dal dolore. Raphaël restò stupefatto alla vista di quel volto bianco come i petali di un fiore acquatico e che, incorniciato da lunghi capelli neri, nell’ombra sembrava ancora più bianco. Le lacrime avevano lasciato tracce lucenti sulle sue guance, e vi restavano sospese, pronte a cadere al minimo movimento. Vestita di bianco, la testa china, premeva appena il letto come un angelo disceso dal cielo, come un’apparizione che un soffio poteva far dileguare.

«Ah! Ho dimenticato tutto», esclamò lei quando Raphaël aprì gli occhi. «Ho voce solo per dirti: «Sono tua!». Sì, il mio cuore è tutto amore. Ah! Angelo della mia vita, non sei mai stato così bello. I tuoi occhi sono sfolgoranti. Ma io indovino tutto, sai! Hai voluto cercare la salvezza senza di me, mi temevi... Ebbene...»

«Fuggi, scappa, lasciami», rispose finalmente Raphaël con voce sorda. «Vattene, insomma! Se resti qui, io muoio. Vuoi vedermi morire?».

«Morire!», ripeté lei. «E tu puoi morire senza di me? Morire, ma tu sei giovane! Morire, ma io ti amo! Morire!», soggiunse con voce profonda e gutturale afferrandogli le mani in un moto di follia.

«Fredde», disse. «Forse è un’illusione?».

Da sotto il capezzale Raphaël tirò fuori il pezzetto di Pelle di zigrino, fragile e piccolo come una foglia di pervinca, e glielo mostrò dicendo: «Pauline, bella immagine della mia vita bella, diciamoci addio».

«Addio?», ripeté lei con aria sorpresa.

«Sì. Questo è un talismano che esaudisce i miei desideri, e rappresenta la mia vita. Tu vedi quanto me ne resta. Se mi guardi ancora, morirò...»

La fanciulla pensò che Valentin fosse impazzito, afferrò il talismano e andò a prendere la lampada. Rischiarata dalla luce vacillante che scendeva ugualmente su Raphaël e sul talismano, osservò molto attentamente il viso del suo amante e l’ultimo pezzetto della Pelle magica. Vedendola bella di terrore e di amore, egli non fu più padrone di se stesso: i ricordi delle carezze e delle gioie deliranti della passione prevalsero nella sua anima da molto tempo addormentata, e si risvegliarono come un fuoco mal spento.

«Pauline, vieni! Pauline!».

La fanciulla lanciò un grido terribile, gli occhi si dilatarono, le sopracciglia violentemente tese da un dolore inaudito si scostarono con orrore, negli occhi di Raphaël leggeva uno di quei furiosi desideri, già un tempo sua gloria; ma via via che quel desiderio cresceva, la Pelle, contraendosi, le solleticava la mano. Senza pensarci, ella si rifugiò nella sala accanto e chiuse la porta.

«Pauline! Pauline!», gridò il moribondo rincorrendola, «ti amo, ti adoro, ti voglio! Che tu sia maledetta se non mi apri! Voglio morire nelle tue braccia!».

Con una forza straordinaria, in un ultimo guizzo di vita, egli abbatté la porta, e vide la sua donna che si rotolava seminuda su un canapé. Pauline aveva inutilmente tentato di straziarsi il seno, e intenzionata a darsi una pronta morte, cercava di strangolarsi con la scialle. «Se muoio, lui vivrà!», diceva cercando invano di stringere il nodo. I capelli sciolti, le spalle nude, le vesti in disordine, con gli occhi pieni di lacrime, il viso acceso e contratto in un’orribile disperazione, in quella lotta con la morte ella offriva a Raphaël, ebbro d’amore, mille bellezze che aumentarono il suo delirio; con la leggerezza di un uccello da preda egli si gettò su di lei, strappò lo scialle, e volle prenderla nelle sue braccia.

Il moribondo cercò le parole per esprimere il desiderio che gli divorava tutte le forze; ma riuscì a trovare solo i suoni strozzati del rantolo, e via via il respiro sempre più profondo sembrava nascere dalle sue viscere. Infine, non potendo ormai articolare alcun suono, morse Pauline al seno. Spaventato dalle grida, accorse Jonathas che tentò di strappare dalle braccia della fanciulla il cadavere sul quale, in un angolo, ella si era accasciata.

«Che volete?», ella disse. «È mio, l’ho ucciso io, non l’avevo predetto?».136